animali
È merito di Ezio Raimondi (1972, poi 1998) avere portato alla luce la tramatura popolareggiante e gnomica che sorregge, insieme alla fonte latina più perspicua, la famosa immagine del principe a un tempo «golpe» e «lione», schizzata, entro il consueto periodare asseverativo, nel cap. xviii del Principe. Il passo si pone all’apice di una stringente riflessione sui limiti della ‘fede’, intesa come fedeltà alla parola data. Nella logica eversiva dei capp. xv-xxiii, infatti, anche questa qualità, sempre prescritta nei trattati sul buon governo anteriori (si veda l’inizio del capitolo: «quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende»), rischia di trasformarsi in comportamento nocivo, se lo si voglia confrontare con l’«esperienzia» e con le azioni di alcuni principi «ne’ nostri tempi».
Da queste premesse si genera la riflessione più dirompente dell’antropologia machiavelliana, ovvero la necessità, per il principe, di mettere a frutto la parte ferina soggiacente alla natura umana («è necessario sapere usare la bestia e l’uomo»), così da affidarsi alla «forza» (l’azione impetuosa e violenta) dove le «leggi» (i diritti garantiti dalla legalità) non arrivano.
Né questo è sufficiente: sulla scorta del Cicerone del De officiis (I 13), M. istituisce una specificazione altrettanto provocatoria nel puntuale ribaltamento della fonte. Se infatti Cicerone deprecava il manifestarsi, nell’uomo, di attitudini brutali e con maggior vigore di quelle che pertengono all’astuzia volpina, M. non solo le prescrive, ma accorda maggiore importanza alla «fraus» rispetto alla «vis». Si confrontino i due passi:
Cum autem duo bus modis, id est aut vi aut fraude, fiat iniuria, fraus quasi vulpeculae, vis leonis videtur; utrumque homine alienissimum, sed fraus odio digna maiore In due modi si può fare ingiuria: o con la violenza o con la frode; con la frode che è propria dell’astuta volpe e con la violenza che è propria del leone; indegnissima l’una e l’altra dell’uomo, ma la frode è assai più odiosa (Cicerone, De officiis I 13).
Sendo dunque necessitato uno principe sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione, perché il lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi; bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci e lione a sbigottire e’ lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione non se ne intendono (Principe xviii 7).
La spregiudicatezza dell’assunto avrà non poche ricadute sulla ricezione e sulla fortuna di M. nei secoli.
Ciò che importa notare, tuttavia, è come tale spregiudicatezza passi attraverso l’allestimento di un piccolo teatro zoomorfico, dove ciascuno degli animali convocati recita la parte assegnatagli dalla tradizione, nelle cadenze di un apologo scorciato e quasi fulmineo.
«Lione», «golpe» e «lupi», infatti, mostrano qui le attitudini tipiche che la favolistica d’Occidente ha attribuito loro a partire dal corpus esopiano, con la volpe a rappresentare l’astuzia, il lupo la prevaricazione bruta e il leone la forza impetuosa e dirompente.
Opportunamente Raimondi (1972, poi 1998) ha collocato il passo accanto ad altre figurazioni animali presenti nell’opera di M. (persino in una lettera al Vettori del 26 agosto del 1513), per evincerne che i «processi di concettualizzazione si intrecciano alla ricerca nativa della concretezza e della fisicità»: e appunto il quadro dei rapporti umani, dove tanta parte hanno gli istinti ferini di prevaricazione e violenza, trae un rilievo iconico proprio dal mondo animale, giovandosi delle suggestioni che la favola, genere di per sé basso e popolare, aveva sollecitato a poeti quali Luigi Pulci, il Burchiello o Bernardo Bellincioni.
Risultano in singolare contiguità con il passo machiavelliano per esempio questi versi di Bellincioni:
«el Moro ha della volpe e del leone / e non tende alle mosche mai la rete» (Le Rime di Bernardo Bellincioni riscontrate sui manoscritti, emendate e annotate da P. Fanfani, 1876, p. 45); o addirittura rimasticando, in virtù di uno stile che punta alla «forza della concisione e delle antitesi riduttive in ambito sintattico», due favole dell’umanista Lorenzo Astemio (o Abstemio), segnatamente De leone a vulpe edocto ut possit a vinculis exire e De leone partem predae a lupo petente (Raimondi 1972, poi 1998, pp. 130-31). Ma si può forse aggiungere, a questi tasselli, il volgarizzamento toscano anonimo dell’Esopo latino di Walter d’Inghilterra, soprattutto per essere stato approntato in un ambiente comunale e cittadino, entro il cui humus si formò anche il giovane Machiavelli. E piace pensare che se, come ha evidenziato Vittore Branca, quel volgarizzamento è opera di un frate mendicante presumibilmente dell’ordine domenicano (Esopo toscano, 1989, p. 13), l’autore del Principe abbia immaginato di poter disinnescare o capovolgere l’insegnamento morale che tien dietro a ogni favola. In un caso addirittura il capovolgimento sembra puntuale, laddove, alla favola Della volpe e della cicognia, l’anonimo trecentesco ammonisce che «temporalmente per la volpe [s’intende] ciascuno ingannatore ch’è principio di rompere lealtade e fede e che inducie e modi d’ingannare» (Esopo toscano, 1989, p. 167): ma è proprio l’odioso peccato di slealtà a ricevere una spregiudicata legittimazione in quello che forse è il giro di frase più celebre di tutto il Principe.
Del resto il mondo animale, con le sue cruente schermaglie per il conseguimento di un utile immediato, non poteva non abitare le pagine di M.; né M. poteva evitare di giovarsi della favola, genere per eccellenza esemplare, come di un referente privilegiato per racchiudere entro veloci ed efficaci modalità rappresentative la propria visione disillusa e amaramente pessimistica dei rapporti umani.
Una precisa sensibilità zoomorfica, con la riduzione dei conflitti umani all’agone animale, è già presente nel primo Decennale, dove appunto il rilievo ‘fisico’ delle lotte tra città, potentati o famiglie passa attraverso la designazione dei rispettivi vessilli, quasi sempre ricavati da un ambito ferino (Bonazzi 2011, p. 41).
Ecco allora che il «Cerbio» indica Piero Soderini; il «Gallo» naturalmente i francesi; la «Biscia» i Visconti, cioè Milano; il «Cavallo sfrenato» Arezzo; il «Vitello» Paolo e Vitellozzo Vitelli; l’«Orso» gli Orsini; il «Gatto» Ranuccio da Marciano; il «Leon» Firenze; la «Lupa» Siena; la «Pantera» Lucca; «quella volpe astuta» Ascanio Sforza: battaglie e scontri per la conquista di territori o posizioni di preminenza acquistano la drammaticità di una lotta cruenta dove la posta in gioco, come nei combattimenti tra a., è la sopravvivenza; e volendo completare una rassegna già ricca, andranno citate certe vivide immagini che, racchiuse nel giro di uno o più versi, contribuiscono tutte insieme a rappresentare l’Italia di inizio Cinquecento come uno sfondo selvatico e aspro abitato da contese belluine:
«Né mestier fu per uscir de lo artiglio / d’un tanto re e non esser vassalli» (vv. 31-32); «non possé far che non fussi sentita / la voce d’un cappon fra cento galli» (vv. 35-36); «Così col suo vittorioso stuolo / passò nel Regno quel falcon che cade» (vv. 47-48); «voi vi posavi qui col becco aperto» (v. 112), «dove l’Orso lasciò più d’una zampa, / e al Vitel fu l’altro corno mozzo» (vv. 401-02); «e Spagna che di Puglia tien lo scetro / va tendendo a’ vicin laccioli e reti» (vv. 532-33); con una terzina, poi, davvero sintomatica, nella sua capacità di dare concretezza alla feroce volontà di sopraffazione che abita l’uomo: «E rivolti fra lor, questi serpenti / di velen pien cominciar a ghermirsi / e con gli unghioni a stracciarsi e co’ denti» (vv. 388-90).
Se nel primo Decennale l’istituzione di corrispondenze tra a. e uomini, sulla scorta delle immagini impresse nei gonfaloni, va a corroborare un’allegoria diffusa che non dimentica (stante l’argomento e l’obiettivo dell’opera) la lezione di Dante e dei canterini della Firenze comunale, la rassegna di bestie presente nel cap. vii dell’Asino ha una funzione dichiaratamente satirica: per questo la corrispondenza tra l’animale e il personaggio storico che esso rappresenta, sulla cui base si attiva l’acre sarcasmo di M., appare meno immediata e quasi sempre di difficile decifrazione. Resta tuttavia che molte bestie sono rappresentate nelle loro caratteristiche peculiari, o in quelle consegnateci dalla tradizione favolistica: il gatto attende il momento opportuno per ghermire la preda, la volpe è maligna, il pavone si pavoneggia, l’asino è insofferente, il bracco fiuta, la scimmia fa le boccacce; per altre il ritratto è marcato da una privazione: il leone si toglie da sé artigli e denti, il bue è senza corna, il segugio è orbo (Anselmi, Fazion 1984, p. 99).
Una tale disponibilità verso le figurazioni animali segnala non solo il gusto per certi generi popolari (dal bestiario alla favola), ma anche la presenza, nel pensiero machiavelliano, di un naturalismo di fondo la cui concettualizzazione passa proprio attraverso quelle immagini, in grado di aprirsi a sensi molteplici e persino contraddittori (almeno quanto contraddittori sono gli esiti delle pulsioni umane). Il riferimento continuo alle componenti più oscure e ferine dell’uomo, infatti, non viene declinato solo in negativo, come incoercibile volontà di sopraffazione, ma anche e soprattutto rivalutandone gli aspetti di deflagrante energia e vigore, di originale genuinità e immediatezza.
È questo il senso da attribuire al lungo discorso del Porco che occupa il cap. viii dell’Asino. Qui la bestia parlante si erge a stigmatizzare i difetti umani nel confronto schiacciante con il mondo animale, la cui condizione è preferibile in quanto maggiormente favorita dalla natura («Noi a natura siam maggiori amici; / e par che in noi più sua virtù dispensi, / facendo voi d’ogni suo ben mendici», vv. 106-08). Dunque la condizione umana si identifica sulla base di una mancanza, che è carenza di virtù originarie e naturali e determina la sfrenata violenza, la brutale prevaricazione propria dell’uomo («Non dà l’un porco a l’altro porco doglia, / l’un cervo a l’altro:
solamente l’uomo / l’altr uom ammazza, crocifigge e spoglia», vv. 142-44). Mentre gli a., in questa consonanza con la natura, non aspirano ad altra condizione che la propria, gli uomini appaiono invasi da una furiosa incontentabilità e insofferenza, alla ricerca di quel «bene» di «virtù» di cui sono «mendici», secondo quanto, del resto, già aveva argomentato Leon Battista Alberti nel Theogenius (Bonazzi 2011, p. 45), sulla scorta tuttavia di Plinio, dove l’uomo viene definito «animale irrequieto e impazientissimo di ogni suo stato e condizione» (Alberti, Theogenius, a cura di C. Grayson, 1966, p. 93).
E tuttavia, proprio in questa deficienza originaria, in questa mancanza di caratteristiche peculiari si apre per l’uomo lo spazio della metamorfosi (Anselmi 2003), della possibilità, cioè, di assecondare le attitudini ferine che lo abitano, ridotte, nella estrema scarnificazione della realtà e delle psicologie operata da M., ciascuna alla propria essenza, al proprio nucleo incoercibile, ideale e quasi astratto, così da poter fungere come metafore limpidissime e inequivocabili: ed ecco appunto gli uomini e le casate in lotta tra loro come fiere del primo Decennale; la rassegna di personaggi ‘imbestiati’ dell’Asino; ecco soprattutto l’immagine, tanto perspicua da esser divenuta proverbiale, di un principe che deve essere insieme «golpe» e «lione» per contrastare gli avversari.
Non si tratta dunque, per M., di vagheggiare un’originaria e felice unità tra animale e natura, quanto di denunciare, con acuto disincanto, la «fragilità fisica e morale dell’uomo storico» (Inglese 1985, p. 236), che, paradossalmente, può determinarne il riscatto.
Sfera umana e sfera animale si saldano così nell’immagine cangiante e per sé stessa metamorfica del centauro, se è vero che «l’una [natura] sanza l’altra non è durabile» (Principe xviii 6): ennesimo, rivoluzionario precetto, impartito nella lingua della concretezza, da parte di chi, secondo una suggestiva congettura, sarebbe stato ritratto come un centauro musico nel frontespizio della prima edizione della Mandragola (Fido 1974), a simboleggiare la capacità di unire una dimensione leggera e una più seria, senza mai negarsi tuttavia la sostanza drammatica e conflittuale dei rapporti umani.
Bibliografia: L. B. Alberti, Theogenius, in Opere volgari. II. Rime e trattati morali, a cura di C. Grayson, Bari 1966; E. Raimondi, Il politico e il centauro, in Politica e commedia, Bologna 1972,19982, pp. 125-43; F. Fido, L’esule e il centauro: emblemi e memoria in Machiavelli, «Modern language notes», 1974, 89, pp. 1-12, poi in F. Fido, Le metamorfosi del centauro: studi e letture da Boccaccio a Pirandello, Roma 1977, pp. 109-22; G.M. Anselmi, P. Fazion, Machiavelli. L’asino le bestie, Bologna 1984; G. Inglese, Postille machiavelliane, «La cultura», 1985, XXIII, pp. 229-37; Esopo toscano dei frati e dei mercanti trecenteschi, a cura di V. Branca, Venezia 1989, in partic. Introduzione, pp. 9-37; Cicerone, Dei doveri, a cura di D. Arfelli, Milano 1994; G.M. Anselmi, Metafora, metamorfosi e conoscenza nel Rinascimento, in Id., Gli universi paralleli della letteratura. Metamorfosi e saperi tra Rinascimento e crisi del Novecento, Roma 2003, pp. 11-36; N. Bonazzi, La poesia della storia: sul Decennale primo di Niccolò Machiavelli, in Id. Dalla parte dei sileni. Percorsi nella letteratura italiana del Cinque e Seicento, Bologna 2011, pp. 31-47.