ANIMALE (lat. anĭmal, da anĭma)
Tutti gli esseri viventi si distinguono in due grandi gruppi: gli animali e le piante (regno animale e regno vegetale). E le scienze biologiche, nel loro vastissimo campo di studio, indagano per l'appunto tutto ciò che si riferisce agli esseri dotati di vita.
La distinzione tra animali e piante, facile nei gruppi superiori, risulta oltremodo difficile quando si studiano invece le forme inferiori (Protozoi, Alghe, Funghi). Ciò perché molte di esse hanno insieme caratteri che usualmente si attribuiscono ai due diversi regni. Così p. es. la Euglena viridis è un organismo microscopico che si muove attivamente per mezzo del suo flagello; ha una macchia rossa, organo sensibile alla luce, e una piccola bocca con la quale introduce l'alimento, che poi digerisce. Di fronte a queste caratteristiche animali, possiede la clorofilla, e può vivere, come le piante, in assenza di sostanze organiche. Haeckel cercò di superare la difficoltà, istituendo un terzo regno, quello dei Protisti, che abbraccerebbe tutte le forme inferiori fornite di caratteri intermedî di animali e piante insieme. Se non che la delimitazione dei protisti dagli animali, e soprattutto dalle piante, risulta altrettanto difficile quanto quella dei due regni classici. Questa difficoltà dipende essenzialmente dal fatto che, secondo la teoria evolutiva, piante e animali hanno un'origine comune. Tuttavia si possono così indicare i principali caratteri distintivi:
1. movimento: quasi assente nelle piante.
2. metabolismo: gli animali debbono, per vivere, alimentarsi di sostanze organiche, comprese le sostanze proteiche. Invece le piante possono vivere di sostanze minerali, acqua e sali del terreno, anidride carbonica dell'atmosfera. Per mezzo della clorofilla scompongono l'anidride carbonica, abbandonano l'ossigeno e trattengono il carbonio con cui, unitamente ad acqua, formano gl'idrati di carbonio (zucchero, amido); e utilizzano per questa reazione, che è fortemente endotermica, l'energia raggiante del sole, assorbita appunto dal pigmento clorofillano; poi, dagli idrati di carbonio, più sali azotati, formano le sostanze proteiche. Perciò la pianta è un organismo fortemente sintetizzatore, mentre l'animale non ha questi poteri di sintesi.
3. cellulosa: le piante hanno pareti cellulari di cellulosa; gli animali ne sono privi.
Tra le piante inferiori, i funghi, privi di clorofilla, non possono scindere l'anidride carbonica; hanno tuttavia il potere di sintetizzare le sostanze proteiche da idrati di carbonio più sali azotati ed acqua. Molti animali inferiori, p. es. le attinie, sono dotati di scarsi movimenti. Alghe microscopiche sono prive di membrana di cellulosa e sono mobili; protozoi non sintetizzatori hanno membrana di cellulosa, quasi tutti anzi la posseggono, allo stato di cisti. Le relazioni tra piante ed animali si comprendono sulla base della conoscenza del ciclo biologico degli organismi inferiori. In taluni flagellati forniti di clorofilla, come l'Euglena, non solo esistono cisti con la membrana di cellulosa, ma queste hanno anche la capacità di assimilare, di crescere e di riprodursi, formando aggruppamenti di cisti (stadio di palmella). D'altra parte, il corpo di un'alga immobile pluricellulare si forma, come quelle cisti, da una cellula flagellata (germe), che si ferma e si circonda di una membrana cellulosica; questa cellula si accresce e si riproduce, i prodotti rimangono uniti a formare il corpo dell'alga. Perciò le piante rappresentano il prodotto dell'evoluzione dello stadio cistico degli organismi inferiori. Invece gli animali rappresentano il prodotto dell'evoluzione dello stadio mobile, che già nelle forme inferiori può assumere caratteri assai complicati; per esempio negl'Infusorî, che sono dotati di complicati organi di movimento, nei Volvox, flagellati coloniali di forma sferica con una cavità centrale (come lo stadio embrionale detto blastula).
Riassumendo, troviamo nella teoria evolutiva la ragione per cui il regno animale e il regno vegetale, separati da netti caratteri in tutti i gruppi più elevati, sono invece confusi nelle forme inferiori. E troviamo nel ciclo biologico delle forme inferiori, gli stadî che sono rispettivamente il punto di partenza per l'evoluzione del regno animale (stadio adulto mobile) e del regno vegetale (stadio di cisti). In organismi differenti, l'uno o l'altro di questi ha assunto la prevalenza, e si è evoluto.
In ogni modo, pur tenendo conto delle limitazioni su esposte, sensibilità e movimento si possono considerare, all'ingrosso, come le caratteristiche del regno animale. E questi concetti, trasportati dal campo della biologia generale in quello della fisiologia generale, permettono di caratterizzare un importante gruppo o sistema di funzioni.
Per i criterî di classificazione dei diversi gruppi (Protozoi, Metazoi, e i varî tipi, le classi, ecc.) si rimanda alla voce classificazione; per tutti gli altri aspetti sotto i quali gli animali possono essere considerati rispetto alle varie scienze biologiche, v. biologia.
Sistema animale o sistema di relazione. - L'insieme delle funzioni di un organismo animale, può venire distinto in due grandi gruppi: funzioni animali e funzioni vegetative. Le prime, che son chiamate animali perché peculiari agli esseri animati, comprendono la sensibilità, i movimenti, gli atti volitivi.
Le funzioni vegetative invece sono quelle che si riscontrano anche nelle piante: respirazione, circolazione, nutrizione, accrescimento, ecc. Corrispondentemente, possiamo distinguere tutti gli organi e apparati in due grandi sistemi, che presiedono rispettivamente a ciascuno dei due gruppi di funzioni considerate, e cioè il sistema animale e il sistema vegetativo, o autonomo, o viscerale (v. vegetativo, sistema).
Il sistema animale comprende quella sezione del sistema nervoso centrale che riceve le sensazioni dall'esterno, le elabora e invia perifericamente gl'impulsi motori; comprende quindi ancora gli organi della sensibilità generale e specifica, il sistema dei muscoli scheletrici (striati) coi nervi che vi arrivano. Poiché il sistema animale esplica la grande funzione di mettere in rapporto l'essere vivente con l'ambiente esterno, rendendolo capace di reagire agli stimoli che dall'esterno gli giungono, esso viene detto anche sistema della vita di relazione.
Non soltanto non esiste una separazione assoluta fra i due sistemi, animale e vegetativo, ma vi sono anzi numerose vie di comunicazione nervosa e vascolare e una ripercussione continua tra le funzioni del sistema animale e quelle del sistema vegetativo. Il primo è collocato alla periferia del corpo, il secondo prevalentemente nella cavità del tronco. Nell'encefalo e nel midollo si trovano, sia centri formati da cellule nervose appartenenti alla sezione animale, sia centri appartenenti alla sezione vegetativa della innervazione (Viola).
Gli animali nel folklore.
Gli animali, di cui parlano le tradizioni popolari, vanno distinti in reali ed immaginarî o favolosi. Questi ultimi, concezioni fantastiche, anche se suscitate, come pretendono alcuni, dalla vista di avanzi fossili o d'altri fatti e fenomeni, sono materia di miti che risalgono a tempi lontanissimi, e che, in parte, sopravvivono nella memoria dei nostri volghi; come quello del basilisco, che nascerebbe proprio dall'uovo del gallo fecondato da una biscia. Gli altri, pur esistendo nella natura, dal popolo sono descritti spesso con attributi che non rispondono al vero e che sono effetto di erronee osservazioni. Così, l'elefante, mancando di articolazioni alle gambe, sarebbe costretto a dormire appoggiandosi a un albero; il camaleonte si nutrirebbe d'aria e cambierebbe di colore a volontà; la talpa sarebbe cieca e muta; l'uccello del paradiso nascerebbe senza gambe; l'alcione sospeso per il becco, come una banderuola, indicherebbe lo spirar del vento; e via di seguito.
Tutta una classe di racconti, nella letteratura tradizionale, rappresenta il regno degli animali dotato di umani caratteri, perché gli esseri, che in quello compaiono, parlano, sentono e agiscono come l'uomo. Il fatto ha dato luogo a varie ipotesi sull'originario significato dei conti, propendendo alcuni a ravvisarvi l'animismo dell'umanità primordiale, ed altri le allegorie del tempo mitico. Un fatto comunissimo, in tal genere di tradizioni, è la metamorfosi, per premio o per castigo della divinità ovvero per sortilegio di fattucchieri; onde vedi esseri che da bruti diventano uomini, ed esseri che da uomini degradano in bestie. Il dragone, che affascinato dall'amore della fanciulla si trasforma da rettile mostruoso in bel giovane; la donna, che in forza della magica operazione si trasmuta in vacca, in capra, in uccello, sono casi frequenti nelle narrazioni popolari. La vecchia credenza che le streghe prendano forme animalesche ha fatto supporre che tali siano i gatti, le volpi, le serpi, che in determinate ricorrenze dell'anno il popolo condannava al fuoco, nei falò accesi sulle vie e sulle piazze. Il lupo mannaro non sarebbe che un uomo cambiato in lupo, mediante artifizî magici (v. licantropia). Nei rapporti con l'umanità gli animali delle tradizioni popolari vanno distinti in benefici e malefici, a seconda dell'influenza che si ritiene esercitino, quali veicoli di forze cosmiche, per alcune particolari caratteristiche del colore, della forma, della voce, dell'andamento. La lucertola a due code è talismano potente; il gatto, la serpe, la gallina di colore nero sono malefici; mentre, al contrario, sono benefici quelli di colore bianco. In alcuni luoghi le serpi di questo colore sono nutrite ed allevate nelle case, perché si ritiene incarnino le fate. La gallina, indipendentemente dal colore, se imiti il canto del gallo o ingoi rapidamente il becchime, si reputa stregata e si uccide all'istante. Si crede che alcuni animali, pur non essendo malefici, possano diventare tali per maltrattamenti ricevuti. Il fanciullo calabrese si affretta a scongiurare l'ira del ramarro, cui abbia per caso troncato la coda, dicendo:
Non fu' eu, non fu' eu,
ca fu l'erramu judeu.
Se qualcuno beffi il cuculo mentre canta, corre il rischio di procurarsi l'erpete in faccia; se irriti il rospo, di avere le pustole; se costringa all'inedia in luogo chiuso un ramarro o una serpe, di morire consunto. Nel Bengala, chi ferisca un cervo non tarderà a vedere sul suo capo le corna. Varî proverbî enunciano simili credenze:
Cu' ammazza cani e gatti,
Sett'anni a mala sorta lu cumbatti;
dice un adagio calabrese, che è l'eco di un pregiudizio diffusissimo nel bacino del Mediterraneo (Europa meridionale ed Africa settentrionale), secondo cui è vietato uccidere un cane o un gatto.
Sia maledetto chi del cielo alla regina
Preda i nidi e li rovina;
dice un altro della Scozia, alludendo alle disgrazie che potranno incogliere a chi mal si comporti con lo scricchiolo, detto volgarmente il re o reuccio degli uccelli.
Sono questi pregiudizî avanzi di vecchi tabù? La supposizione non è infondata. Si pensi che, tuttora, il pastore della Sardegna si astiene dal pronunziare il nome della volpe, per timore di attirare l'esecrato animale sul gregge, e all'occorrenza sostituisce il nome con una circonlocuzione. Gli animali familiari partecipano o si fanno partecipare alle gioie e ai dolori della casa; onde nell'uno o nell'altro caso portano ornamenti di festa o segni di lutto. Quando muore il capo di una famiglia contadinesca, l'uso vuole, in qualche luogo, che le arnie del defunto siano abbrunate. In determinate ricorrenze, al bestiame da lavoro si dà da mangiare il pane di rito o benedetto. Nell'Abruzzo, il primo maggio si dànno in pasto ai buoi legumi o cereali; e il giorno di S. Giovanni si dà loro da bere l'acqua dei santi martiri, per preservarli dalle serpi, dai tafani e dagli animali velenosi in genere. Nel Périgord, si lasciano digiuni il venerdì santo, affinché partecipino al dolore dell'umanità. I rimedî adoperati per l'uomo, servono in molti casi per gli animali domestici o utili; onde amuleti sacri e profani, suffumigi, carmi ed operazioni stregoniche ed antistregoniche, specie quando si ha il sospetto che il bestiame sia stato colpito dal malocchio. Come per le persone care, si fanno voti e preghiere anche per l'infermità del bestiame; e, non di rado, i cavalli o i buoi, guariti per miracolo o grazia divina, sono condotti alla processione, nella festa del santo protettore. Santi patroni sono, per il bestiame in genere, S. Nicola, S. Antonio, S. Giovanni Battista; per i cani S. Rocco e S. Vito; per i gatti S. Agnese, per la selvaggina S. Silvestro. In varî paesi si suole allevare, per devozione, il porco di S. Antonio; in qualche altro la vacca della Madonna. A Carovigno, nelle Puglie, si comprano due o tre vacche a spese del municipio o con oblazioni, allevandole come animali sacri; e all'approssimarsi della festa sono menate in processione adorne di drappi e fiori, quindi al macello, cuocendone le carni in chiassosi conviti, a beneficio dei festaioli.
I rettili hanno come patroni S. Paolo e S. Domenico: nella sua festa (il primo giovedì di maggio), in Cocullo i serpari abruzzesi vanno alla caccia delle serpi per avvolgersene il corpo, seguendo la processione, e per fare avvolgere la statua del taumaturgo.
Fra le stregherie sono da ricordare le legature. Si legano magicamente con carmi ed atti speciali i lupi, le volpi, i cani, le donnole. Una maniera di legare quest'ultime consiste nel finto matrimonio dell'animale con un individuo. Appena la massaia siciliana scorge la malefica donnola l'apostrofa così, con l'indice teso:
Baddòttula, baddottulina,
Nun tuccari la gaddina,
Ca eu ti maritu quantu prima,
Si si' fimmina, ti dugnu lu figghiu di lu re;
Si si' masculu, ti dugnu la rigina.
Retaggio dell'arte divinatoria che fu in tanto onore nell'antichità sono i prognostici che dagli animali si sogliono desumere. Il gufo, che si aggira attorno alla casa e vi penetra, annunzia una sventura; il calabrone, che ronza per la stanza, predice una gioia. Il cuculo è in fama di uccello profetico, e dal numero dei monotoni cucù il villano arguisce quello delle misure del raccolto, la fanciulla quanti anni dovranno passare prima del matrimonio, il popolano in genere gli anni di vita che gli rimangono. Tra i prognostici, quelli più in voga concernono la meteorologia. I rospi, che sbucano dalle tane e saltellano; i lombrici, che affiorano dal terreno; gli asini, che crollano le orecchie; la giovenca che fiuta l'aria con le nari dilatate; il maiale, che dissipa i manipoli di paglia col grifo; il bue, che lambisce col muso la zampa anteriore; la pecora, che non si vuole staccare dal pascolo; il gatto, che si passa la zampetta dietro l'orecchio; la rondine, che volando rasenta il suolo con l'ali; le api, che sciamano dall'alveare, le ranocchie, che gracidano di sera e a lungo; la civetta, che garrisce a ciel sereno, annunziano il cattivo tempo. Della civetta si dice anche:
Beata ove si posa,
Amara ove divisa;
ritenendosi di buon augurio alla casa sulla quale si ferma, e di cattivo a quella verso cui volge lo sguardo.
Le stagioni hanno i loro messaggeri. La primavera ha la rondine, della quale si dice: "Per S. Benedetto (21 marzo), la rondine è sul tetto"; nonché il cuculo, l'assiuolo e il piviere, che i siciliani, i calabresi e i toscani nei loro proverbî chiamano rispettivamente cirrinciò, firringò e ghirlindò. L'estate ha la cicala; l'autunno il fringuello; l'inverno l'orso e il lupo. Il cuculo, che suol cantare in Europa fra il marzo e l'aprile (Entre mars et avril chante coucou s'il est vi) "cambia l'anno", come si suol dire; onde i contratti agrarî scadenti al primo canto del cuculo. Il fringuello, che comparisce nel mese di novembre, avverte il villano che non è più tempo di lasciare il podere e di dar la licenza al padrone: "Quando canta il fringuello, Buono o cattivo, tienti a quello". Nella Grecia moderna, il primo di marzo i fanciulli vanno per le strade con in mano una rondinella di legno, intonando l'inno della bella stagione; nella Svevia il primo maggio i contadini, recando in mano una pica, chiedono la strenna di porta in porta. Quest'ultima cerimonia è analoga a quella che i contadini delle Marche celebrano nella ricorrenza della Pentecoste, legando una pica fra i rami di un ciliegio tagliato a bella posta e adorno di tutte le primizie della stagione e recandosi di luogo in luogo, al grido di: "sció a la pica!".
L'orso e il lupo, se escono dalla tana il giorno della Candelora, significano che l'inverno è già tramontato (dell'inverno semo fora).
La magia e la medicina popolare, impiegando organi, secrezioni, ossa, ciuffi di pelli, penne e striscie di pelle degli animali, traggono risorse di vario genere ed importanza, dagli amuleti ai differenti specifici che gli usi e le prescrizioni tradizionali consigliano. Uno degli espedienti della primitiva arte salutare consiste nell'uso degli animali come veicoli per scacciare l'infermità dal corpo dell'uomo. Esempio caratteristico quello degli Arabi, i quali, quando la peste infuria, menano un cammello per l'abitato, affinché il quadrupede prenda sopra di sé la pestilenza; quindi lo strangolano (v. capro espiatorio). Un'idea simile traspare dall'uso sardo di colpire con una fucilata la vacca morta di malattia infettiva, o di sparare, in tempo di epidemia, al primo capo di bestiame che si presenta, con un fucile che abbia ucciso un uomo.
Più comuni sono i casi di trasferimento o trapiantamento del morbo dall'uomo in un animale. Nel Molise, per liberare un individuo dalla febbre, si pone un rospo alle supina sotto una grossa pietra, dicendo: "Allora la febbre a N.... possa tornare, quando questo rospo si possa voltare!" In moltissimi luoghi è frequente l'uso di curare le ulceri aftose dei lattanti, ponendo loro in bocca la testa di un ranocchio. Per comprendere il significato di queste e tante altre pratiche e credenze, che perdurano nella tradizione popolare, è necessario riportarsi al pensiero dell'uomo dei primordî, governato dal prelogicismo, dall'animismo e dalla magia. Solo così si può spiegare perché il popolo creda di uccidere l'epidemia, uccidendo il capro espiatorio: giacché il morbo è concepito come entità malefica, che si possa distruggere e annientare, come una materiale esistenza.
Bibl.: Tradizioni d'ogni genere (proverbî, canti, racconti, pregiudizî, pratiche, ecc.) relative agli animali si trovano sparse in opere svariate di folklore, grandi e piccole. Rimandando ai trattati bibliografici (Pitrè, Bibliogr. Trad. Pop. d'Italia, Torino 1894; Hoffmann-Krayer, Volkskundliche Bibliogr. (1917-1922), Berlino-Lipsia 1920-1927) e alle voci speciali sopra richiamate (animismo, conto, magia, presagio, totemismo, ecc.), citiamo qui E. Rolland, Faune pop. de la France, Parigi 1877-1883; P. Sébillot, Le Folklore de France, Parigi 1904-1907, voll. 3: La Faune et la Flore; A. Nardo-Cibele, Zoologia popolare veneta specialmente bellunese, Palermo 1887; Corsi, Zool. pop. senese, in Arch. trad. pop., XV: E. Hahn, Die Haustiere, Lipsia 1896; J. Jühling, Die Tiere in der deutschen Volksmedizin, Mittweida 1900; G. Calvia, Animali e piante nella trad. pop. sarda, in Folkl. Italiano, II (1927), p. 187 seg. - Alla fauna è dedicato un importante capitolo del volume della dottoressa Legey, Essai de Folklore Marocain, Parigi 1926; agli animali domestici e alle loro cure presso i contadini siciliani, un capitolo in S. Salomone-Marino, Costumi ed usanze dei contadini di Sicilia, Palermo 1897; M. Placucci, Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna, ristampato in Arch. Trad. Pop., III-IV; G. Pitrè, Cartelli, pasquinate e canti, Palermo 1913 (Bibl. delle trad. pop. sicil., XXV), pp. 294-303; V. Padula, Bruzio, 2ª ed., I, Napoli 1878, pp. 294-303, 328-332 e 178-183. Per i proverbî sul cavallo, A. Mantica, Raccolta di proverbi e ditatti ippici, Udine 1883; per i "discorsi al bestie, del bestie, e sovr'al bestie", T. Zanardelli, Saggi folklorici in dialetto di Badi, Bologna 1911, pp. 47-49; per i presagi nell'ultima guerra, A. Dauzat, Légendes, prophéties et superstitions de la guerre, Parigi 1919, pp. 225, 264. Per la rondinella nei proverbî, nei racconti, nelle credenze v. G. Pitrè, The Swallow Book, traduzione di A. W. Camehl, New York-Chicago 1912. Per le voci degli uccelli, G. Pinoli, Voci d'uccelli raccolte a Strambino, in Arch. trad. pop., III (1884), pp. 607-608; Campanus, Il linguaggio degli uccelli, in Riv. Campana, s. 2ª, III (1924), n. 1, pp. 1011. Per gli animali di caccia: G. Di Giovanni, Alcune usanze del Canavese, in Arch. trad. popolari, VI, VII, VIII (1887, 1888, 1889), capitoli I-VII.
Per gli animali favolosi, O. Abel, Die vorweltlichen Tiere in Märchen, Sage und Aberglaube, Karlsruhe 1923. Varî errori popolari concernenti animali sono stati oggetto di curiosità e di esame di vecchi studiosi, fra cui ricordiamo il celebre medico T. Brown, che dedicò ad essi una parte delle sue Enquiries into vulgar and common errors (1646).
Per i miti animaleschi, A. De Gubernatis, Zoological Mithology, Londra 1877; W. Mannhardt, Wald- und Feldkulte, 2ª ediz., Berlino 1904-1905; J. G. Frazer, The Golden Bough, ed. minor, Londra 1924; trad. italiana, Roma 1925.
Gli animali nell'arte.
Compagno e collaboratore dell'uomo nella vita di ogni giorno, molto spesso suo nemico o sua preda, l'animale doveva naturalmente costituire, fin dai tempi antichi, un soggetto caro all'arte. D'altro lato non soltanto questa, per così dire, comunanza di vita accostava l'animale all'uomo, ma era altresì la copia dei motivi artistici, la larghezza d'ispirazione che esso poteva offrire nella molteplicità delle specie e nell'infinita varietà degli atteggiamenti, tanto più degni di osservazione quanto più oscuri sono i motivi psicologici di essi, ché impenetrabile è l'anima del bruto il quale pur tuttavia sembra talora vibrare degli stessi nostri sentimenti; era infine, in più o meno varia misura a seconda dei diversi popoli e delle diverse età, la venerazione religiosa o il senso di tremore e di soggezione che esso ispirava per le virtù di forza, di audacia, di dominio dello spazio, onde talvolta si leva, o sembra levarsi, a un grado di potenza maggiore di quella dell'uomo. Così è che la parte che il mondo animale ha nell'arte può riguardarsi sotto un triplice aspetto: la riproduzione pura e semplice, più o meno fedele e penetrante, della vita di questo mondo, considerata in sé e per sé, o nei suoi rapporti con l'uomo; la contaminazione e la riunione in figure fantastiche di elementi e di attributi di animali diversi, o l'attribuzione alla figura umana di elementi animali al fine di creare e di rappresentare esseri immaginarî che riunissero in una le potenze e le virtù di animali diversi; infine l'uso di forme animali, delle più vaghe e delle più perfette tra le infinite che la natura nella sua meravigliosa opera ha creato, come motivo di decorazione.
L'arte preistorica ha conosciuto, almeno per quanto possiamo fino ad ora giudicarne, solo il primo di questi aspetti. Con semplicità di mezzi essa aveva già tuttavia raggiunto nella rappresentazione animale una non comune efficacia: ce lo dimostrano le figure di renne e di mammut incise sulle rocce delle caverne dei Pirenei o su pezzi di corno o di osso dall'uomo dell'ultimo periodo paleolitico. Non astrazioni simboliche né elementi di fantasia in tali figure, ma la rappresentazione della natura, osservata forse in tutti i suoi aspetti, e riprodotta soltanto in quelli più immediatamente espressivi.
Scendendo in età storica noi troviamo presso gli Egizî, popolo profondamente religioso e fornito di un'alta virtù di astrazione, le prime creazioni di animali fantastici, accanto naturalmente alle riproduzioni reali. Queste ultime riflettono soprattutto la vita agricola e pastorale del popolo da cui escono: nei rilievi delle tombe reali gli animali che più spesso ritornano e che appaiono con maggiore e più amorosa cura osservati e raffigurati, sono i buoi e gli asini, quelli che il contadino egizio aveva di continuo con sé per le sue necessità quotidiane; ma non mancano le altre specie, domestiche o selvagge, acquatiche, terrestri e volatili, che l'artista poteva egualmente bene conoscere.
Invece nelle sculture a tutto tondo, offerta alla divinità o sua rappresentazione simbolica, sono gli animali sacri, quelli che sembrano essere la manifestazione stessa della divinità, o gli esseri fantastici quelli che appaiono più spesso: l'ariete di Ammone, il leone, la gatta, l'ibis, lo sparviero; la dea Sekhet con la testa di leonessa o di gatta, Hathor con le corna della vacca; infine la sfinge: corpo di leone e testa di uomo: la forza indomabile del primo congiunta all'intelligenza del secondo. Ed è ancora un senso religioso più che una ricerca di decorazione, quantunque anche questa, e non in piccola misura, cominci a rivelarsi, quello che crea e diffonde in gran numero, come oggetto di ornamento, le piccole pietre tagliate a forma di scarabeo, o copre i soffitti dei templi con le figure di sparviero, dalle ali mirabilmente variegate.
Se nelle figurazioni a rilievo compare una maggiore varietà e una realistica vivacità di atteggiamenti, in quelle a tutto tondo prevale, anzi si può dire sia esclusivo, l'atteggiamento di stasi: le figure non sono mai in moto, ma sempre giacenti, onde la riproduzione della vita animale appare, se non imperfetta, unilaterale. Le forme sono d'altra parte trattate, come è nello stile dell'arte egizia, in maniera sommaria, per masse, senza studio di particolari.
Più varia, più vivace, più ricca di penetrazione psicologica nella rappresentazione animale si rivela l'arte assiro-babilonese, che ci ha lasciato al riguardo opere che ben giustamente possono dirsi dei capolavori. Poco importa se il trattamento formale di alcuni elementi, come, per citarne uno, quello del pelame nella criniera del leone, si rivela ancora impacciato da convenzionalismo o deficiente: v'è nelle figure che quest'arte scolpisce, sia a tutto tondo, come il leone in pietra di Nimrod o quello in bronzo di Korsabad, sia a rilievo, come i cani e i cavalli, e le belve ferite (celebri fra tutti la leonessa trapassata dalle freccie e il leone che versa sangue dalla bocca) dei rilievi con scene di caccia del palazzo di Assurbanipal, ora al Museo Britannico, tanto movimento e tanto pathos da farci rimanere meravigliati vedendo in questo tema quanto l'arte assira avesse progredito, mentre in altri temi, quali per esempio la stessa rappresentazione umana, essa era tuttavia ligia a forme più arretrate: se tale differenza sia dipesa dal fatto che la figura animale poteva essere nella sua nudità e naturalezza osservata e studiata con maggiore libertà che la figura umana, secondo vuole il Perrot (Hist. de l'art, II, p. 555 segg.), non si può affermare con sicurezza.
Assai più rari che presso gli Egizî sono presso gli Assiri gli esseri fantastici, il cui esempio più frequente è quello del toro o leone alato, con testa d'uomo, ispirato da un simbolismo affine a quello che creò la sfinge egizia. Invece nella figura del leone di Nimrod, cui si è già accennato, e in quelle di alcuni di questi esseri fantastici, messi a ornare gli stipiti di portali nella reggia di Sargon a Korsabad, abbiamo i primi esempî, ancora rudimentali tuttavia, della figura animale adoperata come motivo decorativo architettonico. Ché la figura dell'animale fa tutt'uno con l'elememo architettonico ed è in funzione di questo, se non che la fusione dell'una con l'altro non si rivela ancora completa ed organica.
Assai meglio è ottenuta tale fusione in un monumento celebre dell'arte cretese-micenea: intendo dire la porta dei leoni di Micene. Si trattava d'ideare una composizione con cui riempire il triangolo di scarico al di sopra dell'architrave della porta: e l'artista, mettendo due leoni rampanti ai lati di una colonna, raggiunse con i mezzi più semplici il massimo degli effetti: prova della sua ormai sicura maturità di concezione e di attuazione. E la stessa maturità, per rimanere ancora nel campo della figura animale usata per decorazione, noi riscontriamo nei vasi in terracotta dipinta, ornati da figure tratte dalla fauna marina. Non solo: per la prima volta noi troviamo in questa età il vaso in pietra o in terracotta foggiato a guisa di animale: a testa di leonessa, a testa o corpo di toro, ecc.: un partito artistico che continuerà largamente presso i Greci del periodo classico, e da essi sarà trasmesso all'Italia. Ma gli artisti cretesi-micenei erano egualmente abili nella riproduzione degli animali: le scene di caccia e di lotta con le fiere del vaso di steatite di Haghia Triada, delle tazze di Vaphiò e dei pugnali ageminati di Micene, gli uccelli e i quadrupedi delle pitture parietali di Cnosso e di Haghia Triada, ci provano tale abilità, e ci testimoniano lo studio dal vero che questi artisti ponevano alla base dell'opera loro: studio dal vero, nel quale tuttavia già può osservarsi quella che sarà la più spiccata caratteristica dell'arte greca classica, cioè la tendenza a idealizzare, a fermare la realtà in un tipo perfetto.
È quella che noi cogliamo nelle rappresentazioni, relativamente non frequenti, del mondo animale, nell'arte greca dei secoli migliori. Occupata dell'uomo e del mondo esteriore e interiore di questo, tanto che ogni potenza alta e bassa della natura era adombrata sotto la figura umana, l'arte greca non ha rivolto alla figura animale un'attenzione troppo larga e troppo amorosa; ma quando ha dovuto osservarla e trattarla, l'ha osservata e trattata con lo stesso spirito con cui si comportava nei riguardi della figura umana. Consideriamo le molte e varie figure di cavallo di cui è ricco il fregio del Partenone, o la testa, pure di cavallo, del frontone orientale del tempio: è chiaro che l'artista ha voluto darci in esse, pur movendo dalla realtà, il tipo ideale di questo tra i più nobili degli animali.
Ma appunto considerando la perfezione ideale di tutto e delle singole parti del corpo di questo o quell'animale, l'arte greca ha veduto quale larga messe di motivi decorativi poteva trarsi dal mondo delle bestie: non solo pertanto essa ha sviluppato con maggiore ampiezza e sapienza quanto aveva già iniziato l'arte micenea (e la più antica ceramica corinzia, rodiota e ionica ci mostra la larga applicazione fatta della decorazione animale nell'ornamentazione dei vasi, tutti ricoperti da teorie di bestie pascenti o lottanti fra loro, distribuite in zone parallele), ma ha sezionato, per così dire, il corpo dell'animale: e della testa del leone ha fatto la bocca di gronda del tetto, della parte anteriore del corpo, pure del leone, il sostegno della tavola, delle zampe di esso le zampe di tavole e di tripodi; dalle spire del serpente ha tratto anse di vasi o armille ed orecchini, dal collo del cigno la prua ricurva della nave cui la gomena deve essere attorta; e gli esempî potrebbero moltiplicarsi all'infinito: rispondenze così perfette, così logiche fra la forma decorativa e l'uso cui l'oggetto così formato o decorato era destinato, che tali motivi si sono poi perpetuati nei secoli fino a noi, né altri si sono ancora trovati migliori.
Scarsi invece e limitati a pochi esempî, e alcuni anche di origine orientale più che propriamente ellenica, sono gli esseri fantastici che l'arte greca ha creato: anche questi tuttavia così caratteristici che la loro fortuna ha oltrepassato nel tempo e nello spazio il mondo ellenico: il centauro, a corpo di uomo nella metà anteriore dal tronco alla testa, e a corpo di cavallo nella metà posteriore, Pegaso, ché alla forza del cavallo aggiunge lo slancio delle ali, i mostri marini, a corpo di pesce e a testa di animale terrestre.
L'attenzione, che l'arte greca classica aveva prestato in scarsa misura al mondo animale, si accrebbe notevolmente nel periodo ellenistico: quel mondo fu allora osservato e studiato non solo in quanto esso poteva avere rapporti con l'uomo, ma in sé e per sé, e degli animali l'arte cercò di indagare e di rappresentare i sentimenti più intimi, quasi questi fossero gli stessi e allo stesso grado vissuti di quelli che agitano l'animo dell'uomo. Siffatta tendenza si manifesta non tanto nelle rappresentazioni isolate, piuttosto rare, le quali tuttavia, come la cagna ferita di Gabii (ora al Louvre) mostrano ancora tutta la potenza idealizzatrice dell'arte anteriore, quanto soprattutto in un genere di rappresentazioni che ora per la prima volta compare, uscendo dalle scuole artistiche di Alessandria e di Pergamo, cioè il quadretto e la composizione di genere o di natura morta: il mosaico, l'arte che in questo stesso tempo e nelle stesse scuole comincia ad affermarsi, darà a tal genere di rappresentazioni la massima diffusione e contribuirà alla loro fortuna. Ricordiamo il gruppo del fanciullo che giuoca con l'oca, ideato dallo scultore Boeto, o il gentile quadretto delle colombe che si dissetano alla fontana, opera di Soso di Pergamo, e a noi noto per le repliche romane; ricordiamo le numerose scene nilotiche, con coccodrilli e gru in lotta con i pigmei, concepite dapprima naturalmente nell'ambiente fisico ed etnico loro proprio, ma rimaste poi a soddisfazione di quella facile predilezione per la fauna di paesi esotici, ricordiamo le ancor più numerose composizioni di natura morta, in cui prevalgono uccelli, pesci, animali domestici.
Tale gusto si trasmette all'arte romana: e a questa, in un tempo nel quale essa era ancora tutta pervasa da influenze elleniche né aveva ancor trovata la sua via, appartengono i due famosi rilievi Grimani, ora a Vienna, nei quali l'artista ha voluto rappresentare, e vi è riuscito con grazia ed efficacia se non con robusta potenza, l'amore materno delle bestie: la pecora che allatta l'agnellino, la lupa che difende i suoi piccoli.
Ma l'ambiente italico aveva già in sé i germi di un'arte più potentemente viva nell'osservazione e nella rappresentazione della realtà: ormai il maggior numero di studiosi è concorde nel considerare come opere italiche, etrusche, due fra le più belle figurazioni di animali che l'arte di ogni tempo ci abbia dato: la lupa capitolina e la chimera di Arezzo, fantastica commistione di un corpo di leone terminante in coda di serpente, sormontato sulla groppa dalla testa di una capra selvatica.
La prima è ferma, diritta sulle quattro zampe, ma piega la testa e mostra le zanne a significar la brama di preda onde il corpo magro è agitato; la seconda curva in uno sforzo vigoroso il suo corpo, puntato sulle zampe anteriori: il muso alzato, le zanne aperte sembrano ruggire spaventosamente. Che vale se qualche elemento anche qui è trattato con formule stilizzate! Tutta l'opera vibra di vita intensa, poderosa, rivela la passione con cui l'artista ha modellato in un possente realismo, senza avvilirle nella brutalità, le forme che aveva penetrato della sua osservazione.
Saranno i principî che trionferanno nell'arte romana, a mano a mano che essa acquisterà intera la sua personalità, nelle opere che debbono considerarsi più propriamente sue: ché in altri generi di rappresentazione, come nel mosaico, con scene di genere o di natura morta, più a lungo persisteranno le tradizioni ellenistiche I cavalli delle quadrighe trionfali, conservatici negli originali della basilica di S. Marco o nelle copie figurate dei rilievi, il cavallo della statua equestre di Marco Aurelio, le vittime del sacrificio dei plutei traianei, l'aquila del rilievo dei Ss. Apostoli, le teste di lupo delle navi di Nemi mostrano tutti questa nobiltà di forme, e non solo di forme ma di concezione, congiunta sapientemente alla più fedele e alla più vera riproduzione della realtà.
L'arte cristiana, rinnovando il mondo delle immagini e apportando nuovi ideali artistici, ha arricchito l'arte di simboli e di allegorie, e gli animali sono stati i primi ad assumere un significato morale e religioso. Pecore, pesci, pavoni, cervi, aquile, colombe servivano ad adombrare sotto il velame del simbolo le credenze della nuova fede. Al carattere astratto di tali simboli non corrispondeva, dapprima, una forma artistica altrettanto astratta. Finché l'arte cristiana rimase nella sfera dell'arte classica, anche la rappresentazione degli animali risentiva naturalmente dei principî figurativi classici, era cioè ancora abbastanza aderente alla realtà, senza assumere forme convenzionali troppo spiccate. Lo dimostrano le pecore del Buon Pastore nel mausoleo di Galla Placidia a Ravenna (sec. V), composte con varietà di atteggiamenti e disegnate con mirabile senso realistico. Ma questi echi classico-realistici man mano si affievolivano col procedere del tempo. L'arte cristiana. allontanandosi e staccandosi decisamente dalla tradizione classica, elaborava attraverso un lento ma costante processo di trasformazione gli schemi figurativi tramandati dall'arte antica, rendendoli sempre più rispondenti ai nuovi ideali estetici, astratti e impersonali. Ed ecco le pecore, vive e vere nel Mausoleo di Galla Placidia, diventare rigide e immobili nella Separazione del gregge in S. Apollinare Nuovo (sec. XI), piatte e lineari nel mosaico della conca di S. Apollinare in Classe (sec. VI). Contenuto e forma, simbolo astratto e forma stilizzata si componevano, intimamente compenetrandosi, in un'unità stilistica perfetta. Questo trasmutarsi dello stile si palesa anche più chiaramente nelle rappresentazioni simboliche di animali che decorano le sculture ravennati, le cui "remote origini nell'arte risalgono, oltre l'età classica, all'Oriente antico che adoperò figure di animali e di vegetali a significati simbolici, adattandole alla decorazione nel disporle in gruppi simmetrici, secondo un procedimento che si trova fin nelle primigenie manifestazioni dell'industria e dell'arte" (Toesca, Storia dell'arte it.). Sui lati dei sarcofagi, sulle transenne traforate si dispongono, sotto l'evidente influsso dell'arte bizantina, agnelli, cervi, pavoni affrontati, scolpiti con semplice ed efficace stilizzazione di forme. Ma la tendenza verso espressioni formali astratte e ridotte a modi convenzionali, rafforzandosi maggiormente, ruppe ben presto l'equilibrio che l'arte orientale - da cui quella ravennate deriva - aveva stabilito tra il significato simbolico e l'estrinsecazione artistica nella rappresentazione degli animali. Il sec. VIII segna la decadenza estrema dell'arte occidentale, divenuta scomposta e inorganica. In una transenna della Collegiata di Cividale gli animali rappresentati come simboli degli evangelisti sono faticosamente ricavati dal marmo, deformati e ischeletriti, lontanissimi da ogni parvenza di realtà. Ben più oltre andarono in quel periodo i popoli barbarici, nei cui oggetti - suppellettile varia, per lo più fibule - le forme degli animali divengono irriconoscibili, distrutte nella loro struttura anatomica da una fantasia sfrenata e caotica, e ridotte a intricati viluppi vermiformi terminati in rostri. La stilizzazione orientale-bizantina nelle rappresentazioni degli animali era stata sostituita da elementi zoomorfici di pura ornamentazione, i quali, se anche rozzi e disordinati negli oggetti barbarici, giunsero poi, applicati con intenti più rigorosamente calligrafici, ad un grado altissimo di applicazione artistica nelle miniature irlandesi.
Nell'arte romanica gli animali assunsero, oltre al significato simbolico, anche un valore didattico-allegorico che ne rinnovò largamente l'iconografia. Sul contenuto didattico delle raffigurazioni degli animali nel periodo romanico gettano viva luce i cosiddetti bestiarî (v.), derivati dalle allegorie raccolte nel Physiologus forse fin dal sec. II, poi sviluppate nei bestiarî e frequentemente illustrate. Nelle abitudini e nella vita degli animali l'uomo vedeva un riflesso del mondo morale ed etico (la caccia del leone, la volpe finta morta, il lupo e la gru, ecc.). Da questi bestiarî soprattutto l'artista medievale traeva materia d'ispirazione per rappresentare l'interminabile schiera di animali di carattere favoloso, come il centauro e la sirena, oppure, ed anche più spesso, di carattere mostruoso, che popolano i codici miniati e facciate, stipiti, timpani, capitelli e pulpiti delle chiese romaniche. L'arte lombarda predilesse l'immagine degli animali rappresentati in atto di rincorrersi o di divorarsi a vicenda o di avventarsi quali simboli del vizio contro l'uomo soccombente: e dalla Lombardia si diffuse poi in tutta l'Europa la rappresentazione di leoni accovacciati ai lati del portale della chiesa e reggenti le colonne sulle quali s'impostava l'arco del protiro. Gli animali nell'arte romanica non furono adoperati soltanto come elemento di decorazione architettonica, sebbene questa fosse la loro funzione più importante; anche oggetti destinati al culto, come i mesciacqua e i leggii di bronzo nel coro, recano non di rado l'immagine d'un animale. La modellazione, al principio incerta e difforme, come negli animali del pulpito e di numerosi capitelli dell'atrio in S. Ambrogio a Milano, si precisa e s'irrobustisce maggiormente con lo svolgersi della scultura romanica. Dal 1166 data il leone in bronzo di Brunswick, uno dei più mirabili esempî di rappresentazione animale romanica, costruito con potente rigore stilistico nel sapiente gioco perfettamente equilibrato di volumi e linee. Infranti gli schemi di stilizzazione severa e solida del sec. XII, l'arte del secolo successivo trova nel rappresentare l'animale accenti nuovi, più vicini alla realtà, come lo dimostrano, tra l'altro, le superbe figure di animali nelle grondaie delle cattedrali francesi e specialmente quelle sul parapetto delle torri di Notre-Dame a Parigi, dove elementi scrupolosamente osservati dal vero si mescolano ad altri fantastici e irreali. Era il rinnovamento dell'arte gotica, sapiente nell'osservare e interpretare anche la vita e l'aspetto dei vegetali.
Ma un accostarsi più insistente alla natura si nota, nel sec. XIII, nell'opera di Nicola Pisano, la quale se nelle figure e nell'insieme delle composizioni rivela una derivazione classica o almeno un'ispirazione tratta da sculture romane, in certi particolari accenna ad un'osservazione della natura così minuta, così precisa, così sentita, che davvero è stupefacente. Le capre e le pecore nella scena della Natività nel pulpito del battistero di Pisa e in quello del duomo di Siena sono rappresentate con una verità così evidente che hanno in sé tutto il segreto dell'arte di Nicola Pisano, rinnovatasi sugli esemplari classici.
Con Giotto il rinnovamento si afferma più sicuro e più profondo. Il racconto del Vasari che descrive Giotto pastorello intento a disegnare una pecora è pieno di significato. Dall'ingenua osservazione della natura l'arte riprendeva nuova vita. Pecore e cani appaiono vivi e studiati con amore in uno degli affreschi di Padova, come appaiono vivi gli uccelli nella Predica di San Francesco nella chiesa superiore di Assisi.
Contemporaneamente alle pitture di Giotto, Giovanni Pisano crea con gli animali dei pulpiti di Pistoia e di Pisa capolavori pervasi da un soffio di vita veemente e fremente.
Da queste premesse non poteva non derivare in pieno Rinascimento una larga corrente di simpatia per gli animali. Essa fu preparata, sullo scorcio del Trecento, soprattutto da due artisti lombardi, da Giovannino de' Grassi e da Michelino di Besozzo, che "precedettero di gran tempo, nell'acutezza dell'osservare, e nella fermezza del fissare sui fogli l'aspetto degli animali, il Pisanello" (Toesca, Le pitture e miniature della Lombardia). Nei fogli del taccuino di Giovannino de' Grassi nella biblioteca civica di Bergamo "il disegnatore ritrasse con acume, con precisione oggettiva i modelli più svariati: ora animali rari, quali i principi solevano mantenere nei loro giardini - e in gran numero se ne trovavano, sul finire del Trecento, nel parco del castello visconteo di Pavia - ora animali comuni che nell'accurata osservazione dell'artista si svelano in nuova bellezza, talora anche ritratti non senza un certo umorismo" (Toesca, ibid.).
Il Pisanello poi fu maestro insuperabile nel sorprendere gli animali nei loro più diversi aspetti. Essi divengono nei suoi disegni e pitture oggetto principale di studio, e dalla loro vita egli trae i motivi dell'arte. "Cani d'ogni specie, cavalli e muli, scimmie, animali rari e comuni, uccelli visti a volo per le valli o addestrati alla caccia, formano ogni sua delizia. Vero pittore d'animali, ne spia gl'istinti, ne traduce rapidamente le forme, le abitudini, i moti, ne rende i peli, le piume, le chiazze del colore della pelle, li figura ne' più svariati e fuggevoli aspetti; se non gli riesce di sorprenderli di fronte, li persegue a tergo piano piano con la punta d'argento o la penna" (A. Venturi, Storia dell'arte ital., VII, 1).
Anche Gentile da Fabriano, legato al Pisanello da chiare dipendenze formali, seguì questa nuova passione. Nella sua grande Adorazione dei Magi (Firenze, Uffizî) oltre il bue e l'asino tradizionali, il pittore ha rappresentato il seguito dei re, tutto il corteggio reale ricco di numerosi cavalli, e quasi a darci un'immagine viva di una sontuosa corte italiana del Quattrocento, sono nel seguito cani e scimmie e falconi e persino un leopardo.
L'arte del pieno Quattrocento, sempre analitica nell'osservare, e amante dell'accidentalità, insistette nel ritrarre e nell'interpretare la vita degli animali. Benozzo Gozzoli nella grande Adorazione dei Magi dipinta nella cappella del palazzo mediceo Riccardi a Firenze, riempì la scena di animali d'ogni genere: cavalli, asini, cani, cammelli, leopardi e falconi, pavoni, gazze, pappagalli e svariatissimi uccelli. Quale animo di naturalista avesse Benozzo Gozzoli si può misurare anche negli affreschi del camposanto di Pisa, nei quali abbondano uccelli e mammiferi di ogni sorta, rappresentati ognuno con grande evidenza e studiati con paziente amore.
Nel naturalismo dei pittori fiorentini del Quattrocento gli animali non furono più abbandonati. Qual più qual meno, ogni artista sentì il bisogno di studiarne qualcuno e di introdurli nelle sue pitture. Studio continuo della natura e però anche degli animali è nell'opera di Leonardo. I suoi libri di schizzi e di appunti sono pieni di disegni e di note prese dal vero, analizzando i più diversi animali, gli uccelli nel suo lungo e appassionato studio per scoprire il segreto del volo, e cavalli e gatti.
Cani, cavalli e uccelli, abbondano in quadri sacri del Rinascimento e del Cinquecento, ma gli animali più inattesi appaiono ancora nelle scene più varie. Si vedono leoni in pitture del Lorenzetti, di Cima da Conegliano, del Pinturicchio, di Filippino Lippi, di Raffaello, di Cosimo Tura, del Sassetta, del Correggio; giraffe in quelle di Gentile Bellini, del Peruzzi e di Raffaello; il cammello appare in Giotto, nei Lorenzetti, in Pinturicchio, nel Gozzoli, nel Perugino, nel Mantegna, in Gentile Bellini, nel Sassetta, in Lorenzo Monaco; e poi elefanti, lupi, cervi, scoiattoli, ermellini, donnole, aquile, civette, avvoltoi, aironi, gru, corvi, cigni, fagiani, pappagalli, rondini, quasi ogni sorta di animali ha trovato illustratori negli artisti del Rinascimento e del Cinquecento che se ne sono serviti così nelle scene sacre come nelle grandi composizioni storiche o allegoriche e persino nei ritratti.
Gli scultori del Rinascimento guardarono assai più di rado al mondo animale, il quale pur forniva modelli a grandi opere - i monumenti equestri - e a figurazioni simboliche e allegoriche. Tra queste non possiamo dimenticare il Marzocco fiorentino di Donatello e i naturalistici aninali del Giambologna, come l'Aquila e il Tacchino così amorosamente studiati dal vero, preceduti dalle minute sculture in bronzo di animali non meno naturalistiche del Bellano e del Riccio. I monumenti equestri del Gattamelata, di Donatello e del Colleoni, del Verrocchio, sono i momenti e le creazioni più geniali del lungo studio che l'arte diede al cavallo, e che comprende tra l'altro, la statua equestre carolingia di Carlo Magno, ora a Parigi, quella del duomo di Bamberga (sec. XIII), di San Martino che dà il mantello al povero sulla facciata della cattedrale di Lucca (sec. XIII), quello di Can Grande della Scala a Verona (sec. XIV).
Fuori d'Italia citiamo, tra i pittori tedeschi del Rinascimento, Albrecht Dürer, che nelle sue incisioni ha dedicato soprattutto allo studio anatomico del cavallo infinite cure e attenzioni. Tra i suoi numerosi disegni aventi per soggetto gli animali, il più celebre è quello con la lepre (1502) all'Albertina di Vienna, di mirabile precisione nel rendere il morbido e minuto pelame, animato e ravvivato dal vario e complesso giuoco delle luci. Nelle incisioni di Lucas Cranach il Vecchio, frequenti sono i soggetti di caccia con gli animali rappresentati in rapidi movimenti. Anche nelle pitture di altri pittori tedeschi, come Konrad Witz e Matthias Grünewald, non mancano fedeli e acute rappresentazioni di animali.
Nell'arte italiana del Seicento e del Settecento, questo amore per le bestie appare meno generale e meno profondo, ma lo si ritrova ancora vivo in un genere d'arte nuovo, nei quadri di natura morta, nei quali abbondano soprattutto animali minuti, farfalle, lucertole, chiocciole, mosche, ecc., finché la curiosità suscitata da un animale poco conosciuto fino allora, il rinoceronte, non suggerisce a Pietro Longhi il motivo d'un quadro che si può dire il ritratto di un animale.
Ma fu soprattutto la pittura fiamminga a impadronirsi del mondo animale, arricchendone specialmente i suoi paesaggi e le sue nature morte, ma rappresentandolo anche per sé. Ricordiamo i cavalli furiosamente impennati e galoppanti di alcuni quadri di Rubens (1577-1640) e il suo superbo gallo del museo di Aquisgrana, le cacce vivaci, ma un po' stereotipate, dello Snyders (1579-1657), i paesi immersi in un'atmosfera luminosa e vaporosa del Potter (1625-1654) e del Cuijp (1620-1691), le nature morte del Weenix, dell'Hondecoeter, di E. Fyt, del De Vos, ecc.
Tra i pittori di animali dell'Ottocento rileviamo in Francia Constant Troyon (1810-1865), influenzato, nei suoi quadri di paesi percorsi da mandrie di buoi, dai pittori fiamminghi, il Géricault (1791-1824) e il Delacroix (1794-1863), che hanno studiato soprattutto il movimento dei cavalli rappresentati secondo un motivo convenzionale di cui si ritrovano i primi esempî nell'arte ellenica primitiva, sommamente illusionistico, che sembra dar l'impressione del vero, per quanto sia invece proprio l'opposto della verità, il Courbet (1819-1879), pittore d'un realismo acuto e penetrante nel dipingere paesaggi e animali. Notevoli nell'800 tra i pittori tedeschi di animali il Schmitson (1820-1863) e il Zügel (nato nel 1851); fra gl'Italiani il Fattori e, specialmente, i fratelli Palizzi.
Pochi furono gli scultori del secolo scorso che scolpirono di preferenza animali. Tra di essi merita speciale menzione il francese Antoine-Louis Barye (1795-1875). Le sue sculture di animali, contemporanee alle pitture di Delacroix e di Géricault, sono trattate con senso fortemente realistico, al quale si mescolano elementi tendenti ad espressioni di carattere violento, quasi patetico. Scarso è l'interesse per l'animale preso per sé nell'arte moderna, travagliata da problemi tutt'altro che favorevoli a simili rappresentazioni.
Nell'arte dei popoli asiatici, determinata nel suo contenuto iconografico dalle credenze religiose, cioè dal buddhismo, gli animali sono stati per l'artista un soggetto preferito, se anche limitato a poche specie. Nelle Indie la rappresentazione degli animali risente del carattere generale, esuberante e fantastico, di quell'arte. Le proporzioni tendono di solito al colossale, allo smisurato. L'elefante soprattutto veniva sempre e continuatamente raffigurato dagli artisti indiani. Di grandezza naturale, scolpito d'un sol blocco, esso vigila all'ingresso del tempio di Konarak (sec. XIII). I pilastri, negli interni dei templi, si trasformarono in leoni con proboscidi, e dal sec. XVI in poi in giganteschi cavalli inalberantisi sulle zampe posteriori. In Cina, culla di tutta l'arte asiatica, si hanno notizie d'un pittore di cavalli, Han Kan, vissuto intorno al 700 d. C. Il più antico monumento cinese con raffigurazioni di animali è quello dell'imperatore Tai-Tsung (627-650), dove sono scolpiti a rilievo i suoi sei cavalli di battaglia, tutti feriti, con cui si era conquistato il trono. Nelle tombe dei principi cinesi si trovano spesso piccole statuette di cavalli e di cammelli in terracotta policromata, scolpiti nei loro atteggiamenti più caratteristici. Ai lati delle vie che conducono alle tombe degl'imperatori si eressero, a partire dal sec. X, schierati in due file, leoni, elefanti e cammelli, lavorati in pietra e di dimensioni enormi, superanti di gran lunga la grandezza naturale, poggianti sul terreno nudo, senza zoccolo o basamento. Il leone scolpito assume spesso nell'arte cinese forme mostruosamente deformate. Anche nella pittura cinese ricorrono spesso figurazioni di animali, trattate con estrema delicatezza e finezza di contorni. L'arte giapponese derivata da quella cinese, ha studiato con cura amorosa e paziente il mondo degli animali, specialmente quello dei volatili. Non v'è pittore giapponese di grido che non abbia qualche volta trattato l'animale, delineato con tocchi tenui e rapidi, con intenti spesso puramente ornamentali. Accenniamo infine alla miniatura persiana, fiorita tra i sec. XVI e XVIII, dominata da influssi cinesi e giapponesi, dove l'animale ha spesso parte preponderante nella scelta dei soggetti, ritratto con nobile e preciso senso di misura.
Bibl.: R. Pipier, Das Tier in der Kunst, 2ª ed., Monaco 1922; G. Perrot e Ch. Chipiez, Hist. de l'art, I, Parigi 1882 (Egitto), pp. 666 segg., 730 segg.; II, Parigi 1884 (Caldea e Assiria), p. 555 segg.; VI, Parigi 1894 (Grecia primitiva; arte micenea), p. 817 segg.; J. Morin, Le dessin des animaux en Grèce d'après les vases peints, Parigi 1911; E. Strong, L'arte in Roma antica, Bergamo 1929, p. 101 segg.; ecc.; W. Norton Howe, Animal Life in Italian Painting, Londra 1912; E. Gurney Salter, Nature in Italian Art, Londra 1912.
Gli animali sacri.
Presso i popoli primitivi la convivenza dell'uomo con gli animali è assai più intima che tra i popoli civili, e l'idea che l'uomo ha degli animali è spesso assai elevata e perfino superiore a quella che ha di sé medesimo e dei suoi simili. Gli animali difatti, mentre fortemente assomigliano all'uomo, lo superano spesso per la grandezza, la forza, l'agilità e la sicurezza dell'istinto, la quale dà luogo a pensare ch'essi siano anche dotati d'una sapienza speciale loro propria. Inoltre, nel loro modo di agire hanno qualcosa di misterioso, che li rende atti ad ispirare un sentimento di venerazione; nello stesso tempo i benefici, che alcuni di essi arrecano, e i danni, che altri producono, finiscono per ispirare da una parte confidenza e dall'altra timore. Finché queste loro doti restano entro i limiti della pura esperienza, i sentimenti che, a torto o a ragione, essi suscitano nell'uomo, non escono dalla cerchia della pura naturalità; ma la mentalità dei primitivi, con il suo modo di ragionare per analogie, tende ad attribuire loro proprietà fantastiche, e soprattutto una forza straordinaria e divina, suscitatrice di un sentimento di dipendenza, propriamente religioso.
Da questo modo di pensare e di sentire è nato il nagualismo tra gli Indiani del Guatemala e dell'Honduras, per cui ciascun uomo ha il suo nagual, o spirito protettore, in un animale, con la vita del quale è intimamente legata la sua, di modo che quando muore l'uno muore anche l'altro. Simile a questa credenza è nell'Africa quella degli Zulù, secondo la quale ciascuno ha il suo ihlozi "protettore" in un serpe, che con lui vive, dorme, veglia e lavora, sempre però sotto terra, da dove solo raramente viene fuori per farglisi conoscere. Nel totemismo specialmente in Australia, esiste un'intima unità e comunione non tra un singolo individuo e un singolo animale, ma tra un gruppo di individui e una data specie di animali, talora anche di piante o di altri oggetti, onde quello è massimamente interessato alla conservazione o all'accrescimento di questa, con la quale crede di avere anche comune la natura e l'origine. Alla base di queste varie relazioni tra l'uomo e il suo totem o nagual o ihlozi sta generalmente un'esperienza di carattere mistico. Ma oltre queste ve ne sono altre, per cui l'uomo primitivo crede di vedere in un determinato animale qualche essere divino o demoniaco. Per il moltiplicarsi e il consolidarsi delle singole esperienze religiose avviene poi che una data specie di animali, la quale appare dotata di particolari proprietà divine, è rappresentata e personificata in un unico animale ideale e prototipo, il quale assomma in sé e possiede tutte le qualità della classe. Così vengono a formarsi delle vere e proprie divinità animalesche, talvolta concepite non in forma reale e concreta ma puramente immaginaria, composta anche di elementi eterogenei, provenienti da diversi tipi di animali. A tali divinità, che di frequente s'incontrano tra i primitivi dell'America Settentrionale e meno tra quelli dell'Africa, sono attribuiti ogni sorta di benefici, e l'origine stessa della cultura; ma anche la causa di ogni sorta di mali, in ispecie delle malattie.
Presso i popoli civili viene meno, generalmente, il culto degli animali o la rappresentazione della divinità sotto forme animalesche, subentrando a queste le umane. Ciò nonostante, anche certe religioni storiche fra le più progredite hanno conservato tracce di un culto degli animali proprio di uno stadio inferiore.
Un popolo che, pur avendo raggiunto nella civiltà e nell'arte forme assai progredite, è rimasto tenacemente attaccato alle antiche concezioni della divinità, è l'egiziano; nella cui religione si può vedere un anello di congiunzione tra il culto degli animali e l'antropomorfismo. Ciò apparisce non solo dal fatto che gli Egiziani rappresentavano gli dei sotto figura animale o mista, col corpo d'uomo e la testa di animale, ma anche più chiaramente dal culto ch'essi prestavano a certi individui di una data specie animale come il bue Apis a Memfi, il bue Mnevis a Eliopoli, la gatta della dea Bastet a Bubastis, l'ariete di Ammone a Tebe, ecc. Si credeva che in ciascuno di questi animali si fosse incarnato un dio, e che perciò esso fosse il capo naturale di tutti gl'individui appartenenti alla medesima specie in quella regione, i quali, pur non essendo dei come quello, erano però ritenuti e rispettati come sacri, e al pari di esso venivano imbalsamati e onorevolmente seppelliti.
Al contrario dell'egiziana, la coetanea e rivale civiltà babilonese è quella che fra tutte più facilmente si è liberata dal culto degli animali; forse per le sue note tendenze astrologiche, le quali hanno fatto sì che assai per tempo la presenza della divinità non si cercasse più negli animali, cioè nell'immediata vicinanza dell'uomo, ma molto al disopra di lui, nel cielo stellato, dove pure gli animali furono trasportati e rimasero poi quali semplici segni delle diverse stazioni della strada che il sole percorre nel suo giro annuale (zodiaco). Anche in terra appariscono talvolta figure di animali sacri, ma solo come simboli posti accanto a numi in forma umana, come il leone di Assur, il grifo di Mardūk e in ispecie il toro di Ramman, dio della vegetazione e quindi anche del cielo atmosferico dove faceva la pioggia e il sereno. Questo dio, che con nomi diversi (Hadad in Siria, Melqart nella Fenicia, ecc.) era venerato dalle popolazioni agricole di tutta l'Asia anteriore qual dio supremo, e che dai Greci fu identificato con Giove, era comunemente rappresentato in figura umana, ma avendo a lato un toro. Nella Palestina, invece, dai Cananei (che lo chiamavano con i nomi generici di Baal, Melek, Adon) era raffigurato addirittura in forma di bue; come dietro il loro esempio fecero anche per Jahvé i re d'Israele, nei grandi templi di Dan e di Bethel (I-III Re, XII, 28 seg.), con la disapprovazione dei pii israeliti (cfr. Esodo, XXXII) e mentre i re di Giuda nel tempio di Gerusalemme introdussero come unico simbolo della presenza di Jahvé l'arca dell'alleanza (v.).
Tracce assai numerose di una primitiva religione degli animali si riscontrano anche tra i Greci. Che nella Grecia antichissima fossero attribuite forme animali a molti di quei numi che poi furono venerati in forma nobilmente umana, risulta da varî indizî: a) le frequenti metamorfosi degli dei in animali raccontate dalla mitologia, come quella di Demetra che si cambiò in cavalla per sfuggire alle persecuzioni amorose di Posidone (culto di Demetra Melaina "la Nera" a Figalia in Arcadia, raffigurata con testa equina); b) le sacre rappresentazioni in cui i sacerdoti di un nume rivestivano la maschera o indossavano la pelle di un animale del quale eventualmente prendevano anche il nome, come a Brauron nell'Attica le sacerdotesse di Artemide, che nelle feste sacre a questa dea si abbigliavano da orse e si chiamavano orse; c) alcuni appellativi rimasti attaccati al nome di questa o quella divinità, come Βοῶπις "dagli occhi bovini" (Hera); d) l'associazione costante della figura di un animale con quella di un dio, come l'aquila con Zeus, la civetta con Athena (detta γλαυκῶπις "dagli occhi di civetta"), il serpente con Asclepio, il toro con Dioniso; finalmente e) il culto prestato, anche in tempi posteriori, direttamente a un animale o a un dio in figura animale; come in Epidauro nel tempio di Asclepio a un serpente che viveva in una buca sotterra, in Cizico nel tempio di Dioniso al simulacro di un toro.
Dai Greci rimontando più indietro alla religione minoica, troviamo largamente attestata dai monumenti la presenza di animali sacri. Vi si vedono serpi - in origine divinità ctonie (terrestri) - come attributi caratteristici di una dea; colombe - in origine divinità celesti - che si posano sulla testa o sulle spalle di un nume o sulle cime di un'edicola, rappresentazioni di animali fantastici mitologici, come grifi e sfingi, tra i quali va posto anche il Minotauro.
Il bue sacro. - Il toro soprattutto, per le sue note qualità, fu preferito come figura o simbolo della divinità. Esso era sacro presso i popoli dell'Egeo, (cfr. le corna di consacrazione; v. altare) e anche presso quelli della Babilonia, dell'Egitto, e dell'Asia anteriore, come pure presso i Persiani (il toro del dio Mithra) e presso gli antichi Indiani (il dio Indra nei Veda prende la forma di toro, che poi da lui passò al dio Siva).
Il toro o il bue, fu, in certo qual modo, la vittima per eccellenza usata nei sacrifizî, sia che col sacrificarlo l'uomo intendesse appropriarsi con la manducazione la virtù divina posseduta da questo animale (p. es., nei misteri dionisiaci), sia che mirasse a diffonderla, con lo spargimento del suo sangue, sulla circostante natura (v. taurobolio; attis). Contro i sacrifizî bovini reagì Zarathustra, ponendo a base della sua legge cultuale pei devoti di Ormazd il risparmio e la cura degli animali domestici, in ispecie della vacca, facendone così, in modo assai diverso, l'animale sacro per eccellenza.
Bibl.: K. Th. Preuss, Die geistige Kultur der Naturvölker, Lipsia 1914, J. W. Hauer, Die Religionen, I, Das relig. Erlebnis auf den unteren Stufen, Berlino 1923; K. Beth, Religion und Magie, 2ª ed., Lipsia 1927; A. Wiedemann; Der Tierkult der alten Ägypter, Lipsia 1912; W. Robertson Smith, Lectures on the Religion of the Semites, Londra 1901; J. Lagrange, Études sur les religions sémitiques, Parigi 1905; O. Kern, Die Religion der Griechen, I, Berlino 1926; R. Pettazzoni, La religione nella Grecia antica, Bologna 1921; Cook, Animal Worship in the Mycenaen age, in Journal of Hellenic Studies, 1894, p. 81 segg.; E. Lehmann, in Chantepie de la Saussaye, Lehrbuch der Religionsgeschichte, 4ª ed. a cura di A. Bertholet ed E. Lehmann, I, Tubinga 1924, p. 36 segg.
La protezione degli animali.
Le nazioni civili considerano come uno dei segni più notevoli di progresso morale tutte le attività indirizzate a sopprimere gli atti di crudeltà contro gli animali.
Si deve riconoscere all'Inghilterra il merito di aver fondato per prima, nel 1824, una società per la protezione degli animali che ebbe legale riconoscimento nel 1849. Una istituzione simile si ebbe in Francia nel 1845 e nel 1860 fu riconosciuta di pubblica utilità. In America fu fondata nel 1866 e Henry Bergh ne fu presidente per 22 anni; attualmente le leggi americane condannano alla multa da 5 a 100 dollari e alla prigione da 30 a 60 giorni chi maltratta gli animali. È ricordata come modello la società della Pennsylvania, che nel 1874 per prima istituì un'ambulanza per trasportare gli animali sofferenti. Le stesse organizzazioni si ebbero in Germania, poi in Algeria, in Australia, nel Messico, nel Brasile, nella Repubblica Argentina e ora sono diffuse e attive in tutti i paesi civili.
In Italia, la Società romana per la protezione degli animali, creata nel 1874, fu eretta in Ente morale il 4 gennaio 1906 e posta sotto l'alto patronato del Re e della Regina. Altre società esistono ad Alassio, Arezzo, Bergamo, Bologna, Bordighera, Cagliari, Cassano d'Adda, Catania, Como, Ferrara, Firenze, Forte dei Marmi, Genova, Lecco, Lodi, Lucca, Mantova, Milano, Monza, Napoli, Palermo, Pistoia, Rapallo, San Remo, Sondrio, Spezia, Taormina, Torino. Alla protezione degli animali si provvide, con legge 12 giugno 1906, n. 611. La società romana introdusse la mattazione degli animali mediante speciali pistole, adottata poi ufficialmente e ha istituito una lega antivivisezionista, per ottenere il sicuro rispetto della legge 10 marzo 1927, che stabilisce norme per impedire inutili maltrattamenti agli animali (v. vivisezione).