Antonio Rosmini-Serbati
Antonio Rosmini-Serbati viene considerato il maggior filosofo italiano dell’Ottocento. Quale che sia il giudizio sul richiamarsi del suo sistema filosofico alla tradizione platonico-cristiana, il ruolo avuto nella cultura italiana viene ritenuto rilevante. La vastità delle sue indagini, la coerenza della costruzione speculativa, la complessità del pensiero sono doti riconosciute anche da filosofi ‘laici’ come Bertrando Spaventa, Francesco Fiorentino, Donato Jaja e Giovanni Gentile. I meriti suoi in pensiero e azione a favore della causa dell’indipendenza nazionale sono emersi oggi con maggior chiarezza: sotto il profilo diplomatico egli compì nel 1848 un’importante trattativa ai fini di realizzare l’unificazione degli Stati d’Italia in forma federale.
Antonio Rosmini-Serbati nacque a Rovereto il 24 marzo 1797. I suoi antenati avevano assunto il nome di Serbati per legato testamentario. L’educazione di Rosmini fu profondamente religiosa, da parte di entrambi i genitori. Antonio studiò quasi sempre privatamente, avendo quali compagni di studio alcuni parenti e alcuni rampolli di famiglie roveretane agiate. Dopo aver terminato gli studi liceali si recò a Padova per studiare presso la facoltà di Teologia. La scelta di farsi sacerdote era scaturita negli anni dei suoi studi, e si comprende bene dalle lettere giovanili (raccolte nel 1° vol. della nuova edizione dell’Epistolario completo del pensatore, in preparazione). Rosmini completò la sua formazione ecclesiastica e venne ordinato sacerdote nel 1821, a Chioggia. Si laureò a Padova l’anno seguente.
Rosmini concepì il disegno della restaurazione di un’enciclopedia del sapere che fosse ispirata ai principi cristiani; ritenne essenziale dare un fondamento a quei principi e dedicò quindi le sue forze per stendere un trattato sul problema dell’origine delle idee e sul valore del principio di verità. Dopo la pubblicazione a Roma del Nuovo saggio sull’origine delle idee (1829-1830), Rosmini si dedicò negli anni Trenta a tracciare le linee di filosofia morale. Nel frattempo egli aveva deciso di fondare una congregazione religiosa dedita all’educazione e soprattutto alla pratica della carità intellettuale. Lunga fu la gestazione e la preparazione dell’Istituto della carità: avviata nel 1828 presso la chiesa del Sacro Monte Calvario di Domodossola, la congregazione crebbe e ricevette la solenne approvazione papale nel 1839. Nel 1835 Rosmini si era stabilito con i suoi confratelli in Stresa, sul Lago Maggiore, assumendo diverse iniziative: prese la cura dell’abbazia di S. Michele alla Chiusa, in val di Susa; avviò l’apostolato a Torino e a Verona; inviò preti missionari in Inghilterra.
L’approvazione del piccolo Istituto aveva generato diffidenza da parte della Compagnia di Gesù, forse nel timore di una ‘concorrenza’, soprattutto sul piano della carità intellettuale. Il preposito generale di essa, padre Jan Philipp Roothaan (1785-1853), aveva autorizzato la pubblicazione di scritti anonimi di critica nei confronti di diversi aspetti della dottrina rosminiana, da parte di gesuiti. Mirava in tal modo a screditare l’ortodossia del filosofo e quindi a impedire lo sviluppo dell’Istituto da lui fondato. Accusato innanzitutto di posizioni rigoristiche nell’ambito della teologia morale, Rosmini reagì con durezza. Le polemiche vennero sopite da un decreto di papa Gregorio XVI, il quale proibì a gesuiti e rosminiani di disputare (1843).
Con l’ascesa al trono pontificio di Pio IX, Rosmini ritenne che fosse giunto il momento di avanzare proposte per una riforma della Chiesa. Pubblicò lo scritto Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (1848) e, successivamente, la Costituzione secondo la giustizia sociale, in cui delineava la sua visione costituzionalistica. In tal modo si allineava alla posizione di quei pensatori cattolici che si dissero ‘cattolici liberali’, come Alessandro Manzoni, Raffaello Lambruschini, Cesare Balbo, Niccolò Tommaseo e Vincenzo Gioberti, per i quali i diritti di libertà politica, di coscienza e di pensiero scaturivano dai valori cristiani.
Inviato nell’agosto 1848 a Roma dal governo del Regno sardo, guidato da Gabrio Casati, presso Pio IX, incaricato di una speciale missione tesa a recuperare il pontefice alla causa dell’indipendenza nazionale, Rosmini s’impegnò a convincere il papa che la causa italiana riguardava anche il papato temporale, il quale, dal nuovo assetto di un’Italia indipendente, divenuta confederazione di Stati sovrani, avrebbe tratto guadagno per la propria sicurezza. Questo orientamento non venne accettato dallo Stato sardo, e neppure dalla curia romana, che concepì da quel momento una fiera avversione nei confronti del pensatore. Rosmini era stato destinato da Pio IX alla consacrazione quale cardinale di Santa Romana Chiesa. Gli eventi romani relativi al 15-16 novembre 1848 costrinsero il papa a una fuga a Gaeta, presso il regno borbonico. Rosmini seguì per fedeltà Pio IX in questo esilio, ma venne ben presto estromesso dalla corte pontificia per l’azione del pro-segretario di Stato, il cardinale Giacomo Antonelli (1806-1876), che brigava per diventare il vero arbitro della situazione, riportando la Santa Sede su posizioni intransigenti verso le conquiste liberali e verso l’aspirazione all’unità nazionale. Costretto dalle autorità borboniche a lasciare Gaeta, nel giugno 1849, il filosofo apprese nell’agosto di essere stato condannato dalla Congregazione dell’Indice, con sentenza del 30 maggio di quell’anno, emanata a Napoli, la quale aveva proibito gli scritti sulle piaghe della Chiesa e sulla Costituzione. Rosmini si sottomise prontamente al provvedimento, e la nomina a cardinale sfumò.
Rientrato a Stresa, il pensatore ebbe a difendersi da ulteriori e più gravi attacchi anonimi da parte dei gesuiti che intendevano colpirne le posizioni cattolico-liberali con il pretesto di errori dottrinali. Pio IX intervenne questa volta in suo aiuto, rinnovando il precetto gregoriano del silenzio (1851), e incaricò la Congregazione dell’Indice di esaminare tutte le opere rosminiane, al fine di verificare la consistenza delle accuse, che ora riguardavano anche la teologia e la metafisica (accuse di panteismo e di ontologismo). L’esame delle opere rosminiane durò dal 1851 al 1854, condotto da otto consultori, che espressero a larghissima maggioranza in senso positivo i loro giudizi circa l’ortodossia di esse, ritenendo che dovessero essere lasciate alla lettura dei fedeli. Il processo si concluse con una sentenza emanata dalla Congregazione, dopo una riunione plenaria, presieduta da Pio IX (3 luglio 1854): il decreto dichiarava che i libri di Rosmini potevano essere «dimessi», cioè nuovamente fatti circolare tra i fedeli, in quanto in essi nulla si era riscontrato di eterodosso (Dimittantur opera, 1854).
Rosmini, impegnato nella scrittura dell’opera metafisica Teosofia, gioì di un’assoluzione che riconosceva la validità del suo pensiero per i cristiani. Non ebbe tuttavia il tempo di godere della sentenza, in quanto una malattia subdola (al fegato: si parlò di un avvelenamento) lo privò delle forze e lo condusse alla morte, avvenuta a Stresa, all’alba del 1° luglio 1855.
Convinto che, se non si propone un criterio per stabilire le capacità umane di acquisire la verità, non si possono fondare neppure la morale e la politica, Rosmini investigò fin dagli anni giovanili sulle dottrine intorno all’origine delle idee, pervenendo a un sistema che pose in luce una duplice radice della conoscenza: la realtà della sensazione, o sentimento, e la realtà dell’intuizione dell’essere, inteso come l’oggetto ideale che rende possibile il conoscere. Non sono i dati dei sensi che offrono la verità, ma una sorta di radicamento dell’uomo nella soggettività sensibile come realtà primigenia che permette di acquisire una sicurezza immediata; se tuttavia non si acquisisce un criterio sicuro per affermare l’esistenza di tale sentire, la conoscenza non decolla. Tale criterio Rosmini lo intese andando per altra strada rispetto a Immanuel Kant, affermando l’importanza di un elemento per verificare la pensabilità e verità degli oggetti e del mondo: l’idea dell’essere, o essere ideale (Rosmini lo denomina anche «indeterminato», «potenziale», «virtuale»). Tale idea non appartiene alla mente, ma le è abitualmente presente, e offre a priori la vera condizione della realtà umana e mondana: l’esistenza. L’idea dell’essere è l’astrazione dell’Idealità divina, e quindi è increata. Si trova in diretto contatto con la mente solo nel suo aspetto di indeterminatezza e virtualità.
Nel Nuovo saggio sull’origine delle idee Rosmini ritiene che nella formazione delle idee entri quale «lume» questa idea primitiva, indeterminata. L’intuizione dell’essere ideale permette al soggetto di pensare come esistenti i dati della sensibilità, del «sentimento fondamentale corporeo», il quale è solo in grado di avvertire che qualcosa dell’io entra in contatto con la realtà esteriore. Non potendo però il puro sentimento fondamentale affermare l’esistenza di ciò che si sente, ma solo avvertire la sua modificazione dall’esterno, si rende indispensabile congiungere l’intuizione dell’essere con il sentire. Questo avviene con la «percezione intellettiva», che permette di attribuire ai dati sensibili l’esistenza e fornisce la conoscenza per via astrattiva.
Questa visione dell’essere ideale come oggetto e insieme come forma che assegna l’essere alla realtà sentita venne interpretata da diversi filosofi italiani di orientamento hegeliano come precorritrice di una visione soggettivistica e trascendentale, in grado di proseguire in Italia lo spirito del kantismo. Spaventa e Jaja soprattutto, e poi Gentile, affermarono che il pensatore aveva inteso l’essere ideale come forma trascendentale del conoscere. Non era in realtà così, e gli studi novecenteschi lo hanno dimostrato. Tuttavia, l’interpretazione rosminiana del trascendentale kantiano appare importante, perché accetta che la verità scaturisca da una sintesi a priori conoscitiva, anche se non limita il ruolo dell’essere ideale a quello di semplice forma, e ne fa oggetto di un’intuizione. L’idea non costituisce una soggettività trascendentale, ma, al contrario, un’oggettività ontologica.
Avendo posto le premesse per la ricerca della verità, Rosmini estese, negli anni Trenta dell’Ottocento, il suo interesse alla morale e poi alla politica, e infine al diritto. La delineazione sistematica delle dottrine proseguì poi con la psicologia e con l’antropologia, per approdare all’indagine ontologica. Un provvisorio bilancio del sistema della filosofia viene offerto dallo scritto Sistema filosofico, preparato nel 1839 per un volume di documentazione della Storia universale di Cesare Cantù (1804-1895), pubblicato poi nell’Introduzione alla filosofia. Lo scopo del sapere umano è quello di tendere a una sistematica delle acquisizioni avvenute attraverso la percezione intellettiva e il pensiero classificante e sistemante. Le scienze di intuizione (ideologia e logica) stabiliscono la verità di quanto il pensiero coglie nell’intuire l’essere; le scienze di percezione (psicologia e cosmologia), invece, stabiliscono quanto il soggetto riesce a cogliere attraverso la sintesi di intelletto e sensibilità e quindi presentano la materia del conoscere, cioè la realtà del mondo conosciuto e del soggetto che conosce. Le scienze di ragionamento, infine, per via di raziocinio, uniscono i vari dati percettivi e deducono da essi gli oggetti di diverse scienze filosofiche: l’ontologia, come compiuta dottrina dell’ente in tutte le sue dimensioni; la teologia naturale; e le scienze deontologiche, che riguardano la perfezione dell’ente e insegnano il modo per acquisire tale perfezione (etica, diritto e poi dottrine dei mezzi: ascetica, politica, pedagogia).
Il culmine delle scienze di ragionamento è costituito dalla teoria dell’essere, che Rosmini chiama Teosofia, cioè la scienza del sapere di Dio attraverso la dottrina delle forme dell’essere (questo sarà il titolo dell’ultima grande fatica del pensatore, iniziata nel 1846). La Teosofia era pronta solo per metà quando Rosmini morì, e rimase tra le carte del filosofo; venne ripresa dagli allievi, pubblicata tra il 1859 e il 1874, con diverse parti di essa ancora abbozzate. Su questa versione postuma si appunteranno le critiche di coloro i quali intendevano condannare il pensiero rosminiano, che si presentò come portatore di una tendenza eterodossa da sempre nel sistema di Rosmini, ma non colta compiutamente. I critici di Rosmini, tra cui ricordiamo il cardinale gesuita Camillo Mazzella (1833-1900), il cardinale domenicano Tommaso Maria Zigliara (1833-1893) e Francesco Satolli (1833-1910), che sarà pure lui cardinale, affermarono che con le tesi della Teosofia si era palesata quell’eterodossia, connotata da panteismo e ontologismo, che nel Nuovo saggio non era stata avvertita. A queste accuse seguì un processo, iniziato nel 1883 presso la Congregazione del Sant’Uffizio, fortemente voluto da papa Leone XIII, conclusosi con la condanna di quaranta proposizioni tratte soprattutto dalle opere postume (ma non solo: nel decreto Post obitum del 14 dicembre 1887, pubblicato il 7 marzo 1888, la scelta delle proposizioni da condannare fu fatta da Mazzella, attingendo anche dagli scritti ‘assolti’ nel 1854).
Quella che fu presa a pretesto dagli accusatori, nell’ambito della Teosofia, fu la dottrina delle forme dell’essere. Rosmini aveva affermato che la dottrina rivelata della Trinità, che era stata così mirabilmente trattata da Agostino, poteva essere adoperata anche a livello di filosofia per capire al meglio la triformità dell’essere, e per rappresentare la dialetticità ontologica. L’essere si esprime secondo le forme dell’essere reale, ideale e morale. L’essere è uno e trino, come una e trina è la Santissima Trinità. Dio, secondo la rivelazione cristiana, è assolutamente uno, ma esiste in se stesso secondo tre Persone, in una perfettissima vita di relazione. Tali affermazioni in realtà non configurano alcuna eterodossia. Infatti nella dottrina rosminiana dell’essere le forme non sono persone, ma sono aspetti dell’essere che tra di loro sono in una relazione organica. La dottrina ontologica ‘triadica’ permette a Rosmini di spiegare con ulteriore profondità che l’essere ideale che l’uomo intuisce è un’appartenenza dell’Essere di Dio, trovandosi l’idealità intuita da parte dell’uomo in un rapporto di indeterminazione e di virtualità rispetto all’Essere divino. L’Essere nella sua assolutezza è uno e trino, così come lo sono le Persone divine. Tuttavia, sotto il profilo dell’essere comune all’uomo e a Dio, l’indeterminato essere è l’unico aspetto dell’Essere divino che può apparire all’uomo e diventare per lui luce intellettuale, garanzia di verità. All’essere reale di Dio l’uomo non perviene mai; ne ha conoscenza per via di analogia, avendo contatto con la realtà esteriore a se stesso nel sentire. La partecipazione dell’uomo all’essere reale non è simile al rapporto che esiste tra idealità oggettiva e capacità umana di conoscere. Lo stesso si può dire per l’essere morale, di cui partecipa la persona umana in quanto coglie la legge del rispetto dell’essere nel suo ordine. L’estraneità di queste dottrine rosminiane rispetto alle accuse, accolte dal decreto Post obitum, è stata affermata solennemente dalla Nota della Congregazione per la dottrina della fede, emanata il 1° luglio 2001, che ha ridimensionato la portata della condanna del 1887, paragonata a un’ammonizione circa i pericoli di un’interpretazione eterodossa delle dottrine contenute nella postuma Teosofia, mai approvate definitivamente da Rosmini.
Nei Principi della scienza morale, opera scritta subito dopo il Nuovo saggio, Rosmini non ci propone la dottrina completa delle forme dell’essere, lasciandola ancora indeterminata. Egli applica solo alla visione dell’essere ideale le questioni di carattere morale, intendendo far dipendere dall’ordine dell’essere l’ordine dell’agire. L’idea dell’essere è criterio di verità e di moralità, perché l’essere che è conosciuto come il criterio per la verità diventa anche il «bene» che la volontà deve attuare. La percezione intellettiva significa un giudizio esistenziale, che si potrebbe dire «stima speculativa»: l’affermazione dell’essere per quello che è. L’atto morale implica qualcosa di più, la «stima pratica», che precede l’azione e che impegna il soggetto ad assentire alla verità, o a rigettarla. La stima speculativa pone i vari enti nel posto che occupano nella gerarchia dell’essere; la stima pratica dovrà conformarsi a essa. Esiste per Rosmini una specie di ‘imperativo categorico’ della moralità, che si può formulare così: riconosci praticamente l’essere che hai conosciuto speculativamente. Altrimenti: «riconosci l’essere qual è nel suo ordine».
Il riconoscimento pratico è un atto sintetico intellettivo-pratico, cui fa seguito la volontà del soggetto. La moralità non può darsi quindi senza la volontà, insieme soggettiva e reale: con essa vi è l’impegno a un comportamento conveniente secondo la legge. Tutte le cose sono enti, e quindi beni. La misura del valore o della bontà d’ogni cosa è diversa, a seconda che si usi il criterio oggettivo o si segua l’interesse soggettivo. Secondo l’ordine o la norma oggettiva della razionalità, ad es., la «povera» onestà è preferibile come bene alla ricchezza «rubata»; invece secondo il criterio soggettivo dell’utilità, portato avanti dalle scuole inglesi e francesi (dai sansimoniani ad es.), i denari comunque accumulati costituiscono un bene che offre concreti vantaggi. Non si tratta di scegliere tra un bene e un male, oppure tra un bene e false immagini di bene, ma di operare rispetto a beni oggettivamente collocati a diversi livelli.
La persona, soggetto intelligente e morale, avverte che ci dev’essere coerenza tra ciò che l’intelletto presenta come vero e ciò che l’individuo compie. Il rimorso morale significa avvertire la discordia di pensiero e d’azione: si instaura una «disarmonia interiore». In questo contesto si inserisce la problematica della coscienza morale, affrontata da Rosmini nel Trattato della coscienza morale, anche con risvolti teologici, riguardo alla legge morale divina. La coscienza morale altro non è che l’esame della norma oggettiva alla luce della volontà, e dello sforzo di adeguamento dei beni alla legge oggettiva. La coscienza deve esaminare le situazioni concrete e rettamente fornire alla volontà le indicazioni coerenti. Lo deve fare respingendo ogni concessione a dubbi sulla soggettività dell’agire. Di qui l’accusa, pretestuosa, rivolta a Rosmini soprattutto dai gesuiti, di essere un ‘rigorista’, e di trascurare la reale casistica della coscienza intorno al peccato.
La dottrina del soggetto, ossia dell’anima, e la dottrina della persona sono delineate da Rosmini in collegamento con la gnoseologia e con l’etica. La dottrina della persona poi si collega strettamente al pensiero giuridico. Il complesso reticolo delle meditazioni psicologiche e antropologiche comporta che Rosmini approfondisca le dottrine classiche sull’anima e sulla persona, entro valenze soprattutto morali e con intenti politici.
L’anima umana è per Rosmini sostanza e insieme forma dell’individuo. L’approccio psicologico nasce dalla considerazione del soggetto come intelligente e senziente.
L’anima umana è un soggetto o principio intellettivo e sensitivo, che ha per sua natura l’intuizione dell’essere, e un sentimento, il cui termine è esteso; e certe attività conseguenti all’intelligenza ed alla sensività (A. Rosmini, Sistema filosofico, in Introduzione alla filosofia, 1850, a cura di P.P. Ottonello, 1979, pp. 270-71).
L’anima umana pertanto è principio che inerisce in un termine esteso, cioè il corpo. Criticando le dottrine aristoteliche (soprattutto nell’opera Aristotele esposto ed esaminato), e propendendo per la visione platonica che fa dell’anima umana una sostanza a sé stante, il pensatore di Rovereto formula nella Psicologia la dottrina del termine e del principio. Secondo Rosmini l’anima si rapporta al corpo come principio che inerisce a un termine, ma che possiede già esso stesso una sua autonomia. Egli insiste sul fatto che l’anima umana ha due termini di riferimento: il corpo senziente e l’essere ideale. Il principio-anima ha un così stretto rapporto con il corpo-termine da non essere distinguibile nella sua attività dal corpo. Tuttavia l’anima che ha rapporto stretto con l’essere ideale, altro suo termine, può sussistere anche senza la parte sensitiva, nel caso della morte del corpo (Psicologia, 1846-1848, a cura di V. Sala, 1988-1989, § 671).
Rosmini ipotizza quindi che l’anima appartenga a ogni essere che esiste in natura, perciò anche agli enti cosiddetti inanimati. La dottrina rosminiana dell’animazione universale, proposta nella Psicologia, comporta che l’anima-principio si intenda nella sua totale spiritualità quando è anima umana, e nella sua sensitività animale o vegetale quando è anima inerente solo a termini materiali. L’anima, nel corso della sua vita, si rapporta alla realtà quando sente ed è intimamente fusa con il corpo, rapportandosi però anche all’idealità quando intuisce la verità dell’essere. Dopo la morte il corpo umano assume altri principi animali per esistere nella sua dissoluzione, e mai esisterà un puro ente-termine che non abbia per principio un ente animante. L’anima intellettiva dopo la morte ha invece per proprio termine solo l’essere ideale e sussiste integra nella vita immortale, nell’attesa, come afferma la Rivelazione, della «resurrezione dei corpi».
La dottrina della persona umana viene delineata nell’Antropologia in servizio della scienza morale. Rosmini ritiene che la persona sia un soggetto animato, senziente e pensante, che assume quindi un suo rapporto organico con il mondo e con la società. L’individuo-soggetto, unione di principio-anima e termine-corpo, pertanto viene inteso come persona quando assume la pienezza della sua autosufficienza e si pone come incomunicabile, unico, nella sua essenza razionale e volitiva. Rosmini afferma: «si chiama persona un individuo sostanziale intelligente, in quanto contiene un principio attivo, supremo, e incomunicabile» (Antropologia in servizio della scienza morale, 1838, a cura di F. Evain, 1981, § 832).
L’originalità della visione personalistica rosminiana sta nell’avere posto la dignità e perfezione della persona nel principio supremo e di averne fatto discendere le conseguenze nel contesto della vita civile e giuridica. Infatti per Rosmini il principio attivo supremo, base della persona, è informato dal lume della ragione, dal quale riceve la norma della giustizia: la facoltà delle cose lecite. Ma poiché la dignità del lume della ragione è infinita, essendo infinito l’essere ideale, niente può stare sopra al principio personale, «a quel principio che opera di sua natura dietro un maestro e signore di dignità infinita». La persona, attività suprema per natura sua, trova nella persona dell’altro
il dovere morale corrispondente di non lederla, di non fare pure un pensiero, un tentativo volto ad offenderla o sottometterla, spogliandola della sua supremazia naturale, come si scorge applicando il principio morale da noi stabilito “di riconoscere praticamente le cose per quelle che sono”.
Dunque per Rosmini la persona ha nella sua natura stessa tutti i costitutivi del diritto: essa è il diritto sussistente, l’essenza del diritto (Filosofia del diritto, 1° vol., 1841, §§ 48-52).
Per Rosmini l’etica protegge il bene utile di cui l’uomo può fruire, e quindi il diritto poggia sulla difesa di beni disponibili alla persona. «Il diritto dunque subiettivamente, cioè in rispetto al subietto che lo possiede, è una facoltà eudemonologica protetta dalla legge morale» (Sistema filosofico, cit., p. 295). I beni e i diritti che l’uomo ha nella relazione con i suoi simili ricevono due forme, in base alle quali si possono classificare i diritti: libertà e proprietà. Giuridicamente la libertà è il potere della persona di usare le sue potenze senza ledere la sfera dei diritti di altre persone. La proprietà, invece, è l’unione dei beni con l’uomo. Il vincolo della sensibilità e il vincolo dell’intelligenza ai beni che sono considerati proprietà si congiungono al vincolo morale: questo legame rende diritto la proprietà.
Soggetto di diritti può essere l’individuo, ma può anche essere l’uomo sociale. L’individuo è tutelato dal diritto nel riconoscimento di diritti connaturali e di diritti acquisiti; nel riconoscimento della possibilità di trasmettere i diritti; nel vigilare sulle alterazioni dei diritti; e nel riconoscere i diritti scambievoli. Il diritto sociale nasce dal diritto individuale, perché nasce dall’associazione tra individui, ed è diritto connaturale a tutti gli individui umani. Il diritto sociale universale considera i doveri nascenti dall’associazione e i rapporti tra le associazioni. Quindi vi sono almeno tre possibili società necessarie al genere umano, che lo organizzano: la domestica (divisa in parentale e coniugale), la civile e la teocratica. La prima è naturale-umana, la seconda è naturale-artificiale, la terza è naturale-divina. All’interno di ogni società si manifestano tre tipi di diritto: signorile, politico (o governativo) e comunale (o comune).
Rosmini con queste distinzioni spiega la dialettica tra la libertà e le proprietà. Infatti, secondo il diritto signorile, una persona esercita sulle altre un diritto assoluto di governo, considerandosi per natura il capo della società; secondo il diritto governativo, una o più persone ricevono una delega dai membri della società allo scopo di amministrarla; infine, secondo il diritto comune, tutte le persone ritengono di avere eguali diritti reciproci e quindi pongono tra di loro un rapporto paritario. Si offrono queste possibilità in alternativa: uno solo governa in base a un proprio arbitrario diritto; uno o alcuni governano in base a un diritto delegato dalle persone che sono tutte egualmente titolari di diritti fondamentali. Le persone che formano una società quindi hanno in comune diritti eguali, su proprietà e libertà, ma non possono esercitarli senza una regolamentazione: quindi sono indotti a delegare il potere di amministrare in libertà a una persona o a un gruppo di persone, chiedendo poi conto del risultato dell’amministrazione.
Nella società domestica ogni membro (padre, madre e figli) è titolare di diritti connaturati e inalienabili. Il padre-signore non è sovrano assoluto nella famiglia se non perché naturalmente ha creato l’unità familiare. Nella società civile i capi-famiglia, non potendo governare la propria famiglia e la società da soli, si accordano per portare a termine il compito sociale, delegando l’autorità di governo, quindi la direzione dello Stato, a una persona sola, a un monarca, oppure a più persone, a degli oligarchi, oppure a molte persone, che sempre per delega esercitano la sovranità. Questa terza possibilità, quella democratica, non è intesa da Rosmini nel senso che il popolo nella sua totalità sia sovrano ed eserciti in prima persona il potere, sia pure anche in questo caso attraverso una delega. La teoria rousseauiana del «contratto sociale» quindi non è accettata. Per Rosmini lo Stato dev’essere governato da persone adatte, che hanno una loro indipendenza nel governare e nel fare le leggi, rispondendo solo in certi momenti particolari (elezioni) del loro operato a quelli che li hanno designati.
Nella regolamentazione dei rapporti tra le persone, al fine di meglio condurre la società civile, appare la necessità di porre quale garanzia dei diritti reciproci tra chi governa e chi è governato un testo scritto, elaborato dai «soci», la Costituzione, che garantisca che chi esercita il potere lo faccia a vantaggio di chi questo potere delega. Di qui quindi la saldatura tra diritto e politica, in quanto alla dottrina dei diritti si accosta la dottrina circa il modo più regolare e più conveniente di accordare i cittadini e far fare loro progressi in felicità, benessere e libertà.
Rosmini, suddito dell’Impero d’Austria, ma italiano di sentimenti e di cultura, opera nel corso della sua vita in Italia e quindi partecipa delle problematiche dell’indipendenza nazionale e dell’unità politica. Lo fa da filosofo, elaborando dottrine e proponendo accorgimenti finalizzati a porre in atto la vita felice e regolare di uno Stato. Quindi, negli anni in cui delinea il suo pensiero antropologico ed etico, si preoccupa del fine della società, e lo individua nella pubblica prosperità, fondata sulla giustizia e sulla concordia dei cittadini; si preoccupa di capire la natura effettiva della società civile, e di elaborare la naturale costituzione per essa (si veda l’opera giovanile Della naturale costituzione della società civile, pubblicata solo nel 1887, a Rovereto).
Nella società teocratica, soprannaturale nell’origine, ma umana e naturale nell’applicazione, gli uomini sono uniti per virtù della morale e della religione. In questo caso la Chiesa è la società perfetta dei fedeli e quindi vengono ad avvicinarsi le tre forme giuridiche di rapporto: signorile in quanto una persona ha ricevuto per divino mandato il governo, ed è cioè per la Chiesa cattolica il papa; governativo, in quanto nel governo della Chiesa i vescovi sono parte rilevante, legittimati al potere dalla delega di Cristo agli apostoli; comune in quanto i fedeli hanno nella prospettiva escatologica eguale parte con la gerarchia che li guida. Nella vicenda della Chiesa arriverà per Rosmini il momento di una sorta di accordo tra gerarchia e fedeli, con il riconoscimento di diritti fondamentali di tutte le persone salvate dal sacrificio di Cristo, attraverso una «Costituzione» sui generis, che è fondata sullo stesso Vangelo.
Quando, nel 1848, la forza degli eventi spinse anche Rosmini a partecipare ai movimenti per l’indipendenza nazionale e alla tensione per le libertà politiche, egli richiamò i suoi principi su diritto e politica, e delineò una sorta di ideale Costituzione per il Regno di Sardegna, estensibile ad altri Stati italiani, oppure a quella Confederazione di Stati italiani che era nel suo auspicio, e per la quale poi si batté, nell’opera La Costituzione secondo la giustizia sociale. In quel progetto di Costituzione egli indicò la visione dello Stato liberale che aveva in mente: uno Stato nel quale un monarca regna quale capo dell’esecutivo, con un primo ministro a capo del governo, e con un Parlamento diviso in Camera alta e Camera bassa.
Per Rosmini il potere giudiziario è indipendente, ma collegato all’amministrazione; al suo vertice sta una Corte suprema di giustizia, o Tribunale politico, per la tutela dei diritti fondamentali di tutti i cittadini. Rosmini, nel tracciare la sua costruzione di uno Stato liberale, indica la pace tra i cittadini e il loro benessere attraverso un ordinamento che veda la loro concordia nella designazione dei rappresentanti al Parlamento. Pertanto, a suo avviso, gli elettori delle Camere saranno quei cittadini che debbono vedere tutelati i loro interessi economici e di proprietà, e cioè quegli elettori che pagano allo Stato le tasse. Restano esclusi dall’elettorato sia quei cittadini che non sono abbienti, sia i lavoratori non possidenti. A queste persone, tuttavia, è data la possibilità di eleggere i propri rappresentanti nel Tribunale politico, in quanto a tutti i cittadini, abbienti o meno, è comunque riconosciuto il diritto di vedere tutelati i propri diritti.
Per Rosmini la società civile, da cui si genera l’apparato statale, provvede con il governo alle esigenze di coloro i quali sono titolari di diritti a diverso livello, ma non assicura collettivamente il benessere mediante pubblica assistenza, limitandosi a rimuovere gli ostacoli per lo sviluppo delle iniziative individuali, e a difendere tutti gli individui da leggi e da iniziative lesive dei loro diritti.
Importante appare la teorizzazione dello Stato federale compiuta da Rosmini, negli scritti apparsi in occasione della missione compiuta nel 1848 presso Pio IX, al fine di caldeggiare un accordo tra gli Stati della penisola che attuasse una Confederazione italiana. Rosmini aveva indicato nello scritto Dell’unità d’Italia la soluzione federale come la più realistica al fine di avviare il processo di unità politica. Ora, aprendo delle trattative a Roma tra il Regno sardo, lo Stato romano e il Granducato di Toscana (in attesa di un’adesione del Regno delle Due Sicilie), Rosmini avanza un progetto che viene in linea di massima approvato e discusso nei dettagli, essendo a un passo dall’essere ratificato dagli Stati interessati: esso contemplava l’istituzione della Confederazione italiana, l’attribuzione della presidenza di essa al papa, e poi l’istituzione di una Dieta federale di governo che si occupasse delle materie delegate alla Confederazione (i documenti relativi a questo progetto si desumono dallo scritto Della missione a Roma di Antonio Rosmini-Serbati negli anni 1848-49. Commentario, che non venne pubblicato dal filosofo roveretano: cfr. l’edizione a cura di L. Malusa, 1998).
Il progetto rosminiano, che permetteva anche di avviare a risoluzione la questione del potere temporale dei papi, non fu accettato dal governo del Regno di Sardegna, in quanto esso non intendeva rinunciare alle proprie prerogative e voleva continuare a perseguire la linea di un’alleanza militare, obiettivo quasi irrealizzabile data l’ostilità di Pio IX a un coinvolgimento bellico diretto. Rosmini si dimise dalla missione diplomatica. Il fallimento di queste trattative acuì la situazione italiana e fu indirettamente la causa dei torbidi romani del 15-16 novembre 1848, che provocarono la fuga di Pio IX a Gaeta e fecero fallire il progetto ‘neoguelfo’ di unificazione italiana.
Di per sé il progetto rosminiano non era neoguelfo fino in fondo, in quanto assegnava un ruolo importante all’autorità morale del papa, ma non lo faceva nel nome di presunti ‘primati’ dell’Italia cattolica. Rosmini aveva pensato intensamente, in meditazioni iniziate nel 1832, ed espresse poi nell’opera Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, che una riforma della Chiesa cattolica rendesse possibile l’armonico convivere dello Stato italiano (da costruire) con la religione (cfr. la presentazione della struttura dell’opera in L. Malusa, Le cinque piaghe della Santa Chiesa di Antonio Rosmini, 1998).
Affrontando problemi concreti per la Chiesa del suo tempo, Rosmini si imbatte in una situazione anomala: i beni ecclesiastici, creati dalle offerte dei fedeli e divenuti cospicui nel tempo, sono stati «sequestrati» dal potere civile. Fin dal Medioevo sono stati collegati alla feudalità ecclesiastica. Il governo delle diocesi viene ancora assegnato dai regnanti d’Europa, e soprattutto dall’imperatore d’Austria, a persone di loro fiducia, le quali antepongono alla cura delle anime un governo politico, mosse da una serie di occupazioni lontane da finalità morali ed ecclesiastiche. L’istanza di una riforma della Chiesa viene avanzata da Rosmini con chiarezza, e si basa sui seguenti capisaldi: il ritorno alla scelta dei vescovi nelle diocesi «a clero e popolo», senza ingerenze del potere civile; il ritorno dei vescovi alla cura delle anime dei fedeli; il ritorno dei vescovi all’educazione del clero e alla sua formazione nella meditazione delle Scritture. Di conseguenza il clero, formato dai pastori e indirizzato al rispetto delle cose sacre e alla possibilità di partecipazione a esse da parte dei laici, avrebbe cercato la liberazione dei cristiani da quanto impediva loro di crescere nello spirito, unendo nel pubblico culto le esigenze di comprensione dei fedeli e la grandezza dei testi liturgici. Questa riforma avrebbe quindi reso possibile anche al governo della Chiesa, nei suoi vescovi, di riconoscere una sorta di «Costituzione» dei diritti dei fedeli e dell’impegno dei pastori.
Le considerazioni storiche di Rosmini sulla Chiesa primitiva e sul Medioevo risentivano di un’ottimistica impostazione, difficilmente riscontrabile nella realtà; eppure il modo di considerare le strutture delle comunità cristiane nel loro ergersi anche a protezione della pace civile negli Stati era uno stimolo per la Chiesa italiana a riformarsi. L’ascetica rigorosa, ottimistica sull’impegno del fedele e del religioso, e la sua coerente visione pedagogica, contribuivano a fare di Rosmini un punto di riferimento da parte di molti cattolici e laici. La politica anticlericale dello Stato sardo dopo il 1849 rese difficile la richiesta di riforme ecclesiastiche, ostacolate da un clima di mancata collaborazione. Le chiusure di Pio IX sulla questione del potere temporale e sulle aspirazioni dei patrioti italiani per l’unità politica relegarono le considerazioni di Rosmini nell’ambito di un progetto non realizzabile. Esso venne visto da parecchi, gesuiti e vescovi italiani in testa, come molto pericoloso per la Chiesa-Istituzione, che aveva fatto ormai la scelta di avversare il sistema politico liberale e le costituzioni. Solo ora, agli inizi del 21° sec., la validità di quel riformismo ritorna a essere riconosciuta nella Chiesa e viene collegata all’impegno sincero per realizzare l’unità d’Italia. Nel momento presente va riconosciuto il ruolo positivo rivestito da Rosmini nella prospettiva dell’unificazione italiana, per la creazione di uno Stato nel quale il sentire cattolico degli italiani venisse riconosciuto come rilevante per la «felicità sociale» della nazione e fosse quasi come una sorta di «garanzia» per l’unione, in serena convivenza, di tipo sostanzialmente «laico», tra i cittadini.
Un elenco esauriente delle edizioni delle opere rosminiane, e dei manoscritti relativi a esse, è in C. Bergamaschi, Bibliografia degli scritti editi di Antonio Rosmini-Serbati, 6 voll., Milano-Stresa 1970-2011. Nel 1934 l’Istituto di studi filosofici, diretto da E. Castelli, avviò l’Edizione nazionale delle opere edite e inedite (d’ora in poi citata come EN) dell’abate roveretano, la quale è rimasta incompiuta, benché ne siano usciti (negli anni 1934-1977) 49 volumi. Nel 1975 la predetta Edizione è stata sostituita dalla nuova Edizione nazionale e critica (EC) delle opere rosminiane, avviata da M.F. Sciacca presso il Centro internazionale di studi rosminiani di Stresa (45 tomi finora apparsi). Ricordiamo qui di seguito le opere più rilevanti, indicando l’anno della prima edizione (anche postuma) e l’edizione moderna più adeguata:
Nuovo saggio sull’origine delle idee (1829-1830), a cura di G. Messina, 3 voll., Roma 2003-2005 (EC 3-5).
Principi della scienza morale (1831) e Storia comparativa e critica intorno al principio della morale (1836), a cura di U. Muratore, Roma 1990 (EC 23).
Il rinnovamento della filosofia in Italia proposto dal C. Terenzio Mamiani della Rovere ed esaminato da Antonio Rosmini-Serbati (1836), a cura di G. Messina, 2 voll., Roma 2007-2008 (EC 6-7).
Antropologia in servizio della scienza morale (1838), a cura di F. Evain, Roma 1981 (EC 24).
Filosofia della politica (1837-1839), a cura di M. D’Addio, Roma 1997 (EC 33).
Trattato della coscienza morale (1839), a cura di G. Mattai, Milano 1954 (EN 26).
Filosofia del diritto (1841-1843), a cura di R. Orecchia, 6 voll., Padova 1967-1969 (EN 35-40).
Teodicea (1845), a cura di U. Muratore, Roma 1977 (EC 22).
Psicologia (1846-1848), a cura di V. Sala, 2 voll., Roma 1988-1989 (EC 9-10).
Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (1848), a cura di A. Valle, Roma 1981, 19982 (EC 40; ma cfr. anche l’edizione a cura di N. Galantino, Cinisello Balsamo 1997).
La Costituzione secondo la giustizia sociale con un’Appendice sull’unità d’Italia (1848), in A. Rosmini, Progetti di costituzione, a cura di C. Gray, Milano 1952, pp. 67-239 (EN 24; ma cfr. anche l’edizione a cura di U. Muratore, in A. Rosmini, Scritti politici, Stresa 1997, pp. 45-249).
Introduzione alla filosofia (1850), a cura di P.P. Ottonello, Roma 1979 (EC 2).
Aristotele esposto ed esaminato (1857), a cura di G. Messina, Roma 1995 (EC 18).
Teosofia (1859-1874), a cura di M.A. Raschini, P.P. Ottonello, 6 voll., Roma 1998-2002 (EC 12-17).
Della missione a Roma di Antonio Rosmini-Serbati nel 1848-49. Commentario (1881), a cura di L. Malusa, Stresa 1998 (prima ed. integrale).
Epistolario completo, 13 voll., Casale Monferrato 1887-1894.
Politica prima, a cura di M. D’Addio, Roma 2003 (EC 35).
Carteggio Alessandro Manzoni-Antonio Rosmini, a cura di L. Malusa, P. De Lucia, Milano 2003.
Si veda inoltre:
http://www.rosmini.it/, sito della congregazione religiosa Istituto della carità.
La rassegna più esauriente della letteratura critica su Rosmini è in C. Bergamaschi, Bibliografia rosminiana, 11 voll., Milano-Genova-Stresa 1967-2011.
Si vedano inoltre:
[G.B. Pagani], Vita di Antonio Rosmini scritta da un Sacerdote dell’Istituto della Carità (1897), a cura di G. Rossi, 2 voll., Rovereto 1959.
P. Piovani, La teodicea sociale di Rosmini, Padova 1957, Brescia 19972.
M.A. Raschini, Il principio dialettico nella filosofia di Antonio Rosmini, Milano 1961, nuova ed. Dialettica e poiesi nel pensiero di Rosmini, Venezia 1996.
F. Traniello, Società religiosa e società civile in Antonio Rosmini, Bologna 1966, Brescia 19972.
G. Radice, Annali di Antonio Rosmini-Serbati, 8 voll., Milano-Genova-Settimo Milanese 1967-1994.
G. Campanini, Antonio Rosmini e il problema dello Stato, Brescia 1983.
U. Muratore, Antonio Rosmini: il discorso sull’uomo, Roma 1989.
P.P. Ottonello, L’ontologia di Rosmini, L’Aquila-Roma 1989.
E. Botto, Etica sociale e filosofia della politica in Rosmini, Milano 1992.
G. Lorizio, Antonio Rosmini Serbati: un profilo storico-teologico, Roma 1997, 20052.
P. De Lucia, Essere e soggetto: Rosmini e la fondazione dell’antropologia ontologica, Pavia 1999.
Antonio Rosmini e la Congregazione dell’Indice. Il decreto del 30 maggio 1849, la sua genesi ed i suoi echi, a cura di L. Malusa, Stresa 1999.
F. De Giorgi, Rosmini e il suo tempo. L’educazione dell’uomo moderno tra riforma della filosofia e rinnovamento della Chiesa (1797-1833), Brescia 2003.
M. Krienke, Wahrheit und Liebe bei Antonio Rosmini, Stuttgart 2004.
C. Liermann, Rosminis politische Philosophie der zivilen Gesellschaft, Paderborn 2004.
Antonio Rosmini e la Congregazione del Santo Uffizio. Atti e documenti inediti della condanna del 1887, a cura di L. Malusa, P. De Lucia, E. Guglielmi, Milano 2008.
L. Malusa, Rosmini, Antonio, in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. Prosperi, 3° vol., Pisa 2010, pp. 1341-47.
L. Malusa, Antonio Rosmini per l’unità d’Italia. Tra aspirazione nazionale e fede cristiana, Milano 2011.