appellativi
Il termine appellativo è usato in grammatica e in linguistica con vari significati:
(a) come sinonimo di nome comune, in opposizione a nome proprio, all’interno della classe dei nomi (➔ nomi);
(b) come sinonimo o iperonimo di soprannome (➔ soprannomi);
(c) come designazione di un gruppo di verbi di significato comune: battezzare, chiamare, nominare, soprannominare, ecc.;
(d) come designazione delle parole, espressioni o titoli usati per chiamare le persone o per richiamare la loro attenzione in situazioni di interlocuzione diretta: caro Lei!, dottore, maestà, santità, signore, sire, ecc.
Qui ci occuperemo di quest’ultima categoria, cioè quella degli appellativi allocutivi, che costituiscono anche una sottoclasse dei vocativi (➔ allocutivi, pronomi).
Definiamo appellativi allocutivi le parole usate per chiamare gli interlocutori in situazioni di dialogo diretto, reale o fittizio, o per richiamare la loro attenzione: caro Lei!, dottore, maestà, papà, giovanotto, signore, sire, ecc. Dal punto di vista del referente, l’interlocutore è sempre una seconda persona, singolare o plurale; tuttavia, la persona verbale effettivamente usata nell’interlocuzione dipende dalle gerarchie sociali vigenti nel contesto specifico, che possono prevedere o accettare anche l’uso del lei o del voi di cortesia (➔ allocutivi, pronomi; ➔ cortesia, linguaggio della):
(1) compagno, che ne pensi?
(2) dottore, che ne pensa?
(3) e voi, signora, che ne pensate?
In casi di marcata asimmetria sociale o situazionale tra gli interlocutori, è anche possibile che l’appellativo sia espresso come un normale sintagma nominale in un enunciato alla terza persona e che si accompagni al lei come pronome allocutivo:
(4) cosa bevono i signori?
(5) ha dormito bene Sua Santità?
La classe degli appellativi non può essere considerata chiusa: non esiste una parte del lessico che riunisca, per analogie di forma, di significato o di funzione, tutti e solo gli appellativi. Per converso, è possibile usare in funzione appellativa praticamente tutti i nomi, siano essi nomi veri e propri, aggettivi sostantivati o nomi propri, oltre ovviamente ai pronomi personali tu e voi, previa l’applicazione, esplicita o meno, dello schema «X è nome»:
(6) tu, passa quella palla! (pronome)
(7) bimbo, passa quella palla! (nome)
(8) Secco, passa quella palla! (soprannome < aggettivo)
(9) Pietro, passa quella palla! (nome proprio, referenziale)
(10) Totti, passa quella palla! (nome proprio, antonomastico)
Alcuni appellativi sono assenti dall’uso orale e si sono invece specializzati per lo scritto: tali sono i titoli di cortesia propri della comunicazione epistolare formale, costituiti prevalentemente da un ristretto numero di aggettivi preposti ai titoli o ai nomi propri: Spettabile, Illustre, Egregio, ecc. Tuttavia, esiste un certo numero di nomi che, in ragione del loro significato, vengono usati come appellativi più spesso degli altri. I più frequenti tra questi possono essere raggruppati nelle categorie seguenti: termini di parentela; titoli generici; titoli professionali.
Sono pienamente vitali come appellativi papà, babbo, mamma, zio, zia, nonno, nonna:
(11) papà/babbo/mamma ..., mi compri le figurine?
Nell’italiano contemporaneo, laddove papà, mamma, ecc. possono ricoprire sia la funzione appellativo-vocativa (es. 11) sia quella denotativa (12), i quasi-sinonimi padre e madre sono invece solo denotativi; per inciso, si noti la distinzione negli usi denotativi tra le forme papà, babbo, mamma, deittiche (12), e quelle padre e madre, anaforiche (13):
(12) è arrivata (la) mamma, la tua mamma, la mamma dell’interlocutore
(13) è arrivata la madre, la mamma di un terzo
Nell’italiano antico e letterario è invece ben attestato l’uso appellativo di padre e madre, sia con riferimento proprio sia estesi a significare «Dio» e «Maria, la Madonna».
Il ruolo delle gerarchie sociali e familiari negli appellativi di parentela è abbastanza definito: nei rapporti tra interlocutori asimmetrici per prestigio l’inferiore usa il titolo di parentela, il superiore usa il nome proprio (Mazzoleni 1995: 398):
(14) Alessandro, Virginia, avete finito i compiti?
Ecco, papà, un attimo e abbiamo fatto
Altri termini di parentela, indicanti relazioni simmetriche, strutturalmente (cugino) anche se non socialmente (marito / moglie), ovvero relazioni che hanno perso d’importanza nella società attuale (comare, compare), non sono più usati come appellativi, ma lo erano ancora fino a qualche decennio fa, e lo sono tuttora in varietà regionali o locali di italiano:
(15) Cugino, quando pagate questa scommessa? (Alessandro Manzoni, I promessi sposi)
(16) Moglie, che fai? (Giovanni Gherardini, La gazza ladra)
(17) Vorrei pigliare un terno al lotto, vorrei pigliare, comare Lia! (Giovanni Verga, I Malavoglia)
Anche figlio, accettabile oggi solo se modificato da un possessivo o da altro aggettivo (18-19), era possibile come appellativo autonomo anticamente (20) e fino a non molto tempo fa (21):
(18) figlia mia, come te lo devo dire?
(19) caro figlio, quanto mi costi!
(20) O figlio, figlio, figlio, figlio, adorato giglio (Iacopone da Todi, Laude)
(21) Sì: figlia, vieni meco (G. Giraud, La figlia obbediente)
È da rilevare, infine, l’uso esteso di padre, madre, sorella come appellativi per preti e monache:
(22) padre, perdonatemi perché ho peccato.
Appartengono a questa categoria appellativi come signore, signora, signorina, don e donna, l’antico madonna. Signore, signora e signorina, oltre a essere usati come appellativi autonomi, possono accompagnare a loro volta, a mo’ di apposizione, nomi propri o altri titoli nella costruzione di espressioni complesse:
(23) come sta, signora?
(24) signorina Paola, benvenuta
(25) signor conte, la cena è servita
Questi usi, peraltro, sono limitati dal punto di vista della gerarchia di cortesia, poiché in rapporti asimmetrici gli appositivi signore, signora sono normali se detti dall’interlocutore di ruolo inferiore, mentre sono accettabili da parte del superiore solo in enunciati dotati di una coloritura ironica o sarcastica:
(26) signor commissario, sono innocente!
(27) signor truffatore, non riesco a crederle
È stato anche osservato (Mazzoleni 1995: 400) che il maschile signore, come appellativo autonomo, non ha condizioni d’uso perfettamente parallele rispetto a signora, signorina. Si usa solo con estranei, contrariamente ai femminili: solo la forma in (28) è pensabile rivolta a una persona che già si conosce, ma non quella in (29), al posto della quale si userà invece la forma complessa in (30):
(28) salve, signora
(29) salve, signore
(30) salve, signor Paolo
Inoltre, non ci si rivolge con signore a interlocutori gerarchicamente inferiori (ad es. un cameriere o un inserviente), mentre è possibile farlo con signora o signorina.
L’antico madonna «mia signora», diffuso sia in uso autonomo sia come apposizione, è oggi del tutto scomparso:
(31) Madonna, dir vi voglio como l’amor m’à priso (Giacomo da Lentini)
Restano usati, seppure solo in varietà locali d’italiano (specialmente meridionali: Puglia, Calabria, Sicilia, Campania), don «signore» e donna «signora», sempre seguiti da nomi propri o cognomi:
(32) benvenuta, donna Adelaide, nelle case dei Laurentano (Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani)
È invece vitale anche nella varietà standard «don (più raramente dom) + nome proprio» come appellativo dei sacerdoti: Buon compleanno, don Camillo.
Rientrano in questa categoria i titoli di studio e le qualifiche di ambito professionale: architetto, dottore, ingegnere, ministro, presidente, ragioniere, ecc. I nomi in -re (signore, professore, dottore, ecc.) sono pronunciati e scritti in forma tronca se seguiti da nome proprio o cognome: signor Tommaso, ingegner Franceschini. Quest’uso non è diffuso però nel meridione d’Italia, dove l’appellativo rimane integro: ho visto il dottore Scarano. Tutti questi nomi sono usati anche in funzione denotativa e non appellativa; tutti possono essere usati, come appellativi, sia autonomamente sia come apposizioni:
(33) quanto le devo, dottore?
(34) ingegner Bianchi, a lei la parola
(35) Lei, signor Ministro, cosa intende fare per la scuola italiana?
A partire dall’ultimo quindicennio del XX secolo si è sviluppato in maniera particolarmente vivace il dibattito sulla norma che dovrebbe regolare la conversione al femminile di questi titoli: si tratta di questione che non riguarda specificamente il loro uso come appellativi (➔ genere e lingua).
Liminarmente, ricordiamo in questa sede le etichette della gerarchia accademica: chiarissimo, illustrissimo, magnifico, usate perlopiù come apposizione dei titoli veri e propri: chiarissimo / illustrissimo professore, magnifico rettore (anche il solo magnifico come allocutivo autonomo). Alcuni di questi epiteti si associano solo a determinati nomi: magnifico è solo il rettore, amplissimo (oggi disusato) è solo il preside di facoltà.
Va notato in quest’ambito che, specialmente nell’uso meridionale, allo sconosciuto (a condizione che abbia un aspetto non plebeo) si dà del dottore anche se nulla si sa del suo titolo di studio effettivo. Da ciò deriva il motto popolare ironico secondo cui «in Italia siamo tutti dottori».
Esistono poi appellativi generici, di varia origine, oggi riservati ai destinatari più diversi. In ambito politico, hanno perso vitalità camerata nell’accezione di «fascista» o simili e compagno «comunista» o simili, riservati all’uso interno dei rispettivi gruppi; gli epiteti corrispondenti, rivolti però agli appartenenti alla fazione opposta, sono perlopiù derogatori, per via di metafore scoperte (zecca «comunista») o come risultato di processi morfologici (fascio «fascista»). Limitati, per ovvie ragioni, a varietà popolari e locali, e perlopiù anche all’uso dei parlanti meno giovani, titoli quali compare, compà, comare, comà, paesà, ecc., non in senso proprio ma come allocutivo generico («ehi tu!»). Sono infine limitati all’allocuzione generica di figure professionali ‘basse’ titoli come capo (che si usa però anche per rivolgersi a personale in divisa, ad es. capistazione e controllori) o maestro, non privo quest’ultimo di una lieve coloritura ironica.
Sebbene, come già detto, gli appellativi non siano accomunati da caratteristiche formali, e quindi non ci si debba aspettare di riscontrare processi di formazione dei lessemi relativi, tuttavia alcuni di essi soggiacciono a processi fonologici tipici, come accade del resto negli usi anche ai nomi propri. Si tratta perlopiù di riduzioni del corpo fonico della parola, dovute all’uso dell’appellativo in unione con un nome proprio, che attrae di preferenza l’accento principale del sintagma: sor < signor, don < dominus, il già visto troncamento di dottor(e) professor(e), ecc.
Tra questi il più notevole, sia perché sistematico sia perché adibito proprio e solo a produrre appellativi, è probabilmente il ➔ troncamento, del tipo – frequente nei dialetti centro-meridionali e nelle relative varietà di italiano – Raffaè’ «o Raffaele!», Antò’, Fra’ (Schmid 1976). In alcune varietà dialettali il processo tocca anche sintagmi diversi dai nomi propri, come Minò’ «mio nome, o tu che ti chiami come me», Quell’Ò’ «o quell’uomo, o quel tale» e simili: nella forma senza troncamento, quest’ultima struttura vanta precedenti illustri, come il manzoniano quel giovane:
(36) Son qui io a servirvi, quel bravo giovane (Promessi sposi XIV)
(37) «O quel giovane», disse la donna, «pe’ vostri poveri morti, fate la carità d’andare ad avvisare il commissario» (Promessi sposi XXXIV)
La crescente tendenza (D’Achille 2003: 43) a scorciare i nomi propri secondo lo schema Virginia > Virgi, Federico > Fede, Alessio o Alessia > Ale, Tommaso > Tommi, creando nomi usabili anche come appellativi, potrebbe portare in futuro a una perdita di vitalità degli appellativi tronchi.
Rientrando negli schemi sintattici del vocativo, gli appellativi possono essere introdotti dall’interiezione o, di eredità latina:
(38) O animal grazïoso e benigno (Dante, Inf. V, 88)
(39) O partigiano, portami via, che mi sento di morir (anonimo, Bella ciao)
Nella varietà romana di italiano l’introduttore è invece a, di formazione otto-novecentesca, forse da ricondurre all’interiezione ah, ma che a differenza di quest’ultima non produce raddoppiamento fonosintattico (➔ raddoppiamento sintattico) della consonante seguente (D’Achille 1995). L’introduttore si accompagna spesso con il troncamento dell’appellativo:
(40) a Giuse’, forza che facciamo tardi
I sintagmi che contengono appellativi non ammettono l’articolo determinativo, con l’unica eccezione di quelli del tipo caro il mio Luca, e bravo il nostro Silvio:
(41) allora, (*il) ragioniere, quanto pago di IVA?
Infine, se l’appellativo è costruito con un aggettivo possessivo, questo di solito segue il nome, a meno che non sia introdotto da o, nel qual caso può invece precederlo, come in (44):
(42) figlio mio, fermati lì
(43) ingegnere mio, e dove li trovo i soldi?
(44) vi prego, o mia signora.
D’Achille, Paolo (1995), “A Paolo, e falla finita!” Una nota sull’a allocutivo nel romanesco e nell’«italiano de Roma», «Contributi di filologia dell’Italia mediana» 9, pp. 251-267.
D’Achille, Paolo (2003), L’italiano contemporaneo, Bologna, il Mulino.
Mazzoleni, M. (1995), Il vocativo, in Grande grammatica italiana di consultazione, a cura di L. Renzi, G. Salvi & A. Cardinaletti, Bologna, il Mulino, 1988-1995, 3 voll., vol. 3° (Tipi di frase, deissi, formazione delle parole), pp. 377-402.
Schmid, H. (1976), “It. Teodò! ‘Oh Theodor”: vocativus redivivus?, in Mélanges de langues et de littératures romanes offerts à Carl Theodor Gossen, édites par G. Colón & R. Kopp, Berna, Francke; Liegi, Marche Romane, 2 voll., vol. 2°, pp. 827-864.