Ambiguità
Nel suo studio sull'a. nel linguaggio poetico (Seven types of ambiguity), la cui prima edizione risale al 1930, W. Empson riconosceva che l'operare dell'a. è alla radice stessa della poesia, e fissava e definiva questa categoria come concetto distinto dall'univocità assertiva, da un lato, e dall'equivocità, dall'altro. È dunque da considerare equivoco, e non ambiguo, ogni discorso che sia basato sulla reticenza o su una programmatica sospensione del senso, operata per ragioni più o meno confessabili. Nel caso del cinema, tuttavia, il suo carattere d'invenzione scientifica, il suo apparente porsi come riproduzione meccanica, in una certa misura automatica, di una realtà che ci si limita a registrare, le sue origini fotografiche (alle quali il movimento sembra soltanto aggiungersi come un supplemento di realismo), avevano fatto sì che, almeno in un primo momento, lo si considerasse uno specchio fedele della realtà, legato a essa, in tutte le sue manifestazioni, da un rapporto puramente referenziale.
Va però subito notato che la nozione di realtà nel momento stesso in cui questa si predispone a essere ripresa, e quindi a farsi materia di uno spettacolo (sia pure futuro, come nel cinema), diventa ipso facto ambigua. Quegli operai e operaie che nel 1894 (La sortie des usines Lumière, di August e Louis Lumière, presentato nel 1895), uscendo dalle officine Lumière si accorgevano di essere inquadrati dai loro datori di lavoro con quello che probabilmente ritenevano un semplice apparecchio fotografico, si saranno comunque atteggiati in un certo modo, inevitabilmente 'messi in posa', mentre una spontaneità di comportamento sarà stata conservata solo da coloro che non si erano accorti di essere ripresi. Già dai primordi di un'unica, breve ripresa documentaria, a macchina fissa frontale, il germe dell'a., in senso lato, si insinua nell'inquadratura, non perché emerga chiaramente il fatto che alcuni dei soggetti ripresi recitano, ma, all'opposto, nel rendersi difficilmente decifrabile proprio la distinzione tra soggetti che non recitano e quelli che fingono di non recitare. Per quanto i fratelli Lumière, dunque, diffondessero per il mondo i loro operatori allo scopo di documentare eventi storici, avvenimenti di cronaca, viaggi in terre esotiche, panorami suggestivi, il rapporto ambiguo tra realtà e finzione subentrava inevitabilmente: appena corpi (viventi) vengono inquadrati, il cinema diventa uno specchio sfuggente, incapace di guardare senza essere a sua volta guardato, insidiato dal germe della finzione. Infatti la finzione sedusse subito gli stessi Lumière quando, nel 1895, organizzarono la scenetta comica 'naturale' dell'innaffiatore innaffiato (L'arroseur arrosé), basata su una vera e propria, per quanto elementare, sceneggiatura. In piena finzione narrativa, poi, tra trucchi ottici e meccanici, apparizioni, sparizioni ecc., la distanza tra cinema e realtà andrà facendosi sempre più netta nei film di Georges Méliès, per i quali molto presto, nel trionfo esplicito della fantasia e della favola, non si potrà più parlare di a. in senso proprio (o se ne potrà parlare in un altro senso: v. oltre L'ambiguità onirica).
Il rapporto realtà-finzione continua invece a porsi come nodo fondamentale del genere documentario (v.), laddove una forte istanza di veridicità deve spesso fare i conti con vari gradi di manipolazione, più o me-no nascosta o palese, operata per ragioni più o meno onorevoli: spettacolari, ideologiche, censorie, politiche ecc. Fin dai tempi di Nanook of the Nord (1922; Nanouk o Nanuk l'eschimese) di Robert Flaherty, primo grande documentario antropologico, ci si è interrogati su quanto di messa in scena ci fosse in alcune sequenze, per es. quella della caccia alla foca, mentre si è sempre sospettato che l'igloo dove vive la famiglia di Nanuk fosse una vera e propria scenografia, sia pure di ghiaccio, fatta costruire apposta da Flaherty aumentandone le normali dimensioni in modo tale da facilitare le riprese. Anche qui la finzione tende a mostrarsi come interfaccia del reale, tanto più quando finge di annullarvisi.
Più in generale, l'a. si annida nella natura stessa del cinema in quanto linguaggio complesso, testo secondo, produzione di senso attraverso procedimenti specifici e insieme scelta e selezione di materiali preesistenti nella realtà fenomenica o culturale. Tutto questo emerge soprattutto con il progressivo perfezionamento delle pratiche di montaggio e, dunque, della molteplicità dei punti di vista, alternati, incrociati, intersecati, legati ai personaggi oppure da ascrivere all'istanza narrativa impersonale della macchina da presa. In tal modo possono rivelarsi indecidibili lo statuto stesso dello sguardo filmico, l'attribuzione della cosiddetta visione in soggettiva, l'identificazione di punti di vista 'impossibili'. La storia del cinema è segnata proprio dalla progressiva codificazione di una grammatica narrativa, che verrà perfezionata da David W. Griffith, e sfocerà nei procedimenti del cinema classico. Mentre si sviluppava questo processo si avviò contemporaneamente la contestazione linguistica, e non solo linguistica, delle avanguardie. Non si intende qui tanto alludere ai tentativi di cinema puro, astratto, ritmico, legati alle ricerche artistiche sulle forme geometriche in movimento, quanto a quei prodotti che, negli anni Venti e Trenta, tendevano a situarsi in una zona di confine tra realtà, pulsioni dell'inconscio, sogno e desideri profondi: basti pensare, per es., ai film surrealisti, quelli di Luis Buñuel, ma anche al prototipo La coquille et le clergyman (1928), in cui il contrasto tra lo scenarista Antonin Artaud e la regista Germaine Dulac riguardava proprio la possibile a. della collocazione dell'opera nel territorio del puro sogno (giudicato troppo facile da Artaud) o di una realtà più oscura e profonda.
Nell'ambito stesso del cinema classico furono costanti i tentativi di sfuggire alla gabbia dell'univocità di senso, perfezionata da Hollywood specialmente sul piano narrativo, ricollegando il cinema alle sue potenzialità, in fondo piuttosto presto tradite, di moltiplicazione dei livelli di lettura della realtà e quindi veicolo di a., perché il reale stesso è ambiguo. In fondo è proprio questa la grande lezione di un teorico come André Bazin che leggeva nella scelta del piano-sequenza e della profondità di campo, rispetto a procedimenti classici di montaggio, l'affermarsi di un cinema moderno. Nei suoi scritti egli infatti sottolinea come piano-sequenza e profondità di campo permettono allo spettatore la scelta tra diverse opzioni visive, ugualmente compresenti nell'inquadratura, senza imporgliene una in particolare (fosse pure quella preferita dal regista). Su questo stesso piano si pongono le diverse forme di violazione della norma, già teorizzate per molti aspetti dai formalisti russi, tese a provocare un effetto di straniamento al fine di mettere in questione il tasso di 'naturalezza' dell'immagine. E in questo senso si chiarisce il ricorso all'asincronismo (v. sincronismo e asincronismo), allo scarto voluto, cercato e sottolineato tra immagine e suono, come tentativo di sfuggire all'appiattimento univoco dell'una sull'altro, avvertibile specialmente agli inizi del cinema sonoro.
C'è, in effetti, un versante anti-ambiguità della parola in quanto logos, che si può facilmente contrapporre al pluri-senso dell'immagine; mentre caratteristica del cinema moderno, attraverso la contestazione delle regole operata anche sul piano narrativo in primo luogo dalla Nouvelle vague francese (si pensi in particolare a Jean-Luc Godard), è proprio quella di incrementare il tasso di a. sino al limite dell'intellegibile. Nei casi più radicali, sfugge il soggetto stesso della visione. Già impersonale e onnisciente, istanza di visibilità oltre ogni contingenza, poi limitato, frazionato, smembrato, il soggetto mescola e disperde i propri frammenti lungo i labirintici risvolti del film. Il concetto di a. non si pone allora a livello di corpi, di trama, di contenuti, o comunque di una struttura di significati: esso ha a che fare, piuttosto, con quella che Roland Barthes (1970) chiamava la "galassia dei significanti", dove si tratta di "affermare l'esistenza del plurale". Tutto questo nel cinema risulta complicato ed enfatizzato dal fatto che esso costituisce una pratica con forti valenze referenziali, implicante l'uso di corpi, in quanto segni che facilmente richiamano i segni della realtà con tutta la forza di una 'quasi-presenza'.
Nel 1974, in un intervento alla Biennale di Venezia (pubblicato poi in "Filmcritica") Pier Paolo Pasolini affermava: "Ogni opera è ambigua. Ma lo dico non in difesa della sua unità: bensì in polemica con la sua unità. Ogni unità è infatti idealistica […] L'ambiguità dell'arte non è dunque, malgrado le apparenze, un dato negativo in quanto irrazionalistico, e quindi decadentistico e borghese. L'ambiguità dell'arte è un dato positivo, in quanto presuppone nell'opera due momenti diversi, che la lacerano, e ne distruggono l'unità, essa sì irrazionalistica, e quindi, se vogliamo, decadentistica e borghese". Pasolini proseguiva poi auspicando l'avvento di un "Terzo Ebreo" (dopo Marx e Freud), in grado di inventare per l'arte l'equivalente della lotta di classe (per la società) o dello scontro tra conscio e inconscio (per l'apparato psichico). Da parte sua, si limitava a sottolineare il fatto che "se due forze contrarie vanno individuate in un'opera d'arte, tali forze contrarie devono essere pertinenti all'arte" (non si riferiva, dunque, alla contrapposizione arte/merce su cui al tempo si dibatteva). Viene quindi individuata l'esistenza di un'a. fondante, che deve porsi a monte di tutte le possibili interpretazioni come apertura/condizione del loro prodursi, sulla scia del "polisenso" di Galvano Della Volpe o del "senso in più" di Edoardo Bruno. Quest'apertura originaria, che fonda il testo, è quella che, come sottolineava ancora Pasolini, lo distrugge, lo smembra, ne mette in opera le tensioni contrapposte, non per pacificarle (né del resto per esplicitarle) ma per farle lavorare in silenzio, in profondità. Messa tra parentesi l'unità dell'opera, il testo, in quanto campo delle pratiche significanti, delle pulsioni, dei discorsi, delle rimozioni, delle compressioni e delle eruzioni, emerge lentamente nella filigrana del suo lacerarsi.
La rigorosa codificazione in 'generi', propria specialmente del cinema hollywoodiano, introduce invece una pratica di violazione, raramente flagrante, molto più spesso dissimulata, da parte di registi dalla personalità talmente forte da poter essere definiti autori, intenzionati a sfruttare a proprio vantaggio le possibilità offerte da un sistema produttivo ricco, senza lasciarsene espellere e senza al contempo rinunciare all'a. intesa come apertura a una moltiplicazione di senso. Un regista come Alfred Hitchcock attraversa territori di ombra e di inquietudine che si estendono molto oltre i confini del thriller classico, tanto più fingendo l'assoluto rispetto delle sue convenzioni. Se dunque la violazione delle regole lascia irrompere elementi ambigui in contesti governati da un rigido sistema normativo, esiste tuttavia anche un'a. interna e connaturata ad alcuni generi, un'a. che li costituisce come tali: il film noir (v.) o il gangster film (v.) si pongono fin dall'inizio come cassa di risonanza dei problemi di una società complessa, percorsa da turbamenti e contrasti sul piano politico, sociale ed etico. L'a., in quanto elemento strutturante, affiora in ogni aspetto dell'opera e ne investe, in maniera diversa, i vari livelli. I personaggi assumono complessità e spessore, al di fuori di ogni distinzione manichea, e le vicende stesse, pur violente, si calano in un'atmosfera chiaroscurale, cangiante, incerta tra luce e oscurità. Altri generi, invece, basati su una rigida codificazione, nel corso del tempo hanno subito un processo di reciproca contaminazione (valga per tutti l'esempio del western che è diventato, intorno agli anni Cinquanta, psicologico, flamboyant, horror, psicoanalitico ecc.). Questa contaminazione ha reso ambigua anche la figura dell'eroe, non più, come era agli inizi, adamantino rappresentante del Bene e della Giustizia, ma essere problematico, travagliato da oscure pulsioni, di cui spesso rimane preda. Il manicheismo del cinema degli inizi e di buona parte del cinema classico ha progressivamente lasciato il posto a personaggi complessi, del cui comportamento è difficile scoprire le motivazioni profonde e che presentano una personalità sfaccettata dagli aspetti contrastanti (nel poliziesco moderno, continueranno a esistere colpevoli, ma nessuno può dirsi del tutto innocente, rappresentanti della legge compresi).
Il gioco del travestitismo, sul quale si basano numerose commedie, è uno dei modi in cui più esplicitamente l'a., nel senso di a. del genere sessuale (gender), irrompe nel cinema come elemento narrativo e quindi non più occultato e rarefatto in quanto modalità strutturale, ma volutamente denunciato. E forse non è casuale il fatto che una certa categoria hollywoodiana di commedie sia stata ribattezzata sophisticated: sofisticato è anche sinonimo, senza implicazioni moralistiche, di artefatto, inautentico, al limite innaturale. Lo spettacolo del genere (sessuale) è infatti sempre una costruzione mentale, molto al di là dei condizionamenti biologici, a partire almeno da W. Shakespeare: Sylvia Scarlett (1936; Il diavolo è femmina) di George Cukor richiama proprio Come vi piace del grande drammaturgo. Nel finale del film, ambientato su un treno, il gioco delle seduzioni multiple, del 'non è quel che sembra', si raddoppia simmetricamente. Infatti Sylvia (Katharine Hepburn) pensa che il pittore di cui è innamorata (Brian Aherne) sia innamorato di una contessa mentre il pittore, innamorato di Sylvia, pensa che questa sia innamorata del truffatore (Cary Grant). Ambedue decidono, con finto altruismo, di unirsi nella ricerca dei supposti partner, ben decisi tuttavia a renderla vana. Entrambi, quindi, fanno di tutto per non rischiare di trovare ciò che devono fingere di cercare, almeno sino al chiarimento dell'equivoco amoroso. Del resto, in tutto il gioco quasi shakespeariano delle a. si annida il privilegio della simmetria. Katharine Hepburn è una ragazza vestita da uomo o un ragazzo vestito da donna? A cosa si riferisce il panico che la (lo) coglie, nel momento in cui si profila la necessità di andare a dormire nello stesso letto con Cary Grant? E inversamente, a quale sesso sarà mai diretto il bacio che le (gli) indirizza una disinvolta camerierina? Si avverte nella schermaglia erotica la presenza di una fisicità non rimossa, ma introiettata: niente di esplicito, dato l'incombere della censura, ma molto di alluso. In fondo è come se, nella commedia, il cinema statunitense si concedesse un angolo, appunto, 'sofisticato', riservato ai cosiddetti cinici (da Ernst Lubitsch a George Cukor), ai registi 'adulti' che preferiscono (come diceva Billy Wilder) filmare l'inseguimento della segretaria da parte del principale attorno alla scrivania, piuttosto che un inseguimento tra indiani e soldati nella Monument Valley. Ci si può chiedere chi insegue chi, nel girotondo della seduzione. Come mai in quella che sembra (ed effettivamente era, per l'epoca) una clamorosa inversione di ruoli, è Katharine Hepburn a inseguire il paleontologo Cary Grant in Bringing up baby (1938; Susanna) di Howard Hawks? E lo stesso Cary Grant insegue Ann Sheridan in I was a male war bride (1949; Ero uno sposo di guerra) ancora di Hawks, o ne è inseguito, dal momento che è della donna l'idea del suo travestimento femminile? Chi vince tra il procuratore Adamo (Spencer Tracy) e sua moglie Amanda, combattivo avvocato interpretato da Katharine Hepburn, in Adam's rib (1949; La costola d'Adamo) di Cukor, o conta soltanto il trionfo finale della differenza? E forse bisogna ammettere che 'nessuno è perfetto', battuta finale e deliziosa sintesi di Some like it hot (1959; A qualcuno piace caldo) interamente costruito da Wilder sul tema del travestitismo visto in tutte le sue infinite varianti.
Le allusioni della commedia sofisticata statunitense si faranno in seguito sempre più esplicite. Il puritanesimo hollywoodiano, regolato dal codice Hays di autocensura, comincia a sbriciolarsi a partire dagli anni Sessanta, perdendo significato di fronte alla rivoluzione dei costumi sessuali, e in questo senso vengono ripresi, paradossalmente, anche spunti offerti dal cinema tedesco degli anni Trenta e da quella tradizione del cabaret berlinese che la cappa di piombo del regime nazista aveva soffocato. Victor/Victoria (Victor Victoria), girato da Blake Edwards nel 1982, è il remake di un film tedesco del 1933 (Viktor und Viktoria, diretto da Rheinhold Schünzel, già oggetto di un remake statunitense nel 1935, First a girl, di Victor Saville) che, al di là dei suoi meccanismi comici e dei suoi tempi perfetti, non avrebbe avuto significato senza la presenza di una strepitosa Julie Andrews, corpo in sé ambiguo.
Il fascino divistico delle star, donne e uomini, basato sulla bellezza, l'attrazione sessuale e la loro sapiente messa in valore, in realtà ha sempre giocato con la suggestione androgina, a partire da un idolo del pubblico femminile del periodo del muto come Rodolfo Valentino. L'equivoco sull'identità sessuale, la voluta confusione dei ruoli, lo scambio momentaneo propiziato dal travestitismo, risultano fissati invece nell'a. permanente dell'androginia, nel fascino sospeso dell'attrazione assoluta in una scelta aperta che non prevede scioglimenti obbligati. Nella parentesi di relativo anticonformismo rappresentata dagli anni Trenta, dopo le preoccupazioni moralistico-pedagogiche dei primi decenni del secolo e prima della soffocante e tragica atmosfera imposta dai totalitarismi e dalla guerra, in una realtà comunque condizionata dallo sguardo maschile, si apre lo spazio per il trionfo di un'immagine femminile complessa e di dive dal forte tasso di androginia: Louise Brooks, Marlene Dietrich, Katharine Hepburn, Greta Garbo (non a caso travestita da paggio in Queen Christina, 1933, La regina Cristina, di Rouben Mamoulian). Questo anticonformismo non tocca l'Italia, o la coinvolge solo tangenzialmente, per es. con un regista come Augusto Genina che lavora in Austria, Francia e Germania, e a Parigi realizza, proprio con un'attrice per eccellenza androgina come Louise Brooks, Prix de beauté (1930; Miss Europa). Nel 1926, lo stesso regista aveva già affrontato direttamente il tema del travestitismo femminile con La femme en homme (L'ultimo lord), film in cui Carmen Boni conquista il vecchio nonno burbero presentandosi a lui con un'identità maschile, la stessa che abitualmente assume sul palcoscenico in un numero di cabaret. Malgrado il precedente rappresentato da Rodolfo Valentino, l'immagine divistica maschile è rimasta a lungo legata a una dimensione di virilismo dalla quale si è cercato di escludere ogni a., persino in ambiti considerati ambigui, come la danza (si pensi al musical). Nessuna sottile allusione, nessuna ombra ha appannato l'immagine di star come Fred Astaire o Gene Kelly o sollevato dubbi (se non a posteriori) sul classico tema dell'amicizia virile nel western. È stato solo dagli anni Cinquanta e Sessanta in poi che anche il divismo maschile si è aperto alle suggestioni dell'a., generando una vera e propria rivoluzione del costume, con l'avvento di attori dalla bellezza 'non convenzionale' come Montgomery Clift, Gérard Philipe, James Dean, Terence Stamp, Pierre Clementi, star del rock prestate allo schermo come David Bowie e Mike Jagger, sino a Brad Pitt, Leonardo di Caprio, Johnny Depp ecc. La fascinazione esercitata da questi divi, infatti, si basa su un certo coefficiente di 'femminilità' dei tratti, su una dolcezza di lineamenti, molto lontani dalla figura dell'eroe tutto d'un pezzo alla Gary Cooper. E se nel 1953 Ed Wood, definito con qualche iperbole il peggior regista del mondo, affronta per la prima volta il tema dell'a. sessuale avventurandosi al di fuori dei più tradizionali e sicuri territori del comico e della commedia con il film Glen or Glenda (Due vite in una), esibendo persino improbabili pretese scientifiche, la commedia resta il campo di elezione del travestitismo. A volte assumendo qualche risvolto drammatico, come accade in Splendori e miserie di Madame Royale (1970) di Vittorio Caprioli, con Ugo Tognazzi e la partecipazione di travestiti teatrali 'storici' provenienti dalla Compagnia dei Legnanesi, oppure imponendosi come divertimento puro, per es. con La cage aux folles (1978; Il vizietto) di Édouard Molinaro, con Michel Serrault e ancora con Ugo Tognazzi. Certamente l'esempio paradigmatico di cinema queer, sviluppatosi a partire dai primi anni Ottanta, è quello di Pedro Almodóvar, cinema dell'eccesso in cui la commedia, più o meno oltraggiosa, è sempre contaminata da elementi di melodramma: tra i tanti, basti ricordare almeno Tacones lejanos (1991; Tacchi a spillo), con Miguel Bosé e il travestito Bibi Anderssen, dal nome emblematico. Nel cinema degli ultimi anni le figure di ragazze e ragazzine androgine che si fanno passare per ragazzi si sono moltiplicate, sino alla Mira Sorvino en travesti di The triumph of love (2001; Il trionfo dell'amore) diretto da Claire Peploe, tratto dalla commedia di P.-C. Marivaux.È sul corpo come specchio di un universo mentale e quindi sul corpo del film come testo che convergono tutte le sfumature dell'a. sessuale, non necessariamente coincidente con l'androginia in quanto caratteristica fisica. Il progressivo affiorare delle tematiche relative, non più relegate nei recinti della farsa o della commedia, ha permesso a un 'autore' come David Cronenberg di girare, nel 1993, M. Butterfly, in cui si narra la vicenda di un diplomatico francese (interpretato da Jeremy Irons) che per lunghi anni ha rapporti sessuali con il travestito Song Liling (John Lone) senza mai accorgersi che si tratta di un uomo. Il corpo nudo è fonte di delusione, piuttosto che di perdizione: la sola autentica perdizione che valga la pena di perseguire è quella del corpo velato, e Cronenberg realizza in questo film una specie di storia in/naturale del sesso immaginario e dell'anatomia del fantastico.
È stato detto che l'unico criterio per poter distinguere la realtà dal sogno sta forse nel fatto che dal sogno ci si sveglia: criterio malcerto, basato su fondamenta filosoficamente deboli e più volte contestato dai sognatori incalliti, come insegna la storiella cinese del filosofo che sogna di essere una farfalla, ed è colto dal dubbio di essere una farfalla che sogna di essere un filosofo. Qui passa comunque il discrimine dell'a., che non scatta se la dimensione onirica nel film viene dichiarata subito come tale.
Lo statuto dell'onirismo filmico si trova codificato, fin dagli inizi, nelle realizzazioni di G. Méliès, il quale si premura sempre di far sapere agli spettatori se stanno per entrare in una 'sequenza onirica' (per es., in Rêve d'artiste, 1898, o in Hallucinations du baron de Münchhausen, 1911) attraverso la presentazione di opportuni indizi (mostrare il sognatore che si addormenta, che alla fine si risveglia ecc.). L'a., semmai, nasce proprio dal fatto che il piano stesso della cosiddetta realtà, in Méliès, si caratterizza per l'abbondanza di elementi fantastici, favolistici, allucinatori. Questa a. si perde con il progressivo affermarsi del realismo narrativo. Nel cinema hollywoodiano la 'sequenza onirica' ha diritto di cittadinanza, purché risulti ben distinta e rigidamente codificata. Sono rari (e tardi) i casi nei quali il sogno non si distingue affatto, almeno all'inizio, dal resto del film, magari rivelandosi tale solo alla fine, quando la situazione diventa talmente assurda, angosciosa o comunque insostenibile che il sognatore (o i sognatori) si sveglia(no), come in The woman in the window (1945; La donna del ritratto) di Fritz Lang o, in ambito europeo, in Le charme discret de la bourgeoisie (1972; Il fascino discreto della borghesia) di L. Buñuel, ove non c'è solo a. tra reale e sogno, ma anche tra sogno e sogno nel sogno. Ma non mancano neppure film dallo statuto indecidibile, tipici del cinema moderno, di cui si potrebbero citare i precedenti surrealisti, ma nei quali si avverte anche un ritorno proprio alla linea inaugurata da Méliès. Come già sottolineato La coquille et le clergyman di G. Dulac, nato nell'ambito delle ricerche d'avanguardia del surrealismo francese, fu oggetto di un violento attacco da parte dell'autore dello scenario, A. Artaud, che accusò la regista di averne totalmente stravolto lo spirito, riducendolo a una 'registrazione di sogni' e facendogli quindi perdere proprio l'originale carattere di ambiguità. Si tratta dell'a. che anima i primi film surrealisti di L. Buñuel (Un chien andalou, 1928, e L'âge d'or, 1930, ambedue realizzati con la collaborazione di Salvador Dalì), o il cinema del poeta e pittore Jean Cocteau, a partire da Le sang d'un poète (1930) sino a Orphée (1950; Orfeo) e a Le testament d'Orphée (1960; Il testamento d'Orfeo). Per questi film Cocteau rifiutava sdegnosamente, come troppo semplicistica, l'interpretazione onirica, mentre vi traspare l'uso ambiguo del corpo come metafora, collocabile nell'ambito di quello che più tardi P.P. Pasolini chiamerà cinema di poesia. A Cocteau, in questo senso, si riallaccerà Alain Resnais nel girare L'année dernière à Marienbad (1961; L'anno scorso a Marienbad), su sceneggiatura di Alain Robbe-Grillet, in cui l'apporto dello scrittore, il più noto esponente del Nouveau roman, si fonde con lo sguardo avvolgente della macchina da presa, a caratterizzare un universo senza tempo, 'ambiguamente' sospeso tra sogno e memoria.
L'a. tra realtà e finzione ritorna attuale, mutando aspetto, con l'avvento del cinema digitale (v.), dei trucchi elettronici ecc. Non si tratta più di chiedersi se un avvenimento è reale o ricostruito, né di capire se una determinata realtà è stata più o meno manipolata in funzione delle riprese e se questa manipolazione sia stata più o meno sapientemente occultata, visto che il versante documentario è stato ormai assunto dalla televisione. Si tratta, nel cuore stesso del cinema di finzione, di una perdita generale di fiducia nella realtà profilmica delle immagini, compresa quella dei corpi, il cui statuto diventa sempre più incerto. Non costituisce tanto un problema, quindi, il trattamento elettronico di catastrofi, incendi, inondazioni, invasioni di alieni, rinascita di dinosauri ecc., accadimenti spettacolari la cui irrealtà resta evidente malgrado la perfezione degli effetti; e appaiono semplicemente divertenti gli inserti elettronici grazie ai quali Tom Hanks dialoga con i presidenti degli Stati Uniti in Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis. Risulta molto più inquietante apprendere che è puramente virtuale, sempre in questo film, la piuma che volteggia leggera nell'aria, alla fermata dell'autobus, o che la scomparsa delle gambe di Gary Sinise, compresa la protesi sostitutiva in acciaio, è solo un effetto chirurgico da computer graphics. Su questo piano, peraltro, la vera a. radicale avrà luogo nel momento in cui, in un futuro che potrebbe essere prossimo, il perfezionamento tecnico della grafica elettronica renderà sempre più difficile distinguere i corpi degli attori viventi dai loro simulacri virtuali, come già si verifica per i luoghi. A quel punto, corpi e luoghi virtuali sostituiranno corpi e luoghi reali, assumendone però tutte le prerogative visibili: il massimo di realismo coinciderà con la scomparsa del reale, il laboratorio elettronico prenderà il posto del set. L'a. investirà lo statuto stesso di esistenza di ciò che si vede nell'immagine.
W. Empson, Seven types of ambiguity, London 1930.
G. della Volpe, Critica del gusto, Milano 1966.
R. Barthes, S/Z, Paris 1970 (trad. it. Torino 1973).
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano 1972.
"Filmcritica", ottobre 1974, 248, nr. monografico sul tema dell'ambiguità (in partic. P.P. Pasolini, L'ambiguità, pp. 308-10).
E. Bruno, Pranzo alle otto, Milano 1996.