ALESSANDRIA d'Egitto (A. T., 115; greco 'Αλεξάνδρεια; lat. Alexandrēa ad Aegyptum; arabo al-Iskandariyyah)
La seconda città dell'Egitto, nell'angolo O. del delta nilotico, su un lembo di terreno sabbioso che separa il lago litoraneo di Maryūt, o palude Mareotide, dal Mediterraneo, a 31°12′ di lat. N. e 29052′ long. E., e a 208 km. di ferrovia dal Cairo. Il clima, temperato dalla vicinanza del mare, vi è assai mite, di rado superando nell'estate i 31°-32° e oscillando tra le medie mensili di 16° e 24°. Le piogge, scarse, cadono tra novembre e gennaio. La città deve il suo nome ad Alessandro Magno, dal quale fu fondata nel 332 a. C.
Alessandria nell'antichità.
Nel 332 Tiro cadde in potere di Alessandro Magno e presto tutta la Siria meridionale ebbe la stessa sorte. Il conquistatore poté allora marciare sull'Egitto, che, ricaduto da pochi anni sotto il dominio persiano dopo quasi un secolo d'indipendenza, serbava vivo e bruciante il ricordo delle dilapidazioni e crudeltà subite. Gli Egiziani salutarono Alessandro come un liberatore. Questi, dopo aver visitato Menfi e celebrati sacrifici agli dei indigeni, ridiscese con piccolo seguito il ramo canopico del Nilo per recarsi a visitare il famoso oracolo di Ammone nell'oasi di Sīwah. Durante il breve soggiorno nel paese recentemente conquistato, e probabilmente durante questo viaggio, egli decise la fondazione della prima città che abbia portato il suo nome. Vi è molto contrasto sul valore e sul significato di questa fondazione. Alcuni pensano che la scelta del luogo non fu dovuta al genio divinatore di Alessandro ma alle suggestioni dei Greci già stabiliti nella valle del Nilo; che la città non ebbe nella mente del fondatore quell'importanza ecumenica che poté farle attribuire la rapida prosperità presto raggiunta, e neppure lo scopo di sostituire Menfi come capitale dell'Egitto. Altri ritengono invece che la città fosse concepita dal suo creatore, non solo e non tanto come la capitale dell'Egitto, ma come il centro adunatore e animatore di tutte le correnti economiche e commerciali dell'impero mondiale che egli andava formando, o per lo meno come la metropoli del Mediterraneo orientale e dei paesi che lo circondano, ridotti a compagine unitaria. Soltanto i Tolomei avrebbero degradata la nuova città a semplice capitale dell'Egitto. Alessandro si sarebbe più illustrato con la fondazione di Alessandria che con tutte le sue conquiste.
Pur evitando di esagerare in questo senso, si deve riconoscere che Alessandro dové attribuire all'Egitto una particolare funzione nello sviluppo della sua politica, se in un paese che possedeva già in Menfi una capitale eccellentemente situata presso l'apice del delta, per uno stato che non avesse speciali vedute o interessi nel Mediterraneo, creò di sana pianta una città sul mare, provvista di due magnifici porti e concepita a priori come assai grande, popolosa, monumentale. Evidentemente ciò importava un mutamento nei rapporti dell'Egitto con l'estero, una trasformazione della sua civiltà quasi esclusivamente fluviale in una civiltà partecipe e fattore del movimento economico e intellettuale dei paesi mediterranei. Tutto ciò deve indurre ad ammettere che la fondazione di Alessandria non fu un episodio senza importanza in cui il conquistatore ebbe una parte riflessa, ma fu un atto della sua volontà, dal quale attendeva conseguenze notevoli per lo sviluppo dei rapporii tra la pingue valle del Nilo e i territorî d'oltre mare. Tanto più quando si pensi che, per quanto favorevoli, le condizioni del terreno prescelto richiedevano enormi lavori per rendere sicuro alle navi l'accesso e il soggiorno nel porto. Ad Alessandro quindi non si può negare il merito d'avere avuto l'idea iniziale e d'avere prontamente intuito gli straordinarî vantaggi del luogo prescelto, anche se prima chiese informazioni e consigli ai Greci da lungo tempo residenti in Egitto o ne ebbe suggerimenti.
ll progetto del piano per la costruzione della nuova città fu affidato all'architetto Dinocrate. Cleomene di Naucrati, ch'era stato preposto all'amministrazione finanziaria dell'Egitto, fu incaricato di provvedere i mezzi affinché il progetto potesse venire sollecitamente attuato. Nondimeno alla morte di Alessandro Magno (323) i lavori erano lontani dal compimento, e nonostante la febbrile attivita spiegata da Tolomeo figlio di Lago, divenuto prima satrapo e poi re dell'Egitto, al quale va attribuita la decisione di scegliere Alessandria come capitale abbandonando Menfi, soltanto sotto Tolomeo II (285-246) i cantieri scomparvero interamente per fare apparire in tutto il suo splendore la città che suscitò la meraviglia dei contemporanei e rimase sempre famosa anche dopo la sua completa decadenza. Sappiamo da recenti scoperte che già sotto Tolomeo II missioni ufficiali e turisti venivano anche da assai lontano per visitarne i monumenti e le curiosità.
La città era sorta di fronte all'antistante isola di Faro in una lingua di terra arenosa, tra il mare e il lago Mareotide, nella parte SO. della quale sorgeva un villaggio di pastori e pescatori, Rhakotis, con una piccola guarnigione di guardiacoste.
L'isola di Faro fu congiunta al continente per mezzo di una diga lunga circa 1200 metri. I due porti così formati, l'orientale o Porto grande (μέγας λιμήν) e l'occidentale od Eunostos ("Ευνοστος), erano vastissimi ma troppo aperti, e quindi fu necessario restringerne l'entrata con potenti moli, come con potenti dighe fu opportuno proteggere la costa nord-occidentale dell'isola. È probabile che appartengano a questi lavori, e non al porto ricordato dall'Odissea, le costruzioni marittime sommerse, scoperte alcuni anni fa, e che sono state da alcuni identificate con un porto faraonico anteriore all'età omerica ed anche con un porto minoico.
Nell'interno dell'Eunostos sorse un terzo piccolo porto, il Kibotos (Κιβωτός) o "la scatola", comunicante con il lago Mareotide. Questo lago, che si stendeva alle spalle della progettata città, avrebbe potuto costituire un grande ostacolo allo sviluppo dei rapporti con l'interno, ma fu invece opportunamente utilizzato come via di comunicazione divenuta presto attivissima.
Poiché il territorio era sprovvisto di sorgenti d'acqua dolce, un canale, utilizzato, naturalmente, anche per la navigazione, fu derivato dal ramo canopico del Nilo a Schedia, su una lunghezza di circa venticinque chilometri; l'acqua potabile era inviata ai varî quartieri della città mediante condutture sotterranee, dalle quali era immessa con mezzi meccanici in numerosissime e grandi cisterne, tuttora in parte superstiti nei riattamenti eseguiti nelle età bizantina ed araba.
La pianta della città, concepita da Dinocrate secondo i criterì fissati nel quinto secolo da Ippodamo di Mileto, aveva la forma di una clamide macedonica, cioè di un parallelogrammo. La caratteristica essenziale era quella delle strade tagliantisi ad angolo retto. Le strade secondarie erano parallele a due principali, una in direzione est-ovest l'altra in direzione nord-sud, le quali s'incrociavano presso a poco nel centro, ma più verso nord, formando una vasta piazza monumentale. I blocchi di case venivano così ad essere distribuiti come una scacchiera. Le vie erano variamente designate sia dai monumenti o edifici cui erano prossime, sia da altre indicazioni; ma molte portavano nomi di persone della famiglia reale, specialmente della regina Arsinoe Filadelfo, identificata con un grande numero di divinità di cui le venne attribuito il nome o l'epiteto.
Le due strade principali, fiancheggiate da grandi portici a colonne, erano larghe circa 100 piedi. La città era circondata da mura il cui perimetro massimo non dev'essere stato lontano dai 15 chilometri. Poiché le necropoli stavano, come ad Antinoe, fuori delle porte e della cinta fortificata, questa doveva seguire una linea che, partendo dalla base di Capo Lochias, un poco ad oriente di esso, si dirigeva a sud passando a traverso gli attuali cimiteri europei, fin presso il canale di cui più o meno costeggiava il corso fino al porto Eunostos.
Non è inverosimile (ed anzi sembra probabile) che, come ad antinoe, le mura fossero interrotte in corrispondenza delle banchine interne dei porti, da questo lato la città essendo difesa dai moli esterni fortificati, da opportuni fortilizî, come quelli posti alle due estremità dell'eptastadio, dal piccolo porto di guerra prospiciente la reggia e anche dai recinti che attorniavano singoli edifici o gruppi di edifici.
La città era divisa in cinque quartieri designati secondo le prime lettere dell'alfabeto. Il quartiere adiacente alla reggia fu riservato alla popolazione giudaica. La sezione occidentale sviluppatasi attorno al preesistente villaggio Rhakotis conservò questo nome e rimase sempre prevalentemente abitata da indigeni; la sezione orientale, più vasta, prese il nome di Neapolis.
In questa sorsero i palazzi reali e gli edifici annessi, i quali occupavano un quarto ed anche un terzo dell'intera superficie. La reggia vera e propria sorgeva presso il porto orientale. "Quando si entra nel porto grande, dice Strabone, si ha a mano diritta l'isola e la torre di Faro, a mano sinistra il gruppo di rocce e il promontorio Lochias con numerosi e svariati edifici e giardini". Questi palazzi e giardini - botanici e zoologici - si riallacciavano verso occidente a un vasto locale designato come Meandro, unito a sua volta mediante una serie di ambienti (σύριγξ) alla Palestra e al Teatro. In questi paraggi doveva trovarsi anche un tempio di Dioniso. Dopo il teatro veniva il Posidium, promontorio sulla cui punta era un santuario di Posidone, e quindi l'Emporium; lungo il mare seguivano le Apostasi o grandi magazzini; dietro le apostasi sorgeva un tempio della dea Bendis; venivano quindi i Neoria o cantieri navali. Presso di questi Tolomeo II fece costruire un tempio famoso dedicato alla sorella Arsinoe, l'Arsinoeion. Una parte della città attinente ai palazzi reali, tra il teatro, l'Emporium e il Cesareo, è conosciuta col nome di Bruchium. Dei numerosi bagni e terme ricordate dalla tradizione sono state scoperte rovine in questa zona.
Dopo il teatro e retrostante all'Emporium sorse, sul finire della dinastia Lagide, il Cesareum o Sebasteion, uno dei pochissimi edifici di cui è possibile fissare con sicurezza l'ubicazione, perché fino alla seconda metà del sec. XIX sono rimasti in situ (non lungi dall'attuale stazione di Ramleh) i due obelischi che ne decoravano uno degli ingressi. Il Cesareo era un tempio cominciato a costruire da Cleopatra in onore di Marco Antonio, ma continuato e compiuto da Augusto e consacrato al culto imperiale. Era vastissimo, ricco di doni votivi, di quadri, di statue, provvisto di portici e di biblioteche, di boschi sacri ecc., ecc.
Fin dal tempo del primo Tolomeo cominciarono a sorgere, nel quartiere reale, il museo e la Biblioteca, le due celebri istituzioni culturali che da sole basterebbero alla gloria di Alessandria. Il Museo era una specie di grande università e di laboratorio, in cui i professori, divisi in corporazioni, vivevano collegialmente a spese del sovrano, senz'obbligo di dare lezioni, ma dediti comunque allo studio, alle ricerche personali, alla produzione letteraria e scientifica. Gli edifici del museo comprendevano, oltre, come è facile supporre, ad un tempio delle Muse, ed ai locali per lo studio e l'insegnamento, una passeggiata, un'esedra e una grande sala per i pasti in comune.
La Biblioteca, per arricchire la quale i primi Tolomei ricorsero ad ogni mezzo lecito ed illecito, divenne la più grande e la più ricca del mondo antico, talché i rotoli di papiro (più rotoli erano necessari per una sola opera e bisogna tener conto dei duplicati ecc.) si poterono contare ad alcune centinaia di migliaia. E la raccolta non si limitava ai prodotti della letteratura greca. Basterà ricordare la traduzione greca dell'Antico Testamento che certamente fu eseguita in Alessandria (v. bibbia e settanta).
Il Museo e la Biblioteca dovevano essere collocati a sud del Cesareo. Nelle vicinanze dovevano sorgere quello che fu detto il palazzo di Adriano, chiamato anteriormente Licinium, e il Ticheunt, edificio destinato all'esposizione delle leggi e decreti, un tempio di Iside Plusia, il Forum Augusti, il Tetrapylon, il tempio del Buon Genio (Agathodaimon).
Tutti questi edifici si trovavano a nord della grande strada longitudinale o Canopica, alle cui due estremità erano collocate due porte, la porta di Canopo (più tardi, porta del Sole) e l'occidentale (più tardi, porta della Luna).
A mezzogiorno del dromos, non lontano dal punto d'intersezione delle due strade principali, sorgeva il Sêma o Sôma, tempio funerario di Alessandro Magno, il cui cadavere avviato verso l'oasi di Ammone Tolomeo I aveva fermato a Menfi e Tolomeo II aveva trasferito nella nuova capitale e deposto in un sarcofago a forma di letto, all'interno di un santuario chiuso da una cinta murata (peribolo).
Non lontano da quella del fondatore della città, Tolomeo Filadelfo aveva fatto costruire la tomba dei suoi genitori Tolomeo I e Berenice. Il témenos degli dei fratelli era probabilmente il recinto sepolcrale eretto per Filadelfo e la sua sorella e moglie Arsinoe. Anche i successori dovettero essere sepolti nelle vicinanze.
La tomba di Marco Antonio e di Cleopatra, posta anch'essa nel quartiere reale, non era molto lontana, in vicinanza del tempio di iside Plusia, a nord dcl dromos. Nella zona compresa fra gli edifici fin qui enumerati e la porta orientale era situato il Ginnasio, che Strabone, in una città piena di meravigliosi monumenti e di templi, giudica il più bello; v'erano portici i quali misuravano uno stadio di lunghezza.
Il Tribunale o Dikasterion è menzionato dopo il ginnasio. Il Paneum era una collina artificiale a nord-est del Sema, alberata e coltivata a giardino, dalla quale si godeva una vista superba su tutta la città. Il tempio della Nemesi, in cui era stato sepolto Pompeo, deve essere cercato presso le mura orientali non lungi dal quartiere l, abitato dai Giudei che nel Nemesion si asserragliarono nella rivolta scoppiata sotto Traiano. Questi monumenti ed edifici, se si aggiunga un tempio ad Iside e Osarapis eretto da Tolomeo IV ed Arsinoe e di cui si è scoperta la pietra di fondazione presso l'angolo delle attuali vie Fuād e stazione di Cairo, sono quasi tutti quelli (o almeno i più importanti) che possiamo enumerare come conosciuti nella Neapolis; nella vecchia Rhakotis bisogna ricordare anzi tutto il santuario di Serapide, divinità assurta per opera dei Tolomei al primo posto nella religione dell'Egitto greco-romano, costruito su di un'altura a cui si saliva per una scala di marmo coronata da propilei, dai quali si accedeva ad una grande corte circondata da portici. Uno scrittore antico ha paragonato questa collina - su cui oggi domina, unico superstite monumento, la famosa colonna volgarmente detta di Pompeo (sulla base v'è un'iscrizione in onore di Diocleziano) - al Campidoglio. Al sud del Serapeo era uno stadio. Un ippodromo si trovava fuori delle mura, nella Neapolis. Le necropoli, quella orientale quasi esclusivamente per greci o stranieri, quella occidentale prevalentemente d'indigeni, si stendevano su vasta zona fuori delle mura.
Fuori delle mura era anche il sobborgo di Eleusis con il grande tempio Thesmophorion o Telesterion. Al tempo di Augusto, più lontano presso il mare, sorse il sobborgo Nikopolis, non distante dal Castrum in cui fu acquartierata la legione romana d'occupazione.
Nell'isola di Faro - vicus Aegyptiorum - sono ricordate le tombe di Efestione, un tempio di Iside, uno dedicato a Nettuno, un altro a Mercurio; ma il monumento più celebre era quello che sorgeva sulla sua punta nord-orientale, la torre luminosa che ha servito di modello a tutte le analoghe costruzioni, spesso annoverata fra le sette meraviglie del mondo. Era un edificio da tre piani, quadrangolare il primo, ottagonale il secondo, cilindrico il terzo, alto 120 metri, provvisto di magazzini e di camere, di elevatori e di scale a chiocciola in falso piano. La luce che veniva accesa al di sopra dell'ultima torre cilindrica, poteva essere veduta alla distanza di trenta miglia, proiettata lontano con l'aiuto, probabilmente, di specchi riflettori. Concepita da Tolomeo I e costruita da Sostrato di Cnido, fu inaugurata nel 280-79 da Tolomeo Filadelfo, Che la consacrò alla memoria dei suoi genitori, "dei salvatori".
Se alcuni dei monumenti ricordati sorsero o furono restaurati e trasformati durante l'età romana, Alessandria già nel III secolo a. C. aveva, in complesso, l'aspetto che più tardi le conosciamo. Specialmente intensa fu l'attività costruttiva dei primi tre Tolomei. Anche Tolomeo IV, principe corrotto, ma fastoso e fanatico adoratore di Dioniso, contribuì certo all'abbellimento della città, e i contribuirono più o meno tutti i successori. Quando Cesare rimase assediato nel quartiere reale, egli fece mettere fuoco alle navi egiziane ancorate nel porto, ma l'incendio si estese alla città danneggiando parecchi edifici e alcuni depositi di libri. I guasti, peraltro, furono presto riparati. Augusto fece giungere l'acqua potabile in tutte le parti della città, e senza dubbio non ne trascurò la prosperità e l'estetica. Una rovina assai grave fu causata dalla rivolta dei Giudei sotto Traiano. Adriano dié sfogo anche in Alessandria alla sua passione per l'architettura. Di Antonino Pio si ricordano i lavori compiuti nel dromos e nelle porte del Sole e della Luna.
Il decadimento effettivo incominciò con Caracalla e divenne gravissimo sotto Aureliano, che saccheggiò la città e ne distrusse una gran parte; un vero disastro toccò alla città sotto Diocleziano, quando questi s'impadronì della ribelle dopo nove mesi d'assedio. Un altro grave colpo all'importanza di Alessandria fu il sorgere di Costantinopoli.
Se le persecuzioni contro i cristiani non facilitarono le ricostruzioni, le lotte fra cristiani e pagani e il definitivo trionfo dei primi, le persecuzioni contro gli ebrei, le risse feroci fra i cristiani delle varie sette, furono anche più esiziali ad Alessandria di cui i templi più belli furono sottoposti al saccheggio, alle demolizioni, all'incendio. I cristiani si servirono degli edifici rovinati come di case di materiali lavorati per le chiese, non solo di Alessandria ma anche di luoghi assai lontani. Alcuni antichi edifici pagani furono trasformati in chiese: il tempio di Saturno al tempo del vescovo Alessandro divenne una chiesa di S. Michele (distrutta dagli arabi nel 916), il Cesareo, la chiesa cattedrale o Dominicum (distrutta da un incendio nel 912), il Serapeo, una chiesa dedicata all'arcangelo Gabriele. Gli eventi ulteriori hanno fatto sparire anche le altre numerose e celebri chiese dedicate a S. Marco, S. Atanasio, S. Theonas. Tuttavia, malgrado i disordini e le alterazioni che ne mutarono così profondamente l'aspetto esteriore, Alessandria rimase una città assai popolosa. Alessandria, infatti, continuò ad essere una delle principali stazioni del commercio mondiale fino a tutto il sesto e il settimo secolo.
L'assedio del persiano Cosroe e la presa della città nel 619 causò molte rovine agli edifici superstiti e alle chiese cristiane. Tuttavia Alessandria, che Eraclio aveva riconquistata all'Impero dieci anni dopo, poté apparire ancor grandiosa e superba al conquistatore musulmano ‛Amr ibn al-‛Āṣ che vi entrò il 29 settembre 642. Dopo il trasferimento della capitale a Fustāt e poi al Cairo, Alessandria, pur continuando ad avere fino alla scoperta dell'America e, soprattutto, a quella del Capo di Buona Speranza, una certa importanza per il commercio di transito, andò sempre decadendo e il suo territorio venne sfruttato sempre più come cava di materiali lavorati. Terremoti, abbassamento del livello del suolo, accumularsi di sabbie e di detriti, la miracolosa e rapidissima rinascita, avvenuta nel corso del sec. XIX e dell'attuale, per cui il misero villaggio di pescatori annidatosi sulla lingua di terra formatasi attorno all'antico eptastadio è divenuto una città di 570.000 abitanti, hanno fatto sì che dell'antica metropoli siano quasi affatto scomparse anche le rovine.
Fin dalle origini Alessandria non fu colonia esclusivamente greco-macedonica. La popolazione indigena di Rhakotis s'accrebbe con una parte degli abitanti di Canopo e con altri emigrati dall'interno. Accanto ad essi già nel sec. III erano numerosi Ebrei, Frigi ed altri gruppi dell'Asia Minore. L'affluenza dei più vari elementi stranieri fu tale che Alessandria assunse il carattere d'una città cosmopolita. Tuttavia non sembra possibile negare che essa, nella vita sociale, nella cultura e nell'arte ebbe in origine e conservò per lungo tempo, se non vogliamo dir sempre, un carattere prevalentemente ellenico. Le necropoli orientali di Shāṭbī, dell'el-Ibrāhīmiyyeh e di el-Ḥaḍrah si presentano immuni da ogni influenza indigena. Solo a partire da Tolomeo IV vanno guadagnando terreno quel sincretismo e quell'ibridismo che formano uno degli aspetti caratteristici della religione e dell'arte alessandrine nell'età più tarda.
Anche per quanto concerne l'edilizia, Alessandria dové apparire specialmente, durante la meno recente età tolemaica e anche più tardi, assai più simile alle grandi città ellenistiche che non a Menfi o a Tehe; senza dubbio accanto ai monumenti di tipo greco non tardarono a sorgere costruzioni egiziane o egizianeggianti, ma non tali per numero e significato da mutarne l'aspetto generale.
Le classi privilegiate erano costituite dalle famiglie greche più antiche e più notabili, i cui membri godevano il diritto di cittadinanza ed erano divisi in tribù e demi, degli Alessandrini e dei Macedoni, i quali avevano grande influenza alla corte e presso l'esercito.
Il senato, se pure esistette sotto i Tolomei, fu abolito, e durante la dominazione romana, nonostante le ripetute richieste, la città dové attendere fino a Settimio Severo per ottenerne l'istituzione. Esisteva peraltro un corpo di leggi e norme, conservatoci in estratti nel papiro che ha preso il nome dalla città che ora lo possiede (Halle), il quale regolava i rapporti fra i cittadini (ἀστικοὶ νόμοι). Gli Ebrei (sulla posizione giuridica dei quali, papiri pubblicati di recente hanno gettato nuova luce) non avevano il diritto di cittadinanza, ma costituivano una comunità con una propria organizzazione ed erano autorizzati a seguire nei rapporti privati le loro leggi e usanze. Se l'importanza commerciale e industriale della nuova capitale dell'Egitto divenne presto grandissima ed è unanimamente riconosciuta, altrettanto grande fu la sua influenza per il sincretismo culturale e religioso.
La cultura e l'arte in Alessandria.
La cultura. - Con le due grandi istituzioni ricordate più sopra, il Museo e la Biblioteca, tra lo splendore dei suoi monumenti, il fasto di una corte grandiosa, l'opulenza della sua popolazione mista, ma profondamente imbevuta di ellenismo benché non senza elementi anche importanti attinti alla civiltà dell'Oriente. Alessandria, la seconda città dell'Impero anche sotto il dominio romano, fu centro importantissimo di cultura. La poesia (ricorderemo Callimaco e la sua scuola) nella quale si svilupparono forme nuove, che rispecchiano in maniera caratteristica le tendenze spirituali dell'età, cioè l'elegia erotica e soggettiva, l'epyllion epico-lirico in esametri, la poesia didascalica, ci lascia spesso freddi. Prevalgono in queste opere preziosità e sottigliezza, l'erudizione a volte addirittura pedantesca, la concettosità mediante la quale questi poeti si sforzano, a ogni costo, di apparire originali: tutti quei caratteri, insomma, per cui i termini "alessandrino" e "alessandrinismo" vennero poi usati per designare, non la sola letteratura ellenistica (fiorita anche fuori di Alessandria) o quella romana che, pur con caratteri profondamente proprî, ne risentì l'influsso; ma fenomeni analoghi che si riscontrano, in epoche e con intensità diverse, nelle letterature di tutti i popoli, ogniqualvolta l'ispirazione non nasca dalla vita, ma da un'esperienza letteraria, artistica, o comunque culturale. Perciò la poesia di quell'età è spesso manifestazione di stati d'animo affatto moderni. E, in ogni modo, la produzione letteraria che va sotto il nome complessivo di alessandrina non appartiene esclusivamente alla storia della cultura della città di Alessandria, rientrando piuttosto nello sviluppo generale della letteratura greca. Fiorirono inoltre in Alessandria la filologia e la critica. E ai dotti alessandrini è dovuta appunto imperitura riconoscenza, per aver fissato il testo critico di molte opere tramandate dai secoli più antichi, e per avere in tal modo contribuito a farle pervenire sino a noi (v. filologia).
Il più grande merito di Alessandria consiste peraltro nei servigi resi a tutte le scienze: dalla filologia sopra ricordata (menzioneremo Dioniso detto il Trace, Filosseno, Didimo, Trifone, Apione, e sopra tutti Aristarco, che fu uno dei bibliotecarî di Alessandria, come Callimaco e Licofrone), alla medicina e alle scienze fisico-matematiche. Perciò se dell'antica "metropoli dell'universo" non rimane sopra suolo quasi più alcun tangibile ricordo, nondimeno la sua gloria resta imperitura, poiché in verità nessuna creazione del grande. conquistatore macedone ha esercitato sul mondo e sulle vicende ulteriori della storia un influsso altrettanto potente.
La scuola medica alessandrina. - Questa raccolse l'eredità della medicina, greca classica e risentì nello stesso tempo l'influenza dell'ambiente e delle tradizioni di medicina mistica astrologica ed empirica giunte dalla Persia e dalla Mesopotamia. Sua nota caratteristica è la minuziosa ricerca delle cause ultime e lontane dell'essere, delle manifestazioni vitali e patologiche, ispirata dalle tormentose ricerche della filosofia ellenistica, ricerca che determina i passi iniziali nella anatomia e nella fisiologia: e insieme da un perseverare nel dogmatismo e nelle credenze mistiche. Erofilo (circa 300 a. C.), scolaro di Prassagora e di Crisippo, fu il primo a studiare l'anatomia del cervello e del midollo spinale, a indicare le funzioni dei nervi e a distinguere sicuramente fra nervi e vasi sanguigni. Egli fu il primo a cercare di risolvere il problema della circolazione e fu il fondatore della dottrina del polso. Un altro dei maestri di questa scuola fu Erasistrato, nato intorno al 310 a. C., allievo della scuola di Cnido, che fu considerato come il fondatore della fisiologia; indagatore acutissimo e originale. Ma ben presto la medicina alessandrina decade in seguito agli avvenimenti che determinano lo sfacelo del regno, e i discepoli dei due grandi maestri divengono fondatori di due scuole, quelle degli erofilici e degli erasistratici, i quali però non perseguono la via delle ricerche ma si dedicano esclusivamente all'interpretazione dei testi. Contemporaneamente a queste scuole mediche sorge, verso la metà del sec. III a. C., la scuola degli empirici, che fondarono la loro dottrina esclusivamente sulla pratica, abbandonando la speculazione filosofica. Essi affermarono che la base di tutta la medicina deve consistere nel cosiddetto tripode, formato dall'osservazione, dalla tradizione e dall'analogia. Il più celebre maestro di questa scuola fu Eraclide da Taranto (sec. II a. C.), commentatore d'Ippocrate e insigne farmacologo, che fu uno dei primi a raccomandare l'oppio. Anche nel campo della chirurgia e della ginecologia la scuola empirica era giunta a un alto grado di progresso; particolarmente importanti furono gli studi di farmacologia, e i medici di quell'epoca si dedicarono con molto successo allo studio dei veleni e dei contravveleni. La catastrofe politica che segnò la fine dell'indipendenza dell'Egitto determinò anche la fine della scuola medica alessandrina.
Le scienze fisico-matematiche. - Anzitutto ricorderemo, sul principio del sec. III a. C., il geometra Euclide, autore degli Elementi, che rimasero a fondamento della nostra istruzione matematica, e particolarmente geometrica. Ancora al centro di studi di Alessandria debbono essere collegati i due più grandi geometri inventori, del sec. III a. C.: il siracusano Archimede che con le sue ricerche sulle aree, i volumi e i momenti statici precorse la moderna analisi infinitesimale, e Apollonio di Perga che sistemò la teoria delle coniche. Ambedue studiarono lungamente ad Alessandria, furono in diretta relazione coi dotti alessandrini cui comunicavano le loro scoperte, e pubblicarono anche in gran parte nella stessa Alessandria le loro opere.
Fra i geografi e gli astronomi alessandrini sono da ricordare anzitutto i corrispondenti di Archimede: Eratostene nativo di Cirene, ma bibliotecario ad Alessandria, il cui nome resta legato alla determinazione delle dimensioni della sfera terrestre, ed anche Conone e Dositeo. Nel sec. II a. C. s'incontra Ipparco nato a Nicea in Bitinia. il più grande astronomo osservatore dell'antichità, la cui opera ci è stata tramandata attraverso l'elaborazione di Claudio Tolomeo, posteriore di circa tre secoli. Ipparco si deve anche ritenere il fondatore della trigonometria, proseguita nel sec. I d. C. da Menelao. Infine fra i tardi alessandrini conviene almeno ricordare il meccanico Erone, del sec. II o I d. C.
La filosofia. - Ai maestri della gnosi come ai pensatori cristiani e alla scuola catechetica (Didaskaleion) di Alessandria si accennerà più sotto discorrendo del cristianesimo in questa città. Pur evitando di pronunciare qui un giudizio sull'essenza e le origini dello gnosticismo, come sulle influenze esercitate da questo sui teologi rivendicati a sé dalla tradizione ortodossa; è lecito affermare, in maniera generalei che l'attività filosofica svolta in Alessandria così da cristiani come da pagani, così da giudei come da gnostici, ebbe essenzialmente carattere religioso, e si mosse sulle tracce del pensiero platonico: sebbene subisse l'influenza di altre scuole, e di fatto introducesse profonde modificazioni nella religiosità tradizionale del paganesimo. Se si può dunque parlare di una filosofia alessandrina (e non di una "teologia") all'infuori della tarda scuola neoplatonica vera e propria, bisogna riconoscerne il carattere eclettico, affine del resto a quello di tante altre attività dello spirito che si svolsero nella stessa città. E, in questo senso, prescindendo dalle dispute che divisero allora i varî filosofi, si può anche affermare la continuità di una tradizione, che comprende l'ebreo Filone, i pagani Ipazia, Ierocle, Asclepio, Alessandro di Licopoli, i cristiani Panteno, Clemente, Giovanni Filopono, Sinesio di Cirene, Nemesio di Emesa, Dionisio di Alessandria e, superiori a tutti, Origene da una parte e dall'altra Plotino, discepoli entrambi dello stesso maestro, Ammonio Sacca. Tradizione tutt'altro che spregevole, anche in confronto di altre, forse più vive, scuole filosofiche antiche: e della quale basti qui l'aver fatto un cenno, che valga a dare un'idea meno incompleta dell'importanza di Alessandria come centro culturale nell'antichità. *
L'arte. - Se c'è un capitolo della storia dell'arte antica in cui gli elementi costruttivi sono incerti o manchevoli, vaghi e quasi inafferrabili, questo è senza dubbio il capitolo che concerne l'arte negli stati formatisi dall'impero universale che Alessandro Magno aveva creato. Cronologicamente le manifestazioni di quest'arte vanno divise in due età ben distinte: l'ellenistica propriamente detta e la romana. Molto spesso la prima viene anche designata come alessandrina, ma sarà opportuno astenersene per evitare confusioni od aprioristiche impressioni, anche se in definitiva si voglia riconoscere Alessandria come il centro, la capitale e l'esponente della nuova epoca di storia mondiale cominciata in Egitto col soggiorno del conquistatore macedone e con la fondazione della prima, e di poi famosa, città che portò il suo nome. Invero, assai più che per ogni altro regno ellenistico il problema relativo all'arte si presenta oscuro, poggiato su basi fragili o discutibili, in Egitto; per cui ogni giudizio non può non essere che congetturale e provvisorio. Ciò spiega il contrasto delle teorie e delle opinioni che intorno al valore, al significato, all'importanza dell'arte alessandrina ed all'influenza che avrebbe o non avrebbe esercitato sugli altri territorî greci o grecizzati e poi sull'arte romana hanno emesse i moltissimi studiosi che se ne sono occupati. Non sempre porre bene un problema significa risolverlo, e potremo esser soddisfatti se ci riuscirà, precisandone i termini, di contribuire a chiarificarlo. Anzitutto, poiché in Alessandria etiam periere ruinae, bisogna cercare di evitare due opposte tentazioni, la prima delle quali indurrebbe ad affrettate "annessioni", a considerare cioè come indubbiamente alessandrine molte opere, della plastica soprattutto, non trovate in Egitto o prive di stato civile; la seconda a negare, data la scarsità del materiale raccolto negli scavi compiuti in Alessandria, scavi tardivi, limitati e poco profondi, che la capitale dei Tolomei abbia potuto vantare mai un patrimonio artistico veramente pregevole per quantità e qualità. L'indigenza attuale, che non è tuttavia così assoluta come molti pensano tuttora, per chi conosca le vicende subite dalla città sul finire dell'età classica, nel Medioevo e nell'età moderna, non può essere addotta a prova di un'assoluta povertà antica, tanto più quando si pensi che persino negl'immensi cimiteri (i soli di cui sia stato possibile compiere un'esplorazione in parte metodica) non s'è mai incontrata una tomba di persone ricche o cospicue. E poiché l'abbondante suppellettile raccolta nelle modeste fosse di mercenarî o di minuta gente spesso non è priva d'artistico pregio, questa deve valere come un pallido riflesso di opere d'arte più nobili, più fini e più preziose, non pervenute sino a noi, o non ancora scoperte, o seppellite per sempre sotto le moderne costruzioni, ma innegabilmente esistite. È anche opportuno evitare di parlare indifferentemente di arte alessandrina o greco-egizia, come se il materiale che la costituisce fosse un tutto unitario ed omogeneo. È necessario invece distinguere nell'arte alessandrina due aspetti assai diversi, poiché fino ai tempi più tardi Alessandria e l'Egitto hanno avuto una produzione artistica mantenutasi esclusivamente nella linea della pura tradizione ellenica e accanto a questa si è sviluppata una produzione in cui le due civiltà, la greca e l'egiziana, si giustappongono, si mescolano e si fondono, tanto nello spirito animatore quanto nei motivi, nello stile e nei procedimenti tecnici. Chiameremo l'una arte alessandrina greca; l'altra arte alessandrina greco-egizia.
L'arte greca, trapiantandosi nella valle del Nilo, ha subito a un dipresso le stesse vicende dei rapporti tra i due popoli. In verità il giudizio di coloro i quali sostengono che Alessandria ebbe fin dagl'inizî un carattere più indigeno che greco (p. es. l'Ehrenberg) e che i sovrani favorirono specialmente gli architetti e scultori indigeni che lavoravano secondo l'antico stile egiziano (p. es. il Lawrence) non sembra fondato su una precisa conoscenza delle rovine pervenute fino a noi, e neppure su un equo apprezzamento della tradizione.
I primi tre Tolomei volsero le spalle alla politica di avvicinamento e di fusione tra conquistati e conquistatori che Alessandro Magno aveva iniziata, e quindi anche nell'arte accordarono di preferenza il loro favore, soprattutto in ciò che concerneva la nuova capitale, all'arte ellenica. È intuitivo, date le circostanze, che fu necessario ricorrere ad un numero rilevante di artisti greci di varie scuole i quali immigrarono in Alessandria da ogni regione. Essi dovettero far fronte all'esigenze molteplici della corte pei suoi palazzi, dello stato pei grandiosi pubblici edifici monumentali sacri e profani e anche alle richieste di statue votive, onorarie, funerarie. Basti ricordare un solo indizio: la meravigliosa processione reale ordinata da Tolomeo II, nella quale figurarono, tra l'altro, numerosissime statue d'uomini e di animali, d'oro, di avorio, d'ebano, "scolpite da artisti di prim'ordine".
Sul finire del sec. III a. C., sotto Tolomeo IV, gli Egiziani cominciarono a riconquistare la coscienza di sé ed il sovrano a non mostrarsi più recisamente ostile a una politica di avvicinamento; d'altra parte, a dispetto d'ogni formale separazione e distinzione, la secolare convivenza aveva cominciato a produrre i suoi inevitabili effetti più o meno estesamente, più o meno profondamente, mescolando sangui, idee religiose e costumi. Neanche l'arte si sottrasse alla nuova situazione; infatti andò crescendo e diventando sempre più significativa una produzione che è il risultato ed il testimonio di reciproche influenze tra le due civiltà. Più tardi, ogni qual volta l'ellenismo tentò di riguadagnare terreno (e basti ricordare Adriano), s'ebbe una rifioritura di prodotti artistici esenti da ogni influenza egiziana; i quali prodotti, del resto, non sono mai completamente mancati.
Nei riguardi dell'architettura, Alessandria dové presentare, nei primi tempi, un aspetto quasi esclusivamente ellenico; e tale carattere rimase prevalente anche più tardi. I palazzi reali, il museo, la biblioteca, il teatro, il Sema di Alessandro Magno (seppellito more Macedonum), il ginnasio, il tribunale, il portico quadrangolare, i portici e colonnati che fiancheggiavano le vie principali, il Serapeo stesso e di poi anche il Cesareo, nonostante la presenza di obelischi, il faro, ricordavano assai più le grandi città ellenistiche che non Menfi o Tebe. In questa prospettiva generale s'inserirono senza dubbio edifici di stile egiziano; ma essi restarono assai meno numerosi e meno significativi degli altri e anche meno caratteristici qui che non nelle città dell'interno. A dispetto della scomparsa quasi totale delle antiche costruzioni, i frammenti potuti salvare in Alessandria stessa, a Canopo ed altrove, ci fanno intravvedere per numerosi particolari la verità di questa tesi, mostrando pure la ricchezza del complesso, e la varietà degli stili.
Se il granito di Assuan, il calcare nummolitico e il calcare del Meks (Meks è un moderno villaggio presso le cave, ad O. di Alessandria) sono in grande prevalenza, non si deve dedurne una assoluta deficienza del marmo, poiché né rari sono i capitelli marmorei che tuttora si raccolgono nel territorio della città, né va dimenticato che la tentazione di asportare colonne, capitelli e in generale monumenti lavorati in questa più appariscente e più preziosa materia, fu tra le imprese la prima, la più facile e la più redditizia. Si ricordi soltanto la basilica di S. Menas, la città di marmo nel deserto mareotico, tutta costruita con materiali certo asportati da anteriori edifici di Alessandria.
I tre principali ordini greci sono largamente rappresentati; il dorico meno dello ionico e del corinzio. Di quest'ultimo ordine specialmente sono pervenuti fino a noi bellissimi esemplari dello stile più puro e numerose varietà. Alla policromia (giallo, azzurro, rosso) si faceva ampio ricorso.
Negli elementi superstiti, rimasti nella linea della tradizione greca, è dato di scorgere prodotti di genere locale (Ronczewski) i quali differiscono nettamente, per le proporzioni e per la decorazione, dai capitelli analoghi provenienti dalle altre regioni del mondo greco. In base a tali differenze sarebbe esagerato parlare di una scuola architettonica alessandrina con caratteri autonomi, data l'affinità che, nella grandissima maggioranza, gli elementi architettonici rivelano con quelli degli altri regni ellenistici. Tuttavia si rammenti il fatto che in Alessandria s'incontra una creazione nuova: l'ordine che s'usa chiamare floreale-composito, ma che non sarebbe ingiusto definire come "alessandrino". Quest'ordine, ispirandosi al corinzio e adattando alla campana del capitello quei motivi vegetali che l'arte egiziana aveva utilizzato da secoli (loto, papiro, iris) ed altri motivi (palmette, serpente uraeus, corona isiaca, ecc.), ha potuto svilupparsi in modi assai ricchi e svariati.
Se entriamo nel dominio della plastica, il terreno si fa ancora più instabile e malsicuro. Oggi nessuno osa più sostenere integralmente la tesi panalessandrina di Th. Schreiber. Secondo questo studioso, tutti i rilievi pittorici sarebbero alessandrini, Alessandria sarebbe stata il centro d'origine e di diffusione di tutte le nuove tendenze dell'arte ellenistica e avrebbe avuto una grande, anzi predominante influenza sull'arte romana. Gli avversarî delle sue teorie, per contro, negano l'origine alessandrina dei rilievi pittorici (ma probabilmente, per una parte di essi almeno, la negazione è troppo assoluta) e affermano che Alessandria non ha avuto vera plastica. Data l'immigrazione inevitabile di numerosi artisti greci nella nuova metropoli dell'Egitto, sembra logico che quivi abbiano confluito (come del resto nelle altre corti ellenistiche) le più notevoli tradizioni e correnti artistiche manifestatesi in Grecia nella seconda metà del quarto secolo. Quale di esse vi prevalsero e contribuirono a dare più tardi una particolare fisionomia alla produzione alessandrina? È stato fatto (Amelung) il nome di Prassitele, e questa idea, emessa a proposito di due teste trovate a Roma, sembrava trovare conferma in parecchie sculture d'alta età tolemaica scoperte in Alessandria o in Egitto. In esse si osserva una delicatezza di forme, una fusione di piani, un'eleganza d'atteggiamento, una soavità d'espressione, che molto davvicino ricordano la morbidezza e lo sfumato prassitelico. Autorevoli proteste (Perdrizet) sono state sollevate contro tale deduzione, poiché sembrava che non fosse possibile cibare alcuna opera prassitelica databile ai primordî della dinastia Lagide; ma recentemente il Picard, ripubblicando una testa di regina divinizzata o di dea, scoperta nel Serapeo alessandrino, pur manifestando una giusta prudenza, ha scritto: "che essa dà realmente l'impressione viva e diretta di un originale di grande artista, non paragonabile in nessun modo a quello che l'Egitto alessandrino ci ha disgraziatamente troppo spesso dato con la sua produzione industriale", e ritiene che bisogna cominciare non ridurre eccessivamente "il gruppo dei documenti attestatici dalla produzione locale".
Caratteri prassitelici sono riconoscibili anche in un'altra testa femminile recentemente scoperta, di più piccole dimensioni ma che sembra senza dubbio un originale di alta età ellenistica. E senza una notevole originaria influenza del grande scultore, mal si spiegherebbero i busti e le teste di Tell Timai (per quanto non precisamente databili), e parecchie altre riunite nel Museo greco-romano di Alessandria o descritte nell'ultimo volume della spedizione Sieglin, nelle quali la morbidezza e lo sfumato appaiono come caratteristiche essenziali. Ad analoga conclusione condurrebbe indirettamente l'analisi di parecchie figurine di terracotta provenienti da necropoli del sec. III a. C. Senza dubbio l'influenza di Atene sulla nuova capitale dell'Egitto fu assai forte. I bassorilievi delle stele sepolcrali di Shāṭbī, di el-Ḥaḍrah, e dell'Ibrāhīmiyyeh rivelano una diretta derivazione dalle stele attiche: ora, siffatta influenza non può essere rimasta limitata a questo particolare prodotto della plastica. Ma si avrebbe torto a pensare che l'imitazione di Prassitele sia stata esclusiva, come, non fu certo peculiare di Alessandria. Molti ritratti e piccoli busti di Alessandro Magno trovati in Egitto, in gran parte accostabili a tipi di Lisippo, inducono a ritenere che non scarsa debba essere stata l'influenza di quel maestro; altre teste richiamano lo stile di Scopa. Forse non è errata la tradizione che attribuisce a Briasside l'originale della prima e grande immagine di Serapide; e, comunque, a Briasside è stata non a torto attribuita una testa di Zeus o di Asclepio del museo alessandrino. A Briasside fanno pure pensare altre sculture dello stesso museo non ancora abbastanza studiate. Ma se queste furono le principali correnti che operarono nell'Alessandria dei primi tempi, la scultura alessandrina assunse poi una fisionomia originale, tale da crearle un posto ben distinto nel complesso dell'arte ellenistica? Nella produzione che non presenta elementi eterogenei all'arte greca, non sembra di poter riconoscere una scuola con caratteri autonomi. Ciò premesso, è indiscutibile che una parte di essa sembra chiaramente rivelare una tendenza idealizzante, spesso animata dai più nobili entusiasmi spirituali e più o meno dipendente dalle formule del prassitelismo; e che un'altra parte dimostra e quasi ostenta un acuto spirito d'osservazione, un senso spietato della realtà, una decisa preferenza per i soggetti di genere, per la caricatura e per il grottesco. Teste e statuette di Satiri e di nubiani ricciuti e camusi, di negri, di berberini, di nani, di pigmei sono assai frequenti tanto in marmo quanto in bronzo o in terracotta. E fu senza dubbio Alessandria a diffonderne il gusto nei paesi del Mediterraneo.
Ma inevitabilmente l'arte greca a contatto con la civiltà egiziana non poteva sottrarsi ad ogni sua influenza. La grande statua del Nilo conservata al Vaticano, coronata di loto e di giunchi, il gomito posato su di una sfinge, coi sedici putti che folleggiano qua e là sul corpo, con il coccodrillo, l'ichneumone ed altri animali nilotici, è un documento eloquente e non disprezzabile di quest'arte alessandrina a carattere misto greco-egiziano.
La bella testa femminile avente per acconciatura la spoglia d'un uccello, esistente nel Museo Mussolini di Roma, alcune teste femminili aventi sul capo una complicata parrucca o una corona di divinità egiziana o un serpente arrotolato appartengono allo stesso gruppo; gruppo che, se non può annoverare alcun vero capolavoro, è, in complesso, tutt'altro che spregevole.
Se moltissime sculture di quest'età sono rimaste puramente egiziane (come ad esempio quelle di Arsinoe e di Tolomeo Filadelfo, di Filotera, oggi nel Museo Vaticano, o quelle frammentarie di Antonio o di Cleopatra scoperte presso il lago di el-Ḥaḍrah) molte altre dimostrano che l'influenza greca su alcune scuole indigene è stata assai grande, determinando una produzione con caratteri particolari. Su di una statuetta d'Alessandria, p. es., di cui la posa e l'abbigliamento sono del tutto egiziani, è passato un soffio della Grecia e ne ha animato tutte le parti (Maspero).
Uno dei migliori esemplari di questa produzione è lo scriba Horus scoperto a Kōm ed-Dīk nei pressi dell'antico Paneum, "un'opera greca eseguita da un egiziano piuttosto che una scultura veramente egiziana" (Maspero). Una serie assai numerosa di statue, meno fini d'esecuzione, si può raggruppare con questo Horus. Tutte sono caratterizzate dalla trascuratezza con cui è trattato il corpo, contrastante con la precisione anatomica della testa e della faccia, eseguite con scrupolosa insistente ricerca della verità fisica e dell'espressione. Si deve, peraltro, convenire che dall'accoppiamento dello spirito greco con l'egiziano non è nato alcun tipo veramente originale né alcuna opera d'indiscutibile bellezza, quando si eccettuino tuttavia alcuni bassorilievi dell'età tolemaica.
Le fonti sono concordi "sull'importanza e sullo splendore della scuola alessandrina di pittura" (Dikins), ma purtroppo anche o soprattutto per questo ramo dell'arte, il suolo di Alessandria è di una povertà desolante. Senza dubbio fra gli artisti immigrati in Alessandria numerosi dovettero essere anche i pittori. come p. es. Antifilo, già maturo maestro prima della fondazione della città. Ma sebbene fra coloro i cui nomi sono pervenuti fino a noi, i soli che si possano considerare veramente alessandrini siano Elena figlia di Timone, che avrebbe dipinto tra l'altro un quadro rappresentante la battaglia d'Isso, e Polemone ricordato da Plinio; numerosissime stele dipinte del sec. III, opera senza dubbio di mestieranti e tuttavia spesso non prive di qualche pregio, la tomba dipinta di Anfūshī, di Wardiān, di Sīdī Gāber e i musaici indirettamente comprovano l'esistenza di una scuola pittorica alessandrina, le cui creazioni originali peraltro ci sfuggono.
Le pitture pompeiane, in cui gli elementi egizianeggianti sono palesi e numerosi, possono offrire un sicuro documento per l'arte ornamentale soltanto: un documento tuttavia che ogni giorno più rivela quanto grande e diffusa sia stata l'influenza di Alessandria in Pompei (e non si comprende perché avrebbe dovuto essere limitata a una sola manifestazione dell'arte) e quanto straordinariamente feconda e varia sia stata l'attività dei decoratori alessandrini. A proposito di pittura non si può non far menzione della numerosa serie di ritratti dell'età imperiale detti ritratti di mummia. Queste pitture, eseguite ad encausto su tavolette di legno, posseggono tutte, nonostante l'uniformità della tecnica, un'individualità bene caratterizzata e una grande forza d'espressione.
L'arte del musaico, se non ebbe proprio in Alessandria l'origine prima, vi fu certamente coltivata su vastissima scala e fornì poi motivi e modelli in quantità all'arte romana. Il suolo della città, le rovine di Canopo e quelle di altri luoghi ellenistici del Delta hanno fornito e forniscono un materiale assai eloquente a questo riguardo. Da Thmuis proviene un finissimo musaico, certo del sec. III a. C., firmato da Sofilo, rappresentante in un quadrato, nel centro di una grande cornice imitante un tappeto, un busto di donna riccamente abbigliata ed armata, portante per acconciatura una nave da guerra, personificazione d'una città (Alessandria) celebrante una vittoria navale. Ugualmente da Thmuis proviene un vasto musaico d'età romana, è vero, ma non perciò meno interessante, perché riproduce in un triclinio, preparato sotto una ricca tenda, la scena d'un banchetto accompagnato da danze lascive, in mezzo ad un paesaggio nilotico che ricorda molto davvicino quello del famoso musaico di Palestrina. Da Alessandria e da Canopo provengono altri frammenti di musaici paesistici con piante ed animali indubbiamente originarî della valle del Nilo.
La tradizione letteraria parla dei meravigliosi tesori di oggetti in metallo prezioso (oro, argento, bronzo) che possedevano i Tolomei, e i papiri ci dànno liste di utensili pel culto e d'uso quotidiano, come candelabri, ex-voto, vasi, servizî da tavola. I gioielli trovati in qualche tomba, originali o copie in gesso e terracotta dorata, il tesoro di Tuch el-Karamūz e parecchi altri vasi ed oggetti in metallo, dimostrano, per l'identità dei motivi, che anche molti casi trovati a Pompei e ad Ercolano si riallacciano all'arte alessandrina, come alessandrino deve essere il tesoro di Hildesheim. Non v.è quindi ragione di mettere in dubbio la ricchezza e la finezza dell'oreficeria che la tradizione attribuisce alla capitale dei Tolomei.
Nell'incisione delle gemme, Pirgotele avrebbe raggiunto una perfezione insuperata. I famosi cammei di Vienna e di Pietroburgo, la tazza Farnese del museo di Napoli, per limitare le citazioni agli esemplari più caratteristici, dànno un'idea dell'abilità posseduta dagli artisti alessandrini nel lavoro delle pietre dure.
Una grandissima parte della ceramica prodotta in Egitto durante l'età ellenistica non presenta caratteri d'originalità in confronto dei prodotti contemporanei, ma le numerosissime urne cinerarie delle necropoli alessandrine del terzo e della prima metà del secondo secolo, impropriamente designate come "vasi di el-Ḥaḍrah", costituiscono un'interessante serie separata nella storia della ceramica greca; né va taciuto che i ceramisti alessandrini hanno raggiunto un notevole grado di perfezione nella ricca e varia produzione di vasi smaltati.
Quasi tutte le statuette di terracotta dipinta, raccolte in grande quantità nei cimiteri dell'età tolemaica meno avanzata, riproducono giovinette, fanciulli e, assai più raramente, esseri mitologici di tipo e di stile puramente greci. Il museo di Alessandria ne possiede una ricca collezione con esemplari molto belli. Le figurine ibride greco-egiziane, sorte più tardi, generalmente conosciute col nome di terrecotte del Fayyüm, hanno un valore artistico mediocrissimo o nullo, ma sono molto interessanti per lo studio della religione, delle credenze, delle superstizioni, dei costumi, della vita privata e sociale.
Guardando il problema dell'arte ellenistica nei suoi aspetti più generali, è difficile sottrarsi all'impressione che essa abbia costituito un complesso omogeneo "come l'arte paleocristiana, come l'arte bizantina, come l'arte del tredicesimo secolo" (Perdrizet). Quest'arte a dir vero non sembra che abbia avuto caratteri o esclusivamente alessandrini o rodi o antiocheni o pergameni, o, vogliano dire, asiani, né che abbia posseduto una particolare impronta originale in ciascuno dei regni sorti dall'impero di Alessandro Magno, ma si è sviluppata contemporaneamente nei varî grandi centri di civiltà, senza che alcuno di essi abbia esercitato un'assorbente influenza sugli altri, tutti peraltro avendola subita qualcuna dai reciproci contatti e dai reciproci scambî. Tuttavia nel grande quadro dell'arte ellenistica la parte di Alessandria non è né trascurabile né assolutamente confondibile. Essa possiede sì molte tendenze ed aspetti comuni all'arte degli altri territorî greci o grelizzati, ma possiede pure qualche caratteristica che permette di individualizzarla anche all'infuori di quegli speciali prodotti dovuti al contatto della civiltà dei conquistatori con quella dei conquistati. D'altro lato né troppo presto, né troppo radicalmente l'arte greco-alessandrina si è trasformata sotto l'influenza dell'arte indigena di cui, per contro, ha ritardato l'irrimediabile decadenza. Non sembra dunque equo il severo giudizio di molti, secondo i quali l'arte greca è venuta in Egitto per morirvi; essa vi ha perduto certo di originalità e di vigore ma vi si è fatta più umana e più intima.
Dopo la conquista romana l'arte alessandrina non si sottrasse alle inevitabili conseguenze delle nuove condizioni politiche. I migliori artisti emigrarono a Roma e in Italia, esercitando sull'arte romana una non trascurabile influenza. Tracce di questa influenza appaiono già numerose nell'ellenistica Pompei, ad Ercolano ed altrove.
Il cristianesimo. - La tradizione fa risalire le origini del cristianesimo in Alessandria d'Egitto a S. Marco evangelista: il primo che la menziona, Eusebio (Hist. eccles., II, 16), la riferisce però come una semplice diceria (ϕασίν), mentre il primo vescovo alessandrino del quale abbiamo notizie sicure è Demetrio (188/9-231). Considerata l'importanza capitale che Alessandria, per la sua posizione sociale, culturale e religiosa nel mondo antico e per i suoi rapporti speciali col giudaismo, doveva presentare anche per la propaganda cristiana, il silenzio della storia sul come il cristianesimo vi sia nato, e come vi sia cresciuto e si sia sviluppato durante i primi due secoli fa meraviglia e costituisce per sé stesso un interessante problema, ancora non risoluto. Certo è che Alessandria non fu compresa nel piano di evangelizzazione dell'Impero, concepito da S. Paolo (una cui lettera agli Alessandrini, non pervenuta fino a noi, è già dichiarata spuria nel Canone muratoriano, il solo che la ricordi). G. De Sanctis (in Rivista di filol. e d'istruzione classica, 1924, pp. 473-513), in seguito alla pubblicazione dei papiri del Bell, ha pensato che i torbidi ai quali quei documenti si riferiscono fossero provocati dall'incipiente propaganda cristiana; ma tale opinione, per quanto autorevole, non ha ottenuto finora unanime consenso (cfr. A. Donini, in Ricerche religiose, I, 1925, p. 150 segg.).
Il fatto si è che i primi cristiani di cui abbiamo notizia in Alessandria sono i dottori gnostici, Basilide, Valentino, Carpocrate ecc., che vi trovarono numerosi seguaci. Se a lato della gnosi sia fiorito anche il più genuino cristianesimo, non possiamo dire con certezza. Varî scritti del cristianesimo primitivo, quali l'epistola agli Ebrei, quella attribuita a Barnaba, la Predicazione di Pietro, la Didaché, Secondo molti critici proverrebbero da Alessandria, ma non è certo, potendo esservi stati introdotti più tardi da altrove, cioè dalla Siria o dalla Palestina; con miglior fondamento si può asserire che i Vangeli apocrifi degli Egiziani e degli Ebrei, se non usati nel culto pubblico, furono molto letti in Alessandria, il primo dai cristiani gentili e il secondo dai giudeo-cristiani, ma appunto questi scritti (secondo quanto possiamo arguire dai frammenti superstiti), dimostrano la spiccata tendenza della stessa chiesa ufficiale alessandrina verso lo gnosticismo. Si può dunque dire che da principio i veri fedeli in Alessandria erano pochi, venuti probabilmente dalla vicina Palestina, e che, mancando della savia direzione di un capo autorevole e di una salda organizzazione ecclesiastica, come quella che possedevano le chiese fondate da S. Paolo, erano soverchiati dal numero e dall'ardimento di coloro che il cristianesimo volevano asservire all'ellenismo.
A questo male cercò di portare rimedio la scuola catechetica (Didaskaleion), fondata da alcuni dottori cristiani venuti dal di fuori (Panteno dalla Sicilia, Clemente forse da Atene) per opporsi alla marcia trionfale dello gnosticismo. Ma la difesa non era condotta senza fare gravi concessioni all'avversario, ammettendo, oltre all'interpretazione allegorica delle Scritture (v. allegoria), l'esistenza di una gnosi ortodossa, che rendeva perfetto chi la possedeva e l'innalzava al di sopra del semplice fedele. Non è ben chiaro quali relazioni intercedessero tra la scuola catechetica e la chiesa ufficiale; certo è, però, che il primo vescovo noto alla storia, Demetrio, sul principio la favorì, sebbene non permettesse ad Origene, ancora semplice laico, d'insegnare ad altri che agli infedeli ed ai catecumeni; ma poi, per varie ragioni, lo cacciò da Alessandria, e lo costrinse a trasportare il suo insegnamento a Cesarea di Palestina. L'episodio, oltre che rivelare la tensione di rapporti esistente tra l'episcopato alessandrino ed il palestinese, ha grande importanza per un altro lato. Se non da esso, poco dopo comincia la lotta condotta dai patriarchi di Alessandria (sebbene due, Heracla e Dionisio, fossero usciti dalla scuola stessa di Origene), contro l'origenismo, cioè l'alessandrinismo stesso ormai espatriato e diffusosi in altre chiese dell'Oriente. La nuova scuola alessandrina di teologia, nella questione contro l'arianesimo, sotto S. Atanasio, e in quella contro Nestorio, proveniente però dalla scuola antiochena, sotto Cirillo, dettò la formula della retta fede all'Oriente; sotto Teofilo, in seguito alla campagna di San Gerolamo contro l'origenismo, la chiesa alessandrina ne pronunciò la condanna (400) ancor prima di Roma. Il fatto che, sotto Dioscuro, contro Roma e il concilio di Calcedonia (451), sostenne la dottrina monofisita, dimostra che, malgrado il suo ultimo atteggiamento, essa non era riuscita a svincolarsi completamente dalle primitive tendenze.
La grande influenza che la chiesa alessandrina esercitò sulle altre dell'Oriente si deve anche al suo potere interno su quelle di tutto l'Egitto. Il patriarca di Alessandria si sentiva e si comportava come il capo religioso di tutta la provincia; e a mano a mano che i fedeli crescevano, fece servire la divisione politica in νόμοι di base alla divisione della sua giurisdizione ecclesiastica, e diede alle città capitali dei singoli νόμοι altrettanti vescovi, che si tenne però sempre soggetti, e che all'occasione, come aveva già fatto Demetrio al tempo della lotta contro Origene, radunava in sinodi per pubblicare e fare approvare i suoi decreti. Così la chiesa di Alessandria, forte di fronte agli altri patriarcati dell'appoggio di un compatto numero di vescovi, quantunque non potesse vantare la fondazione apostolica, come quella di Antiochia, acquistò una grande autorità dottrinale anche al di fuori: tanto che Teodosio nel 380 decretò che tutti i suoi sudditi dovessero professare la fede insegnata dai vescovi di Roma e di Alessandria; e nei sec. IV e V combatté con successo, sotto la guida di Teofilo e di Cirillo, per il primato su tutto l'Oriente, in aperto contrasto col patriarca di Costantinopoli, forte a sua volta del favore e della protezione imperiale.
Più difficile sarebbe il parlare con precisione della liturgia usata nella chiesa d'Alessandria. Di essa poco si sa con certezza, e, quel poco, da documenti (quali la Didaché o il cosiddetto Ordinamento ecclesiastico egiziano) sulle origini dei quali si discute. L'Anaphora attribuita a Serapione (vescovo di Thmuis nel sec. IV) dimostra che anche quello che la liturgia alessandrina più antica poteva avere di particolare si è andato gradatamente eliminando, secondo un processo di adattamento alle usanze delle altre chiese: fatto che si riscontra anche a proposito di altri fra gli aspetti singolari della chiesa alessandrina.
Numerosissime erano le catacombe cristiane di Alessandria: sono soprattutto notevoli quelle di Karmūz. Dei varî vani sotterranei, il vestibolo dove si riunivano i cristiani per la celebrazionc delle agapi funebri ha importanza speciale, dovuta agli affreschi, forse del sec. III, che decorano l'abside, purtroppo mancanti in parte e ridipinti in epoca posteriore. L'affresco a sinistra rappresenta le nozze di Cana, quello del centro la moltiplicazione dei pani e dei pesci, e l'affresco a destra tre persone sdraiate in atto di mangiare, con al di sopra l'iscrizione: τὰς εὀλογίας ροῦ Χ(ριστο)ῦ ἐσϑίοντες, "consumando le eulogie del Cristo". Notevole la rappresentazione simbolica dell'eucaristia con abilità tecnica superiore a quella degli affreschi romani analoghi, per quanto si possa giudicare dato il pessimo stato di conservazione. Oltre gli affreschi nell'abside rimangono sulle pareti del vestibolo figure isolate di angeli e di santi del sec. VI o VII. Gli arcosolî della sala quadrata attigua al vestibolo sono pure decorati con affreschi, danneggiatissimi, il cui contenuto può essere decifrato soltanto con l'aiuto delle didascalie greche. Di grande interesse la figura del Cristo, raffigurato in atto di calpestare il drago e il leone (Salmo XC, 13) e in maniera iconograficamente affine alle rappresentazioni del dio egiziano Horus. Le dimensioni poco vaste dei locali sotterranei (la galleria è lunga m. 8,50 e larga circa 2 e contiene solo 32 loculi, in due ordini sovrapposti), in confronto con la rete estesissima delle catacombe romane, il gran numero di cimiteri cristiani alessandrini completamente staccati da essi, e il carattere della decorazione fanno supporre che si tratti di un santuario, più che di vere e proprie catacombe. Altre catacombe di Alessandria sono quelle di Abū el-Achem, scoperte da G. Botti nel 1897, che ricordano, per le varie sovrapposizioni di differenti epoche, la basilica di S. Clemente a Roma, le catacombe di Agnew, di Mustafà, dei Rufini, di Qabbary.
Celebre, poi, su tutte le chiese, quella detta di Theonas, dal nome del vescovo che la costruì tra il 282 e il 300. Essa fu la prima chiesa di Alessandria, ricostruita e ingrandita dal vescovo Alessandro. Durante quasi un secolo fu la residenza dei patriarchi e la "cattedrale" di Alessandria, titolo che nel sec. V passò al Cæsareum. Fu poi trasformata in moschea e dagli Arabi chiamata la "moschea occidentale" o la "moschea dalle mille colonne" per il numero prodigioso di colonne di marmi preziosi che ancora in parte si conservavano all'arrivo dei Francesi nel 1798. Divenne moschea anche la chiesa di S. Atanasio, consacrata nel 370 dal santo fondatore, ampia e adorna di colonne antiche. La chiesa dedicata a S. Marco, del sec. IV, era in origine un semplice oratorio, situato nei pressi del porto olientale. Fu bruciata nel 640 dagli Arabi e ricostruita nel 680 dal patriarca Giovanni III di Sibennytus. Ma anche di questa chiesa non rimane traccia; e così sono pure scomparsi i varî santuarî che sorsero nei dintorni di Alessandria, come per es., quello dei Ss. Ciro e Giovanni e l'altro di S. Mennas, celebre meta di pellegrinaggi.
Con le controversie cristologiche del sec. V, e la condanna del monofisismo nel concilio di Calcedonia (451), che condannò il patriarca Dioscuro e proclamò la supremazia della chiesa di Costantinopoli, l'elemento locale nella chiesa alessandrina si rianimò e nella lotta contro i Melchiti (seguaci dell'imperatore e dell'ortodossia) proclamò la propria indipendenza religiosa: così, non senza impliciti motivi politici ed etnici, si giunse alla proclamazione del patriarcato copto, che, malgrado i tentativi di pacificazione fatti da varî imperatori e malgrado l'invasione araba e le successive vicende della città e della regione, si mantenne fino ai giorni nostri (v. monofisiti e copti).
Alessandria musulmana.
Secondo l'iperbolico racconto di storici arabi, Alessandria, nel momento della conquista (642), era ancora una città splendida per edifici, assai popolosa e ricchissima: gli abitanti sarebbero stati 600.000 senza contare le donne ed i fanciulli, i teatri 400, i pubblici bagni 4000. Indubbiamente cifre e colorito sono molto esagerati; nondimeno offrono una prova della floridezza relativa della città anche nell'età bizantina, malgrado le numerose cause di decadenza, quali l'amministrazione dei dominatori, le crisi economiche dell'Impero, i tumulti e le sommosse incessanti, le guerre civili fra pagani ed ebrei, fra ebrei e cristiani e fra le varie sette di cristiani. In verità l'Egitto era rimasto una preziosa provincia per gl'imperatori di Costantinopoli che ne traevano merci varie e soprattutto grandi provviste di grano. E tutto doveva transitare per Alessandria. Il famoso Editto XIII di Giustiniano ne parla come d'una grande città e dimostra quanto essa fosse importante nella prima metà del sec. VI. Ma anche nel secolo successivo poteva essere annoverata fra le principali stazioni del commercio mondiale. Al momento della conquista araba non si ha ricordo di spogliazioni o distruzioni violente, e si deve considerare come leggenda il volontario, sistematico incendio della celebre biblioteca, i cui volumi avrebbero servito ad alimentare per quattro mesi i quattromila bagni della città. Il trasferimento della capitale dell'Egitto presso la fortezza romana di Babylon (poco a S. dell'attuale Cairo), nel luogo (al-Fusṭāṭ) dove Amr ibn al-‛Āṣ aveva collocato la sua tenda prima di iniziare la marcia verso il N. alla conquista della metropoli (troppo lontana e di troppo precarie comunicazioni con Medina), la nuova orientazione commerciale dei conquistatori e varî avvenimenti militari di età successive non tardarono a diminuire l'importanza demografica ed economica e la bellezza edilizia dell'antica capitale.
Particolarmente dannoso fu l'arrivo di un gruppo di avventurieri arabo-spagnoli (811-12), i quali per oltre dieci anni spadroneggiarono nel N. del Delta. Ciononotante per il sec. IX si hanno prove di un notevole movimento commerciale, costituito specialmente dai tessuti che da Alessandria si diffondevano nelle regioni del Mediterraneo e perfino in Armenia. Sappiamo d'altra parte che Ibn Ṭūlūn, nella seconda metà dello stesso secolo, rivolse la sua attenzione alla troppo trascurata città facendo restaurare il Faro, riparare le mura e ripulire il canale e le cisterne. La conquista dei Fāṭimiti (968) causò nuovi gravi danni, nè, per quanto i sovrani di questa dinastia si siano poi preoccupati di fondare in Alessandria alcune istituzioni musulmane e il primo nucleo d'una flotta militare, fu possibile che si avesse un notevole miglioramento, data la grave crisi economica allora traversata dall'Egitto. Sebbene le crociate non siano state per sé stesse una causa di depressione commerciale per un porto la cui posizione ne faceva una meta quasi inevitabile delle spedizioni offensive ed una delle basi difensive dei Musulmani, tuttavia i frequenti assedî, le conquiste e le riconquiste non furono certamente molto propizie al suo rifiorire. Dobbiamo credere che nel sec. XII Guglielmo di Tiro non fosse esente da esagerazione chiamandola "mercato dei due mondi"; ma se anche Beniamino di Tudela e il Burcardo hanno espressioni di meraviglia per l'attività commerciale ivi notata e per la variopinta folla dei mercanti di molte nazioni ivi trafficanti, è lecito ritenere che l'importanza di Alessandria fosse anche allora relativamente assai grande. I Mamelucchi del resto (dopo il 1250) non la trascurarono. Notevolissime sono le notizie che gli scrittori arabi ci dànno, dal IX al XIII secolo, sulla regolarissima pianta della città, che, in pieno contrasto con la quasi totale assenza d'un sistematico piano stradale nelle città medievali d'Oriente, ci viene descritta come formata da otto grandi vie principali intersecantisi ad angoli retti con otto altre, sì da rendere l'immagine di una scacchiera.
Soprattutto il sultano Baibars, il quale la visitò più volte, vi fece compiere metodici lavori alle mura, alle porte, ad alcuni edifici e nel canale, tanto da attenuare il nostro pur necessario e giustificato scetticismo di fronte ai poetici e iperbolici colori con i quali Abū'l-Fidā' ed Ibn Baṭṭūṭah ne decantano la bellezza e lo splendore. Certo è che nei Consigli di governo, scritti nel 1280 dal sultano Qalāwūn per il figlio ed erede, Alessandria ha una parte notevole e la sua importanza vi è posta in rilievo. Ma un gravissimo colpo, come rileviamo tra l'altro dai lamenti d'un musulmano, testimonio oculare delle rovine su cui piange in uno scritto pervenutoci, fu causato alla città ed al suo commercio dall'effimera conquista fattane nel 1365 da Pietro I Lusignano re di Cipro, conquista che provocò poi spiegabili rappresaglie da parte del sultano. Lavori di restauro furono compiuti dal sultano Sha‛bān.
Del resto la rovina degli antichi celebri monumenti (alla quale non furono estranei numerosi e forti terremoti) era già allora quasi completa e definitiva. Nel sec. XV si deve ricordare la trasformazione del Faro compiuta dal sultano Qā'it Bey, il quale vi costruì una moschea ed un forte che tuttora porta il suo nome. È questo il solo edificio dell'Alessandria medievale di cui si possa indicare il luogo sul terreno. Oggi è sparita quasi per intero persino la cinta delle mura, assai solide e belle, costantemente celebrate, e che s'era conservata fino al sec. XIX, cinta risalente all'età bizantina, ma spesso riattata e ricostruita dai musulmani. In tale cinta si notavano alcune porte monumentali: la Porta di Rosetta a oriente; la Porta della Marina che s'apriva sull'antico grande porto allora abbandonato (Porto E. attuale), la Porta del Loto (Bāb as-Sidrah) o della Colonna, detta anche comunemente Porta del Pepe, perché le spezie scaricate sulla sponda del canale erano introdotte per questa porta; la Porta delle Catacombe a occidente.
Una notevole ripresa commerciale si ha verso la fine del sec. XIV per opera specialmente dei Genovesi e dei Veneziani, ripresa che s'andò accentuando lungo il sec. XV, tanto che nel 1483 Felice Fabri poté ammirare le ricchezze accumulate nei loro fondachi. Ma erano gli ultimi bagliori, poiché il tramonto era prossimo.
Principali cause del definitivo decadimento furono la scoperta del Capo di Buona Speranza, cioè d'una nuova e più diretta via verso le Indie, la scoperta dell'America, la conquista dell'Egitto da parte dei Turchi Osmanli (1517). Pochi mesi dopo questo avvenimento, nell'agosto, Nicolò Bragadin, console veneto in Alessandria, avvertiva che il sultano turco Selīm I aveva cominciato le deportazioni in massa di nobili famiglie egiziane, il massacro dei circassi e la distruzione degli edifici. Egli si riferiva particolarmente al Cairo, ma si può imaginare quale più facile preda fossero gli edifici e le rovine superstiti della grande città sul mare. Lamenti anche più gravi fece nel 1518 Beneto Bernardo; e nel 1527 Bernardo Justinian concludeva: "Qui de mercadantia non si fa nulla". Non fa meraviglia che Napoleone il 2 luglio 1798 conquistasse, entro una bella e vasta cinta di forti mura, un povero villaggio di non più di 6000 abitanti, vegetante da lungo tempo sulla lingua di terra formatasi sopra e attorno l'antico Eptastadio. Ma il fatto stesso che Napoleone, per annientare il commercio inglese nel Mediterraneo, pensò d'impossessarsi anzi tutto di Alessandria, dimostra che la posizione geografica di questo magnifico porto conservava ancora in potenza i suoi grandi vantaggi. E l'uomo che seppe metterli di nuovo in atto non tardò a sorgere il grande Moḥammed ‛Alī, giunto dalla nativa Cávala, come semplice capitano, in Egitto dove divenne il fondatore dell'attuale dinastia (1805), è anche il padre della moderna risorta Alessandria. Nel 1819 egli fece ripulire, riattare e prolungare il canale che collega la città col Nilo, fornendo con l'indispensabile acqua potabile una facile via di comunicazione coll'interno. Ben presto poi fece intraprendere lavori per migliorare l'accesso ed il soggiorno delle navi nel porto occidentale o Porto vecchio (l'antico Eunostos), dove fin dalla conquista araba s'era andato accentrando il movimento marittimo. Tra il 1819 ed il 1849 (morte di Moḥammed ‛Alī) il commercio si sviluppò in modo mirabile. In poco più di mezzo secolo la popolazione salì da 6 a 100 mila abitanti (1854). Dodici anni dopo si nota un aumento anche più sbalorditivo (250.000), ma i calcoli di quegli anni, come quelli anteriori del 1821 e del 1846 fatti ufficialmente eseguire da Moḥammed ‛Alī, sono inesatti e debbono essere considerati come approssimativi. Il primo censimento eseguito il 3 maggio 1882 attesta la cifra di 231.396 abitanti, dei quali 49.000 stranieri.
Approvato nel 1869, dopo molti studî, un progetto di nuovi grandiosi lavori nel porto, per 75 milioni di franchi, frangi-onde, molo di protezione, banchine a grande profondità, vi si pose mano nel 1870 ed i lavori stessi furono collaudati nel 1880. Contrariamente alle previsioni dei pessimisti, il taglio dell'istmo di Suez (1869) non ha affatto determinato un arresto nel fiorire della risorta città, la quale in brevissimo tempo si riebbe dei danni causati dalla rivolta di ‛Arābī pascià, dal bombardamento inglese e dall'incendio di cui furono allora vittime interi quartieri (1882).
Il bombardamento. - L'intervento militare dell'Inghilterra in Egitto fu determinato dall'insurrezione xenofoba e dal massacro di un centinaio di Europei risiedenti ad Alessandria, il giorno 11 giugno del 1882. L'Inghilterra, che da lungo tempo tendeva al dominio del canale di Suez, per cui passava ormai la maggior parte del suo commercio con l'India, colse quest'occasione per compiere un atto di forza. Già fin dal maggio di quell'anno, allorché l'eccitazione della folla sobillata da ‛Arābī pascià era apparsa minacciosa, una squadra navale, agli ordini dell'ammiraglio Seymour, era stata mandata da Malta nelle acque dell'Egitto. Per accordo intervenuto con la Francia un'altra squadra era partita da Tolone, agli ordini dell'ammiraglio Conrad; ma tra i due governi non esisteva un pieno accordo. Il ministero francese, presieduto dal Freycinet, voleva ricorrere ad una conferenza internazionale; il ministero inglese Granville, pur accogliendo l'idea della conferenza, che si radunò ai primi di luglio a Costantinopoli, ordinava senz'altro all'ammiraglio Seymour di porre un ultimatum ad ‛Arābī pascià, rimasto padrone di Alessandria: o consegna dei forti, o bombardamento. Ed avendo ‛Arābī opposto un reciso rifiuto, senz'altro la squadra inglese entrò in azione. La squadra francese, non avendo ricevuto ordini in proposito, restò inattiva.
La squadra era composta di due corazzate a torre, l'Inflexibile, ammiraglia di Seymour, e il Monarch, di altre corazzate, quali il Temeraire, l'Alexandra, più un certo numero di incrociatori e di navi minori, cannoniere, avvisi; in complesso 13 navi, 105 cannoni, di cui 14 di grosso calibro; contro i cinque forti di Rās et-Tīn, Pharos, Ada, Meks e Marabūṭ, armati di circa 250 bocche da fuoco, ma tutte di portata e di calibro inferiore alle grosse artiglierie inglesi, e incapaci di f0rare la corazzatura delle grosse navi.
Alla sera del 10 luglio la squadra inglese prese le posizioni assegnate dall'ammiraglio: le due navi a torri con l'incrociatore Penelope attaccarono dall'interno del porto, le altre si diressero contro l'opera più f0rmidabile, cioè il forte Rās et-Tīn, Ada e Pharos: e tutte la notte restarono ancorate a distanza dalle opere nemiche. Alle 7 del mattino del giorno 11 l'ammiraglio aprì il fuoco a cui risposero le batterie egiziane, prendendo di mira specialmente le navi minori e più vulnerabili, benché anche la nave ammiraglia fosse più volte colpita. Frattanto erano entrate in azione anche le cannoniere Cygnet e Condor contro il Marabūṭ e le fortificazioni del porto, avvicinandosi ad esse a tiro corto. Ad un certo momento, avendo alcuni forti cessato il fuoco, l'ammiraglio inviò un picchetto di volenterosi ad inchiodare i loro pezzi ed a farli scoppiare con fulmicotone, il che fu fatto con grande rapidità nonostante l'enorme rischio e le difficoltà di traversare a nuoto un largo tratto di mare agitato. Alle cinque pomeridiane il fuoco cessò intieramente; tutti i forti meno il Marabūṭ erano smantellati; ma anche in città i danni non furono lievi. Le perdite degli Inglesi furono relativamente scarse: 5 morti e una trentina di feriti: gravissime quelle degli Egiziani. ‛Arābi pascià escì di città con le sue forze; ma il popolo inferocito saccheggiò le case degli Europei e commise grandi violenze.
Il mare agitatissimo impedì all'ammiraglio Seymour di continuare le operazioni e di compiere lo sbarco che aveva già predisposto. Solo tre giorni più tardi le compagnie da sbarco presero possesso della città e ristabilirono l'ordine. Più tardi (agosto) sbarcarono gl'Inglesi anche a el-Isma‛īliyyah ed occuparono il canale fino a Porto Said; atto importantissimo, che mise l'Egitto a disposizione dell'Inghilterra.
La città moderna.
La popolazione di Alessandria si è rapidamente accresciuta, anzi si è quasi triplicata in meno di mezzo secolo, giungendo nel 1927 a 570.314 ab., dei quali circa 100.000 stranieri di varie nazionalità, così distribuiti: Greci 37.106; Italiani 24.280; Inglesi 14.394; Francesi 9429; Siriani 1778, ed alcune centinaia per ciascuna di sedici altre nazionalità. Delle varie lingue le più comunemente usate sono la greca, l'italiana e la francese. La maggioranza della popolazione indigena parla arabo ed è musulmana; molte altre religioni sono però rappresentate. Sul totale della popolazione le nascite rappresentano il 49,5‰; le morti il 30,2‰. Calcolando separatamente indigeni e stranieri, si ha, nei primi: nascite 48,7‰, morti 29,9‰; nei secondi: nascite 15,7‰, morti 8,8‰.
La città ed il territorio costituiscono un Governatorato: Alessandria è la residenza estiva del sovrano, del governo, della residenza britannica e delle legazioni straniere, che pure vi si trasferiscono. Vi hanno sede anche le direzioni generali delle Poste, delle Dogane, dei Porti e Fari, il Consiglio quarantenario, e la Corte d'appello mista. Fin dal 1890 vi fu istituito un Municipio. Il Consiglio municipale, presieduto di diritto dal governatore e posto sotto il controllo del Ministero dell'interno, è formato di 28 membri, dei quali sei ex officio, otto nominati dal governo, e i rimanenti quattordici eletti da varî gruppi di cittadini (Collegio generale, composto dagl'inquilini che pagano non meno di 75 L. eg. di fitto annuo; Collegio dei proprietarî; degli importatori; degli esportatori). In ogni collegio non possono essere eletti più di tre membri per ciascuna nazionalità.
Illuminata a luce elettrica, provvista di acqua potabile e di fognatura razionale, la moderna Alessandria, costruita sulla lingua di terra fra il Mediterraneo ed il lago Maryūṭ, è costretta a svilupparsi in un senso solo, lungo la costa, ma specialmente ad oriente verso Abukir (Abū Qīr, l'antica Canopo). Essa occupa ora non solo l'Eptastadio, cioè quell'istmo artificiale, lungo appunto sette stadî (1200 m. circa) e successivamente allargatosi molto per l'accumularsi delle macerie e dei rinterri, che congiunge l'antica isola di Faro (Rās et-Tīn) con il continente, ma anche una vasta area di questo, specialmente al margine dei due golfi semicircolari che l'istmo stesso separa, estendendosi anzi coi quartieri periferici fino al lago Maryūṭ. Essa non ha, si può dire, campagna, e tutta la popolazione vive accentrata. Il territorio comprende una superficie di kmq. 75,1; il che dà una densità di 7722 ab. per kmq. Il prosciugamento testé avvenuto del piccolo lago di Hadra (el-Ḥaḍrah) determinerà la costruzione di un modernissimo quartiere di cui è già stato approvato (agosto 1928) il piano regolatore. Fino a quest'epoca si contavano 43.094 case, con 77.500 appartamenti; ma l'attività edilizia è molto notevole. D'altra parte sono allo studio alcuni inevitabili, salutari sventramenti e la conseguente costruzione di moderne case popolari.
Nel golfo occidentale sbocca il canale navigabile, detto el-Mahmūdiyyah (lungh. 78 km.), riattivato da Moḥammed ‛Alī nel 1819, per addurre alla città le acque dolci del Nilo, dal quale si distacca ad Atfé presso Fuah (Fuwwah).
Del nucleo urbano più antico - ossia della città greco-romana nel cui centro sorgeva la collina artificiale messa a parco, il Paneum (dove ora è il forte di Kōm ed-Dīk) - rimangono le tracce approssimative in quel reticolato di strade ortogonali tra loro e orientate NNO-SSE., che formano gli odierni quartieri di el-‛Aṭṭārīn, Bāb es-Sidrah e Kōm ed-Dīk, al cui angolo di levante si trova la stazione centrale delle ferrovie che menano al Cairo e all'Alto Egitto, a Rosetta e verso la Marmarica. In questa parte sorgono il governatorato, le scuole italiane, il teatro Zizinia, la borsa, i consolati, il municipio e il museo, ricco d'interessanti antichità egizie, greche e romane, fondato dall'italiano G. Botti nel 1895. All'estremità meridionale del quartiere, oltrepassato il cimitero musulmano di Bāb es-Sidrah, si vedono tuttora alcuni importanti resti archeologici dell'antico Serapeum: la colonna granitica detta di Pompeo, alta 22 m., che in realtà pare fosse eretta in onore di Diocleziano, sfingi esumate nel 1906, e più oltre la necropoli egiziana di Kōm esh-Shuqāfah scavata nella roccia, ricca di statue, colonne, pitture del sec. II d. Cristo.
Tra le principali arterie di questa parte più antica della città sono la rue de Rosette (l'antica via canopica) che conduce a Ramleh e la sua parallela rue Sultan Hussein, sulla quale si trovano la piazza Said, con una colonna di granito roseo proveniente da recenti scavi, e i giardini pubblici, con la statua di Nūbār pascià.
A N. e a NO. di questi quartieri è il cuore della città attuale, che fa capo alla vasta piazza Moḥammed ‛Alī, arborata, cinta di edifici per la maggior parte in stile italiano e adorna al centro di una bella statua equestre del viceré, modellata dal Jaquemart. È questo il quartiere delle banche e degli affari, che si addensano specialmente nella via Sherīf Pascià, elegante e fiancheggiata da bei magazzini, e nelle vie adiacenti. Ancora dalla piazza Moḥammed ‛Alī, cui fanno capo le linee tranviarie cittadine, si distacca la via Saba‛ Banāt, che con la sua prosecuzione - via Ibrāhīm el-Awwal - attraversa il quartiere indigeno occidentale di el-Labbān e mena alla Mīnet el-Baṣal, centro del commercio cotoniero; indi, varcato sul ponte Ibrāhīm il canale el-Maḥmūdiyyeh, volge al sobborgo industriale di Gabbari (el-Qabbārī). El-Manshiyah, el-Labbān e Mīnet el-Baṣal sono quartieri di origine medievale araba, ed hanno le loro strade orientate a 45° su quelle del reticolato precedente, probabilmente in rapporto con lo spostamento dei traffici dal porto orientale a quello occidentale. Infatti, data la loro posizione al collo dell'istmo, esse corrono parallele o perpendicolari ai margini dei due golfi: da un lato la banchina del porto occidentale, alla quale si dirige la via Bāb el-Karāstah (una traversa della via Ibrāhīm), dall'altro la grandiosa passeggiata a mare Regina Nāzleh (costruita tra il 1901 e il 1907), che contorna a semicerchio il porto orientale, svolgendosi dal forte Silsileh al forte Qā'it Bey su un percorso di 4 km. A questa si accede ancora dalla piazza Moḥammed ‛Alī per le vie Champollion e Kinīset Scotland e quivi sorge il Consolato italiano.
A NE. di el-Manshiyah è l'istmo, e più avanti l'isola di Rās et-Tīn, occupati l'uno e l'altra quasi per intero dal quartiere arabo e levantino detto el-Midàn (el-Meidān) e dal quartiere turco di Rās et-Tīn. Solo l'estremità occidentale di quest'ultimo ha alcuni importanti edifici: il palazzo reale, costruito da Moḥammed ‛Alī e rimodernato e abbellito dall'attuale re Fuād I, la stazione radiotelegrafica, un ospedale, il faro. I quartieri arabi ora ricordati comprendono i bazar indigenî e le principali moschee, tra cui quella assai antica e venerata di Sīdī Abū 'l-‛Abbās el-Mursī, ricostruita nel 1767, e formano un dedalo di stradette irregolari, nelle quali tuttavia - e soprattutto nelle due principali: via el-Meidān e via Fransā - è possibile riconoscere un orientamento diverso dai due precedenti e determinato dall'orientamento dell'istmo, che è un orientamento NO-SE.
Verso la sponda del lago Maryūṭ si estendono i quartieri periferici moderni di Karmūz e Muḥarram Bey, ridenti di case signorili e di fiorenti giardini, che si affacciano sulla destra del canale, e quellò di Gheith el-‛Inab posto tra il canale e il lago.
Nei dintorni di Alessandria sono specialmente notevoli il Meks ed er-Ramleh. Il Meks è posto a SO. della città, cui lo collega una linea tranviaria a trazione elettrica: è una spiaggia molto frequentata nella stagione dei bagni, con un casino, ristoranti, caffè ecc. Er-Ramleh a NE. di Alessandria, ne dista circa 10 km. e sorge a un dipresso sul luogo della romana Nicopolis: è però una cittadina moderna, costituita da alberghi di lusso e ville circondate di giardini. Al pari di Abukir (Abū Qīr) (v.), che si trova più oltre nella stessa direzione, è soggiorno preferito dei ricchi egiziani durante l'estate e anche d'inverno. Oltre che dalla ferrovia di Rosetta, è servito da un tram elettrico, che attraversa una zona assai interessante, soprattutto dal punto di vista storico ed archeologico.
Le industrie più importanti in Alessandria sono quelle della tessitura, delle concerie, delle fabbriche di sapone, di cemento, della pressatura del cotone ecc. Distillerie e fabbriche di sigarette (che adoperavano tabacchi importati e producevano largamente anche per esportazione) sono in decadenza.
Il porto. - Fin dalla fondazione della città la vera importanza di Alessandria risiede nel suo porto. Questo occupa oggi per i suoi traffici il terzo posto nel Mediterraneo, dopo Genova e Marsiglia, e si avvia a divenire uno dei primi del mondo. La sua posizione a contatto di tre continenti, allo sbocco di una vallata estremamente fertile e produttiva, ricca e intensamente abitata come è quella del Nilo, alla testa di un sistema di comunicazioni estesissimo, se anche non molto ramificato, e destinato a congiungere con la ferrovia Capo-Cairo i due estremi del continente africano, rendono ragione della sua presente floridezza e sono sicura garanzia per il suo avvenire.
L'istmo dell'Eptastadio crea, come si è accennato, due golfi volti in direzioni opposte. L'orientale è il Porto grande degli antichi: limitato dal forte di Qā'it Bey e dalla punta di Silsileh, è aperto in realtà verso N., ed esposto quindi ai venti settentrionali, che non sono né infrequenti né lievi in certe stagioni. Per ciò, e per la scarsezza dei fondali, questo porto venne abbandonato fin da tempi assai remoti e non è oggi frequentato se non da imbarcazioni e da navi di piccolo pescaggio. Anziché da una vera banchina, esso è orlato dalla passeggiata a mare, di cui già si è fatto cenno: sono tuttavia in progetto alcuni lamri per restringerne la bocca mediante la costruzione di due frangiflutti, uno dei quali, terminato da un faro, è già costruito, e si spinge per 600 m. oltre la punta di Qā'it Bey.
ll golfo occidentale - l'antico Eunostos - divenuto dopo la conquista araba il principale dei due porti, è, come specchio d'acqua, uno dei più vasti del mondo, misurando ben 750 ettari (quasi quattro volte quello di Genova). La profondità media è di 11 m. Aperto a sud - direzione donde spirano venti insignificanti come frequenza e intensità - è immune da insabbiamenti, risultando trascurabile anche l'apporto del canale el-Maḥmūdiyyah che vi mette foce. La marea vi è assai debole, né vi si osservano correnti, all'influori di quelle di deriva. Coi venti di SE. è soggetto, per la sua grande ampiezza, al riformarsi di ondulazioni non pericolose, che potranno essere eliminate con ulteriori opere.
Il porto è delimitato a SE. e ad E. dalla costa, con numerose banchine adibite a speciali servizî e in genere alle mercanzie; a NE., valicato il fascio delle linee ferroviarie e il canale, si trova la banchina principale coi magazzini generali e gli edifici della dogana; a N. il porto è chiuso dall'istmo, in corrispondenza del quale sono l'arsenale e il bacino di carenaggio; a NO. è l'isola di Rās et-Tīn col palazzo reale e, alla sua estremità, la grandiosa torre cilindrica del faro, alta 55 m., della portata di 20 miglia, eretta tra il 1842 e il 1848 per ordine di Moḥammed ‛Alī. Dal faro si diparte il grande frangiflutti esterno, costruito nel 1871-73 e prolungato nel 1906-07 fino a una lunghezza di 3500 m., il quale copre il porto da NO. e O. Un frangiflutti minore (635 m.), segnalato al pari dell'altro da fari-guida, riduce la bocca del porto stesso a circa 400 m.; e questa è alla sua volta divisa in due passi, di cui quello occidentale - il "passo grande" - è stato dragato fino alla profondità di m. 10.67 su una larghezza di 183 m.; mentre il "passo di Boghāz" supera di poco i 9 m. di profondità e i 90 m. di larghezza.
Nel porto, dopo i lavori collaudati nel 1880, ne furono compiuti altri fino al 1890, e nuovi ampliamenti tra il 1900 e il 1917. Altri miglioramenti, per un importo complessivo di circa cento milioni, sono allo studio. Tra il 1901 ed il 1907 il municipio ha compiuto lavori d'interramento, e la costruzione di una banchina lunga 4 km. attorno al porto orientale, guadagnando circa 500.000 mq. di aree fabbricabili. Il porto è diviso internamente da un molo in porto interno e porto esterno, usufruisce di oltre 78 ettari di terrapieni, esclusi i depositi di carbone, ed ha uno sviluppo di banchine di oltre 12 km., dei quali 7300 accostabili da grandi piroscafi (prof. 7-9 m.); può ospitare in rada oltre 250 piroscafi, di cui 82 possono fare operazioni contemporaneamente, in altrettanti approdi ed ancoraggi. Esistono serbatoi di petrolio della capacità di 78.300 tonn. Le strade ferrate portuarie, le cui linee hanno uno sviluppo di 20 km. su banchina, convergono tutte alla sinistra del canale, alla stazione di Gabbari; ma esistono anche stazioni secondarie.
Alessandria è praticamente l'unico porto per i commerci proprî dell'Egitto ed ha importanza prevalente anche per i commerci di transito; nel 1925 l'82%, delle importazioni e il 98% delle esportazioni spettarono ad Alessandria, ché il resto andò diviso tra Porto Said e Suez; mentre anche delle riesportazioni spettò ad Alessandria il 68%: le cifre relative ai traffici dell'Egitto valgono dunque anche per il suo porto.
Sempre nel 1925 fornirono specialmente materia d'importazione filati e tessuti (per 18 milioni di lire egiziane), prodotti chimici e medicinali (14 milioni L. eg.), metalli e oggetti di metallo (9 mil. L. eg.), cereali e prodotti agricoli (7 mil. L. eg.); si esportò principalmente cotone e suoi derivati (52 mil. L. eg.), cereali e prodotti agricoli (quasi 5 mil. L. eg.). In totale furono 58 milioni di lire egiziane all'importazione e 59 milioni all'esportazione, con un sensibile equilibrio della bilancia commerciale; a differenza degli anni precedenti, nei quali il valore delle merci esportate superava notevolmente quello delle merci importate.
Complessivamente i traffici crebbero nel quadriennio 1922-25 da 82 milioni a 105 milioni di L. eg., e si calcola che debbano stabilizzarsi intorno a questa cifra.
Il mercato più importante è il mercato inglese, il quale assorbì nel 1925 il 44% delle merci esportate e fornì il 25% di quelle importate in Egitto. Considerando le cifre globali, vengono successivamente la Francia, gli Stati Uniti e l'Italia; però, ove si computino separatamente importazioni ed esportazioni, per le prime l'Italia passa al secondo posto, seguita immediatamente dalla Francia; e per le seconde essa occupa il quarto posto, seguita subito dalla Germania.
Il movimento dei passeggeri ha risentito molto della guerra e del dopo-guerra: nel 1913 si registrarono 92.000 arrivi e 84.000 partenze. Dopo la crisi, le cifre tornano gradatamente ad aumentare; nel 1923 gli arrivi furono 46.500 e le partenze 44.600.
Bibl.: Ev. Breccia, Alexandrea ad Aegyptum, Bergamo 1922 (ivi l'essenziale bibliografia anteriore); id., Etiam periere ruinae?, in Raccolta di scritti in onore di G. Lumbroso, pp. 1-11; la traduzione francese con aggiunte, in Bulletin de la Société Archéologique d'Alexandrie, n. 23; Ed. Bevan, A History of Egypt under the ptolemaic Dynasty, Londra 1927; J. G. Milne, A History of Egypt under Roman Rule, 3ª ed., Londra 1924; W. Schubart, Aegypten von Alexander dem Grossen bis auf Mohammed, Berlino 1922; P. Jouguet, L'Impérialisme macédonien et l'Hellénisation de l'Orient, Parigi 1926, pp. 324-26, 398-402 e passim; B. H. van Groningen, Cleomenes Naucratita: à propos de la fondation d'Alexandrie, in Raccolta di scritti in onore di G. Lumbroso, pp. 200-211; V. Ehrenberg, Alexander und Aegypten (1926); H. J. Bell, Jews and Christians in Egypt, Londra 1924; id., Juden und Griechen in römischen A., in Beihefte di Das alte Orient; Alexandria, in Journal o Egypt. Archaeol., 1927, p. 171 segg. Sulla cultura: W. Schmid, in W. von Christ, Geschichte der griech. Literatur, Monaco B. 1920, II, i; Matter, Essai historique sur l'école d'Alexandrie, Parigi 1820.
Per l'arte: Ch. Picard, La Sculpture antique de Phidias à l'ère byzantine, Parigi 1926 e bibl., ivi, pp. 308-310; W. Klein, Vom antiken Rokoko, Vienna 1921; A. W. Lawrence, Greek Sculpture in Tolemaic Egypt, in Journ. of Egyuptian Archaeolog., XI (1925), pp. 179-190 e bibl. ivi p. 179, nota 1. Vedi inoltre, per l'architettura: W. Delbrück, Hellenistische Bauten in Latium, Strasburgo 1912, II; K. Ronczewski, Description des chapitaux corynthiens et variés du Musée Gréco-Rom. d'Alexandrie (Égypte), in Bull. de la Soc. Archéol. d'Alexandrie, suppl. del fascicolo XXII (1927). In particolare, per la scultura: A. W. Lawrence, Later Greek Sculpture and its influence on East and West, Londra 1927; C. Watzinger, Die griechisch-aegyptische Sammlung Ernst von Sieglin, I, Malerei u. Plastik, Lipsia 1927; II; A. Levi, Un ritratto di Arsinoe III, in Boll. d'arte, VI (1926), pp. 548-555; G. Krahmer, Stilphasen d. hellenistischen Plastik, in Röm. Mitteil., XXXVIII (1923-24), pp. 138-184; C. Anti, La Venere "maliziosa" di Cirene, in Dedalo, VI, pp. 683-701 (influenza dell'Asia minore a Cirene); A. Ippel, Der Bronzefund von Galyûb, Berlino 1922; Ch. Picard, Tête fémiine du Musée d'Alexandrie, in Mon. Piot, XXVIII, Parigi 1927; G. Méautis, Bronzes antiques du canton de Neuchâtel, Neuchâtel 1928. Per la pittura ed il mosaico: G. E. Rizzo, La battaglia di Alessandro nell'arte italica e rom., in Boll. d'arte, 1925-26, pp. 529-546. Per le terrecotte: P. Perdrizet, Les terres cuites grecques d'Égypte de la collection Fouquet, Nancy 1921; J. Vogt, Die griechisch-aegyptische Sammlung E. Von Sieglin, II, Terrakotten, Lipsia 1924. Per soggetti di genere: A. Maiuri, La raffigurazione del Placentarius in quattro bronzetti pompeiani, in Bollettino d'arte, V (1925-1926), p. 268 segg. Per le raffigurazioni di soggetto egiziano a Pompei: A. Maiuri, in Notizie degli scavi, 1927, p. 53 seg., passim. Per rapporti fra arte alessandrina e arte romana: G. Bendinelli, Influssi dell'Egitto ellenistico nell'arte romana, in Bulletin de la Société Archéol. d'Alex, XXIV. Il Bull. de la Soc. archéol. d'Alexandrie pubblica regolarmente una bibliografia alessandrina e un "Notiziario".
Su Alessandria cristiana: L. Duchesne, Histoire ancienne de l'Église, I, Parigi 1906 (traduz. ital., 3ª ed., Milano); A. v. Harnack, Die Mission und Ausbreitung des Christentums, 2ª ed., Lipsia 1924; H. Lietzmann, Messe und Herrenmahl, eine Studie zur Geschichte der Liturgie, Bonn 1926; Inge, Alexandrian Theology in Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics, Edimburgo 1908, I, pp. 308-319; H. Leclercq e F. Cabrol, in Dictionnaire d'archéol. chrét. et de liturgie, I, i, s. v.; J. Pargoire, L. Saltet, A. de la Barée, in Dict. de théol. cathol., I, i, s. v.
Su Alessandria musulmana: E. J. Butler, The Arab conquest of Egypt, Oxford 1902, p. 368 segg. (preziosa descrizione d'A. al momento della conquista musulmana e nel periodo posteriore); E. Combe, Alexandrie au Moyen-âge. Le sac de la ville par Pierre I de Lusignan. Le Phare et le Fort Kait Bey (Conférences), Alessandria 1928; id., Alexandrie musulmane. Notes de topographie et d'histoire de la ville depuis la conquête arabe jusqu'à nos jours; il primo articolo è apparso nel Bullettin de la Société Royale de géographie, XV, 4° fasc., 1928, pp. pp. 201-238; P. Kahle, Zur Geschichte der mittelalterlichen Alexandria, in Der Islam, XII (1922), pp. 29-83; G. Jondet, Atlas historique de la ville et des ports d'Alexandrie, in Mémoires Soc. Roy. de géog. du Caire, II (1921); H. Thuile, Commentaires sur l'Atlas historique d'Alexandrie, pubblicazione speciale della Société Royale de géographie du Caire, in-8, Cairo 1922; A. Breccia, Il porto di Alessandria d'Egitto. Studio di geografia commerciale, in Mém. Soc. Roy. de géographie d'Égypte, XIV (1927); H. Lorin, L'Égypte d'aujourd'hui. Le pays et les hommes, Cairo 1926. Per il bombardamento del 1882: Laird Clowes, Royal Navy, V; Wilson, Battleships in action, Londra 1927, I, c. 5; Vecchi, Storia gen. della marina militare, III; Rivista marittima, settembre 1882.