Aldo Capitini
Filosofo e pensatore religioso, Aldo Capitini è stato attivo nella vita pubblica italiana (dagli anni Trenta fino agli anni Sessanta), mantenendo una dialettica aperta tra teoria e prassi e presentandosi con un profilo di «indipendente» rispetto a qualsiasi appartenenza filosofica, politica o religiosa. Teorico della «nonviolenza», si è opposto al fascismo senza partecipare alla Resistenza; animato da un profondo sentimento religioso, si è schierato contro ogni forma di dogmatismo teologico e contro le gerarchie ecclesiastiche; influenzato da Immanuel Kant e dalle filosofie dell’esistenza, ha rifiutato le principali correnti filosofiche italiane del suo tempo (idealismo e storicismo).
Capitini nasce a Perugia il 23 dicembre 1899 in una famiglia di modesta condizione sociale (il padre è impiegato comunale, la madre sarta). Fin dall’adolescenza si appassiona alla lettura dei contemporanei (da Filippo Tommaso Marinetti a Henrik Ibsen e Gabriele D’Annunzio) e dei classici greci e latini, studiati da autodidatta poiché iscritto a un istituto tecnico. Dimostra tuttavia interesse anche per la politica, pur vivendola senza impegno diretto, e giunge a una conversione, tra il 1918 e il 1919, dal nazionalismo all’umanitarismo pacifista e socialista. In seguito agli sforzi eccessivi nello studio, nel 1920 cade vittima di un esaurimento fisico e psichico, da cui si riprende trasferendosi a lavorare come precettore nella campagna umbra.
Nel 1924 – dopo l’esame di licenza liceale, come esterno, a Perugia – inizia gli studi universitari alla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Pisa, con una borsa della Scuola Normale. Nel 1928 si laurea e nel 1929 ottiene il diploma di perfezionamento alla Normale discutendo una tesi su Giacomo Leopardi sotto la guida di Attilio Momigliano. Ben presto, però, trasferisce le sue attenzioni verso la filosofia (in chiave antistoricistica), attraverso la quale elabora teoricamente le ragioni emotive della sua opposizione al fascismo e della sua particolare inclinazione religiosa, antiecclesiastica e antidogmatica, recuperando le lezioni di Kant e Giuseppe Mazzini. Verso la fine degli anni Venti – e in modo sistematico dal 1931 – inizia il suo lavoro pratico di propaganda attraverso la formazione di gruppi antifascisti che mirano alla diffusione di nuovi principi di vita religiosa e di azione politica ‘nonviolenta’: in quest’opera di propaganda, svolta mentre (dal 1930) è segretario economo della Normale sotto la direzione di Giovanni Gentile, viene coadiuvato da uno studente della Normale, Claudio Baglietto (1908-1940), che in seguito solleverà la questione dell’obiezione di coscienza. Nel 1932 Capitini matura, come conseguenza della sua teoria della nonviolenza costruita attraverso le suggestioni francescane e le letture di Mohandas Gandhi, la scelta del vegetarianesimo. Nel 1933 rifiuta di prendere la tessera del Partito fascista e per questo motivo viene espulso dalla Normale.
Tornato a Perugia, vive in povertà, impartendo lezioni private, e prosegue – tra 1933 e 1943 – la sua opera di propaganda nonviolenta e antifascista, muovendosi in altre città italiane (tra cui Firenze e Roma) e frequentando Norberto Bobbio, Ernesto Bonaiuti, Piero Calamandrei, Leone Ginzburg, Tristano Codignola, Cesare Luporini, Piero Martinetti e Luigi Russo. Inoltre si avvicina a Walter Binni e Guido Calogero, con i quali elabora i principi filosofici e politici del liberalsocialismo, dando vita al Movimento liberalsocialista, attivo tra 1937 e 1943. Nel 1942 viene arrestato e poi rinchiuso per quattro mesi nel carcere delle Murate di Firenze; subisce una nuova detenzione, a Perugia, tra maggio e luglio del 1943. La scelta nonviolenta e l’inclinazione religiosa dividono nettamente Capitini dagli antifascisti che aderiscono al Partito d’azione e alla Resistenza, a cui egli non partecipa.
Subito dopo la liberazione di Perugia, nel luglio 1944 Capitini costituisce il primo Centro di orientamento sociale (COS), in cui si tengono periodiche discussioni, aperte a tutti, sulle questioni amministrative e sociali, promuovendo forme di democrazia diretta attraverso la costituzione di consigli di quartiere e centri sociali. Questa esperienza di partecipazione democratica si diffonde velocemente in molti paesi dell’Umbria, oltre che a Firenze e Ferrara, e si sviluppa fino al 1948, quando essa giunge al termine a causa dell’opposizione dei poteri politici ed ecclesiastici. Intanto, nel 1946, Capitini riprende servizio come segretario alla Normale e diventa incaricato di filosofia morale alla facoltà di Lettere e filosofia. A partire dal 1946 convoca a Perugia un convegno sui problemi religiosi del momento, che si ripete fino al 1948, e dà origine al Movimento di religione, con lo scopo di promuovere la cultura della pace e la libertà religiosa.
Nel 1949 Capitini inizia la battaglia per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza e, a partire dagli anni Cinquanta, lavora alla diffusione della nonviolenza, del vegetarianesimo e del dialogo interculturale attraverso la realizzazione di convegni e l’organizzazione di associazioni e movimenti – tra cui il Centro di orientamento religioso (COR), attivo fin dal 1952 – che lavorano a una profonda riforma culturale e morale della società italiana, criticando aspramente le politiche dei partiti e del Vaticano (che nel 1956 procederà alla messa all’Indice dei libri proibiti della sua opera Religione aperta). Nel 1956 vince il concorso di pedagogia e si trasferisce all’Università di Cagliari, dove rimane fino al 1965, quando approda all’Università di Perugia. Nel settembre 1961 organizza la prima Marcia per la pace e la fratellanza dei popoli (Perugia-Assisi), cui partecipano migliaia di persone, e che diventerà un appuntamento centrale per i movimenti pacifisti. Muore a Perugia il 19 ottobre 1968.
Non è facile, e forse non è utile né necessario, classificare l’opera di Capitini all’interno delle tradizionali distinzioni disciplinari. Capitini non è infatti un filosofo tout court, eppure le sue pagine sono dense di temi teoretici e morali – tra cui storia, soggetto, vita/morte, pace/guerra, amore – analizzati anche attraverso un confronto con i maggiori filosofi moderni (da Kant a Georg Wilhelm Friedrich Hegel, da Sören Kierkegaard a Karl Marx, da Benedetto Croce a Gentile). Capitini non è nemmeno un teologo, nonostante le sue opere siano densamente intrecciate intorno a una specifica immagine di Dio (l’Uno-tutti), si confrontino con la questione della fede e parlino di un futuro escatologico in cui possa realizzarsi una compiuta «tramutazione» della realtà. Non è nemmeno un uomo politico, benché la sua azione sociale e pedagogica, soprattutto a partire dalla fine degli anni Trenta, costituisca un punto di riferimento imprescindibile per associazioni e movimenti – laici e religiosi – a orientamento pacifista e socialista che operano concretamente nello spazio pubblico italiano. Capitini, infine, non è nemmeno un intellettuale che spende la propria riflessione teorica a vantaggio di un partito o di una Chiesa, perché il suo impegno sociale segue strade indipendenti e alternative, spesso solitarie in quanto contrarie a ogni forma di gerarchia e istituzione. In un certo senso, Capitini è qualcosa di meno e, insieme, qualcosa di più rispetto a tutte queste figure, che in lui si fondono nell’immagine del «libero religioso», senza trovare però soluzione alle numerose contraddizioni teoriche che una tale sintesi incontra inevitabilmente.
Così come è difficile classificare la figura di Capitini nella storia della cultura italiana ed europea, egualmente risulta difficile classificare le sue singole opere, che sono allo stesso tempo trattati di filosofia morale e di pensiero religioso, testi di militanza sociale e opere di polemica politica, che procedono attraverso un intreccio di temi teorici e prospettive di azione pratica non organicamente strutturato. Naturalmente è evidente che, nella sua bibliografia, opere quali Elementi di un’esperienza religiosa (1937), Saggio sul soggetto della storia (1947) e La compresenza dei morti e dei viventi (1966) hanno uno statuto teoretico ben maggiore rispetto a quello di opere quali Discuto la religione di Pio XII (1957), L’obiezione di coscienza in Italia (1959) e Severità religiosa per il Concilio (1966), nelle quali l’elemento polemico è decisivo in vista di un posizionamento antigerarchico all’interno del dibattito pubblico italiano degli anni Cinquanta e Sessanta.
Ciò non significa però che in Capitini esistano due modalità di scrittura o di espressione: tutte le sue opere sono infatti percorse dalla stessa tensione etica e dalla stessa passione civile, quindi da una comune tensione religiosa e da una comune ricerca filosofica. Per questo motivo appaiono particolarmente rappresentative del lavoro di Capitini opere quali Il problema religioso attuale (1948), Nuova socialità e riforma religiosa (1950), Religione aperta (1955) e Le tecniche della nonviolenza (1967), in cui la dimensione pratica e quella teorica sono strettamente e inestricabilmente intrecciate, e in cui storia e filosofia, religione e politica insistono su un unico terreno di riflessione, quello della ribellione nei confronti del dolore e del male da attuarsi nella realizzazione di una nuova «realtà di tutti», da perseguire non in un tempo futuro bensì attivamente fin da subito.
La centralità della dimensione pratica e della militanza politica (come indipendente) non può non avere conseguenze sul terreno dell’elaborazione teorica: in Capitini è infatti assente il rigore concettuale e argomentativo tipico del pensiero filosofico, a favore di un linguaggio metaforico e allusivo, a metà tra esperienza religiosa ed esperienza letteraria, che chiama all’impegno diretto in vista di una profonda riforma spirituale e sociale, religiosa e politica condensata nell’idea di «religione aperta». Ed è allora per questo motivo che – con alcune eccezioni degne di nota, come quella relativa all’idea di «compresenza», frutto dell’elaborazione della maturità – i principali concetti capitiniani (quali tramutazione, persuasione, aggiunta, unità-amore, apertura, nonviolenza) ricorrono in tutte le sue opere senza sostanziali mutamenti o soluzioni di continuità, al massimo con alcune correzioni di rotta che non ne mutano il significato e anzi confermano la loro flessibilità, contro ogni forma di specializzazione del sapere. Tutto ciò conferma che in Capitini il primato è della prassi, non della teoria: la tramutazione sociale e religiosa è un atto pratico che comincia qui e ora, in un’ottica pragmatica di riforma della realtà.
La formazione filosofica di Capitini riflette la sua esperienza di vita, appassionata ma «anomala», profonda ma non organicamente strutturata. Laureato in letteratura ed esperto conoscitore di Dante Alighieri e Ugo Foscolo, di Leopardi e Alessandro Manzoni, Capitini non è mai stato un letterato, bensì un filosofo autodidatta con interessi «pratici» e politici. Giunto a un attento studio della filosofia solo nella seconda metà degli anni Venti a Pisa, entra in contatto con le due maggiori correnti del pensiero filosofico italiano, l’idealismo (Gentile) e lo storicismo (Croce), oltre che con numerosi autori diversamente orientati, da Kant a Mazzini, da Hegel a Gandhi, da Marx a Nikolaj A. Berdjaev, da Baruch Spinoza a Carlo Michelstaedter.
Le numerose suggestioni dai classici e dai filosofi contemporanei vengono utilizzate da Capitini senza intenzioni sistematiche: egli, infatti, non vuole costruire una teoria filosofica, ma una nuova prospettiva di pensiero che renda possibile pensare, e attuare, una profonda riforma sociale e religiosa. Per tale motivo Capitini utilizza liberamente concetti e idee dei vari filosofi, senza preoccuparsi di essere fedele alle loro intenzioni originarie e costruendo intrecci inediti tra argomentazioni di diversa estrazione teorica, stando però attento a profilare un’immagine di intellettuale dentro la storia.
Dello storicismo crociano utilizza la teoria della conoscenza dei valori e accetta l’idea secondo cui la storia è la creazione continua degli uomini, ma rifiuta categoricamente l’interpretazione del rapporto tra filosofia e politica, così come il carattere immanente dell’umanesimo di Croce (Nuova socialità e riforma religiosa, 1950, pp. 27-28, 140-45; Antifascismo tra i giovani, 1966, pp. 73 e segg.; Religione aperta, 1955, 19642, rist. 2011, pp. 49-50, 70-72, 134-40): il rispetto e la cura per la finitezza dell’individuo sono infatti inseriti da Capitini sia all’interno di un’ampia relazione intersoggettiva (la comunità di tutti anche oltre la realtà della vita e della morte), sia all’interno di una prospettiva teistica a sfondo escatologico.
Da Kant assume il primato della morale e del sollen, con la tensione verso la realizzazione pratica di ciò che è ideale, problematizzata trasformando la teoria del soggetto in una direzione «sociale» (Antifascismo tra i giovani, cit., pp. 23 e segg., 228; La compresenza dei morti e dei viventi, 1966, pp. 19-20, 108-10, 222-24; Religione aperta, cit., pp. 66, 199-200).
Del romanticismo – filtrato attraverso Leopardi – accetta la tensione religiosa verso ciò che non è «dato», verso ciò che è al di là dell’avara realtà, ma rifiuta la passività dell’uomo romantico, compiaciuto della propria rassegnazione di fronte alla natura e alla storia (La realtà di tutti, 1948, pp. 70-71, 105-06; Nuova socialità e riforma religiosa, cit., pp. 85-86, 124-25; La compresenza dei morti e dei viventi, cit., pp. 130-32, 171-73; Educazione aperta, 1° vol., 1967, pp. 83-88; Religione aperta, cit., pp. 74-76).
Dello stoicismo – concretamente realizzato nella poetica di Foscolo – ammira l’assolutezza della virtù eroica, che tuttavia critica per il ripiegamento in una solitudine interiore foriera di decadenza sociale (Vita religiosa, 1942, pp. 32-33).
Dell’idealismo gentiliano accetta la concezione dell’atto inteso come principio assoluto e la prospettiva immanentistica, ma rifiuta la soluzione «conciliativa» nei confronti del dato fattuale, che rischia di cadere o nel misticismo o nel solipsismo (Saggio sul soggetto della storia, 1947, pp. 48 e segg.; Antifascismo tra i giovani, cit., pp. 26 e segg., 77-78).
Capitini non è dunque né idealista, né storicista: le filosofie di Gentile e Croce gli offrono un’interpretazione del pensiero moderno inteso come «filosofia del soggetto», ma su questa base intende procedere – fin dalla sua prima opera venata di motivi esistenzialistici, Elementi di un’esperienza religiosa, del 1937 – alla trasformazione della realtà, non alla sua accettazione o comprensione passiva. Per il prassismo di Capitini l’esperienza pratica è infatti tutto, nel senso che determina lo stesso argomentare del pensiero, che non ha come termini di riferimento idee e concetti ma la concreta condizione umana, perennemente in lotta con la realtà data. Attento alla finitezza dell’uomo, Capitini non esclude la presenza di Dio dalla sua concezione immanente della storia: per mantenere viva la tensione verso l’infinito, è infatti necessario «dualizzare l’immanenza» (Saggio sul soggetto della storia, cit., passim) proprio perché il soggetto moderno, l’io dei romantici e degli idealisti, si trova ben al di qua della totalità dei soggetti cui si deve la creazione dei «valori» attraverso il loro concreto operare nella realtà storico-sociale.
In Capitini il tema dei valori – identificati con le realtà che vanno dall’arte all’educazione, dalla liberazione alla socialità, ma mai sistematicamente esplicitati o elencati – serve a individuare la contrapposizione tra la realtà esistente (negativa) e la realtà liberata (positiva) verso cui tende il soggetto riformatore collettivo. Ed è a questo punto che la prospettiva filosofica cede il passo a quella religiosa. Il mondo è infatti determinato da una profonda compresenza di bene e male, di valori e disvalori: la tramutazione capitiniana consiste nel tendere – con atti concreti – a realizzare una realtà liberata nella quale i disvalori non saranno più presenti e vi saranno solo valori. Tale realizzazione non potrà essere privata: solo in uno spazio pubblico connotato dall’esperienza religiosa, infatti, sarà possibile superare il riconoscimento etico dei valori attraverso un atto religioso di liberazione collettiva in cui insieme a tutti gli esseri – umani e animali, viventi e morti – vivrà anche Dio.
L’inquietudine spirituale di Capitini è evidente principalmente nella sua maniera di vivere l’esperienza religiosa: fin da giovane, infatti, si allontana dalla pratica autoritaria e conformistica della religione cattolica per elaborare una forma di «religione aperta» post-cristiana che – accanto all’immagine di un Dio dell’amore e della tolleranza, un Dio che è l’«Uno-tutti», i cui attributi sono l’intimità e la vicinanza – preveda la tutela sociale degli «ultimi», così da giungere all’apertura di una realtà liberata nella quale si affermino le istanze di tutti.
La religione di Capitini è allo stesso tempo spirituale e sociale; non è deistica ma teistica, seppur connotata da una trascendenza che si confronta con l’immanenza, così da sfociare nell’immagine di un Dio che vive nel presente l’invocazione umana e che accompagna l’uomo verso la sua perfezione spirituale. Per questo motivo è difficile separare dimensione teologica e dimensione sociale, aspetto teorico e aspetto pratico, nell’analisi della sua esperienza religiosa (così come nell’analisi del suo pensiero filosofico e della sua teoria politica), che sfugge così a ogni rischio di spiritualismo. Il carattere peculiare dell’opera capitiniana consiste proprio nella fusione di politica e religione: mentre la sua politica è animata da uno spirito religioso, la sua religiosità è talmente vicina ai problemi della convivenza civile da attraversare continuamente la dimensione politica. Infatti, secondo Capitini, una sfera religiosa senza partecipazione alla vita pubblica equivale alla superstizione, tanto che solo su una profonda partecipazione alla vita sociale e politica può sorgere una coscienza religiosa «autentica».
La posizione di Capitini è dunque molto particolare nella cultura italiana, tanto da impedirne una classificazione sulla base della tradizionale dicotomia tra laicità e confessionalismo. Non a caso egli si definisce un «libero religioso», con riferimento a una serie di figure di riformatori che hanno attraversato la storia culturale a metà tra filosofia, politica e religione: san Francesco, Mazzini, Gandhi.
Pur criticandone l’adesione «medievale» all’autorità teologico-politica costituita, Capitini recupera da san Francesco la concezione dell’amore nei confronti dell’intero creato reintroducendo il tema della nonviolenza nella spiritualità cristiana e contrapponendo alla Chiesa come istituzione una religiosità fondata sull’interiorità (Elementi di un’esperienza religiosa, cit., passim; Religione aperta, cit., passim).
Di Mazzini, Capitini esalta lo spirito religioso e l’impegno pedagogico, la tensione missionaria e messianica che combatte ogni forma di sclerotizzazione istituzionalizzata dello spirito cristiano utilizzando tutti gli strumenti – etici, politici, religiosi – in grado di favorire una grande riforma della società e della cultura italiana; del mazzinianismo, però, Capitini vede anche i limiti, che consistono nell’accettazione della violenza e del primato delle istituzioni (Nuova socialità e riforma religiosa, cit., pp. 137-44; Educazione aperta, cit., 2° vol., 1968, pp. 303-26).
Ma è soprattutto Gandhi a fungere da imprescindibile punto di riferimento per la connessione tra riforma politica e riforma spirituale, tra filosofia e politica, tra etica e religione: in Capitini, come in Gandhi, ogni lotta per la libertà è allo stesso tempo una lotta religiosa condotta in uno spirito di pace e tolleranza, di tramutazione e di rinnovamento (Religione aperta, cit., passim). Il «riformatore religioso» di Capitini è infatti colui che rivela una realtà assoluta, che si apre proprio mentre si libera e si tramuta; non è un legislatore, ma un sostenitore delle leggi non scritte; non è un sacerdote che guarda alla tradizione e al dogma, ma un «persuaso» che guarda all’avvenire, alle possibilità offerte dal processo di liberazione spirituale e di apertura verso l’«Uno-tutti». Il «persuaso» – termine che Capitini riprende dal concetto di persuasione di Michelstaedter – è colui il cui atteggiamento religioso è attivo e pervaso da una tensione profetica che lo rende capace di vivere dentro la tragedia del mondo senza rassegnazione ma, anzi, con profonda tensione riformatrice (Nuova socialità e riforma religiosa, cit., passim). Il momento iniziale, e profetico, della persuasione capitiniana è il rifiuto della realtà data – non solo la realtà sociale, ma anche quella naturale – osservata con gli occhi degli «ultimi», di coloro che soffrono il male, il dolore, la morte.
Poiché accettare l’ingiustizia di questo mondo significa accettarne anche la responsabilità, la persuasione religiosa di Capitini conduce alla necessità della creazione di «atti nuovi» e della «tramutazione», a partire dal rifiuto della realtà:
Quando incontro una persona, e anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o poi, come una fiamma. Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto. E se guardo meglio trovo anche altre ragioni per non accettare la realtà così com’è ora: perché non posso approvare che la bestia più grande divori la bestia più piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalgano: una realtà fatta così non merita di durare. È una realtà provvisoria, insufficiente, e io mi apro a una sua trasformazione profonda, a una sua liberazione dal male nelle forme del peccato, del dolore, della morte. Questa è l’apertura religiosa fondamentale, e così alle persone, agli esseri che incontro, resto unito intimamente per sempre qualunque cosa loro accada, in una compresenza intima, di cui fanno parte anche i morti; i quali non sono né finiti né stanno a fare cose diverse da noi, ma sono uniti a noi, cooperanti, a fare il bene, i valori che facciamo, e che nessuno può vantarsi di fare da sé. Così anche chi è, per ora, sfinito, pallido, infermo, e pare che non faccia nulla di importante; anche chi è sfortunato, pazzo (per ora), è una presenza e un aiuto unito a tutti (Religione aperta, cit., p. 7).
La tramutazione non può dunque essere solo sociale o politica, ma soprattutto religiosa: la religione tramuta perché, non accettando la realtà, vi «aggiunge» qualcosa di nuovo, anticipandone il suo superamento. L’esperienza religiosa è un insieme di pensiero e di azione, di principi e di atti che preparano all’«apertura» verso una realtà liberata che comprenda tutti (Il problema religioso attuale, 1948, pp. 33 e segg.). La soluzione del dramma umano non è possibile senza l’«aggiunta» che l’esperienza religiosa apporta alla lotta contro il mondo: senza tale aggiunta il mondo è destinato a rimanere ciò che è sempre stato, il regno del dolore e dell’ingiustizia: «La religione è farsi vicino infinitamente ai drammi delle persone, interiorizzare. Essa è spontanea aggiunta, è un darsi dal di dentro e perciò libero incremento e pura offerta, non sostituzione violenta» (Vita religiosa, cit., pp. 69-70).
La questione dell’esperienza religiosa è al centro anche della concezione capitiniana dell’educazione, forgiata in esplicita polemica con il principio di autorità, tutelato sia dalla dottrina cattolica che dalla teoria marxista. Lontano da ogni schematismo pedagogico o psicologico, Capitini descrive la figura del maestro come colui che si pone in aperta polemica con il dato fattuale e che annuncia una nuova realtà in contrasto con il comodo irenismo conciliativo che funge da fondamento della «civiltà del bicchierino» e favorisce l’oblio dei doveri difficili in favore di una passiva accettazione della quotidianità.
Il maestro-profeta di Capitini non è dunque il maestro della tradizione scolastica, il cui compito è quello di avviare gli adolescenti sulla strada del sapere consolidato e già percorso dagli adulti. Infatti, la questione educativa è direttamente connessa alla questione del mutamento sociale e della trasformazione interiore:
La soluzione del profeta si incentra nella tensione che è caratteristica della religione verso la destinazione suprema, verso la liberazione dai limiti che impediscono la pienezza del valore […]. Contrappone, o aggiunge, un energico e drammatico dualismo tra realtà autentica e realtà immediata, tra eterno e contingente, e porta una scossa alla vitalità e al conformismo (L’atto di educare, 1951, pp. 8-9).
Questa concezione del progetto educativo come base della riforma sociale e religiosa coinvolge l’intera filosofia capitiniana, il cui spirito di rinnovamento non risiede semplicemente nella teoria della redistribuzione economica (che culturalmente non nega l’individualismo borghese e la concorrenza capitalistica) ma nella possibilità di costruire una «nuova società nel mondo», in cui tutto sia di tutti e in cui la gioia consista nel portare gli «ultimi» tra i «primi», attraverso una profonda rigenerazione dello spirito e dei valori tale da determinare non solo una vittoria sull’attuale struttura sociale, ma anche una sconfitta della natura, in cui è regola che il «pesce grande» mangi il «pesce piccolo». In questo modo la molteplicità di tutti gli esseri può essere pensata come una somma di possibilità per tutti i singoli, come la realizzazione di un nuovo tempo e di un nuovo spazio definito «compresenza», le cui caratteristiche risiedono nella capacità di inclusione e di unione.
Anche in questo caso, però, Capitini non si limita a elaborare una teoria morale nei termini di un’«etica della convinzione», perché è attento soprattutto alla dimensione pratica e sociale della realtà nella quale, hegelianamente, devono essere calati gli elementi ideali e utopistici, che tuttavia mantengono il loro valore assoluto in quanto atto dell’anima e «persuasione infinita». Nell’instancabile attività capitiniana di organizzazione di associazioni e movimenti, infatti, vi è spazio anche per la costruzione di centri di educazione degli adulti che mirano all’emancipazione civile e allo sviluppo sociale degli «ultimi», in un’ottica di liberazione dalle catene dell’ignoranza e delle tenebre.
Inoltre, è centrale la sua opera di difesa della scuola pubblica dalla pressione ecclesiastica e dalle ingerenze confessionali, tanto che in questo caso considera propedeuticamente e strumentalmente utile l’opera di propaganda marxista, l’unico «contropotere» attivo nella cultura italiana rispetto alla pedagogia cattolica.
Senza alcun dubbio, però, per Capitini l’aspetto positivo del marxismo si ferma qui, cioè alla sua capacità di mettere in crisi la gerarchia sociale e politica consolidata utilizzando una tensione escatologica e profetica che però termina su un binario «mondano» senza rimandare ad alcuna ulteriorità: della pedagogia marxista egli non condivide nulla, in particolare il suo immanentismo (in cui i dati materiali sono insuperabili) e la sua concezione positivistica del sapere. Senza dubbio è necessario porre il tema della «discesa» degli ideali nella natura e nella storia, ma per Capitini non è possibile dimenticare l’esistenza di un’«ulteriorità» irriducibile e concretamente visibile nella concezione della «compresenza», secondo cui ogni vivente viene alla vita per sempre.
L’educazione non è dunque istruzione, ma formazione del carattere fondata sull’esperienza religiosa e morale della «tramutazione» sociale e spirituale (Educazione aperta, cit., passim). Ed è per questo che, se l’atto religioso è tensione verso il valore e se Dio è l’unità di tutti, allora il valore supremo dell’educazione è l’amore: i valori sono una creazione collettiva o comunitaria proprio perché attraverso l’amore avviene la partecipazione di tutti – anche di coloro che sono morti – alla vita comune. È l’amore il veicolo dell’unità concreta con i vicini e con i lontani, con i presenti e con gli assenti (Elementi di un’esperienza religiosa, cit., pp. 30 e segg., 52 e segg.).
Al centro dell’intera opera, teorica e pratica, di Capitini vi è il tentativo di definire la nonviolenza come un modo «positivo» – dunque di resistenza attiva, e non semplicemente passiva – di essere e di agire politicamente: la nonviolenza non è solo un atto di amore aperto a tutti, è lotta e attiva opposizione al male e all’ingiustizia sociale, alle leggi esistenti e alle abitudini consolidate in vista di una tramutazione della realtà fondata sull’educazione alla partecipazione democratica del potere (Le tecniche della nonviolenza, 1967, passim).
La costruzione teorica dell’etica della nonviolenza in Capitini inizia intorno al 1930, a Pisa, a stretto contatto con l’amico Baglietto che – oltre a porgli il problema pratico dell’obiezione di coscienza rispetto al servizio militare – lo introduce all’etica kantiana e gli fornisce strumenti filosofici per opporsi a ogni forma di storicismo che giustifichi la realtà del fatto compiuto, indipendentemente dal grado di violenza o di consenso che vi si esprime.
L’esempio di questa perversa dinamica tra violenza e consenso è offerta a Capitini dal fascismo: alla vuota retorica di coloro che identificano tout court il fascismo con la violenza – mentre il fascismo è per Capitini anche nazionalismo, corporativismo, culto della personalità, romanesimo e cattolicesimo statalista – egli oppone la considerazione del fascismo come movimento supportato anche dal consenso degli italiani nei confronti di una proposta politica ordinata e rassicurante. La nonviolenza non è dunque solo rifiuto della guerra, ma in primo luogo rifiuto dell’ingiustizia.
Su questa strada Capitini inserisce le proprie suggestioni francescane e le letture di Gandhi, consolidando il sentimento pacifista sorto in lui alla fine della Prima guerra mondiale. Capitini rifiuta fin dall’inizio la supremazia, affermata dalla tradizione del realismo politico, dei «fatti» sui «valori», intesa come riferimento essenziale di ogni agire politico: kantianamente l’uomo è una parte del «regno dei fini» tanto che, come affermato da Gandhi, il valore della nonviolenza si presenta come una forza attiva proprio nello spazio politico concreto, visto che la pace è composta da una serie di azioni impostate sul principio della non-collaborazione. L’atteggiamento nonviolento non rappresenta dunque un’inclinazione morale puramente privata, ma è la concreta realizzazione pubblica dei principi moderni di libertà, eguaglianza e fraternità; è espressione del primato della ragione critica sul principio di autorità; è realizzazione dei principi religiosi di mitezza e perdono; è un imperativo categorico che impone di considerare ogni persona come un fine e non come un mezzo (Nuova socialità e riforma religiosa, cit., passim). Al fondo dell’idea capitiniana di nonviolenza si trova la coscienza dell’insufficienza della realtà che ha bisogno di un’integrazione valoriale, della necessità della presenza intima dell’altro a se stessi (il Dasein come Mitsein, l’esserci dell’individuo come prodotto della partecipazione comune all’essente). Tutto ciò prevede una severa considerazione dei mezzi rispetto ai fini: per il «persuaso» o per il «libero religioso» non conta tanto raggiungere il risultato, quanto il modo di raggiungerlo, perché l’esperienza religiosa porta l’attenzione sui mezzi religiosi della verità e della nonviolenza intesi come «atto religioso», che non vale in quanto utile ma in quanto principio di amore, perché fondato su un Dio che è la totalità dei viventi.
Su questo terreno si inserisce l’adesione di Capitini al vegetarianesimo, inteso come forma di tutela della vita degli esseri animali in grado di rappresentare un esempio e una testimonianza «religiosa» a tutela della vita degli esseri umani, così da favorire il rifiuto della guerra e il proposito di non uccidere. Allo stesso modo Capitini elabora il precetto della non-menzogna, che discende dalla constatazione secondo cui l’esistenza dell’altro non è un fatto meccanico bensì è unita alla «realtà di tutti», è «compresenza» che richiede «unità-amore», dunque verità (La compresenza dei morti e dei viventi, cit., passim): la menzogna è un tradimento duplice, degli altri come di se stessi, che comporta l’annullamento dell’autocoscienza.
Con l’integrazione della questione religiosa nel tema della nonviolenza, Capitini intende superare il formalismo dell’etica kantiana per approdare a una concreta presenza del sentimento morale secondo cui l’altro non è un’idea, ma esistenza concreta: il processo di universalizzazione non è di tipo logico, bensì morale o, meglio, esistenziale, in grado di giungere a riconoscere nel rapporto con gli altri la stessa radice di intimità che esiste all’interno del sé.
La teoria della nonviolenza – cardine della riforma sociale capitiniana – si unisce dunque ai principi sociali e religiosi della «realtà di tutti» e della compresenza di tutti gli esseri, tanto che risultano necessari, da un lato, il dialogo interreligioso in grado di superare le barriere delle religioni istituzionalizzate, e, dall’altro, l’organizzazione di movimenti pacifisti concretamente attivi sul territorio e capaci di articolare «dal basso» l’apertura religiosa della nonviolenza e, soprattutto, l’azione di liberazione dalla realtà data.
La sostanziale staticità della giustificazione filosofica e religiosa della nonviolenza in Capitini si coniuga però con una pluralità di azioni politiche concrete che, soprattutto nel corso degli anni Sessanta, giungono alla realizzazione di movimenti e associazioni in grado di intervenire nel dibattito pubblico, in corrispondenza con il mutare del contesto culturale e politico italiano, e che hanno lo scopo di propagare l’idea di una società migliore che nasce dal sovvertimento di una società ingiusta (In cammino per la pace, 1962, passim). Il discorso della nonviolenza diventa così un metodo, non solo una testimonianza; un metodo in grado di influire sull’azione sociale e politica contro la saldatura tra deriva tecnocratica e principio della forza che accomuna l’Oriente comunista e l’Occidente capitalista. Rispetto a tale saldatura, l’unica alternativa efficace e moralmente accettabile è l’educazione dei popoli alla resistenza nonviolenta, che tende a trasformare le strutture di una comunità stabilendo relazioni sociali diverse da quelle tipicamente repressive, grazie a una preparazione religiosa alla democrazia connessa a una libera educazione nonviolenta.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale Capitini – che ama definirsi «indipendente di sinistra» – cerca di implementare la sua teoria dell’«omnicrazia» (il «potere di tutti») creando movimenti in grado di suscitare una partecipazione politica diffusa e dal basso, attuando forme di democrazia diretta che evitino l’appiattimento della prospettiva riformatrice in una semplice sostituzione di una vecchia oligarchia con una nuova: nell’omnicrazia l’uomo post cristiano e post umanistico vuole vivere unito con tutti nella massima solidarietà, e per questo è necessario costruire una società nuova che superi tutti i vecchi limiti, compresi il dolore e la morte (Il potere di tutti, 1969, passim). Con questo progetto utopistico Capitini non intende superare solo il conservatorismo cattolico e borghese tipico della cultura italiana moderata; intende superare anche l’umanesimo laico e il socialismo marxista, attraverso l’iniezione di una forza spirituale religiosa in un programma di riforma sociale.
Se Capitini non si può definire un filosofo nel senso stretto del termine, non si può però nemmeno considerare un uomo politico. A lui, infatti, non interessano né le teorie né i partiti, né i libri né le istituzioni, bensì la vita concreta (Religione aperta, cit., pp. 5-6) in cui realizzare i principi utopistici del suo «misticismo pratico». È la «prassi» l’elemento centrale che sottolinea il bisogno di azione politica, di iniziative di riforma religiosa e di creazione di gruppi attivi nello spazio sociale per trasformare il mondo, non per interpretarlo.
La vita e i libri di Capitini mirano, in primo luogo, all’«attività pratica» che affronta problemi quali il decentramento amministrativo, la riforma della scuola e dell’esercito, la riorganizzazione dell’assistenza sociale. Ma questa attività pratica non è istituzionale, né tanto meno partitica: è «sociale». Al sistema istituzionale centrato intorno ai partiti e dominato dal concetto di «potere», Capitini contrappone infatti il «centro», cioè il luogo mobile e diffuso di natura «comunitaria» aperto all’iniziativa di tutti e senza vincoli di gerarchia, che rappresenta una società completamente deistituzionalizzata e aperta alla collaborazione reciproca, senza alcuna discriminazione sociale, economica, religiosa. Nei centri promossi da Capitini (tra cui, oltre ai COS e ai COR, l’Associazione per la difesa e lo sviluppo della scuola pubblica e la Consulta per la pace) vengono privilegiati la discussione e il libero confronto insofferenti alla disciplina di partito, alla rigidità della burocrazia e al tecnicismo dei saperi specialistici. In questi centri non esistono dunque confini tra politica e religione, educazione e filosofia, etica ed economia: la spinta riformatrice riguarda l’intero mondo sociale e spirituale, testimoniata e predicata dai «resistenti non violenti» (La realtà di tutti, cit., passim).
È questo il terreno non solo dell’omnicrazia, ma anche della «religione aperta» intesa come libera «aggiunta» all’impegno umano concreto di costruzione di una società giusta: solo in tal modo, infatti, è possibile evitare di chiudere il discorso politico all’interno di ciò che è dato, lasciandolo aperto all’«incontro con l’aggiunta» della persuasione religiosa (che è l’opposto del pensiero unico e dogmatico della fede) in uno spirito di assoluta libertà individuale e sociale.
In Capitini la tensione etico-politica verso il valore viene dunque tradotta nella consapevolezza dell’assolutezza dell’atto morale e della sua immediata efficacia, tanto da sfociare in una «religione della compresenza»: la compresenza è la presenza corale, di tutti, alla creazione dei valori, la «tramutazione» attraverso cui si realizza la «realtà di tutti» in cui ognuno ha una parte, in uno spirito di reciproco arricchimento e non di competizione. In questo rapporto fecondo tra il singolo e la comunità, la compresenza porta un’«aggiunta» sempre dinamica: il singolo trae un decisivo aiuto dalla comunità, ma rimane un singolo che può liberamente produrre il bene. E per questo motivo il tema dell’«apertura», tanto decisivo sul piano dell’esperienza religiosa, è centrale anche sul piano dell’azione sociale e politica: il momento negativo della storia è sempre la trasformazione di una tensione in un’istituzione, visto che la tensione è «apertura» e l’istituzione – anche quella più progressista e illuminata – è invece una chiusura, una cristallizzazione dogmatica, la negazione di ogni possibile rinnovamento dell’interiorità.
Insieme a Guido Calogero, nel 1937 Capitini è uno dei fondatori del liberalsocialismo; ma, mentre in Calogero è vivo un atteggiamento giuridico e costituzionale in ottica riformistica, in Capitini l’esigenza libertaria, lo spirito religioso e l’inclinazione popolare definiscono una prospettiva rivoluzionaria (sebbene nonviolenta) allo scopo di allargare i confini dello spazio sociale fino a farlo diventare la «realtà di tutti». Mentre la teoria politica di Calogero mira alla costruzione di un «partito», in Capitini l’esito politico è quello della realizzazione di un «movimento», sempre aperto a un rinnovamento incessante e mai ingabbiato in una struttura gerarchica o in un’istituzione.
In Capitini la sintesi tra liberalismo e socialismo è costituita dall’intersezione tra riforma religiosa, nonviolenza, democrazia diretta e collettivismo economico. Il liberalsocialismo è dunque un movimento etico-religioso che mira a un rinnovamento profondo, non solo sociale ma anche morale: questa «utopia» non prevede la dialettica tra i partiti, bensì uno Stato senza partiti, una «nuova socialità» in cui la partecipazione popolare alla discussione e alla decisione sui problemi collettivi sia continua, così da rendere inutile l’intermediazione dei partiti (Nuova socialità e riforma religiosa, cit., passim). Poiché il compito dello Stato deve essere puramente amministrativo, la battaglia liberalsocialista deve essere rivolta contro ogni forma di «potere dall’alto» che si sclerotizza nella propria sacralizzazione e rifiuta ogni forma di «potere dal basso»: «Quanto più gli organi burocratici si irrigidiscono, tanto più debbono rimediare i singoli cittadini, studiando tutti i problemi, parlando, ascoltando le minoranze, interiorizzandole come stimolo e come contributo» (Elementi di un’esperienza religiosa, cit., p. 76).
La sintesi tra liberalismo e socialismo in Capitini non ha dunque alcun carattere politologico, perché è parte del suo più vasto programma di «tramutazione» sociale e religiosa. Tale sintesi è aperta e antidogmatica, mobile e del tutto originale: nel liberalismo Capitini critica lo spirito individualistico e concorrenziale dell’iniziativa privata capitalistica, nel socialismo critica lo statalismo e la burocrazia non aperta al controllo dal basso e alla libertà di critica e informazione. Viceversa, del liberalismo elogia la concezione spontaneamente «creativa» del soggetto aperto all’alterità, mentre del socialismo elogia la dimensione della socialità, in particolare l’idea secondo cui ogni soggetto si muove all’interno di una dimensione relazionale.
Grazie all’utilizzo della concezione creativa del soggetto e della sua relazionalità assoluta, il «persuaso» capitiniano – il cui compito è quello di mantenere viva la tensione profetica verso una realtà liberata – parla il linguaggio liberalsocialista mirando alla realizzazione di una profonda «tramutazione» sociale, resa possibile da un’«aggiunta» religiosa che implica una realtà radicalmente nuova, non una semplice riforma di tipo economico o sociale. Il movimento liberalsocialista di Capitini non è mai disgiunto dalla discussione dei problemi politici o culturali ma, allo stesso tempo, la sua tensione verso la realtà liberata è di natura essenzialmente religiosa. Per questo motivo Capitini contesta decisamente l’assolutizzazione della politica – che è la premessa di ogni totalitarismo – in favore di un’interpretazione del liberalsocialismo come un «orientamento della coscienza» e una «speranza sempre rinnovantisi» (Nuova socialità e riforma religiosa, cit., pp. 92 e segg.), quindi come la negazione dell’«assoluto del benessere» rappresentato dagli Stati Uniti e dell’«assoluto del potere» rappresentato dall’Unione Sovietica, entrambi convergenti nella passività morale e nel conformismo spirituale della «civiltà dei pubblici servizi».
Elementi di un’esperienza religiosa, Bari 1937, 19472.
Vita religiosa, Bologna 1942.
Atti della presenza aperta, Firenze 1943.
Saggio sul soggetto della storia, Firenze 1947.
Il problema religioso attuale, Modena 1948.
La realtà di tutti, Pisa 1948.
Italia nonviolenta, Bologna 1949.
Nuova socialità e riforma religiosa, Torino 1950.
L’atto di educare, Firenze 1951.
Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, Pisa 1953.
Religione aperta, Parma 1955, Venezia 19642.
Colloquio corale, Pisa 1956.
Discuto la religione di Pio XII, Firenze 1957.
L’obiezione di coscienza in Italia, Manduria 1959.
In cammino per la pace, Torino 1962.
La nonviolenza oggi, Milano 1962.
Antifascismo tra i giovani, Trapani 1966.
La compresenza dei morti e dei viventi, Milano 1966.
Severità religiosa per il Concilio, Bari 1966.
Le tecniche della nonviolenza, Milano 1967.
Educazione aperta, 2 voll., Firenze 1967-1968.
Il potere di tutti, Firenze 1969, Perugia 19992.
Opposizione e liberazione. Scritti autobiografici, a cura di P. Giacchè, Milano 1991.
Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Martini, Perugia 1994.
Liberalsocialismo, a cura di P. Giacchè, Roma 1996.
Le ragioni della nonviolenza, a cura di M. Martini, Pisa 2004.
La religione dell’educazione, a cura di P. Giacchè, Molfetta 2008.
P. Craveri, Capitini Aldo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 18° vol., Roma 1975, ad vocem.
N. Martelli, Aldo Capitini educatore di nonviolenza, Manduria 1988.
C. Cesa, Il pensiero di Aldo Capitini e la filosofia del neoidealismo, «Giornale critico della filosofia italiana», 1989, 3, pp. 274-94.
A. De Sanctis, ‘Apertura’ e persona nel liberalsocialismo di Aldo Capitini, «Il pensiero politico», 1993, 2, pp. 228-41.
N. Martelli, Aldo Capitini. Profilo di un intellettuale militante, Manduria 1993.
R. Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Pisa 1998, 20032.
«Il ponte», 1998, 10, nr. monografico: Aldo Capitini. Persuasione e nonviolenza, a cura di T. Raffaelli, Atti del Convegno La figura e l’opera di Aldo Capitini, Pisa 1997.
P. Polito, L’eresia di Aldo Capitini, Aosta 2001.
Aldo Capitini tra socialismo e liberalismo, a cura di G.B. Furiozzi, Milano 2001.
F. Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Assisi 2004.
A. De Sanctis, Il socialismo morale di Aldo Capitini (1918-1948), Firenze 2005.
C. Foppa Pedretti, Spirito profetico ed educazione in Aldo Capitini, Milano 2005.
A. Tortoreto, La filosofia di Aldo Capitini. Dalla compresenza alla società aperta, Firenze 2005.
A. Mariani Marini, Marciare per la pace. Il mondo nonviolento di Aldo Capitini, Pisa 2007.
Liberalsocialismo e nonviolenza. La religione civile di Aldo Capitini, Firenze 2009.
N. Bobbio, Il pensiero di Aldo Capitini, Roma 2011.