ALIMENTAZIONE
. Si dicono alimenti quelle sostanze che introdotte nell'organismo servono a sopperire al suo dispendio in forza viva, a fornirgli i materiali di riparazione e di accrescimento, se questo si verifica, e a fornirgli infine alcune sostanze (vitamine) indispensabili al normale svolgimento di funzioni fondamentali per la vita dell'individuo e della specie.
Gli alimenti, meno l'ossigeno che viene introdotto per le vie respiratorie (v. respirazione), vengono introdotti per la bocca nel tubo digerente, dove subiscono importanti modificazioni chimiche e chimico-fisiche (v. digestione) che li rendono capaci di essere assorbiti, di penetrare cioè veramente nell'organismo. Secondo la loro costituzione chimica, gli alimenti si dividono in inorganici ed organici. Gli alimenti inorganici sono l'ossigeno, che ha lo scopo di permettere agli alimenti organici di bruciare, l'acqua e i sali minerali che servono a riparare alle perdite, che l'organismo continuamente subisce, di queste sostanze. Gli alimenti organici, oltre che a riparare le perdite dell'organismo, servono anche a fornirgli l'energia necessaria per la produzione di calore e di forza viva: essi sono infatti sostanze combustibili, che combinandosi con l'ossigeno (ossidandosi), liberano l'energia in essi accumulata sotto forma di energia chimica. Gli alimenti organici si dividono a loro volta in grassi, idrati di carbonio (zuccheri e sostanze amidacee) e proteine (v.).
Una categoria speciale è formata dalle vitamine (v.).
Meno l'ossigeno, l'acqua e il cloruro sodico (sale di cucina), noi non introduciamo quasi mai gli alimenti sopra elencati, bensì tessuti animali (carne, uova, latte, ecc.) e vegetali (cereali, legumi, frutta, ecc.) che contengono in varia proporzione tutti gli alimenti semplici sopra detti, e che pertanto sono degli alimenti composti.
Lo studio dell'alimentazione rappresenta uno dei soggetti più importanti della biologia, nel mondo vegetale e animale, per tutti gli aspetti, sociale, economico, fisiologico, fisiopatologico, sotto i quali il problema può essere considerato.
Fisiologia dell'alimentazione.
Gli antichi conobbero assai poco intorno a questo argomento. Ippocrate di Cos (460-380 a. C.) parla di una perdita per perspirazione cutanea insieme con una perdita di calore che deve essere riparata dagli alimenti. Aristotele (384-322 a. C.) pensa che essi subiscano una cozione nello stomaco, siano ulteriormente elaborati negli intestini, siano assorbiti dal mesenterio e che le urine e gli escrementi rappresentino le parti non utilizzabili degli alimenti consumati. Galeno (131-210 a. C.) sembra non considerarne che l'importanza plastica e crede all'esistenza di una sostanza nutritiva unica, presente in tutto il corpo, che gli animali e l'uomo utilizzano per il loro nutrimento. Né maggior luce portano all'argomento gli alchimisti del Medioevo. Più tardi Paracelso (1493-1541) sembra aver intuito l'analogia tra i fenomeni chimici che già conosceva e quelli che presentano gli esseri viventi: secondo le sue teorie, l'archeo, che risiede nello stomaco, separa gli alimenti in due categorie: la parte che viene assimilata, o essenza, e quella che viene eliminata con le urine e gli escrementi: il cattivo alimento. Un secolo più tardi Van Helmont (1577-1644) dimostra la presenza, nello stomaco, di un succo acido importante per la digestione, osserva che questa continua nell'intestino dove ha molta importanza la bile; studia il funzionamento del piloro; alle azioni meccaniche aggiunge i fattori chimici in forma di succhi e fermenti. Nicolas Lémery (1645-1715), considerando la costituzione delle sostanze impiegate nell'alimentazione, le distribuisce in tre gruppi: minerali, vegetali, animali; Stahl (1660-1734) fa osservare che in quelle animali domina il principio terroso, e nelle altre, proprie degli esseri viventi, il principio acquoso e combustibile; Réaumur (1683-1757) mette in evidenza nello stomaco degli uccelli la parte meccanica e quella chimica della digestione; Spallanzani (1729-99) dimostra in modo decisivo che la digestione nello stomaco avviene per dissoluzione nel succo gastrico e non per triturazione meccanica.
Lavoisier (1743-94) stabilisce, nel 1777, che l'acido carbonico è formato di carbonio e ossigeno; Cavendish, nel 1783, che l'acqua è formata di idrogeno e ossigeno; Fourcroy (1775-1809) dimostra la presenza dell'azoto nel corpo degli animali. Si stabiliscono così le basi della dottrina moderna dell'alimentazione: tutte le sostanze animali e vegetali sono formate essenzialmente da quattro corpi semplici: il carbonio, l'ossigeno, l'idrogeno e l'azoto; dalla combustione del carbonio con l'idrogeno si svolge acido carbonico e acqua; la respirazione è una combustione lenta di carbonio e di idrogeno per fissazione dell'ossigeno dell'aria, inspirata dai polmoni, sul carbonio e l'idrogeno del sangue circolante: questa combustione è la sorgente essenziale del calore animale. Per misurare le quantità di calore, Lavoisier immagina un calorimetro a ghiaccio (v. calorimetria), creando e applicando agli organismi animali la calorimetria, secondo una importantissima memoria sul calore, scritta nel 1780 in collaborazione con il grande matematico Laplace. Nel 1816 Magendie si propone il problema dell'origine nell'organismo dell'azoto, del quale dimostra l'importanza vitale. Nel 1833 Gay-Lussac segnala la presenza dell'azoto in tutti i semi. A questo momento, mentre i fisiologi si preoccupano delle origini dell'azoto animale, e con Magendie si stabiliscono due grandi categorie di alimenti: le sostanze azotate, albuminoidi, o quaternarie, sufficienti, le sostanze non azotate o ternarie, insufficienti da sole a mantenere la vita; i fisici continuano gli studî di Lavoisier sulle combustioni vitali, i chimici indagano la composizione degli alimenti. Dulong nel 1823, Despretz nel 1824, stabiliscono che il calore di combustione per ossidazione del carbonio e dell'idrogeno, calcolato secondo gli scambî respiratorî, non è che l'80% del calore effettivamente sviluppato da un organismo vivo, in un calorimetro ad acqua. D'altra parte i primi tentativi di analisi chimica degli alimenti sono iniziati specialmente dagli agronomi: nel 1809 Thaer studia il cosiddetto equivalente in fieno dei foraggi, unità di misura quanto mai imprecisa e controversa, e Boussingault nel 1836 stabilisce come unità di misura nutritiva dei foraggi semplicemente il loro quantitativo di azoto. Un progresso importantissimo si ha con Dumas e Liebig (1840-42), i quali dimostrano che vi è un gruppo di alimenti, le materie azotate, che s'incorporano ai tessuti, e un altro gruppo, gli zuccheri, i grassi, l'amido, che bruciando nella respirazione producono il calore animale. Dumas e Cahours, nel 1842, dimostrano che anche le sostanze azotate bruciano dando come prodotti terminali urea, acqua e acido carbonico. Nel 1849 Regnault e Reiset con accurate misure respiratorie, tenendo conto della quantità di ossigeno consumato e della quantità di acido carbonico eliminato, stabiliscono il rapporto fra queste due quantità
o, usando i simboli chimici,
Questo rapporto rappresenta il quoziente respiratorio e dipende essenzialmente dalla natura degli alimenti consumati: per uno stesso animale varia da 0.98, se si nutre di pane, a 0,70 se si nutre esclusivamente di carne. Si comincia in tal modo a concepire l'organismo come una macchina animale che utilizza la respirazione per assumere dagli alimenti la forza necessaria alla sua attività e il calore indispensabile alla sua vita. Si prepara così il concetto di energia chimica che si trasforma in calore; concetto che sarà ampiamente sviluppato e chiarito più tardi dopo i lavori di Berthelot sulla termochimica (1864-68).
Nel 1826 Chevreul pubblica le sue interessanti ricerche chimiche sulle sostanze grasse di origine animale: questo problema, dopo quello delle sostanze azotate, appassiona vivamente i ricercatori come Dumas, Boussingault, Payen, Milne Edwards, Duthiers e Riche: dopo molte discussioni, nel 1850 pare solidamente acquisito che i vegetali contengono grasso già formato che viene utilizzato dagli animali e che d'altra parte gli animali possono fabbricare grasso dalle sostanze idrocarbonate e in certa misura anche da quelle azotate. Dal 1843 compaiono gli studî interessantissimi di Claude Bernard sulle sostanze alimentari, sulla loro trasformazione nell'organismo, sull'origine dello zucchero animale. Le ricerche sull'alimentazione hanno ulteriore sviluppo nel campo dell'agronomia e della zootecnia per opera di numerosissimi studiosi, Baudement, Allibert, Grandeau, Sanson, Lawes, Gilbert, Wolff, Henneberg, Stohmann, ecc. Finalmente appaiono le prime nozioni relative ai principî alimentari specificatamente indispensabili: Carl Voit nel 1862 pone in evidenza la nozione dell'equilibrio azotato, Forster nel 1873 e Bunge nel 1874 l'importanza dei sali minerali.
Dal 1880 ai giorni nostri gli studî sull'alimentazione si sono straordinariamente arricchiti e moltiplicati e non è possibile seguire in particolare tutti i ricercatori.
Sorge una scienza nuova: l'energetica alimentare, derivata dall'applicazione ai fenomeni della nutrizione dei due principî fondamentali della conservazione dell'energia, enunciato da Mayer, e della trasformazione dell'energia, enunciato da Carnot: le sostanze alimentari contengono una energia chimica potenziale che dopo i fenomeni di digestione e di assorbimento si trasforma in energia termica o calore.
Gli alimenti, dunque, rispondono a due scopi: da un lato servono alla reintegrazione materiale, sono cioè materiali plastici o di restauro; dall'altro lato sono fornitori di energia, quali principî dinamogeni.
Si è insistito per molto tempo nel differenziare gli animali e le piante secondo il tipo della nutrizione: le piante assumono dal terreno, dall'aria, dall'acqua i corpi più semplici, quali i nitrati, i carbonati, l'azoto, il carbonio, e formano composti più complessi, quali le proteine, l'amido, i grassi; gli animali invece scompongono i materiali alimentari complessi ricavati dalle piante, li ossidano, li riducono in corpi più semplici quali l'acqua, l'ammoniaca, l'anidride carbonica, ecc. Si riassume in tutto questo la cosiddetta teoria dualistica della vita, secondo la quale la pianta e l'animale si completano a vicenda: ciascuno ha, come dice Lambling, una specie di semiesistenza; la prima crea il materiale che il secondo distrugge; la pianta è un apparato di riduzione e di sintesi, l'animale di ossidazione e di scissione: questo dualismo, dal punto di vista energetico, si compendia nel fatto che la pianta trasforma l'energia attuale delle radiazioni solari in energia potenziale, accumulandola come energia chimica nei materiali organici complessi che produce; l'animale invece trasforma quest'energia potenziale in attuale, principalmente in due forme: il calore e il movimento. Ma questo antagonismo non può essere inteso oggi in senso assoluto: anche la pianta disintegra e ossida producendo anidride carbonica; e d'altro lato l'animale è capace di sintesi complesse, quali quella delle proteine, dei pigmenti, del sangue, ecc. Come lucidamente si esprime Lambling, le differenze tra piante e animali si riducono ai rapporti delle due categorie col mezzo esterno: la pianta riceve tutto dal regno minerale, l'animale soltanto alcuni costituenti, mentre i più deve trovarli precostituiti nel mondo organico: piante o altri animali. La pianta verde può utilizzare direttamente, con i suoi granuli di clorofilla (v.), l'energia raggiante del sole; l'animale invece può utilizzare soltanto l'energia chimica racchiusa in corpi organici più o meno complessi.
Ciò premesso consideriamo più da vicino gli alimenti dell'uomo.
Riportiamo dal trattato di biochimica del Rondoni la tavola seguente, con la composizione approssimativa e il valore calorico di alcuni alimenti:
Nello studio del ricambio energetico dell'organismo animale l'unità di calore adoperata è la grande caloria, cioè la quantità di calore capace di elevare di un grado centigrado, da 14° a 15°, la temperatura di 1000 grammi di acqua. Per misurare il calore prodotto dagli animali e dall'uomo ci si vale di calorimetri, quale per esempio quello di Atwater e Benedict; oppure, in via indiretta, si determina la quantità di carbonio e di idrogeno che l'organismo ossida rispettivamente ad anidride carbonica e acqua. Si è calcolato in questo modo che un uomo a riposo produce una quantità di calore corrispondente press'a poco a 2500 grandi calorie nelle 24 ore. A questo numero di calorie corrisponde la quantità minima di energia richiesta per conservare l'attività di quegli organi essenziali alla vita che non riposano mai, come il cuore, i muscoli respiratorî, i muscoli lisci dei vasi, del sistema digerente, le ghiandole, e per mantenere costante la temperatura del corpo. Questo è il valore del cosiddetto metabolismo basale (v. metabolismo). Quando il soggetto compie un lavoro più o meno pesante, la quantità di calore che esso produce aumenta proporzionatamente al lavoro compiuto: si può salire così fino a 7000 calorie e anche più.
Lusk ha calcolato la quantità di calorie in più, o extracalorie, per un'ora di lavoro in alcuni mestieri:
Calcolando il numero di calorie del quale ha bisogno un determinato organismo, in un determinato tempo, per un determinato lavoro, bisogna tener conto dell'aumento del metabolismo dovuto all'azione specifica degli alimenti, che è molto sensibile per le sostanze proteiche. Quando una persona è sottoposta a una dieta con poca carne, l'aumento del metabolismo può essere soltanto del tre o quattro per cento; in condizioni opposte si può invece avere un aumento dal dodici al diciotto per cento. Secondo Mc Lester, per potere tener conto dell'azione dinamica specifica degli alimenti, o costo della digestione, bisogna aumentare del dieci per cento il metabolismo basale.
Oggi è facile con un semplice calcolo matematico stabilire il bisogno alimentare di una persona espresso in calorie. Il metabolismo basale è direttamente proporzionale alla massa protoplasmatica dei nostri tessuti, la quale a sua volta è proporzionale all'area della superficie del corpo.
Du Bois con calcoli matematici ha stabilito la superficie del corpo in funzione dell'altezza e del peso secondo la formula height-weight ("altezza-peso"). Chiamando con A l'area, W il peso in chilogrammi, H l'altezza in centimetri, C una costante = 71,84, si ha:
donde
Con questa formula ha costruito la tavola seguente, nella quale sulle linee orizzontali sono riportati i pesi, sulle verticali le altezze: la linea curva più vicina al punto d'incrocio delle due coordinate dà la misura dell'area della superficie del corpo.
Questi valori si riferiscono solo agli adulti, perché il metabolismo varia secondo l'età, come è rappresentato dal seguente diagramma di Aub e Du Bois.
Benedict e Harris hanno stabilito le formule di correzione per i bambini e gli adolescenti (v. Lester, Nutrition and Diet). Riferendoci per semplicità solo agli adulti, calcoliamo, secondo quanto si è detto, il bisogno di combustibile di un uomo di 40 anni alto 180 cm. del peso di 70 kg. che lavora 8 ore al giorno come calzolaio. Otterremo successivamente i dati seguenti:
Più semplicemente, in pratica, ci si può riferire alle tavole già calcolate per i valori medî che hanno sufficiente esattezza nell'approssimazione. Diamo così per esempio la tabella compilata da Becker e Hämäläinen, riportata da Mc Lester:
Vediamo ora di stabilire la quantità di energia calorifica che le diverse sostanze organiche componenti gli alimenti sono capaci di svolgere per unità di peso.
Berthelot ha ideato il metodo della bomba calorimetrica (v. calore) per misurare il calore di combustione dei corpi organici: la sostanza in quantità nota è fatta bruciare in atmosfera di ossigeno, sotto pressione in un vaso con pareti di acciaio: la quantità di calore che si svolge è data dall'aumento di temperatura dell'acqua del calorimetro nel quale è immersa la bomba. Si è stabilito così che:
Bisogna però subito notare che volendo calcolare il valore calorico di una dieta di composizione nota, bisogna tener conto che il nostro organismo non utilizza tutta l'energia chimica potenziale delle sostanze introdotte: una certa parte di sostanze alimentari va perduta con gli escrementi; di più, mentre i grassi e i carboidrati subiscono una combustione completa fino all'anidride carbonica e all'acqua, le sostanze proteiche si trasformano in prodotti terminali non completamente ossidati, quali l'urea, e che perciò contengono ancora una certa quantità di energia potenziale. Per questo il valore calorico delle proteine corrisponde in media a 4,1 grandi calorie.
Nel computo delle calorie abbiamo parlato solo delle sostanze proteiche, dei grassi e degli idrati di carbonio; perché l'acqua e i sali minerali non sviluppano calore. Essi invece servono come materiali plastici e di restauro e hanno enorme importanza, come dice Rondoni, per il flusso energetico dell'organismo, in quanto collaborano al mantenimento di quello stato fisico del protoplasma che si presta meglio per la utilizzazione dell'energia, come quando, per esempio, determinano l'estensione delle superficie nei sistemi microeterogenei e pertanto la maggiore o minore estrinsecazione delle energie di superficie che hanno tanta parte nei fenomeni vitali, o come quando determinano delle diversità di concentrazione ionica attorno a membrane, e offrono la base ai fenomeni elettrici e forse anche di eccitabilità dei tessuti.
La fisiologia dell'alimentazione è dominata da due leggi: quella della isodinamia secondo la quale una sostanza alimentare vale l'altra e può sostituirla, purché si mantenga uguale l'apporto di calorie; questa legge è limitata dalla seconda, o legge del minimo, secondo la quale bisogna dare un minimo di certi alimenti, perché in caso contrario l'organismo si trova in deficit, qualunque sia il numero delle calorie.
Uno dei problemi a questo riguardo più interessanti e che ha suscitato una lunga serie di ricerche e discussioni è quello delle sostanze proteiche. Ha la massima importanza la qualità della proteina, che è l'espressione del suo valore biologico. Come si sa dalla chimica organica, le sostanze proteiche consistono in catene di amminoacidi (v.) unite da un legame carboamminico, quali la glicina, la alanina, la fenilalanina, la tirosina, il triptofano, ecc.; la qualità e il numero di questi amminoacidi determinano il valore nutritivo. Così, per esempio, a un estremo abbiamo la gelatina, proteina incompleta perché non può fornire i tre amminoacidi triptofano, tirosina, cistina: sembra infatti che l'organismo adoperi il triptofano per fabbricare corpi essenziali per la vita, quali la tiroxina e gli ormoni. Per questo la gelatina, presa come base di alimentazione proteica, anche in grande quantità, ha insufficiente valore nutritivo; ma se questa dieta si completa con l'aggiunta dei tre amminoacidi mancanti, scompare il difetto della nutrizione e si ristabilisce l'equilibrio azotato. All'estremo opposto abbiamo la caseina, proteina del latte, che fornisce in misura abbondante tutti gli amminoacidi necessarî alla vita. Si è fatta così una serie delle proteine secondo il loro valore biologico; quelle del latte hanno altissimo valore nutritivo, quelle della carne alto; secondo le ricerche di Mac Collum, la più ricca di amminoacidi è la sostanza del rene, al secondo posto segue quella del fegato, al terzo quella dei muscoli; di basso valore biologico sono le proteine delle piante come quelle dei cereali: grano, avena, riso, piselli, fave; fra questi ultimi il valore relativamente più alto si trova nel grano.
Questa scarsezza di sostanze proteiche va intesa in questo senso, che i semi contengono quasi tutti gli amminoacidi necessarî, ma in quantità tanto piccola che ne risulta una proteina di basso valore.
È importantissimo però mettere in rilievo che queste proteine possono completarsi reciprocamente sia con quelle vegetali, sia con quelle animali. Queste relazioni supplementari sono state dimostrate assai favorevoli fra i grani e i legumi, specialmente fra il grano e i piselli, come fra quelle della carne e del latte e quelle dei cereali.
Premesse queste considerazioni sulle differenze qualitative delle varie proteine, riassumiamo la questione assai discussa del minimum delle proteine indispensabile alla vita.
Bisogna subito premettere che il concetto del minimum non deve essere in contrasto con quello dell'optimum, nel senso che la quantità somministrata deve corrispondere non a un periodo limitato di razione ridotta, che può essere sopportata per un certo tempo dall'organismo, ma effettivamente all'alimentazione per tutta la vita, nella piena efficienza, come vigoria, accrescimento, attitudine al lavoro dell'organismo. La soluzione del problema è stata tentata con metodi statistici e sperimentali. Per molto tempo si accettarono i valori medî stabiliti con dati statistici da Voit: gr. 118, e da Atwater 120. Poi Chittenden, fisiologo americano, e il medico danese Hindhede hanno indicato le quote proteiche ridotte: gr. 50; Fletcher ha sostenuto che con metodiche riduzioni si arriva ad abituare l'organismo a quantità quotidiane di proteine assai inferiori a quelle prima ritenute necessarie. Questa limitazione fu suggerita, oltre che da ragioni economiche, dalla preoccupazione di risparmiare i reni, il fegato e gli altri organi interessati nel metabolismo proteico, e di evitare autointossicazioni intestinali derivate dai prodotti di scomposizione dei proteici; in realtà, in condizioni normali non si oltrepassa il margine di riserva della capacità funzionale dei singoli organi, e le autointossicazioni sono più di origine batterica che alimentare. Di più, recentemente Mac Collum ha sostenuto che se anche la dieta proteica ridotta sembra sufficiente per un tempo relativamente lungo negli animali da esperimento che hanno una durata di vita assai più breve di quella dell'uomo, ripetendo lo stesso nell'uomo, per un periodo proporzionatamente corrispondente alla durata media della vita umana, si determinerebbero sofferenze evidenti dell'organismo. Friedrich Müller ha imputato alla scarsezza della alimentazione proteica in Germania durante la guerra, la sensibile diminuzione dell'efficienza mentale, dell'attività corporea, della resistenza alle malattie, specialmente alla tubercolosi. Slonaker e Carol hanno dimostrato l'azione dannosa di una dieta proteica ristretta sulla pubertà, sulla maturità, sulla menopausa; Benedict sull'istinto sessuale.
Attualmente si tende ad ammettere un valore di 80-100 grammi di proteine di alto valore biologico.
L'analisi chimica dei tessuti animali dimostra la presenza di ferro, sodio, potassio, magnesio, calcio, fosforo, zolfo, cloro, iodio, fluoro, litio, bario, manganese, silicio. Nell'alimentazione hanno perciò grandissima importanza le sostanze minerali, le quali teoricamente possono essere utilizzate come combinazioni organiche, come sali inorganici, come ioni dissociati: in realtà la questione per ciascun alimento è molto complessa e discussa (v. p. es. ferro). In ogni modo la loro importanza è vitale in quanto essi entrano in larga misura nella costituzione dello scheletro; fanno parte di composti importantissimi, quali le nucleoproteine e i fosfatidi, corpi integranti della struttura cellulare; circolano nei liquidi organici in forma varia, come sali inorganici, come ioni dissociati, in combinazioni organiche; servono a mantenere la tensione osmotica, e hanno importanza nella determinazione dello stato chimico di neutralità: uno dei fatti più importanti della fisiologia è la costanza del contenuto minerale del plasma nelle varie età.
Dell'importanza particolare di ciascuno di essi sarà trattato alle singole voci (v. calcio, ferro, sodio, potassio, ecc.); delle quantità minime indispensabili alla vita, si parla sotto la voce razione alimentare. Qui ci limitiamo a dare nella tavola riportata a capo di questa pagina, le quantità dei minerali più importanti in alcuni alimenti più comuni.
L'alimentazione non è completa se non si aggiungono alla dieta le vitamine: la loro mancanza determina gravi disturbi (v. vitamine, avitaminosi).
Oltre ai precedenti fattori, che possono considerarsi come quelli di fondamentale importanza, si può parlare dei seguenti che hanno importanza secondaria.
a) Cottura dei cibi. - Si è detto che la digestione non comincia in bocca, ma in cucina, perché la cottura rappresenta il principio della idrolisi delle proteine, dei polisaccaridi, la coagulazione delle proteine, la parziale soluzione o emulsione dei grassi; tutte le manipolazioni culinarie contribuiscono per via chimica o meccanica a sciogliere e dirompere gli involucri cellulosici dei cibi vegetali e i connettivi dei cibi animali.
b) La durata del tempo nel quale i cibi rimangono nello stomaco, la quantità di succo gastrico del quale stimolano la secrezione: due fattori che nella dieta stabiliscono il valore del senso della sazietà. Così secondo Best, citato da Mc Lester:
c) La digestibilità, cioè la quantità percentuale delle sostanze nutritive contenute nei cibi, che l'organismo può assimilare. Secondo Atwater:
d) Il costo dei cibi; che rappresenta uno dei problemi capitali nel campo economico.
Seguendo il complesso di tutti questi fattori, si stabiliscono le diverse diete, che hanno la massima importanza nella fisiologia normale e nelle malattie (v. dietetico-terapia). L'ulteriore destino degli alimenti nell'organismo è studiato alla voce digerente, sistema.
Bibl.: La vastissima bibliografia dell'alimentazione dal punto di vista biologico è riassunta nelle seguenti opere: L. Luciani e S. Baglioni, L'alimentazione umana secondo le più recenti indagini fisiologiche, Milano 1917; G. Lusk, Science of nutrition, Philadelphia 1921; E. Abderhalden, Lehrbuch der physiologische Chemie, New York 1923; J. Mc Lester, Nutrition and Diet, in Health and Disease, Philadelphia 1927; L. Randoin, e H. Simonnet, Les données et les inconnues du problème alimentaire, Parigi 1927; P. Rondoni, Elementi di biochimica, Torino 1928; F. Bottazzi, Alimentazione dell'uomo, Napoli 1928.
Igiene degli alimenti.
Può accadere, sia che gli alimenti, per circostanze molteplici, non siano in grado di rispondere agli alti compiti che ad essi sono affidati; sia, anche, che essi riescano di danno.
Se possiamo fare nostro l'aforisma che due secoli or sono G. B. Beccari esprimeva con una famosa interrogazione: si corpus tantum spectemus, immortalemque ac divinum animum excipiamus, quid aliud sumus, nisi id ipsum unde alimur?, non possiamo nemmeno negare che una gran parte delle malattie che affliggono l'uomo non dipenda, in maniera diretta o indiretta, dagli alimenti e dall'alimentazione.
A ovviare a tali non desiderate conseguenze, occorre conoscerne, per quanto è possibile, le cause e combatterle mercé una vigile disciplina igienica, la quale muove da un duplice punto di partenza e si esercita in due distinte direzioni.
Da un lato infatti si possono prendere in considerazione gli alimenti che s'introducono nell'organismo, o singolarmente, o nel loro complesso, nella razione alimentare, con riguardo al diverso contenuto in principî assimilabili e pertanto alla diversa attitudine a sopperire alle esigenze individuali. Queste variano per numerose circostanze intrinseche ed estrinseche, a seconda che l'organismo è in periodo di crescenza oppur no, del grado di lavoro cui l'organismo stesso è soggetto, della costituzione, della presenza di determinate cause morbose, delle condizioni climatiche ecc. E deve anche tenersi in conto per determinate sostanze come gli alimenti-veleni, dei quali il tipo è l'alcool, l'esistenza, a fianco delle alimentari, di proprietà tossiche, che non vanno mai trascurate,
Disciplina regolatrice di tutti questi fatti è l'igiene dell'alimentazione, della quale fa parte, da un punto di vista essenzialmente individuale, l'igiene dietetica.
D'altro lato è da prendere in considerazione la condizione pratica dei singoli alimenti, in rapporto ai modi di produzione, approvvigionamento, conservazione e preparazione per il consumo e quindi i possibili inquinamenti, le alterazioni e adulterazioni.
La conoscenza di queste eventualità e dei modi di prevenirle forma oggetto dell'igiene degli alimenti propriamente detta, la quale coincide all'ingrosso con l'igiene annonaria e si propone di assicurare, per l'alimentazione, sostanze genuine, in possesso di tutte le loro proprietà nutritive e quindi affatto incapaci di determinare, per qualsivoglia ragione, nocumento alla salute per il solo fatto del loro uso normale.
Insegnare che cosa si debba intendere per uso normale, è di spettanza della igiene dell'alimentazione. È noto del resto anche ai profani che tutti gli alimenti, anche i più genuini, i meglio preparati e conservati, sono in grado di recare danno alla salute quando di essi si faccia uso comunque incongruo, in rapporto alle necessità e capacità fisiologiche dell'organismo.
Restando più strettamente nel campo dell'igiene degli alimenti, giova raggruppare per categorie le circostanze per le quali le sostanze alimentari possono rendersi disadatte alla loro funzione.
Noi possiamo infatti, nelle sostanze alimentari, prendere in esame e distinguere varie possibilità:
1. Modificazioni dei caratteri organolettici, o per mala preparazione, o per alterazione, che rendono meno desiderabili o appetibili le sostanze alimentari.
2. Modificazioni della composizione chimica, non nocive alla salute per azione diretta, ma perché portano a una proporzione di principî alimentari, o integratori, diversa dalla normale. Queste modificazioni possono dipendere: da presenza originaria di elementi estranei (p. es., mescolanza dei cereali con semi eterogenei non nocivi); da alterazioni spontanee (per quanto in tal caso, specie se trattisi di alterazioni microbiche, i prodotti siano il più spesso tossici); da sottrazione di parti, o per determinate lavorazioni, spesso richieste dallo stesso consumatore (p. es. la separazione dai cereali delle parti corticali), o per adulterazioni (p. es., la scrematura del latte); da aggiunta, sempre a scopo di frode, di sostanze inerti (diluizione, ecc.); talora da sostituzione vera e propria di un prodotto a un altro o di una varietà del prodotto a un'altra.
3. Presenza nelle sostanze alimentari di sostanze comunque nocive. Tale presenza può dipendere da cause molto varie, e può anzitutto essere (benché ciò non si verifichi spesso), indipendente da inquinamenti, alterazioni o adulterazioni. Tale è il caso della incompleta eliminazione di elementi nocivi che normalmente si trovano nelle sostanze alimentari, ma debbono essere tolti prima dell'uso. In realtà taluni vegetali contengono sostanze tossiche facilmente eliminabili: p. es. i tuberi di manioca amara si utilizzano per la fabbricazione della tapioca, previo allontanamento di un glucoside cianogenetico, la faseolunatina; dalle patate germinate devono esser tolti i germogli, nei quali si trova talora una quantità notevole di solarnina, alcaloide velenoso. Può aversi anche un potere tossico in alimenti di natura animale per la comparsa di sostanze venefiche in rapporto a processi fisiologici, e così di protammine (tossiche per i Vertebrati superiori) che compaiono negli spermatozoi di alcuni pesci, al tempo della maturazione, e in genere delle ittiotossine, per le quali si consiglia di astenersi da consumo di barbi, lucci, anguille, ecc. nel periodo della fregola. Anche in alcuni Molluschi si ha la presenza di sostanze tossiche, specie di ammine biogene (colina, betaina), anche senza processi di putrefazione e pertanto senza intervento di batterî.
Oltre a queste eventualità, e indipendentemente altresì dal possibile scambio di alimenti con sostanze nocive (p. es., di funghi eduli con specie consimili velenose), gli alimenti possono avere o acquistare proprietà variamente dannose alla salute e anche decisamente tossiche per altre cause. Ricordiamo la presenza di semi eterogenei nocivi nei cereali; le alterazioni semplicemente chimiche, come nell'irrancidimento dei grassi, o, più spesso, per azione di batterî saprofiti, o di ifomiceti, che in alcuni substrati determinano prodotti particolari (come i corpi aromatici che Gosio ha posto in evidenza nella polenta ammuffita); i trattamenti conservativi, correttivi, edulcoranti e consimili, in genere a scopo commerciale o tecnico, con sostanze non innocue; l'addizione di altre sostanze non innocue a scopo di frode; infine la presenza accidentale di veleni, come in seguito all'uso di recipienti metallici non stagnati per accogliere, conservare, preparare gli alimenti.
4. Presenza nelle sostanze alimentari di germi viventi patogeni, presenza che può essere originaria, come è il caso delle carni o del latte provenienti da animali ammalati di forme infettive, trasmissibili all'uomo, (carbonchiose, tubercolari, paratifiche, ecc.), o dovuta ad inquinamento successivo, per contatto diretto con persone infette (manipolazione degli alimenti da parte di malati o di portatori di germi), o con prodotti patologici (insaccamento di carni in intestini contenenti batterî patogeni; concimazione di colture vegetali con concimi infetti; coltivazione di frutti di mare in acque che ricevono scoli di fogne, ecc.), o più indirettamente, per opera di veicoli varî di disseminazione di germi, e in ispecie per opera dei veicoli animati (insetti, mosche soprattutto), quando non si attui una conveniente protezione.
5. Presenza nelle sostanze alimentari di parassiti superiori, trasmissibili all'uomo. Tale presenza si ha per lo più per infestione originaria degli alimenti: carni di animali contenenti, a vario grado di sviluppo, gli accennati parassiti, e così carni panicate o grandinate (contenenti cisticerchi di tenie), carni trichinose, ecc. Può aversi anche un inquinamento nel caso di vegetali concimati con materie contenenti uova di elminti.
L'igiene degli alimenti prende in considerazione tutti i punti del quadro che abbiamo tracciato a grandi linee e si studia di ovviare a tutte le possibilità di danno elencate, valendosi della vigilanza annonaria che si esercita sugli alimenti nei luoghi di raccolta o produzione, di deposito e conservazione, di lavorazione e manipolazione quali che siano, sui mezzi di trasporto e sulle varie successive stazioni di smistamento, smercio e consumo.
La vigilanza annonaria si attua con l'ispezione annonaria, a mezzo degli ufficiali sanitarî e di agenti giurati provvisti di speciale competenza e si integra necessariamente con l'opera di laboratorî pubblici di analisi degli alimenti. La vigilanza è poi resa efficace dalle sanzioni delle leggi sanitarie in materia, alle quali ogni qual volta si possa stabilire un atto deliberato contrario alla lealtà commerciale o all'incolumità pubblica, si sostituiscono, o aggiungono, quelle del codice penale concernenti i delitti (v. sopra).
Le forme nelle quali l'igiene degli alimenti, fin qui generalmente considerata, si esplica in pratica, assumono, com'è ovvio, aspetti diversi a seconda che si tratti di alimenti freschi o conservati. Tutta la tecnica della conservazione delle sostanze alimentari, di tanta importanza economica, deve assoggettarsi a una rigida disciplina igienica. Sono poi da considerare norme e provvedimenti speciali quando si debbano prendere in esame particolari alimenti o gruppi di alimenti.
Per le carni hanno valore profilattico, anche per l'uomo, le stesse norme di polizia sanitaria zooiatrica, in relazione agli animali destinati al consumo alimentare. Assai importante è la vigilanza sulla macellazione, che non deve compiersi se non con determinati metodi e, di regola, non mai fuori di stabilimenti pubblici appositi, soggetti a una competente direzione tecnica, così che sia sempre possibile procedere a un esame degli animali in vita e ad una completa ispezione delle carni e dei visceri a macellazione avvenuta. Questa ispezione molte volte è utilmente integrata da esami micrografici, come si pratica abitualmente nei paesi ove l'infestione da trichina è frequente, per la ricerca di questo nematode nei muscoli dei suini.
A completamento dell'igiene delle carni si hanno inoltre norme relative alla denaturazione o distruzione delle carni giudicate del tutto disadatte al consumo, nonché alla cottura, o ad altri trattamenti, delle carni ritenute idonee a consumo condizionato; disposizioni che sottopongono la lavorazione delle carni insaccate o comunque preparate, e i locali, ove tale lavorazione si compie, alla vigilanza diuturna di tecnici; regole precise circa l'impiego delle basse temperature a scopo conservativo; infine prescrizioni molteplici concernenti la disciplina della vendita e l'igiene degli spacci.
Per il latte, oltre l'esclusione dalla mungitura degli animali capaci di dare un latte contenente germi patogeni, si tende alla esclusione di ogni manipolazione da parte di persone affette da malattie diffusive o portatrici di germi. Ci si sforza poi di instaurare e mantenere in tutta la trafila che va dalla produzione al consumo del latte la più rigorosa nettezza dei recipienti e degli oggetti, in modo da proteggerlo dagli insetti e dai germi.
Ma la considerazione che questi desiderata sono assai difficili a raggiungere e specialmente il fatto della provenienza del latte da molteplici fonti per concentrarsi in pochi luoghi di raccolta, dai quali poi torna a dividersi nei mille rivoli della vendita al minuto (cosicché un eventuale inquinamento originario, anche isolato, finisce inevitabilmente col comunicarsi a tutta, o quasi, la massa del latte), hanno portato a considerare come necessità normale, almeno per le grandi agglomerazioni urbane, un trattamento di disinfezione del latte col calore, da applicarsi nei centri di raccolta. E poiché la disinfezione assoluta del latte non è compatibile con la integrità biochimica del delicato alimento, si propone e applica una disinfezione parziale a temperatura inferiore a 100° (pasteurizzazione), che deve necessariamente essere seguita da un immediato raffreddamento del latte.
Per i molluschi eduli si prescrive l'esclusione dal consumo di quelli che siano raccolti in acque infette o che non abbiano subito una conveniente epurazione in bacini di acqua pura.
Per i cereali e loro derivati si prende in considerazione l'eventuale inquinamento dei semi, la macinazione, la varia separazione dei prodotti che ne derivano, la preparazione e cottura del pane, ecc.
Per gli erbaggi si desidera la proibizione della concimazione con acque luride non convenientemente epurate. Per i funghi freschi e secchi, a evitare dolorose sorprese, si limita di solito la vendita a determinate specie sicuramente eduli e identificabili.
Per le frutta è da prendersi in considerazione, oltre alle possibili e frequenti alterazioni, anche la condizione di non maturità.
Altri esempî si potrebbero portare; quelli che abbiamo accennato valgono a dimostrare quanto sia arduo e complesso il compito che si prefigge l'igiene degli alimenti.
Bibl.: A. Gauthier, Alimentation et régimes, Parigi 1904; J. Rouget e Ch. Dopter, Hygiène alimentaire, Parigi 1906; V. De Giaxa, Manuale d'igiene, II, Milano 1910; G. Lebbin, Allgemeine Nahrungsmittelkunde, Berlino 1911; M. v. Gruber e M. Ficker, Handbuch der Hygiene, Lipsia 1922; E. Mayerhofer e C. Pirquet, Lexikon der Ernährungskunde, Jena 1928.
Disposizioni di diritto pubblico.
Norme di legge o di regolamento sono dirette ad evitare un'alimentazione nociva alla salute o un perturbamento artificiale del mercato che causi la deficienza degli alimenti e il loro rincaro o il loro sperpero.
Le disposizioni del primo genere rappresentano una limitazione alla libertà di commercio e di industria, con l'imposizione del divieto di contraffare (cioè creare artificiosamente) e adulterare (cioè mescolare sostanze estranee), di porre in commercio sostanze contraffatte o adulterate (anche in maniera non direttamente nociva alla salute, se non è indicata la contraffazione o adulterazione, perché l'uso ignorato di sostanze meno nutrienti danneggia la salute), di somministrarle come compenso ai proprî dipendenti, di confezionare e accomodare attrezzi e recipienti, destinati alla cucina e a conservare le bevande, in modo da renderli pericolosi alla salute. I principî generali posti nella legge di sanità (testo unico 1° agosto 1907, n. 636, art. 114, contravvenzioni) e nel codice penale (art. 318 seg., delitti) sono svolti e completati da varie norme contenute nella legge e nel regolamento sanitario (r. decr. 3 febbraio 1901, n. 45), in varie leggi speciali, e nei regolamenti comunali emanati in base alle varie leggi e regolamenti e in conformità del r. decr. 3 agosto 1890, n. 7045, che costituisce una guida per le autorità locali. Queste disposizioni o si riferiscono a sostanze adoperabili in tutti i prodotti alimentari (p. es. prescrizioni dirette a evitare che siano impiegati coloranti nocivi) o sono specifiche per singoli prodotti. I principî a cui possono essere ricondotte tutte queste norme sono tre: determinazione del prodotto al quale può essere dato il nome della sostanza tutelata, divieto di confezionarlo o manipolarlo in certe maniere e imposizione di cautele perché non giunga infetto o guasto al consumatore, obbligo di dichiarare la vera natura dei prodotti non genuini perché non siano venduti prodotti non conformi alla loro designazione. Per esempio per il burro (v. sotto), la legge determina il prodotto al quale può essere dato questo nome, proibisce di fabbricarlo con agenti di conservazione eccetto alcuni, e impone a chi mette in commercio, come succedanei del burro, grassi non provenienti dal latte, di dichiarare la natura del grasso con cui sono formati e designarli col nome di margarina. Però non è sufficiente l'imposizione di divieto e di obblighi, ma occorrono anche altri mezzi (p. es., per la carne, monopolio dei macelli pubblici nei comuni che ne debbono essere forniti o ne abbiano istituito uno, art. 109 regolamento di sanità). Inoltre sono stati accordati varî poteri alle autorità pubbliche (Ministero dell'interno e autorità dipendenti, autorità sanitarie e in particolare il medico provinciale e gli ufficiali sanitarî, il Ministero dell'economia nazionale, il quale in special modo si può valere della facoltà, di cui all'art. 153 della legge comunale e provinciale, di emanare ordinanze di urgenza). Questi poteri sono quelli di ispezionare le fabbriche (i fabbricanti di ogni genere di sostanze alimentari e di bevande artificiali sono, per l'art. 52 del testo unico delle leggi sanitarie, sottoposti a vigilanza rispetto alla salute pubblica), le botteghe, ecc., di prelevare campioni per sottoporli ad analisi, di procedere al sequestro o alla distruzione delle merci quando è necessario. Facoltà di vigilanza sulla fabbricazione e il commercio degli alimenti sono accordati anche ad enti speciali, come, per le conserve, all'Istituto confederale per l'industria delle conserve alimentari, a cui debbono essere inscritti tutti i fabbricanti di conserve, che ne producano più di 5 quintali all'anno. Vi sono infine dei provvedimenti doganali per evitare che siano introdotti nel regno alimenti proibiti (p. es. le dogane non debbono permettere l'introduzione nel regno di merci che non corrispondano alle prescrizioni del r. decr. legge 15 ottobre 1925, n. 2033, sui prodotti agrarî, e del relativo regolamento, art. del r. decr. 1° luglio 1926, n. 1361).
Per evitare il danno che deriverebbe alla salute pubblica da una artificiosa carestia o da un rincaro eccessivo dei prezzi, il codice penale punisce l'aggiotaggio annonario (art. 326), e il regolamento della legge comunale e provinciale 12 febbraio 1911, n. 297 (art. 109, n. 2) accorda ai comuni la facoltà di fissare temporaneamente, quando le circostanze locali e le consuetudini ne giustifichino la opportunità, mete o calmieri sui generi di prima necessità (espressione intesa a volte in senso piuttosto largo): si disputa se solamente sul commercio al minuto o anche sulla vendita all'ingrosso.
Le prescrizioni dirette ad evitare lo sperpero nell'uso degli alimenti sono numerose e importanti nei momenti di crisi, p. es. in tempo di guerra, rare in tempi normali. Tuttavia ora in Italia sono regolati l'abburattamento della farina e la panificazione, ed è stata vietata la confezione di dolci di farina di frumento.
Legislazione: Cod. pen., art. 318 seg.; testo unico leggi sanitarie 1° agosto 1907, n. 636 e modif. successive, art. 52, 114-122, 174 seg.; reg. gen. sanitario 3 febbraio 1901, n. 45, art. 107-128, reg. speciale per la vigilanza igienica sugli alimenti, sulle bevande e sugli oggetti d'uso, r. decr. 3 agosto 1890, n. 7045; r. decr. 30 ottobre 1924, n. 1938 (materie coloranti); r. decr.-legge 19 maggio 1927, n. 868, conv. con la legge 20 maggio 1928, n. 1131; r. decr. 21 luglio 1927, n. 1586, (carni); r. decreto-legge 7 luglio 1927, n. 1548, conv. con la legge 14 giugno 1928, n. 1383 (pesce e prodotti alimentari della pesca conservati in recipienti); r. decreto-legge 15 ottobre 1925, n. 2033, conv. con la legge 18 maggio 1926, n. 562; r. decr.-legge 12 agosto 1927, n. 1773, regolamento r. decr. 1° luglio 1926, n. 1361 (prodotti agrarî tra i quali vanno in modo particolare ricordati: aceto, olio, burro, strutto, formaggi, sciroppi, manna, conserve); r. decr.-legge 8 febbraio 1923, n. 501 e r. decr. 30 novembre 1924, n. 2035 (conserve alimentari); legge 2 agosto 1897, n. 378 (essenze di agrumi, sommacchi); r. decr.-legge 15 ottobre 1925, n. 1929, conv. con la legge 8 marzo 1926, n. 562; r. decr. 19 dicembre 1926, n. 2415 (caffè); legge 16 luglio 1916 n. 947, art. 7-10, 13-14 e regol. 28 settembre 1919, n. 1924 (acque minerali); r. decr.-legge 29 luglio 1928, n. 1843 (panificazione). Numerose altre disposizioni sparse in molte leggi; r. decr.-legge 13 agosto 1926, n. 1448, conv. con la legge 6 giugno 1927, n. 961; r. decr. 14 ottobre 1926, n. 1911 (abburattamento della farina, ecc.).
Bibl.: Oltre alle varie trattazioni di polizia sanitaria, v. Noseda, La nuova legislaz. sanitaria e gli alimenti, Milano 1902; Barbèri, Manualetto per il personale addetto alla vigilanza sanitaria sugli alimenti e le bevande, Roma 1928.
Adulterazioni alimentari.
Un alimento si dice genuino quando corrisponde per natura, sostanza e qualità (cioè per origine, composizione, proprietà organolettiche e nutritive, preparazione e conservazione) al nome sotto il quale è indicato e richiesto.
Questo insieme di caratteri può andare, in tutto o in parte, perduto, per lo svolgersi di processi modificatori (per lo più biochimici, causati da batterî o da parassiti in genere). Sono fenomeni di solito accidentali che dànno luogo alle cosiddette alterazioni degli alimenti (v. sopra).
Per contro v'è tutta un'altra serie di modificazioni, le quali non potrebbero prodursi senza un intervento diretto dell'uomo, e queste costituiscono le adulterazioni degli alimenti.
A differenza dell'alterazione (nella quale tuttavia, non è senz'altro da escludere una qualche colpa, quando è dovuta a incuria o ignoranza), l'adulterazione è il più delle volte, intenzionale.
L'adulterazione si propone infatti lo scopo di smerciare, in luogo dell'alimento indicato o richiesto, un prodotto in tutto o in parte diverso. È ovvio che si tratta di un prodotto di minor valore commerciale, senza di che l'adulterazione non avrebbe senso. La stessa adulterazione intesa a rendere suscettibile di vendita un alimento . alterato, anche se importa, come talora accade, aggiunta di sostanze costose o manipolazioni complicate, rientra nella regola generale, dovendosi porre sulla bilancia la perdita parziale o totale di valore dell'alimento alterato.
Perciò, il vendere alimenti adulterati (e quindi anche il prepararli e il ritenerli per la vendita) in luogo e nome degli alimenti genuini, costituisce indiscutibilmente un'insidia alla buona fede del compratore, una frode o un tentativo di frode in commercio.
Anche il rarissimo caso di un'adulterazione involontaria, quella, ad esempio, di chi introducesse, senza avvedersene, latte destinato alla vendita in un recipiente contenente già una certa quantità d'acqua, è assimilabile, negli effetti, all'adulterazione compiuta con animo deliberato, in quanto porta allo smercio di un alimento di qualità inferiore a quello richiesto.
Senonché la questione può complicarsi per elementi che escono dal campo commerciale per entrare in quello igienico.
Vi ha un gruppo notevole di adulterazioni, nelle quali il prodotto che si pone in vendita è dotato di proprietà nocive alla salute delle persone che ne usano. L'adulterazione assume per tal fatto una particolare gravità e una figura speciale.
Non si possono evidentemente considerare alla stessa stregua, ad esempio, l'adulterazione di una farina di frumento per aggiunta di farine di altri cereali, o anche di polveri inerti, e quella invece perpetrata con l'aggiunta di barite, la quale non solo aumenta il peso del prodotto, ma gli comunica proprietà tossiche.
Non raro è altresì il caso di prodotti nocivi alla salute quando l'adulterazione ha, come si è già notato, lo scopo di rendere commerciale un alimento alterato. Si riesce allora con adatti correttivi a mascherare più o meno completamente le qualità organolettiche scadenti dell'alimento guasto, ma non se ne eliminano di solito i principî tossici o infettivi eventualmente prodottisi nel corso della alterazione.
Come si vede, le possibilità di adulterazioni atte a determinare un danno (attuale o potenziale) alla salute del consumatore sono molteplici. È tuttavia bene chiarire che l'adulterazione sussiste anche indipendentemente dalla nocività del prodotto posto in commercio. Quando anche questo fosse completamente innocuo (cosicché sarebbe stato lecito porlo in vendita sotto il suo proprio nome) non per ciò il fatto dell'adulterazione verrebbe meno in forma di frode o di tentata frode.
Ma è proprio vero che, anche in questo caso più semplice, la adulterazione si riduca a una pura questione di prezzo?
Nella fisiologia della nutrizione si fa sempre più strada un concetto in parte diverso da quello che era ritenuto un tempo come legge che, muovendo dalla equivalenza dinamica dei principî alimentari, concludeva con la sostituibilità reciproca degli alimenti (salvo parti minime della razione), sempre che si realizzasse l'anzidetta equivalenza.
Oggi sappiamo che tale sostituibilità soffre molte limitazioni, perché una data quantità, ad esempio, dei proteidi della farina di mais non è per nulla equipollente alla stessa quantità di quelli di frumento, perché è diversa la struttura dei proteidi stessi, come dimostra il diverso risultato che si ha quando si mettono in evidenza e si dosano gli amminoacidi che formano le pietre del loro edificio molecolare (v. sopra). Inoltre anche i principî integratori dell'alimentazione (sali e particolarmente vitamine) sono così variamente distribuiti nei diversi alimenti che non è affatto uguale sostituire l'uno all'altro. Neppure la somministrazione di latte cotto invece che latte fresco, è indifferente, perché molti elementi del latte si modificano profondamente per azione della temperatura (almeno oltre un certo grado) e gli effetti sull'organismo vengono ad essere necessariamente mutati.
Siamo pertanto condotti ad ammettere che, anche senza che si abbia un'azione nociva propria dei prodotti posti in commercio, l'adulterazione degli alimenti si traduce ugualmente in conseguenze, meno evidenti, ma non per questo meno reali, a danno della nutrizione individuale e collettiva, e pertanto a danno dello stato igienico della popolazione.
Da ciò si trae un argomento di più per la necessità di tutelare la buona fede del compratore, e di condurre senza quartiere la lotta contro l'adulterazione degli alimenti, piaga antica e diffusissima, che purtroppo si vale del sussidio della chimica e della tecnica moderna per tessere sempre nuove insidie e per tradursi nelle forme meglio atte a trarre in inganno. Svelare l'adulterazione per poterla penalmente perseguire è uno dei compiti più notevoli dell'organizzazione sanitaria, e per fortuna la scienza che dà le armi all'adulteratore, ne dà altresì all'igienista. La lotta è tuttavia ardua assai, per circostanze particolari, sulle quali giova brevemente fermarci.
Una prima difficoltà è data dalla molteplicità delle adulterazioni. Se noi vogliamo elencarle, troviamo che i processi ai quali si ricorre diversissimi: sostituzioni, miscele o addizioni, sottrazioni, correzioni e modificazioni varie. È poi ovvio che le singole adulterazioni possono fra di loro combinarsi e sovrapporsi.
Gli esempî di sostituzioni sono assai numerosi: olio di semi posto in vendita per olio di oliva; grasso di margarina o grasso di palma per burro; soluzioni di acidi minerali per aceto; fiori di cartamo per zafferano; ghiande, orzo, radici, frutta e altri materiali torrefatti per caffè: noccioli di oliva polverizzati per pepe, ecc., tutto con eventuale aggiunta di sostanze coloranti o aromatiche per meglio mascherare la sostituzione. Questa può anche riferirsi ad alcune soltanto delle sostanze che entrano in prodotti complessi. Così sostanze coloranti gialle sostituiscono il giallo d'uovo nelle paste. Parimenti, per dolcificare paste o bevande (limonate, gazose, ecc.), in luogo dello zucchero o degli sciroppi di frutta, si ricorre spesso alla saccarina o alla dulcina, che, per la loro costituzione chimica, non hanno alcuna delle proprietà nutritive degli idrati di carbonio e sono, per contro, non in tutto immuni da azioni dannose per la salute.
Adulterazione per sostituzione si ha anche quando si pone in vendita non precisamente l'alimento richiesto o indicato, ma una qualità o varietà di minor pregio.
Di adulterazioni per miscele o addizioni se ne hanno di varia natura. Comune è l'aggiunta di sostanze inerti, o inferiori, allo scopo di aumentare il volume o il peso della merce. L'annacquamento del latte, l'addizione alla farina di frumento di altre farine o polveri, la miscela di olio di semi all'olio di oliva, di grasso di margarina o di grassi vegetali al burro, sono fra gli esempî più noti. Altre volte l'addizione ha un diverso scopo: serve cioè a migliorare le qualità commerciali del prodotto, o deficienti in origine, o perdute per alterazioni da cattiva conservazione o per precedenti o concomitanti adulterazioni.
L'addizione di sostanze coloranti, così diffusa, si riporta a questo caso. Tipico è l'esempio dei vini artificialmente colorati con derivati del catrame. Ma le possibilità sono, si può dire, infinite. Il caffè crudo, avariato, come spesso accade, durante le traversate o nei magazzini di deposito, viene riportato alla tinta primitiva agitandolo in sacchi o barili contenenti materie coloranti in polvere finissima: si usano l'indaco, il bleu di Prussia, l'oltremare, mescolati con cromato di piombo, o con sali di rame, o polvere di carbone (o anche con pallini di piombo) per ottenere quelle sfumature fra il cenerino e il verdognolo proprie delle singole varietà di caffè e volute sul mercato. Un caffè torrefatto di qualità scadente, sottoposto a un enrobage, o verniciatura, con zucchero bruciato o con olio di vasellina, acquista un aspetto vivo e brillante che trae in inganno il compratore.
Per rendere spumeggianti i vini, le birre, le limonate e le gazose si è giunti fino ad impiegare estratti contenenti saponina, glucoside contenuto nelle radici di saponaria e nelle cortecce di quillaia, grandemente tossico.
In questa categoria di adulterazioni si comprende anche l'addizione di sostanze antisettiche a scopo conservativo (solfiti, fluoruri, acido borico, salicilico, benzoico, abrastol, formaldeide, ecc.). La presenza di elementi estranei forniti di potere batteriostatico o veramente battericida non può essere senza una qualche azione dannosa anche sulle cellule e sui fermenti dell'organismo, e non è quindi da tollerarsi. L'attenuante delle piccole dosi perde di valore di fronte all'uso ripetuto e continuo. Quando poi l'addizione non è fatta a scopo puramente preventivo, ma, come più spesso accade, a scopo correttivo e per arrestare un'alterazione microbica già iniziata, si ha da tener conto dei prodotti tossici dell'alterazione stessa, che l'antisettico non ha virtù di neutralizzare o distruggere.
Oltre all'impiego dell'aceto di vino, dell'olio, degli sciroppi di zucchero come eccipienti di sostanze alimentari, la sola addizione conservativa igienicamente accettabile è quella del cloruro di sodio, usata da tempo immemorabile specialmente per le carni. Ma l'argomento si collega strettamente con la questione delle addizioni e dei trattamenti indispensabili per necessità commerciali, di cui faremo cenno in seguito.
Adulterazioni per sottrazione sono pure assai comuni. Valga per tutte l'esempio del latte scremato. La sottrazione importa non di rado un'addizione sia per ristabilire (ben inteso con sostanze inferiori) l'aspetto primitivo, sia per rendere meno facilmente svelabile la frode alle ricerche bromatologiche. È noto che nel latte, con una opportuna combinazione dell'aggiunta di acqua e della sottrazione di grasso, può ottenersi il risultato di non far variare la densità del liquido.
Oltre ai suddetti, abbiamo anche trattamenti varî che non si possono esattamente ricondurre a uno dei tipi classici di adulterazione, specie quando servono a far scomparire le tracce di una alterazione.
Così ad esempio le farine ingiallite oggi non vengono più addizionate con polveri azzurre (si usava perfino il solfato di rame!), ma vengono sottoposte all'azione di gas decoloranti, ozono, biossido di azoto.
I trattamenti di chiarificazione, filtrazione, ecc. sono largamente usati nell'industria alimentare. Anche qui bisogna distinguere le operazioni tecniche lecite e consigliabili dalle adulterazioni vere e proprie. Le prime dovranno di regola non creare rapporti diversi dai normali fra i costituenti delle sostanze trattate e non alterarle con impurità loro proprie.
Nella lotta contro le adulterazioni bisogna inoltre tener presente una considerazione di gran peso. Abbiamo in principio dato una definizione di ciò che debba intendersi per alimento genuino, ma la questione in pratica è veramente tutt'altro che semplice. La legislazione, con molta opportunità, da qualche tempo definisce i singoli alimenti genuini, così ad esempio "il nome di burro è riservato alla materia grassa ricavata, con operazioni meccaniche, unicamente dal latte di vacca" (art. 26 del decreto-legge 15 ottobre 1925, n. 2033), il nome di olio o di olio di oliva "al prodotto della lavorazione della oliva (Olea europaea) senza aggiunta di sostanze estranee o di olî di altra natura" (art. 20 del r. decreto-legge sopraccitato) e ha diritto ad essere indicato come aceto o aceto di vino il solo "prodotto ottenuto con la fermentazione acetica del vino o del vinello, che contenga almeno il 4% in peso di acido acetico, senza alcuna aggiunta di materie coloranti o di altre sostanze" (ibid., art. 18).
Del pari merita il nome di vino genuino soltanto quello ottenuto dalla "fermentazione alcoolica del mosto di uva fresca o leggermente appassita", e tutti gli altri vini, compresi quelli ottenuti con uve secche e quelli preparati mediante la fermentazione di soluzioni zuccherine in presenza di fecce di vino o di vinacce d'uva torchiate o no, sono considerati non genuini (art. 13 del decreto-legge sopraccitato). Con ciò si tende ad una chiarificazione lodevole.
Ma in realtà, quando si vogliano determinare gli estremi dei singoli alimenti genuini e ci si chieda se l'alimento genuino abbia una composizione chimica costante, noi non possiamo non rispondere negativamente. Esistono alimenti genuini in senso pratico; è lecito parlare di un alimento genuino medio; meglio è ammettere che vi sono dei limiti di variazione, più o meno estesi, entro i quali può esser compresa la genuinità dei singoli alimenti.
Per ricondursi alle condizioni della pratica si vanno utilmente raccogliendo i dati relativi ai prodotti alimentari dei varî paesi, essendo noto che la natura del terreno, il clima, il tipo delle industrie agricole hanno la maggiore influenza nelle variazioni di cui si tratta.
Un ultimo punto viene a complicare ancor più il problema delle adulterazioni, ed è la necessità di alcune addizioni e di alcuni trattamenti per esigenze commerciali.
Vi sono, per esempio, delle conserve vegetali che nelle manipolazioni cui vanno soggette (e specie per opera del calore) perdono il colorito originario che è opportuno ristabilire. Ciò si può ottenere con sostanze coloranti innocue, e meglio con l'addizione delle stesse sostanze coloranti naturali andate perdute; ma talora anche con sostanze coloranti non del tutto innocue ma contenute entro limiti precisi. Così nella lavorazione di legumi in scatola è comunemente diffuso l'impiego dei sali di rame per il rinverdimento, e tale aggiunta è anche consentita dalle nostre leggi sanitarie, in quantità, tuttavia, che non superi un decigrammo di rame metallico per ogni chilogrammo di sostanza lavorata.
Altra volta si tratta d'aggiunte destinate a permettere la conservazione e il trasporto di prodotti, come è il caso dei vini, dei quali è permessa (oltre ad altre addizioni, troppo numerose per enumerarle tutte) così la gessatura come il trattamento con solfiti o anidride solforosa; la prima non oltre la quantità massima di gr. 2 di solfati per litro, calcolati come solfato di potassio, il secondo fino a 200 mmgr. per litro di anidride solforosa, di cui non oltre 20 mmgr. allo stato libero.
Salvo queste e consimili eccezioni, conviene non essere troppo corrivi nel consentire il commercio di alimenti comunque manipolati, e di regola la modificazione dovrebbe essere visibilmente enunciata. Del pari la vendita degli alimenti sostituiti, cioè dei surrogati, non può ammettersi se non unicamente alla condizione che si tratti di prodotti innocui e che ne sia visibilmente indicata al compratore la vera natura.
I surrogati di caffè saranno anche preferibili al caffè in casi nei quali l'abuso e lo stesso uso della caffeina sia da ritenersi dannoso, ma non è giusto che siano venduti come caffè. L'olio di oliva, l'olio di semi, l'olio di oliva misto a olio di semi sono prodotti ben diversi che possono figurare sul mercato, ciascuno col proprio nome e al prezzo corrispondente. Il burro artificiale che si ottiene emulsionando in proporzioni varie grassi animali (sego pressato), olî e grassi vegetali (sesamo, arachide, palma, cocco, ecc.), sostanze aromatizzanti (etere butirrico, cumarina), talvolta anche caseina, lattosio, giallo d'uovo, ecc., costituisce un prodotto alimentare che ha l'aspetto e la consistenza del burro di vacca e spesso caratteri organolettici gradevoli e di cui non si saprebbe proibire lo smercio e il consumo; ma a patto, naturalmente, che non si venda sotto il nome di burro naturale.
In una parola, il surrogato innocuo può essere venduto, ma soltanto come tale. Altrettanto dicasi sia delle miscele lecite, sia delle sostanze colorate con coloranti riconosciuti sprovvisti di azione tossica, o comunque trattate in modo non dannoso alla salute, dovendo tutte le manipolazioni e modificazioni essere denunziate al compratore.
A questi principî s'inspira la nostra legislazione. La tutela della salute pubblica insidiata dalle adulterazioni spetta alle autorità sanitarie, che hanno a loro disposizione i laboratorî provinciali di micrografia e chimica.
Si nota in proposito una tendenza a rendere uniformi i metodi di analisi, e così rendere più facili i confronti tra i risultati dei diversi laboratorî ed eliminare cause frequenti di discussioni.
Trattandosi di ricerche dal punto di vista commerciale, intese ad accertare se un alimento sia o no genuino, può essere invocata l'opera anche di altri laboratorî ufficiali. Per le conserve alimentari il r. decreto 8 febbraio 1923, n. 501, che costituisce un consorzio obbligatorio tra i produttori, ha introdotto un principio, nuovo in Italia: quello di affidare (s'intende senza pregiudizio delle eventuali iniziative dell'autorità competente) allo stesso consorzio la difesa contro le adulterazioni, giustamente ritenendo che esse, indipendentemente dagli effetti sanitarî, costituiscano una macchia che offusca e danneggia anche il commercio onesto.
Notevole è altresì l'istituzione di un marchio nazionale registrato di esportazione per alcuni prodotti alimentari (per ora frutta fresca e secca, agrumi, erbaggi) diretti all'estero (legge 23 giugno 1927, n. 1272; r. decreto-legge 12 agosto 1927, n. 1756; regolamento 17 novembre 1927, n. 2172). Il marchio è anche garanzia di genuinità della merce, in quanto importa e presuppone un controllo permanente esercitato da ispettori dell'Istituto nazionale delle esportazioni.
Bibl.: Annales des falsifications, Parigi 1907 segg.; Annali Laboratorio Chimico Centrale, Roma 1894 segg.; Ch. Girard, Analyse des matières aliment., Parigi 1904; J. König, Chemie der menschl. Nahr. u. Genussmittel, 1918; Le stazioni sperimentali agrarie italiane; Metodi ufficiali di analisi dei laboratori del Ministero d'A. I. e C., Roma 1905; Bertarelli, Falsificazioni delle materie alimentari, Verona 1891; J.-B. Chevallier ed. E. Baudrimont, Dictionnaire des altérations et falsifications des substances alimentaires, Parigi 1897; Villavecchia, Trattato di chimica applicata, Milano 1916; von Buchka, Das Lebensmittelgewerbe, Lipsia 1915-19; Zeitschrift f. Unt. Nahrungs-u. Genussmittel, dal 1897.
L'alimentazione presso i varî popoli.
Lo studio etnologico dell'alimentazione considera gli usi dei popoli viventi nelle diverse regioni della terra, diretti a soddisfare praticamente al più importante bisogno fisiologico della conservazione della propria esistenza. Le osservazioni, mentre sono profonde e sufficienti per alcuni popoli civili, nei quali si è sviluppata la scienza fisiologica della nutrizione (Europei, Americani, Giapponesi), sono deficienti per i popoli inferiori, limitate alle narrazioni degli esploratori, che non sempre posseggono la necessaria cultura e competenza per giudicare del problema. Una grandissima varietà di cibi e di bevande distingue il genere alimentare dell'uomo, tanto da giustificare pienamente l'attributo di onnivoro, che da tempo si suol dare ad esso. In questa ricchissima varietà dominano tuttavia le leggi generali della fisiologia dell'alimentazione, nel senso che, qualunque sia la varietà degli alimenti, presso a poco la stessa quantità e qualità di principî alimentari (proteine, grassi, carboidrati, sali, acqua, vitamine) e complessivamente la stessa quantità energetica, calcolata in calorie, è ingerita e consumata quotidianamente dai diversi individui umani viventi in condizioni normali e in analoghe condizioni climatiche sul globo terrestre.
Le differenze che caratterizzano i varî popoli dal punto di vista della loro alimentazione non consistono soltanto nei diversi generi di cibi che essi attingono dal mondo esterno, ma consiste invece più specialmente nella diversa manipolazione e preparazione dei medesimi (arte culinaria).
Anzi, uno dei caratteri salienti, che distingue le diverse civiltà, è quello connesso con gli usi e costumi alimentari: i popoli civilmente più elevati sono quelli che hanno appreso l'arte più raffinata di cucinare e preparare i cibi, in modo che essi riescano più gradevoli ai sensi del gusto e dell'olfatto (ciò si ottiene soprattutto con l'aggiunta artificiale di aromi e di spezie, i cosiddetti condimenti), più facilmente digeribili e assimilabili, ossia che provochino un'abbondante secrezione dei succhi digerenti, e che oppongano alla loro azione disgregatrice una minore resistenza (mediante la cottura, la maturazione o frollatura delle carni); che si conservino per un tempo molto lungo senza perdere le loro proprietà nutrienti, in modo che la fame possa essere in tutti i periodi dell'anno, tanto nell'estate quanto nell'inverno, ugualmente soddisfatta (mediante l'immagazzinamento dei prodotti alimentari in condizioni in cui non possano alterarsi, previo disseccamento, oppure mediante manipolazioni e aggiunte di opportuni ingredienti e specialmente del sale, che impediscono le avarie prodotte dai processi fermentativi o putrefattivi, come nel caso delle carni salate e insaccate); che siano preservati da eventuale inquinamento batterico o dalla presenza di parassiti eterogenei (mediante la cottura a fuoco diretto o con l'ebollizione nell'acqua, raggiungendo temperature sterilizzanti gli stessi alimenti prima della loro ingestione). I popoli primitivi e i più bassi nella scala della civiltà consumano i loro alimenti così come vengono direttamente offerti dal mondo animale e vegetale, da cui essi li attingono. Soltanto un lunghissimo esercizio, frutto di lente osservazioni, attraverso tentativi sempre più fecondi, ha portato l'uomo odierno civile alla conoscenza dei mezzi più adatti per la sua pratica alimentazione. Uno studio comparato di tutti i diversi mezzi alimentari è certamente molto utile per caratterizzare i varî gradi di civiltà dei diversi popoli, tanto di quelli attualmente viventi, quanto di quelli che li hanno storicamente e preistoricamente preceduti, dai quali derivano i nostri moderni usi e costumi alimentari.
Una questione molto discussa è quella che riguarda la natura dell'alimentazione dell'uomo primitivo: ossia se esso sia stato carnivoro, erbivoro, fruttivoro (frugivoro) od onnivoro. Tale questione è stata posta, partendo dalla considerazione che teoricamente è possibile all'uomo, nello stato attuale delle sue condizioni, di mantenersi in vita, senza apparente danno della sua salute e dello sviluppo delle sue funzioni, con un'alimentazione esclusiva (o quasi esclusiva) di alimenti carnei, o vegetali, o misti. Ma il tenore di vita più comune dei popoli civili (Europei, Americani, Giapponesi) imposto dall'istinto, è il regime alimentare misto, cioè costituito possibilmente da una ricca varietà di alimenti, provenienti dal regno animale e dal regno vegetale. Anche altre considerazioni fisiologiche e morfologiche (ad es., la lunghezza del tubo gastro-enterico, la conformazione delle ghiandole digerenti, i caratteri chimici del secreto renale) indirettamente richiedono un regime misto, per questi caratteri distinguendosi l'uomo dagli altri animali assolutamente carnivori (con intestino corto), od obbligatoriamente erbivori (con intestino molto più lungo).
Non è facile poter risolvere la questione, basandosi su argomenti dedotti dalle presenti condizioni di esistenza dei popoli civili, che possono avere indotto profonde modificazioni sulla struttura e sulla fisionomia fisiologica dei popoli stessi. Più facile invece è la soluzione del problema riferito ai popoli primitivi o civilmente più bassi tuttora viventi, che rappresentano forse ancora oggi i gradini inferiori dei popoli più antichi. Sono stati distinti a questo riguardo i popoli più bassi, che vivono principalmente dei prodotti della caccia (selvaggina) e della pesca. Non è esatto però credere che essi vivano esclusivamente di tali prodotti. I Boscimani dell'Africa australe, per es., si alimentano anche di uova di formiche, di cavallette, di miele selvaggio e di piccole cipolle delle numerose specie di iris, che vivono allo stato selvatico nelle steppe e nei deserti da loro abitati. Presso tutti i primitivi che ignorano o non praticano l'agricoltura, accanto alla caccia ed alla pesca ha grande importanza la raccolta dei prodotti commestibili offerti dalla vegetazione naturale, che sono utilizzati in gran numero e, sovente, con ingegnosi accorgimenti (v. agricoltura, origini). E non sono poche le popolazioni primitive, presso le quali l'alimentazione è basata, in modo essenziale, sulla raccolta di qualche grano (riso selvatico della regione dei Grandi Laghi dell'America del N.) o frutto (ghiande nella California) offerti dalla flora selvatica. Forse soltanto i cacciatori e pescatori polari, per le limitazioni poste dall'ambiente, e soltanto durante l'inverno, si può dire che si nutrano esclusivamente di carne.
Un tipo di civiltà con alimentazione prevalentemente carnea è quello dei popoli pastori. Gli animali tenuti in stato di prigionia non solo rappresentano una maggiore abbondanza e sicurezza di cibo, ma possono migliorare le proprietà loro commestibili, sia ingrassando, sia sviluppandosi ulteriormente; offrono inoltre i prodotti speciali del latte e dei latticini. Anche in questa forma di esistenza, tuttavia, si ha un largo uso di prodotti del regno vegetale (frutti, tuberi, biade), che è di solito compito della donna raccogliere o coltivare.
In seno alla civiltà agricola si osserva quasi sempre la continuazione della caccia e della pesca e la presenza di animali domestici, le cui carni e i prodotti del latte formano, insieme cogli animali del cortile (pollame), un'importante sorgente di alimenti animali: i popoli agricoli, infatti, non sono mai esclusivamente erbivori o vegetariani, ma onnivori o misti, con prevalenza tuttavia dell'alimentazione vegetale. La coltura e l'addomesticamento delle piante utili presuppone una conoscenza e un'esperienza pratica molto più profonda e complessa di quella che è necessaria per l'allevamento e l'addomesticamento degli animali. Innanzi tutto fu necessario conoscere l'utilità dei prodotti naturali del regno vegetale per l'alimentazione e ciò avvenne nella ricordata fase primitiva della raccolta: furono note da principio le frutta selvatiche di alberi e arbusti; poi i tuberi e le radici; infine si conobbe l'utilità dei cereali e delle piante annuali (grani e biade), che parimenti si sviluppavano spontaneamente in determinate regioni. Solo dopo avere conosciuto e apprezzato il valore pratico alimentare di questi prodotti naturali, l'uomo cercò con la sua industria di allevarli e coltivarli artificialmente nei campi.
L'agricoltura imponeva però ancora nuovi bisogni per il consumo degli alimenti vegetali. Non bastava più per questi la semplice cottura, ma fu necessaria, specialmente per le biade e le granaglie, la sfarinatura e la fabbricazione del pane. Anche in questa pratica, tuttavia, gli agricoltori furono preceduti dai primitivi raccoglitori. Si introdusse così l'industria della macinazione, della fabbricazione del pane e delle paste, che andò sempre più sviluppandosi e conservandosi fino allo stato odierno della nostra civiltà. Per la sfarinatura servirono dapprima (e servono ancora oggi presso i popoli inferiori) i mortai e poi i molini a mano, rappresentati nella forma più rozza da due pietre che si fanno scorrere l'una sull'altra, frantumando i chicchi e le cariossidi; si trasformarono poi in molini a trazione animale, o mossi dall'acqua, dal vento, dai motori elettrici; s'imparò ben presto a separare la farina dalle diverse parti più o meno grossolane (setacci, cribri), s'imparò a impastare la farina e a cuocere la pasta in diverso modo; e finalmente si conobbe la fabbricazione del pane mediante la fermentazione e la cottura nei forni, ottenendo così un prodotto che alle migliori qualità nutritive, per la sua facile masticazione e digeribilità, univa anche l'altra di conservarsi più o meno inalterato per diversi giorni. Il pane di farina di frumento ha formato quindi il cibo fondamentale dei popoli della civiltà europea, tanto che tutto il resto si è indicato col nome complessivo di companatico.
Se le graminacee del genere del frumento (l'orzo, che ebbe dapprima il massimo sviluppo presso i Greci e i Romani più antichi, fu seguito ben presto dal grandissimo sviluppo che ebbe il genere Triticum o frumento) rappresentano l'alimentazione e il prodotto agricolo tipico dei popoli civili europei, l'altra graminacea, il riso (che però non si presta per la fabbricazione del pane e di tutte le altre specie di paste, come la farina del frumento) rappresenta il prodotto alimentare vegetale tipico dei popoli della civiltà asiatica orientale.
Il lato etnologicamente altrettanto importante dell'alimentazione è quello che riguarda gli svariati usi e costumi del modo di preparare le vivande (arte culinaria in senso stretto della parola), che si andò sviluppando in forme sempre più varie, dai popoli primitivi sino ai più civilmente evoluti, presso i quali giunge ad un grado di raffinata squisitezza.
Per intendere i fattori che hanno determinato lo sviluppo dell'arte culinaria, non basta riconoscere l'alimentazione come funzione fisiologica indispensabile al mantenimento dell'esistenza dell'organismo e al suo sviluppo naturale, perché con essa si introducono nel corpo i principî nutritivi che servono alla formazione e alla reintegrazione di tutti gli elementi cellulari dei tessuti, ma è soprattutto indispensabile considerare l'alimentazione come mezzo per la soddisfazione dei sensi del gusto e dell'olfatto e, inoltre, per acuire ed eccitare le funzioni sensoriali piacevoli dell'attività psichica. A quest'ultimo scopo servono specialmente gli alimenti e le bevande voluttuarie, che come le diverse bevande alcooliche, gl'infusi di caffè, tè, matè, la masticazione della coca, ecc., hanno un'azione eccitante sulle funzioni del sistema nervoso centrale, come il fumo dell'oppio, della canape indiana, del tabacco provocano complessi fatti di eccitamento e di narcosi. Queste sostanze eccitanti non hanno vero valore alimentare, pur avendone uno molto grande fisiologicamente ed etnologicamente.
Un'altra categoria importante di sostanze alimentari dotate di una particolare azione sui sensi del gusto e dell'olfatto, poiché rendono le vivande, a cui sono mescolate, più gradevoli ed appetitose, è rappresentata dalle varie droghe o spezie aromatiche, che pur compaiono abbastanza presto nella cucina dei varî popoli.
In genere compare ben presto l'uso della manipolazione o preparazione dei diversi cibi, che quindi non sono assunti come tali allo stato grezzo. Per le granaglie abbiamo visto sopra come la sfarinatura per opera della macinazione, e la successiva impastatura, fermentazione e cottura al forno, siano la maniera più comune della preparazione delle diverse paste e del pane dei popoli europei. Per le carni ben presto si smise l'uso della consumazione di esse allo stato crudo, ricorrendo alle diverse forme di cottura (a fuoco diretto o in acqua). L'azione del fuoco diretta, o ancora meglio nell'acqua bollente e nell'interno dei vasi (di vimini o di terracotta o di metallo o di pietra), che formano ben presto la suppellettile più comune e più diffusa di tutti i popoli, riesce utile per due ragioni: la sterilizzazione, ossia la distruzione dei batterî patogeni e putrefattivi o delle larve dei parassiti, che si possono sviluppare nell'organismo umano, e l'azione disintegrativa chimica che l'alta temperatura produce sui diversi costituenti chimici degli alimenti, rendendoli più gradevoli al gusto (poiché sprigionano le diverse sostanze aromatiche o fragranti, come quelle del pane fresco, dell'arrosto di carne, del brodo), più facilmente digeribili e quindi meglio adatti all'assorbimento.
L'arte della cucina però si estese ancora più, quando si apprese l'uso di preparare le vivande, mescolando i diversi generi alimentari, usando cioè i condimenti. Il prototipo di questi è rappresentato dalle diverse specie di grassi vegetali (olio) e di grassi animali, tanto allo stato fresco, quanto nelle diverse specie di cottura. Un altro genere di condimento è il sale di cucina (cloruro di sodio), diffuso specialmente presso i popoli agricoli, che fanno largo uso di alimenti vegetali: questo sale ha il valore di un vero alimento, poiché serve alla sostituzione di esso nella reintegrazione dei tessuti degli adulti e nella formazione dei tessuti negli organismi in via di sviluppo, poiché gli alimenti vegetali ne sono privi o almeno ne posseggono una quantità insufficiente (carenza alimentare), essendo invece ricchi di sali di potassio. Negli alimenti di origine animale invece il cloruro di sodio è presente, come pure nei loro prodotti (latte, latticini, uova), per cui i carnivori non sentono il bisogno, come gli erbivori, di provvedersi di sale di cucina. Questi due tipi di condimenti rappresentano quindi un completamento o un arricchimento di speciali principî alimentari che mancano o sono deficienti in altri alimenti: i grassi infatti sono quasi sempre scarsi nei comuni cibi di origine vegetale, ad eccezione di alcuni pochi (come le drupe dell'olivo o altri semi oleaginosi, da cui si apprese ad estrarli mediante l'uso dei frantoi e dell'estrazione dell'olio, così diffusa presso i popoli della civiltà mediterranea).
Altro genere di condimento è quello rappresentato dalle diverse spezie ed erbe aromatiche (pepe, salvia, rosmarino, garofano, maggiorana, prezzemolo, alloro, menta, ecc.); non hanno valore alimentare vero e proprio, nel senso che non posseggono grandi quantità di principî alimentari, ma hanno un grande compito nella funzione dell'alimentazione, eccitando il gusto e l'olfatto, la secrezione salivare e gastrica, e provocando quindi i processi reattivi della digestione e dell'assorbimento. I varî popoli e le varie nazioni presentano notevoli differenze nell'uso di queste diverse specie di condimento, come in genere il tipo della cucina è strettamente caratteristico per le diverse nazioni e anche parti di nazione (ad es., la preferenza dei maccheroni negli Italiani meridionali e del risotto negli Italiani settentrionali), mantenendosi i diversi caratteri della cucina per secoli, come è il caso appunto di alcuni generi alimentari degli antichi popoli latini e italici che si son conservati fino all'epoca odierna, specialmente nei costumi degli abitanti dei piccoli centri o villaggi.
Un altro genere di condimento, che ha l'importanza di un vero e proprio alimento, è dato dagli zuccheri, nella loro diversa forma di disaccaridi (saccarosio) e monosaccaridi (glucosio, fruttosio, ecc.) che si trovano in notevole quantità nelle diverse frutta e nel miele. Presso i diversi popoli e le varie civiltà si imparò ben presto a riconoscere l'importanza di questo genere di alimenti, escogitando diverse specie di estrazione di essi, della loro conservazione e della loro aggiunta come preferito condimento dolcificante. Agli antichi non soltanto era noto l'uso del miele delle api, che si apprese ad addomesticare, ma anche l'uso dei diversi succhi di frutta condensati, come ad es., il mosto cotto (sapa) e forse anche era noto l'uso dell'estrazione dello zucchero di canna. Col progredire della civiltà, si accrebbero e migliorarono le fonti di produzione, i mezzi di estrazione e di conservazione dello zucchero, diffondendosi sempre più il suo uso come condimento alimentare. Dalla fermentazione di questo gruppo di alimenti, e più specialmente dalla fermentazione alcoolica, l'uomo ben presto e ovunque ha ottenuto prodotti per le sue bevande.
I generi alimentari, la loro produzione, la loro preferenza, il modo di trarne vivande sempre più varie, specialmente con l'uso dei diversi condimenti, costituiscono nel loro insieme uno dei caratteri etnologici più importanti e nello stesso tempo più costanti di un determinato popolo e nazione. Per gli Italiani, p. es., l'uso, che li distingue dalle altre nazioni europee, del particolar modo di preparare le paste alimentari (maccheroni) risale alle epoche più antiche dei popoli latini. Ciò non esclude però che non possano avvenire modificazioni nell'alimentazione, quando si riconosce la importanza speciale e si accetta qualche nuovo prodotto alimentare straniero. Con l'introduzione della coltivazione della patata, oriunda dall'America, in Europa, fu in gran parte scongiurato il grave pericolo, sempre minacciante, della carestia, per cause sfavorevoli di stagione, nella coltivazione dei cereali (tanto più grave in epoche in cui il commercio non disponeva di rapidi mezzi). Un'altra pianta utile per l'alimentazione, parimenti d'origine americana, fu introdotta e largamente coltivata in Europa, il mais, che, per differenza di clima e di esigenze meteorologiche, si rivelò come genere che poteva svilupparsi e fruttare, quando le condizioni atmosferiche della stagione erano contrarie allo sviluppo del frumento. L'alimentazione fatta esclusivamente con prodotti di farina di mais si dimostrò però dannosa all'organismo umano, poiché fu visto che i principî alimentari di questa farina (specialmente le proteine) non sono adatti completamente alla nutrizione umana (v. pellagra), donde la necessità di limitarne l'uso, mescolando il prodotto con altri di maggiore e migliore valore alimentare.
Finalmente un terzo esempio di pianta introdotta e largamente diffusa nei popoli europei meridionali, specialmente italiani, che ne traggono il condimento più largamente impiegato in tutte le vivande, è quello del pomodoro, appartenente alla solanacee, come la patata, ed oriundo anch'esso dall'America.
Le condizioni che determinano le diverse specie di generi di alimentazione dei varî popoli, non sono tanto dipendenti dai loro gusti e dalle loro tendenze, quanto invece dalle variazioni esterne climatiche delle regioni della terra da loro abitate. È chiaro infatti che, soprattutto per la coltivazione delle diverse piante utili, specialmente del genere delle graminacee (Triticum), è indispensabile il clima delle zone temperate, in cui, a un periodo di regolare pioggia a bassa temperatura (invernale), segue un periodo di relativa siccità a media ed alta temperatura (primaverile ed estiva) che permette l'attecchimento, lo sviluppo e la maturazione delle messi. Forse non è estraneo a questa circostanza il fatto che le popolazioni più antiche, della più elevata civiltà, tanto in Europa che in Asia e in America, si svilupparono proprio nelle regioni capaci di tale coltivazione.
Le altre regioni, quelle equatoriali della zona torrida, o quelle più vicine ai poli, dai freddi eccessivi, sono caratterizzate dalla loro particolare fauna e flora, da cui l'uomo può attingere la sua alimentazione. Soprattutto nella zona calda, speciali condizioni di sviluppo vegetale o di ricchezze di selvaggina o di pesca possono rendere l'uomo, per così dire, particolarmente fortunato, fornendogli tutta l'alimentazione necessaria per il suo sostentamento, senza imporgli la dura necessità di speciali cure e lavori manuali. Celebre a questo riguardo è il caso del meraviglioso albero del pane (Artocarpus incisa: v.), molto simile al nostro fico, scoperto per la prima volta dal Cook nelle isole dell'Oceania. "Chiunque, durante la sua vita, ha piantato soltanto dieci di questi alberi, ha completamente adempiuto a tutti i suoi doveri verso la propria e la successiva generazione, mentre un abitante del nostro continente che per tutta la sua vita, d'inverno abbia arato i campi e d'estate abbia raccolto la messe, deve provvedere non soltanto del necessario pane la sua famiglia momentanea, ma persino faticosamente mettere da parte un buon peculio per i suoi figli". Quest'albero, che ha oggi la sua patria nell'Oceania, alto da 12 a 15 metri, è ivi noto soltanto come pianta coltivata: i suoi frutti che pesano da un chilogrammo e mezzo a due chilogrammi, simili a meloni, della grandezza di una testa umana, formano (come i cereali e le patate altrove) l'alimento fondamentale di quegli abitanti. Per gli abitanti di altre isole dell'Oceano Pacifico, nella zona intertropicale, le frutta di altri preziosi alberi (Pandanus odoratissimus, Musa paradisiaca e sapientum, che producono le banane) forniscono largamente l'alimento principale, capaci di dare un rendimento centinaia di volte superiore a quello reso dal nostro frumento, con un minimo o con nessuno sforzo per la loro coltivazione.
Se queste speciali condizioni di facile alimentazione possono sembrare fortunate per quegli abitanti, all'etnologo non deve però sfuggire il fatto importante che queste stesse regioni sono quelle che albergano le popolazioni di civiltà inferiore e che, quindi, molto probabilmente le difficoltà del sostentamento materiale, che impongono l'affannosa ricerca e la vigile industria per procacciarsi del cibo, che hanno determinato lo sviluppo dell'allevamento del bestiame e più specialmente dell'agricoltura nelle popolazioni costrette a vivere in regioni e climi meno fortunati, sono state anche quelle che hanno acuito sempre più e sempre meglio l'intelligenza umana, contribuendo a determinare lo sviluppo e il progresso delle più elevate civiltà.
Alle numerose e grandi variazioni etnologiche dell'alimentazione umana, sinora considerate, per la massima parte dipendenti dalle condizioni ambientali delle diverse regioni abitate dall'uomo sono da aggiungere altre più direttamente connesse con le attività umane o con speciali esigenze di clima. Per intendere queste variazioni è necessario ricordare gli scopi fisiologici adempiuti dall'alimentazione. Oltre allo sviluppo e al mantenimento corporeo, fisico e funzionale dei diversi tessuti, gli alimenti provvedono anche a soddisfare il fabbisogno energetico dell'organismo, ossia a produrre, con le ossidazioni e combinazioni chimiche che avvengono nell'interno dell'organismo, il calore del corpo umano e a provvedere l'energia meccanica per il lavoro muscolare. Come prima conseguenza di questa legge, vediamo che tutti i popoli esposti ad un clima freddo, abitanti cioè nelle regioni polari o sub-polari, nelle quali la temperatura esterna è nella più gran parte dell'anno notevolmente inferiore a quella media del corpo umano, e quindi esposti a una perdita di calore del proprio corpo notevolmente maggiore di quella dei popoli viventi nelle regioni temperate o nella zona torrida, a questa forte perdita di calore (avvertita come sensazione sgradevole di freddo) provvedono in due modi: limitando la perdita di calore della superficie del corpo, mediante le vesti e le pellicce (o ricorrendo a riscaldamento artificiale dell'ambiente esterno), e ingerendo grande quantità di alimenti capaci di produrre maggior calore nell'interno del corpo. Il freddo eccita istintivamente l'appetito. Tra i diversi generi alimentari, i grassi sono dotati di un coefficiente termico più elevato (9,3 calorie per ogni grammo), mentre i carboidrati e le proteine svolgono una quantità di calore minore (4,3 calorie per gr.). I popoli nordici (Lapponi, Eschimesi) si nutrono di grandi quantità di grassi animali, appunto per provvedere a questo particolare bisogno energetico. Calcolando il numero delle calorie introdotte complessivamente con l'alimentazione quotidiana, si trova il numero delle calorie degli alimenti introdotti dai popoli nordici molto più elevato (da 4 a 6 mila pro die) del numero delle calorie introdotte dai popoli meridionali (da 2 a 3 mila).
Condizioni opposte si verificano per i popoli viventi nelle regioni calde, i quali hanno un bisogno energetico incomparabilmente minore: quindi la loro alimentazione è sempre povera di grassi (pei quali istintivamente sentono disgusto o avversione, appunto perché nell'interno del corpo produrrebbero una quantità eccessiva di calore, dannosa o almeno molesta in quelle regioni, specialmente nelle stagioni calde) e prevalentemente costituita da generi alimentari, che possano soddisfare col loro volume al senso dell'appetito e della sazietà, ma con un numero di calorie complessive talora molto inferiore al numero di calorie dei popoli delle zone temperate. Questi popoli, d'altra parte, sentono il bisogno non solo di provvedere alla diminuzione del calore interno con l'abolizione delle vesti e col favorire le correnti aeree, con l'uso dei bagni, ecc., ma anche di diminuire la produzione di calore interno, eliminando ogni movimento o lavoro muscolare superfluo e ricorrendo a speciali alimenti voluttuarî che eccitino la fame.
Analoghe variazioni osserviamo tra i diversi popoli, secondo il clima delle regioni da loro abitate, nell'uso delle bevande alcooliche che sono ingerite in grande quantità presso i popoli nordici, nei quali la combustione interna dell'alcool contribuisce (secondo l'ipotesi corrente) all'aumento della produzione di calore interno.
Un ulteriore fattore delle variazioni etnologiche dell'alimentazione, che si riferiscono più alla quantità che alla qualità degli alimenti, proviene dalle diverse professioni o mestieri esercitati dai varî individui o caste della stessa nazione o popolo. I lavori muscolari esigono un aumento dell'alimentazione ordinaria, per sopperire al lavoro meccanico prodotto in quantità maggiore, mentre l'inerzia muscolare, anche se accompagnata da attività psichica, impone una necessità minore di alimenti. Per soddisfare ai grandi lavori muscolari i diversi popoli provvedono con l'aumento della razione alimentare, che può avvenire specialmente a carico di alimenti vegetali.
D'altra parte l'attività muscolare interviene come fattore che facilita l'aumento della produzione di calore: i popoli viventi nei climi freddi sono anche d'ordinario più attivi per il bisogno istintivo di aumentare la produzione di calore interna mediante l'attività muscolare. Ciò d'altra parte fa aumentare i bisogni alimentari di questi popoli. Nei popoli meridionali o viventi nelle zone torride, l'inerzia muscolare si può concepire quasi come un bisogno istintivo di diminuire la produzione di calore interno. Presso di essi vediamo, d'altra parte, molto sviluppato l'uso di eccitanti nervosi (caffè e tè, ecc.), quasi come mezzi necessarî a tener desta l'attività corticale.
Un'altra sostanza, finalmente, merita di essere qui ricordata come alimento indispensabile, da cui possono dipendere notevoli variazioni etnologiche: l'acqua, considerata come bevanda. Il valore fisiologico alimentare dell'acqua è molteplice e importantissimo potendosi, come è noto, vivere per parecchi giorni e mesi a digiuno di alimenti solidi, ma non con l'esclusione dell'acqua, la cui mancanza, protratta per pochi giorni, è incompatibile con la vita, provocando gravissimi disturbi in tutti gli organi più importanti.
Tutte le regioni aride che non forniscono acqua all'uomo per i suoi bisogni alimentari sono regioni disabitate e inadatte allo sviluppo del genere umano. L'acqua potabile deve avere un'adatta composizione chimica, specialmente deve essere poverissima di sali, in modo da fornire al gusto quella sensazione gradevole, senza speciali caratteri, che corrisponde alla denominazione ordinaria di acqua dolce. L'acqua di mare e le acque minerali eccessivamente ricche di componenti minerali, per la loro eccessiva concentrazione molecolare, in confronto alla composizione chimica del sangue, non sono adatte ad estinguere la sete. Diversi mezzi e artifici escogitano e usano i varî popoli per assicurarsi questo prezioso alimento: la raccolta e la conservazione dell'acqua piovana, l'uso dell'acqua delle sorgenti, dei ruscelli o dei fiumi correnti liberamente sulla superficie della terra, l'escavazione dei pozzi e la condotta delle acque potabili. Le sedi delle tribù popolose e delle città sono condizionate dalla possibilità di avere il fornimento continuo dell'acqua potabile. Le parti più aride della zona tropicale, coi loro deserti, sono inabitabili per questa ragione: mentre le loro oasi o le rive dei fiumi sono il luogo preferito di abitazione e di vita. È interessante tuttavia rilevare che, spinti probabilmente dalla pressione di altre genti o dalle necessità del naturale incremento di popolazione in regioni chiuse (Australia), varî popoli primitivi riescono a vivere anche in regioni desertiche, pur ignorando l'esistenza e l'uso delle acque del sottosuolo: e molti ingegnosi accorgimenti sono stati segnalati presso i Boscimani africani e gli indigeni dell'Australia, i quali per soddisfare la sete nelle stagioni più asciutte si valgono delle parti succulente delle piante (assai comuni nelle regioni aride) o, con appositi mezzi, fan salire dal suolo, per capillarità, l'umidità che esso contiene. Sistemi primitivi, ma che pur rappresentano il primo passo compiuto dall'uomo per l'occupazione degli ambienti anche più sfavorevoli alla vita.
Bibl.: Numerosi contributi esistono, nella letteratura etnologica speciale sull'alimentazione dei varî popoli della terra, e soprattutto dei primitivi. Ma in modo sintetico la questione si trova trattata soltanto nelle opere generali di etnologia (v. G. Ranke, L'uomo, trad. it., Torino 1890; F. Ratzel, Le razze umane, trad. it., Torino 1909, I; H. Schurtz, Urgeschichte der Kultur, Lipsia 1912) o di fisiologia (v. L. Luciani e S. Baglioni, Fisiologia dell'uomo, V, Milano 1924). V. anche F. Krause, Das Wirtschaftsleben der Völker, Breslavia 1924, e A. Haberlandt, Die Trinkwasserversorgung primitiver Völker, suppl. 174 alle Peterm. Mitteil., Gotha 1912.
Problema economico dell'alimentazione.
L'importanza preminente che il problema dell'alimentazione ha in tutti i tempi e in tutti gli stati, è dovuta all'essere la necessità alimentare, necessità fisiologica fondamentale e inderogabile, una specie di programma minimo, sul quale non possono farsi rinunce, se non a spese della salute fisica e morale degli individui, della produttività economica del popolo, dell'avvenire della razza. E poiché ogni comunità umana pensa anzitutto a soddisfare il suo bisogno fisiologico di cibo, il regime alimentare di un popolo è indice notevolissimo delle sue condizioni economiche. Conoscere esattamente il regime alimentare di un paese, in una determinata epoca, non è agevole, per le incertezze relative ai dati sulla produzione, sugli scambî con l'estero, e soprattutto sugli stocks; per l'ignoranza intorno alle quantità di alcune derrate sottratte all'alimentazione umana per deterioramento, per usi industriali o per impiego nell'allevamento zootecnico; per gli spostamenti nei consumi, dipendenti da vicende nella produzione e da oscillazioni nei prezzi; per l'impossibilità di rilevare con precisione l'entità della massa consumatrice; per quel che concerne infine la parte mobile della popolazione, costituita da stranieri, i cui notevoli consumi, ciò che si verifica per alcuni paesi in particolar modo, formano una specie di esportazione assai difficilmente misurabile.
Se si conosce approssimativamente il regime alimentare di un popolo, è però anche necessario conoscere il fabbisogno alimentare del popolo stesso, per poter giudicare se quel regime sia o no sufficiente. Molti elementi entrano nel calcolo del fabbisogno alimentare, diversi a seconda del sesso, dell'età e del lavoro dell'individuo e a seconda delle condizioni di razza e di clima; queste ultime specialmente hanno un peso preponderante, così che il dedurre dal fabbisogno di una nazione il fabbisogno mondiale condurrebbe, senza dubbio, a conclusioni evidentemente errate e anche più lontane dalla verità di quelle che si otterrebbero, deducendo dal fabbisogno di un uomo tipo il fabbisogno nazionale.
E qui sul problema fisiologico s'innesta il problema economico. È capace lo stato in esame di soddisfare il fabbisogno alimentare del suo popolo? Quali i mezzi migliori per colmare il deficit in caso contrario? Le risorse naturali del territorio, la fase dell'economia agricola o industriale in cui il paese si trova, la sua posizione geografica, la consistenza attuale e la forza di accrescimento della popolazione, sono gli elementi di cui bisogna tener conto per la soluzione delle accennate questioni.
Può darsi, infatti, che l'entità dei prodotti del suolo sia tale da nutrirne sufficientemente gli abitanti, e che la possibilità di ulteriori sfruttamenti, considerata relativamente alla capacità riproduttiva del popolo, allontani ogni preoccupazione anche per l'avvenire. Può darsi invece che, o per la povertà originaria del territorio, o per la sproporzione insanabile fra territorio e popolazione, il paese sia necessariamente e perpetuamente costretto a cercare rifornimenti fuori dei suoi confini. Può darsi, inoltre, che la situazione attuale, di indipendenza o di dipendenza dai mercati esteri, sia soggetta a mutare in un più o meno lontano domani. Né bisogna dimenticare come anche gli stati potenzialmente capaci di bastare a sé stessi, per ciò che riguarda le sussistenze, possano trovare la loro convenienza commerciale nel dedicarsi prevalentemente alle industrie, o a colture non alimentari, il che implica la necessità di una rete di rifornimenti larga e sicura.
Se oltre a tutto ciò si considera poi anche la possibilità di eventi straordinarî, quali siccità, cataclismi, guerre di tariffe e conflitti armati, si vedrà con chiarezza come diversamente si presenti per le diverse nazioni il problema dell'alimentazione; problema essenzialmente contingente e connesso a fattori economici, politici, demografici, per loro natura varî e mutevoli.
Volendo dare uno sguardo d'insieme alla situazione mondiale di fronte al problema dei rifornimenti, può notarsi anzitutto l'aumento verificatosi in questi ultimi anni nella produzione complessiva di derrate alimentari, in confronto dell'anteguerra; aumento tuttavia assai meno sensibile di quello realizzato nel campo delle materie prime destinate all'industria, e che non supera probabilmente di molto l'accrescimento della popolazione mondiale verificatosi nello stesso periodo.
Tale aumento nella produzione delle derrate alimentari, specialmente dei cereali, non si verifica però in Europa, che, per molte cause (riforme agrarie, incerte condizioni politiche e sociali, annate sfavorevoli, ecc.), ha visto diminuite le sue disponibilità interne, ha dovuto quindi ricorrere in più larga misura ai mercati d'oltre oceano, né ha potuto con ciò sostituire completamente le mancanti esportazioni russe e romene, così che il consumo europeo risulta in complesso diminuito. Anche per ciò che riguarda il patrimonio zootecnico e la produzione di carne, per quanto i dati relativi siano in gran parte congetturali, può dirsi che si verifichi egualmente un aumento nell'ammontare mondiale e una situazione europea di sempre maggior dipendenza dai mercati esteri.
Nelle due Americhe e in Australia si nota soprattutto l'incremento della produzione, dell'esportazione e del consumo interno. Un aumento di produzione, ma un ancor più forte incremento nei consumi, si nota poi nel continente asiatico, sia per il forte ritmo di accrescimento della popolazione, sia per l'ascesa del suo tenor di vita, in armonia con lo sviluppo industriale. Trascurabili possono dirsi invece le variazioni verificatesi nel commercio e nella produzione africana di derrate alimentari, così che le quantità disponibili per il consumo interno non si allontanano attualmente di molto dal loro ammontare prebellico.
Quale, più particolarmente, la situazione del nostro paese?
I dati raccolti da numerose fonti intorno ai consumi alimentari in Italia, anteriormente alla guerra, sembrano comprovare, attraverso le sensibili divergenze di tipo alimentare tra regione e regione, la prevalenza di un tenor di vita assai basso, specie nel sec. XIX, e di una dieta a rendimento energetico per lo più insufficiente, per deficienza soprattutto di sostanze grasse e di materie proteiche. E nonostante il notevole miglioramento verificatosi in genere nelle condizioni economiche nazionali al principio del 1900, e le evidentissime ripercussioni di esso sul tenore di vita delle varie classi sociali, l'alimentazione del popolo italiano si mantenne anche in quegli anni assai parca e in gran parte vegetale.
Tuttavia, anche in quel periodo, l'Italia doveva ricorrere a stati esteri per alcune voci del suo bilancio alimentare, per le quali la produzione interna era insufficiente, mentre eccedeva per altre il fabbisogno nazionale. Situazione che ancor più si accentuò col migliorare delle condizioni economiche, come dimostrano le eccedenze sensibili delle importazioni alimentari sulle esportazioni, negli ultimi anni anteriori alla guerra, in contrasto con l'avanzo che si verificava nel valore degli scambî commerciali degli stessi prodotti negli anni precedenti. Considerando però, invece del valore monetario delle derrate, il loro valore fisiologico, vale a dire la loro potenzialità nutritiva, il bilancio alimentare italiano palesa in ogni periodo un grave disavanzo, poiché, appunto per il diseguale valore commerciale delle varie derrate, il nostro paese trovò economicamente conveniente dare largo sviluppo a produzioni agrumarie, orticole e simili, anche se i prodotti così ottenuti hanno scarsa consistenza vittuaria, e procurarsi, attraverso scambî con altri paesi, i cereali e le derrate ricche di potere calorifico.
Questa speciale situazione dell'Italia, nei rispetti dell'ordinario approvvigionamento alimentare in condizioni normali, doveva necessariamente aggravare la penosa situazione determinata dallo scoppio della guerra, sia per lo scarso margine di contrazione nel tenor di vita, sia per la necessità di maggior consumo di derrate ad alto valor nutritivo, in seguito al maggior dispendio di energie che si richiedeva a gran parte della popolazione, sia per la diminuita possibilità di collocare all'estero i nostri prodotti di carattere più o meno voluttuario, sia ancora per l'avvenuto mutamento topografico nelle correnti di importazione e di esportazione.
Né la situazione degli approvvigionamenti migliorò col cessare delle ostilità, ché i primi anni post-bellici presentarono anzi il deficit più forte del nostro bilancio alimentare. L'ampliamento nei consumi, verificatosi in tutti i paesi belligeranti dopo la guerra, accentuò difatti la domanda di derrate alimentari, specie di cereali, mentre le condizioni poco favorevoli all'agricoltura, determinate in un primo tempo dalla guerra stessa, e in seguito da conflitti economici e sociali, contrassero la nostra produzione agraria.
Un sensibile miglioramento si profila da qualche anno, determinato in parte dal ritorno alle condizioni normali, in parte dalla politica rurale seguita dal governo.
Le principali voci d'importazione del bilancio alimentare italiano sono: fra i cereali, il frumento, e, in quantità notevolmente inferiore, il granturco; e tra le derrate di origine animale, pesci, carni fresche e preparate, e animali bovini.
Le principali voci di esportazione sono costituite dagli agrumi, dal riso, dalle frutta secche, dal formaggio, dalle frutta fresche, dalle patate, dalle uova e dagli ortaggi.
Bibl.: R. Pearl, The nation's Food, Filadelfia e Londra 1918; Albertoni e I. Novi, Du régime nutritif du paysan italien, in Arch. it. di biol., XXI (1894); Comitato Scientifico per l'alimentazione, Relazione riassuntiva, Roma 1919; N. Fotticchia, La produzione zootecnica italiana, in Nuovi Annali Minist. di Agricoltura, II (1922), n. 2; Th. Middleton, Food production in War, Oxford 1923; J. Birot, Statistique générale de géographie humaine comparée, Parigi 1924; M. Camis, Intorno alle condizioni alimentari del popolo italiano, Parma 1924; R. Bachi, L'alimentazione e la politica annonaria in Italia (Pubblicazioni della Fondazione Carnegie per la pace internazionale), Bari 1926; Société des Nations, Mémorandum sur la production et le commerce, Ginevra 1927; Les forces économiques du monde, a cura della Dresdner Bank, Berlino 1927; Institut International d'Agriculture, Annuaires de statistique agricole, Roma.
Alimentazione del bestiame.
Lo studio degli alimenti, della loro composizione chimica e digeribilità, delle funzioni dei diversi principî nutritivi nell'organismo animale, dei fattori accessorî della nutrizione (vitamine), dei bisogni alimentari degli animali delle diverse specie e con diverse funzioni economiche, dei metodi di razionamento e preparazione dei mangimi, ecc., costituisce la dottrina dell'alimentazione, che è un capitolo importantissimo della fisiologia, dell'igiene e della zootecnia. Dal punto di vista della zootecnia, l'alimentazione razionale del bestiame è considerata giustamente come uno dei fattori essenziali del miglioramento degli animali, e la base del successo economico dell'industria zootecnica.
I principî nutritivi degli alimenti, digeriti e assimilati, servono a soddisfare i bisogni fisiologici degli animali, i quali bisogni variano a seconda che si tratti di individui adulti o in via di accrescimento, a seconda che gli animali debbano provvedere al solo mantenimento del loro organismo, oppure fornire prodotti sotto forma di lavoro, carne, grasso, latte, lana, uova, ecc. Nel loro complesso si riassumono nella necessità: a) di materia vivente, che ripara la distruzione continua di questa, e permette lo sviluppo dei diversi tessuti ed organi, se si tratta di animali in accrescimento; b) di energia potenziale, per produrre il calore ed il lavoro (lavoro fisiologico e lavoro utile); c) di materia per formare altri prodotti utili (carne, grasso, latte, lana, uova, ecc.).
La formazione e il rinnovamento della materia vivente dipendono quasi esclusivamente dalle sostanze azotate degli alimenti, da quelle proteiche in primo luogo e subordinatamente da quelle azotate non proteiche. Da ciò la indispensabilità e la insostituibilità delle sostanze azotate nella razione di qualsiasi animale.
La produzione dell'energia termica e dinamica (calore e lavoro animale) è disimpegnata prevalentemente dagl'idrati di carbonio e dai grassi che nell'organismo subiscono un'ossidazione completa con formazione di acqua e anidride carbonica; ma l'energia termica e dinamica può essere fornita anche dalle sostanze azotate, le quali subiscono nell'organismo un'ossidazione incompleta con formazione di urea, acido urico, ippurico, ecc.
Nella formazione del grasso animale (v. adipe) possono intervenire, subordinatamente alla loro disponibilità, tutti e tre i gruppi di principî nutritivi organici e cioè gl'idrati di carbonio, i grassi e le sostanze azotate. La carne propriamente detta (muscoli), essendo costituita di elementi cellulari (fibre muscolari), non può derivare che dalle sostanze azotate degli alimenti. Nella formazione del latte, i costituenti azotati di questo (caseina e lattoalbumina) derivano esclusivamente dalle sostanze azotate degli alimenti, mentre i costituenti organici non azotati (burro e lattosio) possono provenire dagli idrati di carbonio e dai grassi, e, in difetto di questi, dalla sostanze azotate. Le uova e la lana, essendo prodotti azotati, traggono origine, prevalentemente, dalle sostanze azotate degli alimenti.
Il coefficiente di digeribilità di un alimento è dato dal rapporto percentuale fra la quantità di sostanza secca dell'alimento ingerito dall'animale e la quantità espulsa con le feci. La digeribilità si determina, di solito, singolarmente per i singoli principî nutritivi dell'alimento (proteine, grassi, cellulosio, sostanze estrattive inazotate). In generale, quanto maggiore è il contenuto in cellulosio di un alimento tanto più basso è il suo coefficiente di digeribilità.
Per relazione nutritiva di alimento si intende il rapporto percentuale che passa fra il contenuto in sostanze azotate digeribili e il contenuto in idrati di carbonio e grassi, ridotti questi ultimi allo stesso valore energetico degli idrati di carbonio, cioè moltiplicandoli per il coefficiente 2,4. Si ha, cioè:
La relazione nutritiva si dice stretta quando è espressa da valori superiori a 1/6, cioè 1/5, 1/4, 1/3...; si dice larga quando è espressa da valori inferiori a 1/6 e cioè 1/7, 1/8, 1/9. . .
La relazione nutritiva, mentre indica i rapporti tra sostanze azotate e non azotate (idrati di carbonio e grassi) non tiene conto del diverso valore fisiologico che hanno le singole proteine. È perciò opportuno, volta per volta, rendersi conto se si tratta di alimenti che contengono proteine complete o incomplete. In generale le proteine di origine animale sono proteine complete, mentre molte di quelle provenienti da vegetali sono incomplete.
Il valore nutritivo degli alimenti dovrebbe esprimere il potere di trasformazione degli alimenti stessi in prodotti animali (materiali o energetici), ma praticamente ciò riesce molto difficile. Ad ogni modo sono stati escogitati diversi metodi che, basandosi su principî diversi, consentono di tradurre in unità nutritive il valore nutritivo degli alimenti. I metodi oggi ritenuti più razionali sono quelli del Kellner, dell'Armsby e il danese.
Il metodo proposto dal Kellner è basato sul potere di trasformazione dei principî nutritivi in grasso animale, e l'unità nutritiva adottata è il chilogrammo d'amido: quando si dice, p. es., che un fieno contiene 40 unità d'amido, ciò significa che 100 kg. di quel fieno equivalgono, per valore nutritivo (più esattamente si dovrebbe dire per potere di trasformazione in grasso) a 40 kg. di amido. Il metodo del Kellner è generalmente adottato in Germania e nei paesi del centro e del sud d'Europa.
Il metodo dell'Armsby è basato sul rendimento in energia termica netta degli alimenti, e l'unità nutritiva adottata è il therm, che corrisponde a 1000 grandi calorie. Il metodo dell'Armsby è adottato specialmente nei paesi anglosassoni (Stati Uniti e Inghilterra).
Nel metodo danese l'unità nutritiva convenzionale è il kg. di orzo - unità foraggiera - e il valore nutritivo degli alimenti è stato calcolato in base all'equivalenza degli stessi rispetto all'orzo, equivalenza dedotta da prove pratiche comparative di rendimento sulle vacche da latte. Questo metodo è adottato nei paesi del nord d'Europa.
Nel giudizio definitivo sul valore fisiologico degli alimenti bisogna, infine, tenere conto della quantità e qualità delle vitamine in essi contenute.
L'alimentazione razionale presuppone la somministrazione di alimenti che per quantità e per qualità corrispondano alle esigenze fisiologiche dell'organismo animale. Ciò si ottiene mediante il razionamento. Chiamasi razione la quantità di alimenti somministrati nelle 24 ore ad un animale. Essa comprende la razione di mantenimento e la razione di produzione. La prima rappresenta la quota parte di alimenti necessarî per il semplice mantenimento dell'organismo, la seconda invece rappresenta la quota parte destinata ad essere trasformata in prodotti utili (lavoro, carne, latte, grasso, lana, ecc.). Una razione è completa quando contiene, in giusta quantità e proporzione, i diversi principî nutritivi necessarî sia per il mantenimento dell'organismo sia per assicurare la produzione che ad esso si chiede.
Diversi sono i metodi proposti ed adottati per il calcolo delle razioni. Quelli attualmente riconosciuti come più razionali sono anche qui tre e cioè: il metodo del Kellner, il metodo dell'Armsby e il metodo danese. Tutti e tre forniscono gli elementi base per il calcolo delle razioni, elementi che sono contenuti in apposite tavole.
Il metodo del Kellner tiene conto dei valore nutritivo totale, espresso in unità di amido, del contenuto in proteina digeribile, del contenuto in sostanza secca, del contenuto in grassi ed in idrati di carbonio digeribili.
Il metodo dell'Armsby tiene conto del valore nutritivo totale, espresso in Therms, del contenuto in proteina digeribile, del contenuto in sostanza secca.
Il metodo danese tiene conto del valore nutritivo totale, espresso in unità foraggiere, del contenuto in proteina digeribile e del contenuto in sostanza secca.
Gli alimenti del bestiame possono essere classificati in due grandi categorie: alimenti più o meno voluminosi in rapporto al loro contenuto di principî nutritivi digeribili, e questi sono comunemente indicati col nome di foraggi; alimenti che racchiudono in poco volume una grande proporzione di principî nutritivi digeribili, e questi sono generalmente indicati come mangimi concentrati. Il largo impiego di questi ultimi è in stretto rapporto con l'allevamento di razze precoci e dotate di grande potenzialità produttiva (razze più o meno specializzate).
I foraggi possono essere così classificati: foraggi verdi, foraggi insilati, radici e tuberi, fieni, paglie e loppe. I mangimi concentrati alla loro volta possono essere così classificati: semi e frutti non acquosi, residui di mulini e di risifici (crusche e pule), residui della estrazione dell'olio di semi e frutti oleiferi (panelli), residui della estrazione dello zucchero di barbabietola (polpe secche e melassa), residui essiccati dell'estrazione della birra (trebbie secche), residui essiccati della distillazione dell'alcool (borlande secche), residui essiccati della distillazione dell'amido e della fecola (semola glutinata, glutine), residui dei macelli, delle fabbriche di estratti di carne e della lavorazione del pesce (farina di sangue, farina di carne, farina di pesce).
Bibl.: E. Menozzi e V. Niccoli, Alimentazione del bestiame, Milano 1898; E. Pott, Manuale dell'alimentazione del bestiame e dei foraggi agricoli, Torino 1907; F. P. Armsby, The nutrition of farm animals, New York 1917; O. Kellner, Die Ernährung der landwirtschaftlichen Nutztiere, Berlino 1920; R. Gouin, Alimentation rationelle des animaux domestiques, Parigi 1922; E. V. Mc Collum, The newer knowledge of nutrition, New York 1923; R. Giuliani, Mangimi concentrati e prodotti complementari dei foraggi, Firenze 1926.