Ambientalismo
Il termine ambientalismo può essere utilizzato per denotare varie correnti intellettuali e scientifiche impegnate nello studio della relazione uomo-natura e, in particolare, delle conseguenze dell'azione del primo sulla seconda (v. Worster, 1985). Può tuttavia - ed è questa l'accezione adottata in questa sede - riferirsi anche a uno specifico movimento sociale, pure ampio ed eterogeneo: vale a dire, al complesso di iniziative sul terreno associativo e politico, che si propongono non solo di incoraggiare il rafforzamento della sensibilità ambientale presso il grande pubblico, la comunità scientifica, le élites o i media, ma anche di convertirle in un progetto politico e culturale in grado di orientare i comportamenti collettivi come quelli individuali, l'azione delle istituzioni pubbliche come quella dei soggetti privati.
Pur essendo l'ambientalismo divenuto un fenomeno di massa soltanto a partire dagli anni settanta, le sue radici risalgono perlomeno alla metà del XIX secolo. Anche un breve profilo dell'argomento deve pertanto adottare una prospettiva storica. Inoltre, come qualsiasi altro movimento sociale di vasta portata, l'ambientalismo si presta a numerose chiavi di lettura, utili sia a ricostruirne l'evoluzione temporale, sia a cogliere le differenze tra le sue componenti interne in prospettiva sincronica (v. Diani, 1988; v. Farro, 1990; v. Melucci, 1991²; v. della Porta e Diani, 1997). È in primo luogo possibile individuare al suo interno una tensione fra modelli di azione ispirati dal principio di razionalizzazione dell'agire umano, e principî di natura squisitamente etico-politica. Nel primo caso, la conoscenza scientifica rappresenta la principale fonte di legittimazione; nel secondo, l'iniziativa ambientalista trova la sua giustificazione nel riferimento a principî etici e filosofici di fondo. Un altro dilemma importante si riferisce alla definizione degli obiettivi dell'azione ambientalista. Da un lato si è posto l'accento sulla protezione delle risorse naturali non ancora contaminate, e sulla loro sottrazione all'azione distruttrice dell'uomo. Da un altro punto di vista si è invece associata la battaglia per la difesa ambientale a quella per la modifica dei rapporti economico-sociali che starebbero alla base del degrado ambientale, assegnando maggior spazio alla riqualificazione delle aree antropizzate, in particolare, delle aree urbane e metropolitane ad alta - presente o passata - concentrazione industriale. Un terzo livello di analisi distingue tra una visione dell'ambientalismo in quanto specifica esperienza di azione collettiva, e una visione che ne sottolinea soprattutto la dimensione prettamente individuale. Nel primo caso, si assegna un ruolo centrale a varie forme di pressione politica, e all'azione regolatrice promossa da vari attori pubblici e privati. Nel secondo, la protezione ambientale viene a dipendere prevalentemente da trasformazioni nei comportamenti individuali, che possono a volte prendere anche connotati esplicitamente alternativi e subculturali (v. Subculture). Infine, l'azione ambientalista si caratterizza per la costante tensione fra iniziative che hanno spesso carattere prettamente locale e la natura inevitabilmente globale di molti dei problemi affrontati. L'espressione 'agire localmente, pensare globalmente' rappresenta allora qualcosa di più di uno slogan di successo. Riflette invece i dilemmi di un movimento che da un lato trova spesso nella natura universale delle sue aspirazioni un ostacolo, piuttosto che un incoraggiamento, allo sviluppo di iniziative politiche specifiche, ma che dall'altro fa di questa possibile debolezza un elemento di forza, parlando alle aspirazioni delle comunità locali con una efficacia che forze politiche più tradizionali non sempre riescono a eguagliare. Parlando di tensioni interne all'ambientalismo, non si intende associare in maniera rigida orientamenti specifici ad altrettante correnti organizzate di azione ambientalista. In realtà i tentativi di conciliare queste diverse tensioni caratterizzano l'evoluzione dell'ambientalismo in misura altrettanto forte dell'identificazione di specifici settori con l'uno piuttosto che con l'altro modello di azione - si pensi ad esempio al concetto di 'ambientalismo scientifico' proposto in Italia da Legambiente, che mira a conciliare legittimazione politica e legittimazione tecnico-scientifica.
La trattazione che segue presenta al tempo stesso una dimensione diacronica e sincronica. Si traccia dapprima l'evoluzione dell'ambientalismo attraverso tre fasi, caratterizzate rispettivamente dalla prevalenza di orientamenti conservazionisti e protezionisti (cap. 2), dallo sviluppo di forme di ambientalismo con un forte contenuto urbano e politico (cap. 3), e dalla globalizzazione dell'ambientalismo su scala planetaria (cap. 4). Successivamente si presta attenzione all'impatto dell'ambientalismo sull'opinione pubblica internazionale (cap. 5), e al problema della rappresentanza politica degli orientamenti ambientalisti nei partiti verdi (cap. 6).
Le origini storiche del movimento conservazionista nel mondo occidentale, e in particolare nell'Europa settentrionale, risalgono perlomeno alla seconda metà del XIX secolo (v. Bramwell, 1989; v. Pepper, 1984; v. Doughty, 1975; v. Dalton, 1994). Si manifestano infatti sempre più evidenti sia la portata dei processi di mutamento sociale nelle loro varie forme (industrializzazione, urbanizzazione, ecc.) sia le loro conseguenze negative sul territorio, e più in generale sulla qualità della vita. La reazione dei ceti più colti ai problemi posti dalla crescita economica si lega in vario modo alla più ampia critica che le correnti romantiche della cultura ottocentesca hanno rivolto all'illuminismo e alla sua fede nella ragione e nel progresso. Il sostegno a modelli di vita ispirati a una visione idealizzata della natura e della società agreste si ritrova ad esempio, certo con vari accenti, in settori significativi della letteratura francese (ad esempio Chateaubriand o Hugo) così come nel romanticismo vittoriano britannico (v. Wiener, 1981) o nel movimento tedesco Wandervogel. Uno stimolo a una maggiore sensibilità per la protezione della natura viene peraltro anche dallo sviluppo delle scienze naturali, non soltanto da prospettive antimoderniste. Si sviluppano ad esempio nello stesso periodo le società di storia naturale, che contribuiranno a fornire una base di ceto medio colto all'emergente movimento.
Tra le prime iniziative su larga scala si contano quelle rivolte alla protezione delle specie animali a rischio. Società ornitologiche con una base non esclusivamente scientifica si sviluppano in vari paesi tra il 1885 (quando nel Regno Unito nascono la Plumage league e la Selborn society) e il 1912 (anno di costituzione in Francia della Ligue pour la protection des oiseaux). Campagne avviate dapprima in Gran Bretagna e successivamente nell'area germanica conducono a una serie di conferenze internazionali, e nel 1902 alla firma di un accordo che definisce le specie da salvaguardare.L'altro grande filone di azione conservazionista è rappresentato dalla tutela del patrimonio storico-architettonico e paesaggistico. Nel 1865 viene fondata il più vecchio gruppo ancora attivo nel Regno Unito: la Commons, spaces and footpaths preservation society. Nel 1895 nasce il National trust, orientato prevalentemente alla difesa dei monumenti storici. A esso verrà presto riconosciuto uno status semipubblico. Risale invece al 1912 la fondazione della Society for the Promotion of Natural Reserves (SPNR), più attiva sul versante delle aree naturali.
In Germania, l'attività di conservazione viene presto assunta direttamente dallo Stato. Anche i governi regionali giocano un ruolo molto attivo nei primi decenni del Novecento, in una prospettiva in cui la difesa del territorio e del patrimonio naturalistico si combina con quella dell'identità nazionale (v. Sheail, 1976; v. Dominick, 1992). Tendenze analoghe si sviluppano anche negli Stati Uniti, dove alla fine del secolo nasce il Sierra club e viene promossa la creazione dei primi parchi nazionali. Pure se nei paesi dell'Europa meridionale il fenomeno è meno cospicuo, stanti anche i livelli più limitati di sviluppo economico, la fondazione delle prime associazioni si verifica pressappoco nel medesimo periodo. In Italia in particolare nascono nel 1894 il Touring Club Italiano e quattro anni dopo l'Associazione nazionale pro montibus et silvis.
Nel periodo tra le due guerre mondiali il movimento conservazionista perde dinamismo, in parte per via dei suoi stessi successi, in parte per il fatto che la grave e perdurante crisi economica accresce presso i ceti medi il peso di preoccupazioni e valori che oggi definiremmo 'materialisti' (v. Lowe e Goyder, 1983). Il clima si presenta invece complessivamente più favorevole nel secondo dopoguerra, a seguito sia delle tendenze alla democratizzazione e all'aumento della partecipazione nei paesi occidentali, sia delle opportunità offerte dalla crescita economica. La ricostruzione postbellica riporta ad esempio al centro del dibattito pubblico la questione della pianificazione territoriale, un terreno su cui i gruppi conservazionisti britannici si impegnano massicciamente. Il nuovo clima di cooperazione internazionale favorisce poi il sorgere di organismi di coordinamento tra organizzazioni, governative e non, attive in campo ambientale, come la International union for the conservation of nature, fondata nel 1948. La crescente consapevolezza - certo ristretta ad alcune élites politiche e scientifiche - della dimensione globale dei problemi si riflette anche nella costituzione di organizzazioni esplicitamente sovranazionali come il World ~Wildlife Fund. Fondato nel 1961, il WWF conterà sin dai primi anni settanta su un solido radicamento nei principali paesi occidentali (v. Dalton, 1994).
Quali sono gli elementi distintivi di una prospettiva conservazionista? L'esperienza storica che abbiamo brevemente sintetizzato non ci permette di individuare un corpo dottrinario coerente; possiamo però fare riferimento ad alcune idee guida ricorrenti con una certa frequenza (e anche, come vedremo subito, con qualche elemento di contraddittorietà). Si può individuare in primo luogo una nozione di ambiente di natura mitica e arcadica. A essa si affianca spesso e volentieri il riferimento al patrimonio storico, culturale e architettonico di un certo popolo, anch'esso messo a repentaglio dalla modernità. In questa prospettiva il rapporto con la natura è prettamente di tipo etico ed estetico, in quanto definisce una situazione di ideale equilibrio di valori e comportamenti, in contrapposizione radicale allo stile di vita dominante nella società industriale (v. Wiener, 1981). In questo senso, il conservazionismo può essere plausibilmente identificato come manifestazione di una più ampia reazione antimodernista.Il movimento conservazionista ha d'altro canto elaborato nel corso del suo sviluppo anche un'altra visione di ambiente, più strettamente naturalistica. Essa pone l'accento sulla dimensione biologica dell'ambiente e identifica la sua difesa con quella delle aree naturali e delle specie animali e vegetali minacciate dallo sviluppo industriale. In questo caso, la critica dell'industrialismo si fonda su una cultura di tipo scientifico. Con il tempo si è accentuata all'interno del conservazionismo una posizione di razionalizzazione del sistema, a scapito del fondamentalismo antimodernista. Piuttosto che all'industrialismo in quanto tale, il degrado ambientale è stato vieppiù imputato all'irrazionalità dei comportamenti umani, dei singoli individui così come degli attori organizzati (partiti, gruppi di interesse economico, organismi governativi).
L'azione conservazionista è stata allora ispirata in misura crescente dalla convinzione che ogni inversione di tendenza dipenda da un incremento complessivo della coscienza collettiva della gravità dei problemi ambientali. Si è quindi assegnata priorità ad attività di sensibilizzazione dell'opinione pubblica. Queste hanno preso la forma di corsi di educazione ambientale nelle scuole; di iniziative volte a facilitare la conoscenza e la corretta fruizione del patrimonio ambientale di una certa regione; della gestione in prima persona di beni naturali e storico-artistici a rischio. Sul versante più strettamente politico, l'azione di convincimento delle élites pubbliche ha fatto decisamente premio su forme di pressione politica più esplicita. Si sono privilegiate varie forme di lobbying, condotte da gruppi di interesse pubblico relativamente strutturati e burocratizzati, spesso con il supporto di esponenti influenti della comunità scientifica. Si è invece guardato con maggiore sospetto alla promozione di mobilitazioni di protesta pubbliche e più in generale alle varie forme di partecipazione di tipo radicale. Rispetto a una visione esplicitamente conflittuale dei temi ambientali, è prevalsa nel conservazionismo un'impostazione orientata a evidenziare gli elementi consensuali presenti nel sistema. È proprio attraverso la loro valorizzazione che si può pervenire con la massima efficacia alla ridefinizione dell'interesse collettivo in una prospettiva rispettosa dell'ambiente.
3. Lo sviluppo dell'ecologia urbana e dell'ecologia politica
Gli anni settanta rappresentano una fase di innovazione, e per molti versi di cesura, rispetto alla tradizione conservazionista. Si sviluppano infatti in quel periodo nuove concezioni che modificano sensibilmente gli obiettivi e le forme di azione degli ecologisti, e financo la stessa definizione di ambiente. La crisi petrolifera del 1973 incoraggia l'impostazione di progetti su vasta scala per il ricorso all'energia nucleare (v. Rüdig, 1990); si diffonde la percezione della finitezza e della scarsità delle risorse naturali disponibili sul pianeta, anche grazie a contributi scientifici di grande risonanza come il rapporto Meadows sui 'limiti dello sviluppo', promosso dal Club di Roma (v. Meadows e altri, 1973); acquistano consistenza fenomeni degenerativi come quello delle piogge acide, o problemi come quello dello smaltimento dei rifiuti tossici; si ripropone, dopo la grande euforia postbellica, il tema della qualità della vita nelle aree urbane (v. Dalton, 1994). Si registra in questo modo su vari terreni un'inversione di tendenza rispetto agli anni cinquanta e ai primi anni sessanta, in cui le preoccupazioni dei governi nei paesi occidentali erano state indirizzate in primo luogo al sostegno del trend di crescita economica favorito dalla ricostruzione, mentre quelle dell'opinione pubblica erano state largamente dominate da orientamenti di tipo consumistico.Un ruolo importante nel favorire il mutamento di orientamento è giocato da vari esponenti della comunità scientifica, da Rachel Carson (v., 1964) a Barry Commoner (v., 1972) allo stesso, già citato, rapporto del Club di Roma.
Seppure da prospettive differenti, essi denunciano l'impraticabilità di uno sviluppo illimitato, e i costi ambientali che l'adozione acritica di tale modello comunque comporta. La plausibilità delle loro posizioni è accentuata agli occhi del pubblico da una serie di incidenti tanto devastanti quanto spettacolari, dal naufragio della petroliera Torrey Canyon, avvenuto nel 1967 al largo delle coste britanniche, all'intossicamento del fiume Reno nel 1969. Inoltre, i movimenti di contestazione giovanile dell'epoca, in particolare nella loro componente controculturale, esprimono una critica radicale della società dei consumi e della cultura di massa (v. Ortoleva, 1988). Si crea così un nuovo clima culturale da cui anche l'azione ecologista sarà almeno in parte influenzata.Il nuovo contesto si presenta in effetti assai favorevole alla ripresa di iniziative su vasta scala in campo ambientale. Tra la fine degli anni sessanta e l'inizio del decennio successivo aumentano con grande rapidità sia le adesioni alle associazioni ecologiste già esistenti, sia il tasso di fondazione di nuove organizzazioni (v. Lowe e Goyder, 1983). Nel 1969 viene costituita a San Francisco Friends of Earth. Dopo un anno, gli Amici della Terra possono già contare sulla presenza di sezioni in Francia e Gran Bretagna; entro la fine degli anni settanta le sezioni nazionali diverranno più di venti (quella italiana sarà fondata nel 1977). Un'altra organizzazione destinata ad assumere un importante ruolo nell'ambientalismo internazionale è Greenpeace, che nasce in Canada in occasione dell'opposizione a un test nucleare sulle isole Aleutine nei primi anni settanta. È praticamente impossibile richiamare anche soltanto le principali organizzazioni ambientaliste sorte in quel periodo. In Gran Bretagna, un ruolo innovativo a sostegno di un modello ante litteram di sviluppo sostenibile sarà svolto ad esempio (a dispetto del nome) dalla Conservation society, nata nel 1966 (ibid.).
In Italia, vengono fondate anche nuove organizzazioni animaliste come la Lega anti-vivisezione (1977) e la Lega per l'abolizione della caccia (1978). Organizzazioni già attive come la LIPU (Lega Italiana per la Protezione degli Uccelli) o il WWF modificano le loro strategie, accentuandone la dimensione di intervento politico.I fenomeni che abbiamo appena sintetizzato favoriscono l'emergere di alcune concezioni largamente innovative dell'azione ambientale. Si modifica in primo luogo la nozione stessa di ambiente. Esso non viene più definito esclusivamente in termini naturali, bensì anche come ambiente umano. Si prendono in altre parole in considerazione anche i danni apportati dall'industrializzazione alle aree antropizzate; si applica pure a queste ultime la nozione di ecosistema; si pongono in primo piano anche i problemi connessi alla qualità della vita nelle aree urbane, dall'inquinamento atmosferico a quello acustico, dalle aree verdi al trattamento dei rifiuti.Un secondo elemento importante di distinzione rispetto alla tradizione conservazionista riguarda il peso assegnato nella visione degli ambientalisti alla dimensione conflittuale. Oltre che a condotte genericamente irrazionali, ovvero alla logica perversa della modernità globalmente intesa, il degrado ambientale è imputabile anche alla condotta di specifici attori sociali, che tali tendenze incoraggiano e rinforzano. Tra questi ultimi rientrano i principali soggetti economici, sostenitori di una visione puramente quantitativa dello sviluppo, indifferente sia alla finitezza delle risorse naturali, sia alla rilevanza di indicatori non monetari o consumistici nella definizione di progresso. Vi rientrano inoltre gli apparati scientifici e tecnocratici, principali legittimatori della medesima prospettiva di crescita illimitata.Dalla visione conflittuale qui riassunta discende anche il più frequente ricorso a forme di partecipazione esplicitamente politiche. Si sviluppano e si raffinano in primo luogo le varie tecniche di mobilitazione proprie dei gruppi di interesse pubblico, dalle raccolte di firme a sostegno di petizioni, al lancio di campagne in cui si invitano i simpatizzanti a esercitare pressioni dirette sui rappresentanti politici, alla promozione di referendum. Si adottano poi forme di azione non convenzionali, seppure pacifiche, dai sitin, ai blocchi stradali, alle dimostrazioni pubbliche. Si prende infine in considerazione la possibilità di impegnarsi direttamente nella competizione politica attraverso la costituzione di partiti verdi (v. cap. 6).
Spesso, tuttavia, molti dei primi nuclei di quella che poi verrà chiamata 'ecologia politica' si sviluppano in occasione di mobilitazioni le cui implicazioni ecologiche non sono, all'inizio degli anni settanta, immediatamente visibili. Nascono ad esempio all'interno dei movimenti urbani, volti a migliorare la qualità della vita dei ceti medio-bassi nelle aree metropolitane; miranti, in altre parole, a incrementare il controllo delle classi subalterne sulla produzione e distribuzione dei beni di 'consumo collettivo' (maggiori servizi sociali, migliori abitazioni, interventi contro il degrado urbano, ecc.: v. Castells, 1983). Pur essendo all'epoca largamente tematizzate come manifestazioni della lotta tra le classi, queste iniziative innoveranno comunque rispetto alla tradizione del conflitto imperniato sulla fabbrica e sul controllo dei mezzi di produzione. Un altro terreno di lotta operaia con rilevanti potenziali implicazioni ecologiche è quello della tutela della salute nei luoghi di lavoro. Numerosi contatti si sviluppano intorno a questi temi tra organizzazioni di fabbrica e i settori più politicizzati del mondo scientifico. Organizzazioni nate su questo specifico terreno (in Italia ad esempio Medicina democratica) giocheranno, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, un ruolo significativo nelle battaglie ambientaliste, contribuendo a legare nozioni di sfruttamento ambientale con idee più classiche di sfruttamento sociale.Gli elementi ecologici presenti in queste mobilitazioni sono tuttavia, perlomeno in una prima fase, ancora largamente impliciti. È attraverso le mobilitazioni antinucleari che gli orientamenti ecologisti presenti all'interno dei movimenti di protesta cominciano a coagularsi e a essere percepiti come tali. Questa funzione è facilitata per molti versi dal fatto che l'insorgere della protesta contro l'energia nucleare non è limitato a singoli Stati ma avviene invece simultaneamente, anche se con varie forme ed esiti, nei principali paesi occidentali (v. Rüdig, 1990; v. Flam, 1994).
Sulle proteste antinucleari convergono ovviamente anche ampi settori dell'associazionismo conservazionista e ambientalista, nonché delle popolazioni locali interessate dalla localizzazione dei nuovi impianti. E tuttavia, gli oppositori più vicini ai nuovi movimenti sociali trattano il problema in una prospettiva peculiare, combattendo il nucleare in quanto espressione di una concezione elitaria e per molti versi classista dello sviluppo. Si tratta infatti di una tecnologia complessa e ad alto rischio, gestibile soltanto da chi possegga adeguate risorse economiche e scientifiche. Non a caso, le tecnologie nucleari vengono esportate verso i paesi del Terzo Mondo man mano che divengono obsolete e quindi meno sicure, in un'ulteriore versione della cronica dipendenza del Sud del mondo dalle aree più avanzate. L'energia nucleare è poi criticata in quanto richiede particolari misure di sicurezza e quindi favorisce lo sviluppo di una concezione autoritaria e centralizzatrice dello Stato. Infine, il ruolo degli scienziati e dei tecnici nell'elaborazione dei vari programmi nucleari ne dimostrerebbe la subordinazione a interessi economici e politici settoriali; testimonierebbe cioè di un utilizzo distorto del sapere scientifico, indifferente al perseguimento dell'interesse collettivo.Dalla crisi dei movimenti di protesta dei primi anni settanta e dalle proteste antinucleari della seconda parte del decennio emergono allora le strutture che costituiranno l'elemento connettivo dell'ecologia politica. In alcuni casi esse prendono la forma di partiti verdi; in altri, più frequenti, quella di organizzazioni politiche indipendenti. Tra queste ultime si possono menzionare in Germania la BBU, ovvero la Federazione delle iniziative locali (Bürgerinitiativen) per la difesa ambientale (v. Helm, 1980); in Danimarca il NOAH, una federazione di gruppi locali, attivisti, scienziati su posizioni radicali; oppure, in Olanda, la galassia dei gruppi alternativi impegnati nella elaborazione di nuovi stili di vita, oltre che nella promozione di specifiche iniziative politiche (v. Jamison e altri, 1990). In Italia, il soggetto più influente riconducibile a quest'impostazione è probabilmente Legambiente, un'organizzazione ombrello, costituita nel 1980, che coordina diverse centinaia di gruppi locali (v. Diani, 1988; v. Farro, 1990). L'avvento dell'ecologia politica negli anni settanta segna un'innovazione rispetto non solo alla tradizione conservazionista, ma anche ad altre correnti di ecologia urbana (v. Dalton, 1994; v. Farro, 1990; v. Dobson, 1990). Con esse l'ecologia politica condivide ad esempio la visione di ambiente come sistema complesso, non riducibile alla sola sfera naturale ed extraurbana. Declina tuttavia tale visione in termini differenti. Sul piano empirico l'ecologia politica prende infatti le mosse dalla - e continua a prestare una maggiore attenzione alla - sfera sociale. È cioè forte nelle mobilitazioni dell'ecologia politica la commistione tra domande ambientali e domande squisitamente politiche e sociali.
Sul piano più strettamente teorico, si postula un forte nesso tra sfruttamento dell'uomo sull'uomo e sfruttamento delle risorse ambientali. La crisi ambientale non è concettualizzabile in modo corretto, né tantomeno risolvibile, al di fuori di una trasformazione del modello sociale che la riproduce e alimenta costantemente.L'ecologia politica sottolinea poi con forza l'importanza della partecipazione e del decentramento. Gli apparati dello Stato centralizzato vanno gradualmente smantellati, a favore di una società fondata sullo sviluppo di comunità locali federate, il più possibile autonome e autogovernate (v. Ceri, 1987). Su questo terreno vi sono numerosi punti di incontro con i movimenti regionalisti, anche se sulle forme dello sviluppo economico il confronto è spesso estremamente vivace. La critica dello Stato si articola poi in un'ulteriore direzione, vale a dire sul terreno delle disfunzioni dei modelli burocratizzati di gestione dell'intervento pubblico, specie nel settore dei servizi sociali. Si adotta qui una prospettiva molto vicina a quella dei nuovi movimenti sociali globalmente intesi, orientata alla valorizzazione della libertà individuale e dell'autonomia dei soggetti nei confronti degli apparati pubblici e delle loro pratiche omogeneizzatrici (v. Melucci, 1991²; v. Ceri, 1987). Già presenti negli anni settanta, nel corso dei decenni successivi si sono rafforzate correnti di ecologismo radicale che invocano il perseguimento di obiettivi di trasformazione globale attraverso la pratica in prima persona e l'azione diretta piuttosto che l'azione politica di massa. All'interno di questa critica globale si colloca anche l'attenzione prestata a un riequilibrio delle relazioni tra Nord e Sud del mondo; ovvero l'introduzione di una dimensione femminista all'interno del discorso ecologista, seppure con un forte dibattito interno tra versioni 'sociali' e 'culturali' dell'ecofemminismo (v. Shiva, 1988; v. Dobson, 1990; v. Pepper, 1996, pp. 97-112).
4. L'ambientalismo nella società 'globale'
Tra gli anni ottanta e gli anni novanta si verificano numerose trasformazioni nel profilo dell'associazionismo e dell'azione ambientalista. La prima riguarda la crescente istituzionalizzazione complessiva del movimento, dal punto di vista delle forme di azione adottate così come da quello dei modelli organizzativi dominanti o del rapporto con le istituzioni. Si registra in primo luogo un ricorso decrescente alla protesta politica. Le grandi ondate di protesta successive alla catastrofe di Černobyl nel 1986 sono in realtà l'ultima manifestazione dell'ambientalismo come movimento sociale attivo su scala nazionale (v. Rüdig, 1990; v. Flam, 1994). Il tema mantiene una forte rilevanza in alcuni paesi, in particolare in Germania e in relazione al tema dello smaltimento delle scorie (v. Rootes e altri, 1999). Nel complesso, tuttavia, il movimento antinucleare perde di incisività e rilevanza, vuoi per il ridimensionamento della maggior parte dei programmi nucleari, vuoi per la crisi parallela dei movimenti controculturali e radicali di cui l'antinuclearismo aveva negli anni settanta e nei primi anni ottanta rappresentato in qualche modo la punta avanzata e l'elemento di coesione.I conflitti antinucleari (specialmente in Francia e Germania) erano pure stati quelli con la più elevata incidenza della protesta radicale, anche di natura violenta (v. Rüdig, 1990).
Il ricorso alla violenza diventa tuttavia più raro nel corso degli anni ottanta e caratterizza una quota estremamente ridotta delle iniziative ambientaliste nel decennio successivo (v. Rootes e altri, 1999). Si rafforza invece la componente tradizionale del repertorio di azione; in altre parole, anche i gruppi di ecologia politica tendono a operare sempre più come gruppi di interesse pubblico: vale a dire, con un ampio ricorso alla mobilitazione degli organi di informazione, a campagne di direct mailing nei confronti dei simpatizzanti, all'uso degli esperti, testimoniato ad esempio dalla pubblicazione di rapporti scientifici come strumento specifico di pressione, al rapporto diretto con i partiti politici. Un altro segno della graduale trasformazione dei repertori sta nel crescente ruolo dell'azione volontaria accanto all'intervento di pressione politica. Da sempre presenti tra le iniziative delle associazioni conservazioniste più consolidate, queste iniziative vengono ora promosse anche da formazioni di ecologia politica. Il volontariato assume la forma della collaborazione sia a iniziative permanenti come la gestione di oasi naturalistiche o - nel caso di associazioni come il National trust inglese o il Fondo ambiente Italia - di beni architettonici, sia a iniziative ad hoc, come in Italia le campagne 'Spiagge pulite' (promossa da Legambiente) e 'Bosco pulito' (promossa dal WWF).
Parallela alla trasformazione nelle forme di azione è quella nelle modalità organizzative. Il modello della organizzazione di movimento ad alta partecipazione tende a indebolirsi, e si rafforza la distinzione tra iscritti, che pagano una quota associativa e la cui partecipazione non va spesso al di là di questo contributo poco più che simbolico, e attivisti professionisti. Questi ultimi devono sovente il loro ruolo a competenze professionali specifiche, in campo scientifico, legale, o della comunicazione, piuttosto che a forme di solidarietà politica. In alcuni casi - in particolare, Greenpeace - l'attività di protesta, anche radicale, è praticamente monopolizzata dagli attivisti professionisti. Si profila cioè un modello in cui gruppi ristretti di professionisti conducono azioni anche radicali per conto di un'ampia massa di sostenitori passivi (v. Jordan e Maloney, 1997). Si tratta di elementi tutt'altro che nuovi in assoluto, ma che sembrano estendersi anche a organizzazioni come Amici della Terra che in un passato recente avevano avuto un profilo più partecipativo (v. Diani e Donati, 1998).
Infine, l'istituzionalizzazione del movimento si riflette anche in una crescente interazione - e integrazione - con vari tipi di attori istituzionali. Le organizzazioni ambientaliste siedono con stato consultivo in varie agenzie governative, consulte per l'ambiente, ecc.; collaborano sistematicamente con le scuole e altre istituzioni educative; promuovono infine persino attività congiunte con il mondo dell'impresa, un fenomeno non ancora massiccio, e un rapporto ancora segnato da molteplici incomprensioni, ma tuttavia presente in misura inconcepibile anche in un recente passato (v. Lewanski, 1997; v. Rawcliffe, 1998; v. Rootes e altri, 1999).Per la verità, la crescente moderazione delle strategie non segnala una radicale inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti, ma piuttosto l'accentuazione di tratti già presenti. Un'altra importante evoluzione dell'ambientalismo tra gli anni ottanta e novanta sta nella dislocazione dell'azione ambientalista dalla sfera nazionale a quella locale e a quella globale. Se la propensione dei cittadini dei paesi occidentali a mobilitarsi su questioni di carattere nazionale, anche in seguito al definitivo esaurirsi dell'onda lunga degli anni settanta dopo le mobilitazioni post-Černobyl, sembra ridursi, lo stesso non vale per l'interesse per iniziative locali. La tendenza a concentrarsi sulla politica locale non sembra riconducibile a motivazioni puramente egoistiche e localistiche: soddisfa invece anche l'esigenza di un maggiore controllo dei cittadini sulla politica a seguito della crisi generale di fiducia nella politica, fortissima in Italia ma significativa anche altrove (v. Norris, 1999; v. Rootes e altri, 1999; v. Strassoldo, 1994).
Dall'altro lato, cresce il ruolo delle istituzioni sovranazionali nell'indirizzare la politica ambientale; inoltre, vaste aree di intervento sono regolamentate da accordi di portata sovranazionale. I primi esempi di accordi internazionali in materia di protezione ambientale, forniti di qualche potere di vincolo, risalgono agli anni settanta, con la Convention on international trade in endangered species (1973) o la Convention on long-range transboundary air pollution (1979). La pratica si è tuttavia diffusa più di recente attraverso accordi di grande visibilità (anche se di controversa applicabilità) internazionale, come la Convention on biological diversity o la Framework convention on climate change, originate dalla Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo (UNCED), svoltasi a Rio nel 1992 (v. Lewanski, 1997; v. Porter e Brown, 1996). In Europa, in particolare, la politica ambientale della Commissione europea facilita l'interdipendenza tra i diversi attori su scala continentale, anche se questo prende la forma di lobbying professionalizzato a Bruxelles assai più sovente di quella di partecipazione politica di massa (v. Tarrow, 1995). Per altro, è proprio la natura della contrattazione politica a questi livelli e l'assenza di una reale opinione pubblica internazionale a facilitare un'azione altamente professionalizzata. Gli ambientalisti tentano di orientare l'evoluzione del processo politico attraverso il coordinamento delle grandi associazioni, in particolare quelle di dimensione transnazionale, come Amici della Terra o Greenpeace, o più sovente attraverso networks, come il Climate action network, che coordina le organizzazioni attive sui problemi del mutamento climatico (v. Wapner, 1996; v. Keck e Sikkink, 1998).
Una terza componente importante dell'evoluzione dell'ambientalismo è rappresentata dal suo impatto sugli stili di vita e le abitudini di consumo individuali (v. Scherhorn, 1999; v. Lalli, 1995; v. Thogersen, 1999). Nelle società occidentali vi è una quota significativa di cittadini che tenta di seguire stili di vita al tempo stesso più sani e più rispettosi dell'ambiente, ad esempio limitando l'uso dell'automobile, riciclando i rifiuti domestici, o seguendo determinati stili alimentari (v. tab. I). È naturalmente difficile dire in quale misura tali comportamenti siano dettati da semplici preoccupazioni di benessere individuale o riflettano invece un'adesione più esplicita ai principî ambientalisti. Né si può sostenere trattarsi di un fenomeno recente: la ricerca di stili di vita alternativa aveva caratterizzato anche molti movimenti degli anni settanta, e da questo punto di vista è certamente possibile individuare una continuità tra quei fenomeni e forme di radicalismo ambientalista che negli anni novanta hanno assunto crescente visibilità, come la cosiddetta deep ecology (v. Pepper, 1996). Non manca poi chi sostiene che, lungi dall'anticipare il consumo 'ambientalista', la stessa evoluzione del movimento ambientalista negli anni settanta ne sia stata condizionata, o nel migliore dei casi si tratti di due componenti dello stesso fenomeno di trasformazione profonda dei comportamenti individuali in Occidente (v. Donati, 1989). Tuttavia, negli anni novanta la riduzione della tensione politica nelle società occidentali contribuisce ad accentuare l'immagine di ambientalismo come fenomeno prettamente individualistico e vicino alla sfera dei consumi, seppure in maniera spesso critica. Un ponte tra la dimensione consumistico-individuale e quella etica è rappresentato dalle varie forme di investimento etico e di commercio equo e solidale, che intendono porre dei limiti all'esigenza di soddisfazione dei bisogni individuali dell'investitore o del consumatore.
Siamo allora di fronte alla fine dell'ambientalismo come fenomeno di opposizione radicale? Non necessariamente. I fenomeni appena descritti non si prestano infatti a un'interpretazione univoca. In primo luogo, l'azione ambientalista in sede locale è tutt'altro che pacificata o priva di elementi conflittuali. Molte delle proteste locali su temi ambientali hanno in realtà visto l'estendersi a gruppi di cittadini di convinzioni moderate, e in ultima analisi spesso apolitiche se non antipolitiche, di un repertorio di azione protestataria in precedenza patrimonio dei gruppi più radicali (v. Rootes e altri, 1999; v. Strassoldo, 1994). Inoltre, molte iniziative locali hanno rappresentato l'opportunità per l'emergere di nuove formazioni di orientamento radicale. Questo si è verificato in particolare nel Regno Unito, dove l'azione ambientalista (su temi che andavano dall'opposizione alla costruzione di strade, ai diritti degli animali, alla critica dei cibi geneticamente modificati) ha visto in primo piano gruppi come Reclaim the streets, Earth first!, o la Donga tribe. Si tratta di networks assai informali, che mobilitano soggetti al tempo stesso politicamente radicali e interessati alla pratica di nuovi stili di vita (v. Doherty, 1999; v. Wall, 1999).In molti casi le iniziative locali hanno visto la convergenza in alleanze inusuali di attivisti radicali, rappresentanti degli interessi locali, e semplici cittadini. Il problema degli anni novanta non è stato quindi la mancanza di partecipazione in quanto tale, ma piuttosto la difficoltà di saldare le iniziative locali in mobilitazioni nazionali, una saldatura che un tema unificante come il nucleare aveva prodotto nel decennio precedente. Un tentativo in questo senso è stato rappresentato negli Stati Uniti dal cosiddetto Environmental justice movement (v. Szasz, 1994). Sviluppatosi intorno al problema della trattazione delle scorie tossiche, si è poi tradotto nel coordinamento di vari gruppi locali intorno a temi che combinano la preoccupazione per l'ambiente con la consapevolezza della distribuzione ineguale tra gruppi sociali dei costi ambientali (v. Lichterman, 1996).
Le iniziative sulla globalizzazione e l'anticapitalismo, solitamente condotte in parallelo ai vertici di istituzioni economiche internazionali come il Fondo monetario, la Banca mondiale, o l'Organizzazione per il Commercio Mondiale (WTO), sembrano rappresentare un altro potenziale elemento di connessione tra iniziative locali disparate, questa volta su scala globale. Alcune di queste azioni tendono a restare monopolio dei settori più radicali (si pensi ad esempio al cosiddetto J18 Carnival, che nel giugno del 1999 mette a soqquadro vari quartieri finanziari in tutto il mondo, compresa la City di Londra). Altre iniziative hanno invece una composizione più eterogenea. L'ormai celebre dimostrazione svoltasi in occasione del vertice del WTO a Seattle nel novembre del 1999 ha visto, ad esempio, la convergenza in un'alleanza tra populismo democratico di ambientalisti, rappresentanti di interessi economici minacciati dalla globalizzazione, esponenti di minoranze etniche e culturali.Infine, la relazione tra ambientalismo nei paesi del Nord e del Sud del mondo si è tra gli anni ottanta e gli anni novanta meglio precisata e definita. I due fenomeni non sono strettamente assimilabili. In particolare, la carenza di risorse nella società civile, e spesso di regole elementari di democrazia, ostacola l'emergere di associazioni di massa come quelle presenti nel mondo occidentale. Larga parte degli organismi attivi su temi ambientali nei paesi non occidentali sembra in realtà consistere di gruppi di intellettuali e tecnici di piccole dimensioni, cui le organizzazioni occidentali prestano spesso un supporto organizzativo (v. Dalton e Rohrschneider, 1999).
Sarebbe per altro del tutto improprio guardare all'ambientalismo non occidentale come a una semplice emanazione assistita di quello occidentale. Al contrario, e senza dimenticare l'influenza personale di singoli intellettuali - ad esempio Vandana Shiva (v., 1988 e 2000) -, gli ambientalisti del Sud del mondo hanno dimostrato una capacità considerevole di promuovere iniziative su cui potessero convergere attivisti legati alle élites intellettuali e scientifiche (e occidentalizzati) e comunità locali. Tra gli esempi più noti degli anni novanta si possono citare la campagna contro la costruzione di una diga sul fiume Narmada in India, e le iniziative contro lo sfruttamento del petrolio nella regione degli Ogoni in Nigeria (v. Haynes, 1999).
5. Opinione pubblica e ambientalismo
L'attivismo ambientalista ha allora rappresentato una costante presenza negli ultimi decenni del XX secolo, seppure in forme mutevoli. Ma qual è stato il suo impatto complessivo sull'opinione pubblica internazionale? Conviene distinguere a questo proposito tra l'attenzione per i problemi ambientali e il giudizio più specifico sulle organizzazioni ambientaliste. All'inizio degli anni settanta non erano mancate analisi che evidenziavano la natura volatile dell'interesse ambientale nelle società occidentali, e ne pronosticavano in breve tempo l'appannamento (v. Downs, 1972). Quelle previsioni si sono rivelate infondate. Situazioni di difficoltà e di appannamento temporaneo si sono certamente verificate in questi anni, ma gli atteggiamenti dell'opinione pubblica ne hanno risentito complessivamente in misura ridotta. Ancora negli anni novanta una quota molto elevata di cittadini dei paesi occidentali si dichiara disposta a modificare il proprio stile di vita e ad accettare prezzi e tasse molto più elevati, se questo sacrificio è essenziale al miglioramento della qualità ambientale (v. tab. I).
Tutti i sondaggi disponibili (in specie quelli dell'Eurobarometro, condotti sistematicamente nei paesi dell'Unione Europea a partire dai primi anni settanta) documentano inoltre elevate percentuali di cittadini che considerano di primaria importanza la protezione della natura e la lotta contro l'inquinamento: nel 1974, il 6% dei cittadini delle nove nazioni facenti parte dell'allora Comunità Europea considerava questo tema il più importante in assoluto tra quelli affrontati dalla Comunità; nel 1998, la percentuale era salita al 10% (il tema considerato più rilevante, la gestione dell'Unione monetaria, attraeva il 20% dei consensi: v. Eurobarometro, 1999, p. 39).Pur all'interno di una generale sensibilità, le varie opinioni pubbliche nazionali differiscono tuttavia, a volte notevolmente, nell'enfasi posta sulla questione ecologica. Ad esempio, nel 1989 il 12% dei Francesi collocava la difesa dell'ambiente tra le due priorità più rilevanti del momento, mentre questa percentuale saliva al 58% per gli Olandesi; nel 1998, la percentuale di cittadini che consideravano l'ambiente e i diritti dei consumatori una priorità di policy variava tra il 59% della Danimarca e il 23% dell'Italia e del Belgio (ibid., p. 127). Alcuni temi specifici assumono poi una particolare rilevanza all'interno di certi Stati, ma non di altri. Il nucleare, ad esempio, ha costituito una fonte di massima preoccupazione per gli Italiani e i Danesi. La stessa inusuale attenzione hanno ottenuto alla fine degli anni ottanta l'effetto serra in Gran Bretagna, o le piogge acide in Olanda (v. Rüdig, 1995). Negli anni novanta, l'opinione pubblica di alcuni paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna e Finlandia) si è rivelata assai più fredda di quella di altri paesi circa l'urgenza di un intervento radicale sul fronte del mutamento climatico (v. Environics International, 1997).
È improbabile che queste differenze dipendano esclusivamente dai livelli di deterioramento ambientale nei vari paesi. Sembra invece più plausibile che specifiche iniziative delle organizzazioni ambientaliste, di scienziati o di pubblici ufficiali, unitamente all'azione dei mass media, abbiano attratto l'attenzione del pubblico su un particolare problema. Occorre inoltre tenere conto della variabile rilevanza di altri temi, e del mutamento delle condizioni politiche generali. Ad esempio, negli anni novanta il processo di unificazione tedesca ha portato alla ribalta problemi di natura socioeconomica, con il risultato che l'ambiente sembra aver perso rilevanza tra le preoccupazioni dei cittadini (v. Eurobarometro, 1999, p. 127). In parte è proprio l'effetto positivo delle iniziative sull'ambiente a ridurre l'attenzione per la questione ecologica. Mentre la preoccupazione sembra aumentata nei paesi del Sud del mondo (ad esempio nel 1997 il 94% degli Indiani esprime preoccupazione per lo stato dell'ambiente, in confronto al 77% nel 1992: v. Environics International, 1997), sembra esserci un certo calo di tensione nei paesi più ricchi. Ad esempio, sondaggi condotti nel 2000 suggeriscono che negli Stati Uniti la preoccupazione verso larga maggioranza dei problemi ambientali - tutti tranne quelli legati all'effetto serra - sia diminuita, seppure di poco, rispetto al 1989, ma che la percezione che il governo stia operando con maggiore efficacia su questo terreno sia aumentata (v. Saad e Dunlap, 2000).
In quale misura la preoccupazione per il degrado ecologico si traduce in consenso nei confronti delle organizzazioni ambientaliste e/o in partecipazione attiva su questioni ambientali? Nell'Europa occidentale, tra il 1982 e il 1989, la percentuale di cittadini che manifesta approvazione nei confronti delle organizzazioni di protezione della natura è ovunque sopra l'80%; i gruppi di ecologia politica e quelli antinucleari, più politicizzati, mantengono comunque nei vari paesi una quota di simpatizzanti tra il 50% e il 70% (v. Fuchs e Rucht, 1994; v. Dalton, 1994). Questi dati non hanno conosciuto variazioni significative nel decennio successivo. Un'indagine del 1999 mostra ad esempio come, accanto alla professione medica (53%) e alle associazioni dei consumatori (55%), le associazioni ambientaliste (45%) siano considerate dai cittadini europei una delle fonti di informazione più affidabili in materia di biotecnologie, mentre l'industria è considerata tale soltanto dal 3% della popolazione (v. Eurobarometro, 2000, p. 79). In America, ben tre quarti dei cittadini ritengono rilevante l'impatto del movimento ambientalista sulla società americana, e la stessa percentuale considera questo impatto positivo, un dato immutato rispetto al 1992 (v. Dunlap, 2000).La disponibilità a partecipare attivamente è ovviamente più bassa, ma comunque significativa.
Nonostante le difficoltà nello stimare l'effettiva consistenza di queste associazioni, e soprattutto dei movimenti ambientalisti nel loro complesso (v. Rootes e altri, 2000), il numero dei loro aderenti è elevato in tutti i maggiori paesi occidentali: più di sei milioni negli Stati Uniti, un dato triplicato rispetto agli anni settanta (v. van der Heijden, 1999), ben oltre il milione in Gran Bretagna (v. Rawcliffe, 1998), vicino a quella cifra in Italia (v. Diani, 1995). Un'indagine comparata suggerisce per il 1993 una percentuale di cittadini iscritti a un'associazione ambientalista oscillante nei paesi occidentali tra il 5 e il 10%, con la sola eccezione dell'Olanda (17%), e assestata su livelli assai più modesti nell'Europa dell'Est (v. tab. I). La partecipazione ad attività di protesta nel quinquennio precedente appare nel complesso più ridotta, ma con una relazione inversa tra forza dell'associazionismo e propensione alla protesta, almeno nei paesi occidentali. La quota di chi ha firmato una petizione è invece piuttosto alta, eccedendo, tranne che nel caso spagnolo, un quarto della popolazione dei paesi occidentali, mentre maggiori variazioni tra paesi si notano per quanto riguarda la fornitura di contributi finanziari.
Molti studiosi e osservatori hanno tentato di spiegare l'insorgere dell'ambientalismo, a partire dagli anni sessanta, alla luce del più generale passaggio verso società postindustriali e dell'affermarsi di nuovi modelli culturali, orientati verso l'autorealizzazione e valori di tipo 'postmateriale' (v. Inglehart, 1977) piuttosto che verso il soddisfacimento di bisogni materiali. La forte identificazione con il postmaterialismo è stata da tempo individuata come uno dei fattori decisivi che influenzano orientamenti a favore della difesa ambientale piuttosto che della crescita economica (v. Rohrschneider, 1988). Si è inoltre suggerito che ciò valesse anche per la partecipazione politica ambientalista, il supporto per le politiche di protezione ambientale e l'adozione di stili di vita 'ambientalisti' (v. Dalton e Rohrschneider, 1998, p. 123).Tuttavia, se è certamente vero che il riferimento a ideologie politiche consolidate (di destra o di sinistra) spiega gli orientamenti ambientalisti in misura molto parziale (v. Müller-Rommel, 1990; v. Dalton e Rohrschneider, 1998; v. Biorcio, 1999), anche l'impatto del postmaterialismo appare ambiguo. Più che da specifici valori, la partecipazione ambientalista sembra spiegata da preoccupazioni generali per la crisi ambientale, e dai livelli di educazione. Il fatto che i cittadini più colti siano anche i più consapevoli della necessità di un impegno ambientalista sembra smentire l'immagine, spesso suggerita, dell'ecologismo come fenomeno prettamente reattivo ed egoistico. L'interesse per i temi ambientali è in realtà assai più solido tra chi ha dell'ambiente e dei suoi problemi una visione non puramente localistica (v. Rohrschneider, 1988).
I teorici del postmaterialismo suggeriscono inoltre una maggiore propensione dei giovani ad adottare queste prospettive. Anche questa tesi trova riscontri soltanto parziali. Un'indagine comparativa su scala europea, ad esempio, conferma come i giovani (e anche le donne) siano più propensi ad adottare stili di vita 'ambientalisti', ma non differiscano dagli altri gruppi sociali quanto a orientamenti e comportamenti politici (v. Dalton e Rohrschneider, 1998, p. 123). Inoltre, il nesso tra postmaterialismo e ambientalismo sembra assai forte in alcuni paesi (in specie in Olanda, Germania e Nuova Zelanda), assai meno in altri (Italia, Spagna) dove sembrano contare di più tratti sociodemografici come età o istruzione (v. Biorcio, 1999). Nel complesso, l'interesse per i temi ambientali non sembra associabile a settori specifici della società occidentale, ma ha invece natura prettamente trasversale.
La questione forse più interessante riguarda comunque la diffusione di orientamenti ecologisti al di fuori delle società occidentali. Alla fine degli anni novanta, la percentuale di cittadini preoccupati per l'impatto della crisi ambientale sulla propria comunità così come sulla propria salute personale appariva nelle società non occidentali particolarmente elevata, con punte intorno al 90% in India, Cile, e Polonia, e con una crescita cospicua a partire dai primi anni novanta (più 25% sia in India che in Polonia). Su questo terreno la preoccupazione appariva in realtà assai più diffusa che nei paesi occidentali (v. Environics International, 1997). Anche la disponibilità ad affrontare dei costi nello stile di vita a fronte di una migliore protezione ambientale non sembra molto più bassa che in Occidente, perlomeno nei paesi dell'ex blocco sovietico, soprattutto se si tiene conto delle differenze di benessere economico (v. tab. I). Dove le condizioni economico-sociali sembrano contare è invece al momento del passaggio dagli orientamenti all'azione. Mentre i paesi più poveri mostrano per i gruppi ambientalisti maggiore simpatia dei paesi più ricchi, la relazione opposta vale per quanto concerne l'adesione a queste organizzazioni. A quel livello le risorse giocano un ruolo importante (v. Rohrschneider e Dalton, 2000).
6. Ambientalismo e politica: i partiti verdi
La trasformazione degli orientamenti ambientalisti nell'opinione pubblica, e della disponibilità a partecipare ad attività e/o associazioni ambientaliste, il consenso esplicito per i partiti verdi è tutt'altro che automatica. È innegabile che i partiti verdi rappresentino un interlocutore primario dei movimenti ambientalisti nelle istituzioni. Aprono infatti canali privilegiati di accesso a informazioni e risorse; contribuiscono inoltre a modificare l'agenda politica in una direzione più consona alle attese del mondo ambientalista. Tuttavia, quella tra movimenti e partiti 'simpatetici' non è mai una relazione facile. I movimenti possono infatti scegliere perlomeno fra tre opzioni: sostenere i partiti tradizionali più aperti alle loro istanze; fondare nuovi partiti; essere apartitici, agire cioè come gruppi di pressione puri. L'identificazione tra associazioni ambientaliste e partiti verdi non può quindi essere mai data per scontata ed è di fatto sottoposta a frequenti rinegoziazioni (v. Dalton, 1994).
La presentazione da parte degli ecologisti francesi di un proprio candidato alle elezioni presidenziali del 1974 rappresentò il primo esempio di partecipazione di una lista verde a un'elezione nazionale in Occidente. Da allora, partiti verdi sono stati fondati pressoché in tutti i paesi europei e in molti paesi extraeuropei, sia avanzati (tra cui Canada, Stati Uniti, Giappone, Australia, Nuova Zelanda) che in via di sviluppo (tra cui Messico, Cile, Brasile). In alcuni paesi sono, o sono stati, addirittura presenti due partiti verdi, distinti a volte per linee etniche (come in Belgio), altre volte per basi ideologiche (come in Austria, o in Italia alla fine degli anni ottanta). Dopo il 1989, partiti di ispirazione ecologista sono stati fondati in numerosi paesi dell'ex blocco sovietico, tra cui la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l'Estonia, la Lituania, la Romania. Le loro fortune elettorali sono state tuttavia limitate, vuoi per la forte crisi economica, vuoi per la capacità del nazionalismo di assumersi la rappresentanza delle domande di difesa del territorio, che altrove hanno spesso costituito una delle basi delle piattaforme politiche verdi (v. Müller-Rommel, 1989; v. Kitschelt, 1989; v. Kitschelt e Hellemans, 1990; v. Richardson e Rootes, 1994).
Perlomeno in Occidente, le origini di queste formazioni politiche possono essere ricondotte con una certa approssimazione a due percorsi principali. Il primo è quello che ha portato alla costituzione di partiti verdi precipuamente attraverso l'azione di organizzazioni e attivisti ambientalisti, insoddisfatti della considerazione riservata alle questioni ecologiche dai partiti tradizionali. In essi, la dimensione 'verde' ha prevalso in modo netto su altri temi e orientamenti strategici. Sono stati vicini a questo modello, tra gli altri, Les Verts francesi, il Green Party in Gran Bretagna, il Miljöpartiet de Gröna in Svezia. In altri casi, i partiti verdi sono invece stati il prodotto della convergenza di forze ecologiste e di altre correnti di protesta sociale. Si sono cioè proposti anche come rappresentanti del più ampio settore dei nuovi movimenti sociali. Al loro interno è stata, ed è tuttora, cospicua la presenza di attivisti e simpatizzanti con vaste esperienze di militanza politica di base, ma non necessariamente in campo ambientale. La questione ecologica ha allora rappresentato, tramite l'elaborazione di una prospettiva 'rosso-verde', il punto di sutura e di sintesi fra visioni e interessi altrimenti eterogenei. In questa chiave, i partiti verdi si sono sovrapposti alla più ampia famiglia dei cosiddetti partiti di 'sinistra libertaria' (v. Kitschelt, 1989), sorti a partire dagli anni settanta in competizione e opposizione ai partiti della sinistra storica. I Grünen tedeschi sono l'esempio principale di questo secondo modello, cui è possibile accostare anche le liste verdi italiane (v. Müller-Rommel, 1989; v. Diani, 1988; v. Poguntke, 1993). In molte situazioni nazionali, un contributo importante all'emergere delle formazioni politiche verdi è venuto dalle mobilitazioni antinucleari. L'opposizione alle centrali ha infatti facilitato le cooperazioni tra aree politiche e culturali tra loro differenti, e in precedenza largamente prive di contatti (v. Rüdig, 1990; v. Flam, 1994).
La tab. II riporta i risultati elettorali dei principali partiti verdi europei nelle elezioni europee tra il 1979 e il 1999. Si tratta come si vede di risultati tutt'altro che omogenei. Vi sono infatti marcate differenze sia tra una consultazione e quella successiva, sia tra i diversi Stati, con i paesi dell'Europa settentrionale (Germania, Olanda, Belgio, Finlandia) di solito più benigni verso questi partiti rispetto ai paesi dell'Europa meridionale (si pensi anche al peso modestissimo dei partiti verdi in Grecia o in Spagna). Occorre inoltre considerare che il voto per le elezioni europee tende a premiare questi partiti più del voto per le elezioni nazionali. Nel complesso, tuttavia, i partiti verdi sembrano essersi consolidati, e appaiono in grado - con l'eccezione della Gran Bretagna - di svolgere un ruolo politico di rilievo nelle rispettive realtà nazionali. È da tempo diffusa la loro presenza con posizioni di responsabilità nelle amministrazioni locali; in Germania in particolare i Grünen hanno svolto da tempo un ruolo importante in vari governi regionali (v. Poguntke, 1993). Nella seconda metà degli anni novanta i Verdi hanno fatto parte della maggioranza governativa nei principali paesi dell'Europa continentale (in Italia dal 1996, in Francia dal 1997, in Germania dal 1998).L'analisi del voto verde deve affrontare almeno due problemi distinti: quali sono le caratteristiche dell'elettorato; quali fattori spiegano le differenze di successo tra i vari paesi. Il primo punto è stato normalmente trattato equiparando i simpatizzanti dei partiti verdi a quelli dei movimenti ecologisti (e in generale dei nuovi movimenti): ipotizzando, cioè, al loro interno una elevata percentuale di appartenenti alla nuova classe media. Mentre la comparazione di dati aggregati in diversi paesi europei sembra confermare una certa relazione tra il consenso per gli uni e quello per gli altri (v. Müller-Rommel, 1990), analisi condotte a livello individuale suggeriscono tuttavia una maggiore differenziazione tra i singoli elettorati nazionali (v. Franklin e Rüdig, 1992). I tratti propri dei nuovi soggetti politici (giovane età, elevata istruzione, orientamenti valoriali postmaterialisti) spiegano in effetti in modo soddisfacente il voto verde in Olanda o in Germania, assai meno altrove. Il consenso sembra trasversale e meno connotato dal punto di vista sociale non soltanto in paesi come la Gran Bretagna o la Francia, dove i partiti verdi hanno una marcata caratterizzazione in senso ecologista, ma anche in Belgio o in Italia, dove pure la componente 'rosso-verde' è cospicua tra i militanti (v. Franklin e Rüdig, 1992; v. Kitschelt e Hellemans, 1990; v. Biorcio, 1988).
Il differente successo ottenuto dai partiti verdi è in vario modo collegato alle caratteristiche dei diversi sistemi politici e sociali in cui essi operano. Una delle poche analisi comparate sinora disponibili si è in particolare soffermata sul rapporto esistente tra voto verde e alcuni tratti distintivi di una società postindustriale (v. Kitschelt, 1989, cap. 2). I risultati sono in parte congruenti, in parte contraddittori con l'ipotesi che sia la società postindustriale in quanto tale a favorire lo sviluppo di questo nuovo tipo di partiti. Mentre esiste una relazione tra livelli di reddito pro capite e voto verde, essa sembra mancare con altri indicatori importanti di una società avanzata come il peso del settore terziario e dell'istruzione superiore. Piuttosto, i Verdi sembrano essere stati sinora particolarmente forti in paesi dove hanno prevalso soluzioni politiche di tipo neocorporativo e keynesiano, caratterizzate da elevata spesa sociale, forte concertazione tra capitale e lavoro (e conseguenti bassi livelli di conflittualità industriale), e una presenza rilevante delle forze di sinistra nelle compagini governative.
Queste ultime considerazioni mettono allora in luce la rilevanza di variabili strettamente politiche per spiegare un fenomeno come i partiti verdi. Le caratteristiche del sistema elettorale meritano un'attenzione particolare. Un sistema proporzionale aumenta infatti le chances dei piccoli partiti, in quanto riduce i rischi di dispersione del voto e rafforza nell'elettore la percezione di esprimere un voto utile e non solamente 'di bandiera'.
Si spiega anche alla luce del sistema maggioritario lo scarso peso politico dei Verdi in Gran Bretagna e Francia, dove non a caso le percentuali di consenso salgono in modo significativo in elezioni come quelle europee, considerate meno rilevanti e tali quindi da rendere meno drammatico il rischio di dispersione di voti. Anche un sistema proporzionale puro può tuttavia presentare degli inconvenienti. Aumentando le possibilità per i piccoli partiti, può infatti incoraggiare sia la presenza di competitori esterni, sia fenomeni di frazionismo interno. Dal punto di vista del successo elettorale il sistema più favorevole ai nuovi partiti è forse un assetto misto di tipo tedesco, dove uno sbarramento del 5% pone dei limiti alla frammentazione senza privilegiare oltre misura i partiti già consolidati (v. Richardson e Rootes, 1994).
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