Vedi Afghanistan dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
L’Afghanistan è stato sin dall’Ottocento al centro degli interessi geostrategici delle più grandi potenze del sistema internazionale, soprattutto a causa della sua posizione geografica, nel cuore dell’Asia centrale. Alle persistenti influenze esterne, che in più occasioni hanno preso la forma dell’ingerenza e dell’occupazione militare, si aggiunge l’estrema frammentazione etnica del paese. Questa ha compromesso le capacità del governo centrale di controllare l’intero territorio nazionale e ha ostacolato la formazione di un apparato amministrativo omogeneo e funzionante. Prima conteso tra Impero coloniale britannico e Impero russo, durante la Guerra fredda l’Afghanistan è stato teatro di un’invasione militare da parte sovietica, che ha innescato una prolungata guerra di resistenza all’occupazione (1979-89). Il ritiro dell’Unione Sovietica è coinciso con lo scoppio di una guerra civile, conclusasi solo parzialmente con l’avvento al potere dei talebani nel 1996. Il regime dei talebani, guidato dal mullah Mohammed Omar e caratterizzato dall’imposizione di regole sociali fortemente repressive, derivate dalla rigida interpretazione dei testi sacri islamici, ha dovuto fronteggiare la resistenza guidata dall’Alleanza del Nord di Ahmad Massoud, con epicentro nel nordest del paese. A seguito degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, il regime è stato rovesciato dal successivo intervento militare statunitense, con l’operazione Enduring Freedom. La rete terroristica di al-Qaida, responsabile degli attentati, aveva la sua base principale proprio in Afghanistan e godeva dell’appoggio e della protezione dei talebani. Deposto il regime talebano, con l’Accordo di Bonn del 2001 la comunità internazionale ha avviato un processo di stabilizzazione del paese, in direzione della promozione di istituzioni democratiche, della ricostruzione infrastrutturale ed economica e del mantenimento delle condizioni di sicurezza necessarie alla normalizzazione. A partire dal 2004-05 le truppe internazionali hanno tuttavia dovuto affrontare un movimento insurrezionale sempre più organizzato e violento, guidato dai talebani. Parte di questi, in seguito all’intervento militare, si sono ritirati nelle zone tribali a maggioranza etnica pashtun del Pakistan, da dove hanno riorganizzato la resistenza al riparo dalle forze di occupazione. Altri, concentrati nelle province meridionali dell’Afghanistan, dove risiedono i luoghi storici di provenienza dei talebani (come Kandahar), non hanno mai abbandonato il paese e hanno continuato a contrastare la presenza internazionale.
Le forze internazionali inquadrate nella missione International Security Assistance Force Isaf, (dal 2003 sotto comando Nato) sono progressivamente cresciute in numero e, dal 2006, sono distribuite sull’intero territorio nazionale. Nel dicembre 2010 le truppe contavano più di 130.000 soldati, la maggior parte dei quali (circa 90.000) fornita dagli Stati Uniti. Con il progressivo ritiro, pianificato dall’amministrazione Obama e dagli alleati, al settembre 2012 il numero di truppe dispiegate si attestava intorno alle 112.000 unità (di cui 74.000 statunitensi). Dal punto di vista politico-istituzionale, secondo la Costituzione approvata nel gennaio 2004 l’Afghanistan è una repubblica presidenziale: le prime elezioni dirette tenutesi nel paese (ottobre 2004) hanno decretato la vittoria di Hamid Karzai, rieletto anche nel 2009 nonostante le accuse di gravi brogli. Karzai non potrà, comunque, presentarsi alle successive elezioni del 2014 a causa del vincolo dei due mandati imposto dalla costituzione afghana.Il parlamento afghano è bicamerale e, per legge – a segnalare la discontinuità con il passato regime –, almeno un sesto dei suoi componenti deve essere di sesso femminile. A oltre dieci anni dall’inizio dell’intervento, tuttavia, l’apparato statale del paese è ancora molto debole, il governo di Kabul fatica a esercitare la sua azione politica su tutto il territorio nazionale (in particolare nelle province meridionali e orientali, a forte presenza talebana) e le condizioni di sicurezza rimangono precarie. Nel complesso permangono forti fratture tra il governo centrale e le potenti figure tribali locali, cui si somma un grado di corruzione fra i più alti al mondo (secondo il Corruption Perceptions Index 2011 di Transparency International, l’Afghanistan si posiziona al 180° posto su 183 paesi), che riguarda tanto il governo centrale quanto i livelli amministrativi più bassi. Inoltre, la stessa sopravvivenza economica del paese, sia sul piano delle attività produttive sia su quello istituzionale, dipende dagli aiuti internazionali. Sotto il profilo delle relazioni internazionali, il governo afghano esercita formalmente una politica estera autonoma, ma è ovviamente condizionato dalla presenza di truppe straniere sul suo territorio. I rapporti con gli Stati Uniti e i loro alleati si sono lentamente deteriorati, con il presidente Karzai che ha spesso espresso il suo risentimento di fronte alle accuse di corruzione mossegli da Washington. Sul fronte dei rapporti regionali, invece, le relazioni con il Pakistan sono tese, sia perché quest’ultimo ha appoggiato in passato il regime dei talebani, sia perché è accusato di non aver adottato misure adeguate a smantellare le centrali insurrezionali presenti sul proprio territorio. La cattura di Osama Bin Laden è avvenuta proprio in Pakistan. Le relazioni con l’Iran, infine, sono controverse: da una parte, diversi membri dell’attuale governo sono stati ospitati dalla Repubblica islamica durante il regime talebano; dall’altra non è possibile trascurare che gli Stati Uniti, prima forza di occupazione del Paese, sono fortemente sfavorevoli a un riavvicinamento tra Kabul e Teheran.
La popolazione afghana è molto giovane (l’età mediana è di soli 16,6 anni) e tre quarti degli abitanti del paese vivono in zone rurali. L’urbanizzazione non ha subito notevoli variazioni nel corso dell’ultimo ventennio: l’Afghanistan è, infatti, un paese dove le consuetudini e le usanze tribali sono ancora fortemente radicate e in cui prevale perciò la tendenza a non inurbarsi.
Situazione non migliore riguarda l’accesso all’acqua potabile, scarso, e l’alto tasso di lavoro minorile. Dalla fine del regime dei talebani alcuni diritti sociali sono stati ripristinati e la discriminazione nei confronti delle donne è diminuita, ma quest’ultima resta radicata nei valori tradizionali della società tribale afghana. L’attualità del fenomeno della discriminazione femminile è dimostrata dal dato dell’alfabetizzazione: a fronte di un 43% di popolazione maschile che sa leggere e scrivere, lo stesso vale solamente per il 13% delle donne.
L’Afghanistan non ha accesso al mare, e dunque dipende dai paesi confinanti per l’importazione e l’esportazione dei propri prodotti, così come per il proprio approvvigionamento energetico. Il porto più prossimo è quello di Karachi, in Pakistan, e le relazioni tra i due vicini si sono spesso contraddistinte per aspre dispute commerciali che hanno riguardato, tra le altre cose, l’entità dei dazi imponibili sui prodotti afghani diretti all’estero. L’economia legale dell’Afghanistan risente in maniera evidente della precarietà del controllo dell’amministrazione centrale su vaste zone di territorio. Il sistema economico è ancora oggi frammentato a livello regionale, e resta perciò fortemente agricolo (industrie e servizi necessitano di una capacità di coordinamento centrale maggiore, oltreché di stabilità interna) ed esposto alle fluttuazioni date dalla stagionalità delle colture e dai frequenti periodi di siccità. Negli ultimi anni si è tuttavia assistito a un rapido sviluppo del settore edilizio (per la ricostruzione) e dello sviluppo delle infrastrutture, comparti gravemente danneggiati dalla guerra e verso i quali è stata indirizzata la maggior parte degli aiuti provenienti dall’estero. Viceversa è proprio attraverso l’economia illegale e sommersa che il paese ha intrattenuto storicamente, e in misura ancora maggiore dopo l’intervento militare del 2001, redditizi scambi commerciali con l’estero. In particolare, la coltivazione di papaveri da oppio ha portato l’Afghanistan a raggiungere condizioni di quasi monopolio mondiale nella produzione di oppiacei (eroina e morfina in particolare). Tali commerci sono spesso controllati dai capi tribali o da signori della guerra, che ne utilizzano i proventi per finanziare le comunità locali o la stessa insurrezione.
Sotto il profilo energetico l’Afghanistan è un paese povero di risorse, costretto a importare circa il 72,8% dell’energia consumata. L’Afghanistan non produce infatti petrolio, che importa raffinato dal Pakistan e dai vicini paesi centroasiatici. Al contrario, il gas viene prodotto internamente, in quantità limitate ma sufficienti a soddisfare la domanda interna. La rete elettrica nazionale è approvvigionata per il 75% da centrali idroelettriche. Tuttavia solo un terzo della popolazione dispone di corrente elettrica per l’intera giornata, e durante i frequenti periodi di siccità anche chi dispone di elettricità deve fare i conti con ripetuti blackout.
Nonostante la scarsa disponibilità di risorse proprie, la peculiare collocazione dell’Afghanistan, strategicamente situato tra le aree di produzione di idrocarburi caspico-mediorientali e paesi – quali Pakistan, India e Cina – con crescenti necessità di approvvigionamento energetico, rendono il territorio afghano naturale crocevia dei progetti infrastrutturali centroasiatici. Con la progressiva stabilizzazione del paese sono così ripresi i contatti tra le autorità governative turkmene, pakistane e indiane per la posa di un gasdotto il cui progetto risale alla metà degli anni Novanta. Congelato a seguito dell’avvento al potere dei talebani, il progetto – denominato Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India (Tapi) – torna oggi in agenda grazie ai programmi di stabilizzazione del paese predisposti dalle istituzioni finanziarie internazionali e all’incremento della capacità produttiva turkmena. Secondo lo schema oggetto di discussione tra le parti coinvolte, il Tapi potrebbe consentire, entro il 2016, l’esportazione di 33 miliardi di metri cubi annui di gas, potenzialmente scalabili in ragione della crescente domanda di gas indiana e della possibilità che una diramazione meridionale del gasdotto raggiunga la costa del Pakistan e, da qui, il gas possa essere liquefatto e indirizzato verso mercati più distanti. Il progetto è sostenuto dagli Stati Uniti, che lo identificano come un elemento centrale per la stabilizzazione del paese e che, non secondariamente, lo preferiscono all’alternativa di un gasdotto che colleghi l’Iran alla Cina o al Pakistan.
Nel biennio 2002-2003, successivo all’intervento militare guidato dagli Stati Uniti, il processo di stabilizzazione in Afghanistan appariva in via di conclusione: il numero di attacchi dei talebani si era ridotto e il totale dei soldati persi dalla coalizione era sceso dai 70 del 2002 ai 58 del 2003. La transizione politica, già avviata, aveva prodotto un’assemblea costituente a ottobre 2002. La nuova Costituzione del paese fu adottata nel gennaio 2004 da una grande assemblea (la ‘Loya Jirga’) di 502 membri. Tuttavia, il livello di corruzione della classe dirigente nazionale, le dram-matiche condizioni socio-economiche e la politica di eradicazione dei papaveri da oppio, da cui dipende la vita di una grossa parte dei contadini del sud, alienarono gran parte della popolazione. Ciò accadeva proprio mentre la riorganizzazione della resistenza nel sud e sud-est dell’Afghanistan e nelle province autonome del Pakistan spingeva i civili a riallacciare forti legami con i talebani. Dalla primavera del 2005 ad oggi lo sviluppo di un movimento insurrezionale sempre più radicato, che ha adottato la tattica degli attentati suicidi per poi affiancarle progressivamente un vero e proprio movimento di resistenza armata, ha costretto la comunità internazionale a tornare a quei compiti di stabilizzazione che credeva ultimati. Allo stesso modo, a simboleggiare il fallimento della transizione politica sta oggi la trattativa del governo legittimo con alcune frange dei talebani, avviata dal presidente Karzai nel 2007, prima in segreto e poi in maniera sempre più ufficiale. Gli Stati Uniti e la loro coalizione, entrati in Afghanistan per rimuovere i talebani, instaurare un nuovo governo legittimo e ritirarsi, sono finiti per restare nel paese per oltre un decennio, impegnando un numero di truppe sempre maggiore che non è però riuscito a migliorare in maniera sensibile le condizioni di sicurezza di vaste aree afghane. Nel 2009, al contrario, i talebani sono stati artefici di una delle ondate insurrezionali più violente di sempre riuscendo nell’intento di riconquistare il controllo di alcune zone contese nel sud. Alla controffensiva della Nato del 2010, concentratasi nella provincia di Helmand, i talebani hanno risposto ritirandosi in maniera ordinata e scatenando per la prima volta una serie di attacchi suicidi nel nord, causando in totale oltre 700 morti tra le truppe della coalizione. Nel 2011 il numero dei caduti è sceso sotto quota 600; parallelamente, però, sono cresciuti gli attacchi portati dall’interno delle forze dell’ordine afghane da parte degli infiltrati talebani e diretti sia ai militari Isaf sia ai propri connazionali. La decisione degli Stati Uniti e degli alleati della Nato di iniziare il ritiro dal 2011, non è fondata su un reale miglioramento delle condizioni del Paese. Il processo di trasferimento della gestione della sicurezza alle forze armate afgane, che dovrebbe avvenire entro il 2014, rimane problematico. Sul fronte dell’ordine interno, permane l’inaffidabilità delle forze di polizia (Afghan National Police). Queste si distinguono per un alto livello di corruzione, un uso diffuso di stupefacenti e una scarsa reputazione. La popolazione civile continua, infatti, a percepire la polizia nazionale come fonte di abusi piuttosto che come garante della sicurezza. Sul fronte della lotta contro i talebani, l’esercito nazionale (Afghan National Army) – su cui la comunità internazionale ha investito molto e ha ottenuto discreti risultati – rimane segnato da alcune difficoltà: un equipaggiamento insufficiente, livelli di addestramento insoddisfacenti e divisioni etniche. Tali limiti compromettono l’autonomia dell’esercito, incapace finora di condurre campagne militari senza la partecipazione delle truppe internazionali, e rendono lo scenario successivo al ritiro molto incerto.
L’Afghanistan è estremamente composito sotto il profilo etno-linguistico. Il gruppo etnico maggioritario è quello pashtun (circa il 42%). Di origine indoeuropea, vive nel sud, nel sud-est e nel sud-ovest del paese ed è diviso in tre gruppi principali: i Durrani (noti prima della metà del Settecento come Abdali), i Ghilzai e i Pashtun dell’est. Popolazioni ghilzai vivono anche al nord. Appartengono al gruppo pashtun, infine, i Kuci, nomadi che si spostano stagionalmente tra Pakistan, Iran e Afghanistan approfittando di confini tradizionalmente porosi. I Pashtun si riconoscono in un codice etico che dà preminenza alla vendetta, all’ospitalità e all’onore, sono di fede sunnita e vivono per lo più in strutture tribali e acefale, caratterizzate da forme decisionali orizzontali, le jirga. La loro lingua, il pashto, è una delle due lingue ufficiali del paese, insieme al dari. Il secondo gruppo per consistenza numerica è quello dei Tagiki (circa il 27%). Di lingua dari, di fede sunnita e di cultura persiana, questo gruppo è concentrato nel Badakhshan, a Kabul e Herat, nel Kohistan e nella valle del Panshir; si tratta di popoli sedentari dediti all’agricoltura, al commercio e all’artigianato, che tendono a definirsi in base all’appartenenza regionale. Nel nord vivono etnie sunnite che appartengono al ceppo linguistico uralo-altaico, principalmente gli Uzbeki (9%) e i Turkmeni (3%). A nord-est ritroviamo i Nuristani, popoli di origine indoeuropea convertiti all’islam sunnita nell’Ottocento e precedentemente noti come ‘kafiri’ (infedeli). Nel sud-ovest vivono popoli nomadi, tra i quali i Beluci, che parlano una lingua indo-europea, e i Brahui, di lingua dravidica. Le ampie pianure centrali dello Hazajarat sono abitate dagli Hazara, di probabile origine turco-mongolica e di fede sciita. Questo gruppo, che costituisce il 19% della popolazione afghana, parla un idioma vicino al dari, l’hazaraji, è in larga misura dedito all’allevamento e nelle città costituisce un sottoproletariato oggetto di discriminazioni diffuse che solo in parte sono state corrette nel periodo successivo alla disfatta talebana. I Qizilbash, anch’essi di fede sciita, di discendenza probabilmente turkmena e di lingua dari, costituiscono invece l’élite urbana a Kabul e Herat grazie al loro alto livello di istruzione. Sono sciiti, infine, anche i Wakhi, nel nord-est, e i Farsiwan, a ovest. Questa estrema eterogeneità etnica è un prodotto della collocazione geografica del paese, che nel corso dei millenni è stato attraversato da soldati, predicatori e mercanti provenienti perlopiù dall’Asia centrale e dalla Persia, ed è stato inoltre periodicamente occupato dai regni circostanti. Il nucleo iniziale dello stato afghano era composto dai Pashtun che vivevano lungo la catena dei monti Sulaiman, a est di Ghazni, e venivano chiamati ‘afghani’ dai persiani. Nel corso del 19° secolo le politiche di conquista dell’emiro Abdur Rahman portarono all’assorbimento dei territori situati a nord e abitati da popoli centro-asiatici. I Pashtun rimasero comunque il gruppo maggioritario e quello che fino al 1992, eccettuata una breve parentesi, ha continuato a dominare la scena politica nazionale: tra il 1992 e il 1996, infatti, un governo guidato da elementi tagiki ha governato nominalmente un paese in preda alla guerra civile. Nel 1996 i talebani, di etnia pashtun, hanno occupato Kabul e in pochi anni sono riusciti a controllare la maggior parte del territorio, con il sostegno pakistano e saudita, contrapponendosi all’Alleanza del Nord, che raggruppava sotto la leadership tagika le minoranze etniche. Nell’inverno del 2001 l’emirato talebano è stato sostituito da un’amministrazione interinale e poi provvisoria, in cui i ministeri chiave erano controllati dai tagiki. Negli anni successivi ha avuto inizio un processo di riequilibrio etnico che ha accresciuto il peso dei Pashtun nelle istituzioni nazionali e che segna forse il superamento di quella contrapposizione etnica che, insieme a divisioni regionali, clanico-tribali e settarie, ha a lungo contraddistinto il paese.
Sin dal 16° secolo, l’Afghanistan è uno dei maggiori fornitori di oppio al mondo. In seguito all’incremento della produzione degli ultimi decenni è diventato il primo produttore a livello mondiale. In particolare, dal 2001 al 2007 la produzione è costantemente cresciuta, fino a portare l’Afghanistan a coprire da solo oltre il 90% della produzione mondiale di oppio. I processi legati alla coltivazione dei papaveri da oppio e alla produzione di morfina ed eroina hanno un peso considerevole sulla vita del paese. Circa 1.600.000 afgani sono coinvolti nel mercato della droga e oltre 120.000 ettari di terreno coltivabile sono dedicati alla coltivazione di oppio. Secondo alcune stime, il narcotraffico realizza entrate per circa 2,8 miliardi di dollari l’anno, pari al 30% del pil dell’Afghanistan. La coltivazione dell’oppio è concentrata nelle regioni meridionali e orientali, in particolare nelle province dell’Helmand e di Kandahar. Le stesse aree si distinguono per una forte presenza dei talebani e per le precarie condizioni di sicurezza. Questa sovrapposizione conferma lo stretto legame tra il mercato della droga e l’insurrezione, un legame che si configura come una relazione di sostegno reciproco. Da un lato, infatti, i proventi del narcotraffico rappresentano una delle maggiori fonti di finanziamento dell’insurrezione; dall’altro i talebani stessi, nelle aree dove sono più presenti, sono interessati a creare le condizioni necessarie perché il mercato dell’oppio prosperi. Il tentativo di contrastare la produzione di oppio e il mercato della droga, sia da parte del governo di Kabul sia da parte della comunità internazionale, incontra alcuni limiti oggettivi nella natura stessa della coltivazione. Rispetto ad altri tipi di pianta, il papavero da oppio è, infatti, molto più resistente e garantisce buoni raccolti anche in condizioni atmosferiche sfavorevoli e in caso di siccità. Inoltre, dati i prezzi sul mercato internazionale, la produzione di oppio è incomparabilmente più redditizia rispetto a quella del grano, della vite o delle spezie. Le principali strategie proposte dalla comunità internazionale per contrastare il mercato della droga sono essenzialmente tre. In primo luogo, si è investito sulle politiche di estirpazione delle piantagioni illegali. Benché non prive di alcuni risultati, come la riduzione delle aree adibite alla coltivazione di oppio, tali politiche si sono tuttavia dimostrate uno strumento insufficiente per l’abbattimento della produzione. In secondo luogo si è cercato di promuovere i progetti di conversione della coltivazione del papavero da oppio a coltivazioni legali. Tuttavia questi progetti richiedono grossi investimenti infrastrutturali e forti incentivi, che finora si sono rivelati inadeguati. Infine, per via delle divisioni nella comunità internazionale, rimane finora solo ipotetico il progetto di legalizzare le coltivazioni di oppio e la produzione di morfina destinata a usi medici.