Vedi Argentina dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Il suo sterminato territorio si estende dai climi subtropicali delle province settentrionali ai mari gelidi della Terra del Fuoco, passando attraverso la più estesa pianura fertile del pianeta: ciò rende l’Argentina per definizione una grande potenza dell’America del Sud. Una potenza economica, politica e culturale, benché oggi lo sia assai meno di quanto facessero profetizzare le grandi ambizioni coltivate in passato. Instabilità politica, erraticità economica e scarsa crescita demografica hanno frenato con il tempo la crescita, soprattutto in rapporto al Brasile, il grande vicino settentrionale, da sempre primo competitore. Ciò non toglie che in base ai più importanti indicatori di sviluppo l’Argentina rimanga una potenza regionale, in grado di far pesare la sua influenza nei forum latinoamericani e ancor più nella vita dei suoi vicini: sia di quelli più deboli, come Bolivia e Paraguay, sia, seppur in misura assai minore, di quelli più forti, come Cile e Uruguay.
Che si tratti di reddito pro capite o di scolarizzazione, di condizioni sanitarie o di mortalità infantile, l’Argentina figura tra i paesi più avanzati dell’intera America Latina. A ciò va aggiunto il suo enorme potenziale di risorse naturali, finora sfruttato solo in parte, ma tale da rendere già adesso il paese pressoché autosufficiente in campo energetico e uno dei maggiori esportatori al mondo di prodotti agricoli per uso alimentare. Nel contesto regionale, caratterizzato da un mosaico etnico di popolazioni di origine europea, indiana e africana, l’Argentina si è storicamente distinta per essere più di ogni altro paese frutto delle grandi migrazioni europee. Tale circostanza, oggi in parte attenuata dalla progressiva integrazione argentina nel subcontinente e dalla crescente immigrazione dai paesi vicini a maggioranza meticcia o indiana, ha profondamente condizionato e in parte caratterizza ancora la sua storia, il suo rapporto con gli altri paesi dell’area e la sua visione del mondo. In sintesi: la sua relativa omogeneità etnica e culturale, la sua maggiore ricchezza e le sue origini europee hanno spesso generato incomprensioni con i paesi vicini, dai quali tutto pareva differenziarla.
L’Argentina è una repubblica federale di tipo presidenziale. Il presidente è eletto ogni quattro anni a suffragio universale e non può governare per più di due mandati consecutivi. La Costituzione liberale del 1853, benché emendata in più occasioni, rappresenta ancora oggi l’ossatura istituzionale del paese, fondata su un sistema rappresentativo bicamerale, sulla separazione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, e sulla giurisdizione, esercitata nelle 23 province e nel Distretto federale della capitale dai governatori e dalle assemblee legislative elette. Dopo mezzo secolo di relativa stabilità politica, l’Argentina entrò nel 1930 in una lunga fase di instabilità e alternanza tra populismo peronista e autoritarismo militare. Si registrò una serie di colpi di stato, l’ultimo dei quali, nel 1976, sfociò nel regime più repressivo della storia nazionale. Nel 1983, quando, a sorpresa, fu eletto presidente il leader del partito radicale Raúl Alfonsín, l’Argentina tornò alla democrazia. Da allora il sistema democratico ha resistito a gravi crisi politiche ed economiche: le insubordinazioni militari negli anni Ottanta, l’iperinflazione nel 1989 e la drammatica crisi finanziaria del 2001, in seguito alla quale l’Argentina sprofondò nel caos, provocando il crollo dell’inedita coalizione di governo tra radicali e socialisti democratici. Il governo dell’Argentina è tornato da quel momento nelle mani del partito peronista, che, dal 1971, ha preso il nome di Partido Justicialista: dapprima, nel 2003, con la vittoria di Néstor Kirchner, e poi, nel 2007, con quella della moglie, Cristina Fernández de Kirchner, già senatrice e dirigente del partito, che si è imposta con il 45% dei voti. La Kirchner è stata poi riconfermata alla guida del paese nell’ottobre 2011, ottenendo il 54% delle preferenze dell’elettorato e distanziando di quasi 40 punti il più diretto avversario. I governi Kirchner hanno raccolto successi e critiche. I riconoscimenti di merito sono legati perlopiù alla riapertura dei processi ai militari che si erano macchiati di gravi violazioni dei diritti umani durante l’ultima dittatura e alla ripresa economica (anche se nell’ultimo biennio il paese ha vissuto notevoli difficoltà economiche). Le contestazioni si riferiscono a taluni tratti tipici della cultura politica peronista, insofferente verso il pluralismo e i limiti imposti dalle procedure istituzionali al governo, il quale tende perciò spesso a distorcerle e travalicarle, comprimendo la libertà delle opposizioni.
Agli inizi del novembre 2012, il Parlamento argentino è riuscito ad approvare una legge che ha abbassato dai 18 ai 16 anni l’età per il voto. La riforma, fortemente voluta dalla presidente Kirchner, avrebbe permesso a oltre un milione di giovani di recarsi per la prima volta alle urne. Secondo i detrattori della Kirchner tale mossa si spiegava con la volontà di cooptare il voto giovanile, aumentando le chance di vittoria nelle legislative del 27 ottobre 2013. Nonostante ciò, i risultati delle legislative hanno confermato il trend negativo imboccato negli ultimi mesi dal partito governativo. Vincitori di questa tornata sono stati Sergio Massa, ex kirchnerista del Frente Renovador, e Mauricio Macri, sindaco di Buenos Aires di Propuesta Repubblicana (Pro). In vista delle presidenziali 2015, alle quali Massa e Macri sono ufficialmente candidati, la tornata dell’autunno 2013 rappresenta soprattutto una sconfitta personale per Cristina Kirchner, che non dispone più dei seggi necessari in Senato per riformare la Costituzione e correre così per un terzo mandato.
Per composizione etnica e trend demografici, l’Argentina si distingue da gran parte degli altri paesi latinoamericani. Abitata perlopiù dai discendenti delle persone che affrontarono le grandi migrazioni interoceaniche della fine del 19° secolo e dell’inizio del 20°, ha dunque una popolazione quasi integralmente di origine europea, in particolare spagnola e italiana. Fanno eccezione le minoranze autoctone, concentrate soprattutto nelle province settentrionali, e il crescente numero di immigrati dai paesi limitrofi più arretrati economicamente: Paraguay, Bolivia e, in certa misura, il Perù.
La popolazione si caratterizza inoltre per un tasso di crescita inferiore alla media latinoamericana (11 ogni mille abitanti) e per la sua sproporzionata concentrazione nelle aree urbane, soprattutto intorno alla capitale, dove vive circa un terzo dei 40 milioni di argentini. Il sogno dei fondatori dell’Argentina moderna di popolare l’immenso territorio con gli immigrati è perciò in buona parte svanito, e il paese ha perso definitivamente il passo della grande crescita demografica avvenuta nel frattempo in Brasile e in altri paesi della regione, il che ha contribuito a inibirne l’antica aspirazione a esercitare una sorta di leadership regionale. Gli effetti delle gravi e ricorrenti crisi economiche, causa dell’aumento della marginalità sociale, uniti alle tensioni generate nei maggiori centri urbani dall’afflusso di immigrati spesso privi di abitazione e contratti di lavoro, hanno col tempo causato crescenti e violenti conflitti nelle sterminate periferie delle grandi città e hanno aperto la via a nuove forme di criminalità, in taluni casi legate al narcotraffico. In un paese che si è a lungo cullato nell’illusione di essere votato a un prospero futuro, tali conflitti e il diffuso senso di insicurezza che generano creano polemiche e tensioni, sfociate talvolta in manifestazioni di xenofobia. Insicurezza e conflitti sociali trovano poi costante alimento nei tassi di disoccupazione, tendenzialmente elevati, e nell’ampia forbice della disuguaglianza sociale, ulteriormente accresciuta dal crack del 2001 e non ancora pienamente ricomposta dalla successiva ripresa economica.
I tanti governi autoritari e le gravi violazioni dei diritti umani che hanno costellato la storia dell’ultimo secolo mettono ancor più in risalto i progressi recenti compiuti dall’Argentina in tema di libertà individuali e diritti civili. Tra i progressi spiccano quelli avvenuti durante il governo di Néstor Kirchner, allorché la Corte suprema ha revocato, sancendone l’incostituzionalità, gli indulti concessi ai militari che nell’ultima dittatura s’erano resi responsabili di gravissimi crimini: nei loro confronti sono ripresi i processi. Le libertà fondamentali, a cominciare da quella di associazione, sono rispettate e lo stesso vale in grande misura per quella religiosa, in un paese dove il primato storicamente esercitato dalla Chiesa cattolica con l’attivo sostegno dello stato è andato col tempo attenuandosi. Maggiori problemi si riscontrano però su altri fronti. Sono per esempio frequenti le denunce di violenza e arbitrarietà nei confronti della polizia, specie nella provincia di Buenos Aires, dove il crimine è endemico. Sia nella polizia, sia in generale nella pubblica amministrazione rimane poi assai diffusa la corruzione, tanto che nel 2013 l’Argentina ha occupato la 102° posizione su 176 paesi nella classifica di Transparency International.
La denuncia della corruzione da parte dei media è sfociata talvolta in conflitto aperto tra il governo e i maggiori gruppi editoriali. Il governo ha accusato i media, in particolare il grande gruppo che fa capo al quotidiano Clarín, di monopolizzare l’informazione e ha promosso misure legislative per ridurne l’esteso potere. Le grandi imprese con interessi nei media hanno a loro volta denunciato l’intimidazione del governo verso la stampa indipendente, che spesso ha denunciato la corruzione e le azioni arbitrarie dei funzionari pubblici.
Paese al quale la grande produzione di carne e cereali pareva un tempo garantire un ricco futuro e che dalla metà del 20° secolo ha accentuato il suo profilo industriale, l’Argentina è passata attraverso bruschi mutamenti economici, perdendo nel corso dei decenni diverse posizioni nel ranking internazionale. Al modello incentrato sull’industrializzazione protetta e dirigista, prevalso nei decenni centrali del 20° secolo, è subentrato, dagli anni Settanta, e con particolare rigore negli anni Novanta, un modello di sviluppo neoliberista. Quest’ultimo modello, a differenza che in altri casi della stessa regione, non ha tuttavia dato i frutti sperati e all’inizio del 21° secolo i governi peronisti sono tornati a talune misure tipiche del nazionalismo economico, trovando ampia legittimazione nel tracollo che nel 2001 ha colpito il sistema economico e finanziario nazionale. Tali misure hanno portato in alcuni casi a nuove nazionalizzazioni, laddove in precedenza erano state realizzate privatizzazioni, e al crescente intervento regolativo dello stato, sia in materia commerciale sia in materia finanziaria.
Proprio per effetto di tali politiche l’Argentina è arretrata bruscamente nelle classifiche stilate in base alla libertà economica, dove figura dopo la 160° posizione.
La crisi del 2001 è stata perlopiù imputata dall’opinione pubblica proprio al fallimento del modello neoliberista, di cui l’Argentina era stata zelante discepola, e al disinteresse mostrato allora verso il suo destino dagli organismi finanziari internazionali.
Nel decennio successivo alla grande crisi l’economia argentina è comunque tornata a crescere a ritmi sostenuti, uscendo rapidamente e con danni contenuti dalla crisi finanziaria iniziata negli Usa nel 2008. Ad alimentare la ripresa sono stati vari fattori, tra i quali spicca l’effetto della domanda cinese sulle esportazioni argentine e in generale sui prezzi delle materie prime, sulla cui esportazione si regge tuttora, in buona misura, l’economia. Ciclicamente, il paese è colpito da un’elevata inflazione. I governi Kirchner non hanno sempre garantito trasparenza né fornito dati particolarmente attendibili. Secondo le statistiche ufficiali, dal 2010 al 2012 i prezzi sono cresciuti annualmente a un ritmo di circa il 10%; in realtà, per gli analisti dell’Imf l’inflazione si è attestata ben oltre il 20%.
Dopo quasi un decennio di robusta crescita (con tassi superiori all’8-9%), in questi ultimi anni l’andamento dell’economia è stato molto deludente a causa dei bassi tassi di crescita, della scarsa competitività sui mercati internazionali e della sopravvalutazione della moneta, con conseguenti scompensi sulla bilancia commerciale. La situazione è stata sfavorita dell’elevata inflazione nazionale e dalle politiche impopolari in materia monetaria, come la decisione del governo di ridurre l’uscita netta di dollari dal paese. L’azione congiunta dei due fattori ha provocato, da un lato, una forte perdita del potere d’acquisto e, dall’altro, limitazioni e controlli sulle transazioni in valuta estera. Nel tentativo di invertire il trend negativo, la presidente Kirchner ha disposto, il 19 novembre 2013, un rimpasto di governo e del vertice delle istituzioni. A farne le spese sono stati il ministro dell’economia Hernán Lorenzino, il direttore della Banca centrale argentina Mercedes Marcó del Pont e il capo di gabinetto della Kirchner Juan Manuel Abal Medina, sostituiti, rispettivamente, con il vice ministro all’economia Axel Kicillof, con il direttore del Banco de la nación argentina Juan Carlos Fábrega e, infine, con l’attuale governatore della provincia del Chaco Jorge Capitanich.
Il settore energetico ha seguito il cammino spesso erratico della politica estera. Il monopolio statale sugli idrocarburi, di cui l’Argentina è quarta produttrice in Sudamerica, è stato un dogma del nazionalismo economico imperante per buona parte del 20° secolo. Negli anni Novanta, nell’intento di razionalizzare il settore e dare impulso agli investimenti, il presidente Carlos Menem promosse la privatizzazione dell’impresa statale Ypf, che passò nelle mani della multinazionale spagnola Repsol. Dal 2004, però, con la creazione dell’azienda pubblica nazionale Enarsa, lo stato argentino ha recuperato un ruolo centrale nell’intero settore energetico, in particolare nel campo del petrolio e del gas naturale, che insieme coprono quasi il 90% del fabbisogno energetico nazionale. Nel maggio 2012, Buenos Aires ha dunque rinazionalizzato la Ypf, denunciandone i mancati investimenti e l’elevato costo dell’energia per il paese. La recente scoperta di importanti giacimenti di shale gas e shale oil (pari a 802 trillioni di piedi cubi) potrebbe aprire una nuova stagione di investimenti nel settore, utili anche a rilanciare l’economia nazionale.
Come già in passato, la gestione di tale ambito strategico è oggetto di accese polemiche. Il governo vanta l’autosufficienza che l’Argentina ha quasi raggiunto e la progressiva differenziazione del mix energetico, a formare il quale contribuiscono in parti diverse, oltre al petrolio e al gas naturale, l’energia idroelettrica, quella nucleare e le fonti rinnovabili, specie il biodiesel, nel quale il paese è tra i primi produttori al mondo. I critici osservano invece che il ritorno in forze dello stato nel settore energetico ha inibito gli investimenti e rallentato la ricerca di nuove fonti, mettendo a rischio proprio l’autosufficienza che le politiche di apertura avevano consentito di raggiungere. Qualcosa di analogo vale per le politiche ambientali. In tale campo l’Argentina figura tra i paesi col maggiore potenziale al mondo di energie rinnovabili, in particolare di quella eolica, e sta realizzando concreti passi per accrescerne la produzione, che si prevede aumenterà al ritmo di oltre il 10% negli anni a venire. Al tempo stesso, le autorità pubbliche sono spesso oggetto di critiche per l’assenza di una vera e propria politica ambientale e per l’elevato grado di emissioni del sistema produttivo nazionale e dei trasporti. In tal senso, è indubbio che la matrice energetica argentina sia assai più inquinante e assai meno differenziata di quella del vicino Brasile.
diGiuseppe Dentice
Il 29 ottobre 2013 la Corte suprema di Buenos Aires ha dichiarato costituzionale la ‘Ley de medios’, una legge antitrust sui gruppi multimediali varata nel 2009 e finora bloccata dal Clarín e da La Nación, considerati i gruppi multimediali più critici nei confronti del governo di Cristina Fernández de Kirchner. La Corte suprema argentina ha dichiarato costituzionale il dispositivo nella sua interezza, compresi i quattro articoli (artt. 41, 45, 48 e 161) rispetto ai quali Clarín aveva ottenuto misure giudiziarie di protezione ora sospese. Gli articoli contestati da Clarín e La Nación erano soprattutto il 45, nel punto in cui si riferiva ai limiti alla concentrazione sulle licenze televisive, il 48, secondo cui nel possesso di una licenza che eccede i limiti di legge non esiste un ‘diritto acquisito’, e il 161, circa il limite temporale di un anno entro cui adeguarsi alla legge.
La ‘Ley 26.522 de servicios de comunicación audiovisual’, meglio conosciuta come Ley de medios, è una misura voluta dal governo Kirchner per riformare la preesistente legislazione in materia. In questo modo i gruppi di comunicazione che rientrano nei requisiti previsti dalla legge dovranno vendere alcune delle loro licenze e alcune loro parti saranno messe all’asta dall’esecutivo, dietro compensazione finanziaria per l’‘esproprio’. La nuova legge distinguerà, inoltre, la posizione dei singoli network tra media pubblici, commerciali e partecipativi (ONG, cooperative, università, etc.) e tra questi nessuno potrà avere oltre il 35% dei telespettatori nazionali. Si stima che la legge riguarderà 21 gruppi e che le licenze che verranno messe all’asta saranno 330, di cui la gran parte (tra le 150 e le 200) appartenenti al Clarín, il più grande network multimediale del paese e tra i maggiori dell’America Latina, con un fatturato annuo di oltre 2 miliardi di dollari, con interessi variegati nei settori dei quotidiani, delle riviste, delle reti televisive nazionali e delle emittenti radio.
La sentenza rappresenta un’importante vittoria politica per la Kirchner e il suo governo, appesantito dalla ormai ciclica crisi economica e dal flop elettorale del 27 ottobre 2013. Da parte sua, il gruppo Clarín ha affermato di voler rispettare la decisione dei giudici sebbene stia valutando un possibile ricorso presso la Corte interamericana di giustizia o gli organi giudiziari delle Nazioni Unite. Il governo, che ha difeso strenuamente il progetto di legge, ha definito la sentenza giurisprudenziale come una vittoria dello stato contro il monopolio corporativo e a favore della democratizzazione della comunicazione, a differenza, invece, dei gruppi multimediali che hanno accusato l’esecutivo e, in particolare, la ‘presidenta’ di voler porre un freno alla libertà di espressione nel paese e all’indipendenza professionale degli stessi giornalisti.
Tuttavia lo scontro tra l’amministrazione in carica e i due gruppi editoriali ha radici più profonde. Secondo alcuni gli inizi sarebbero da rintracciarsi nel 2008 quando il gruppo editoriale, allora favorevole al governo di Cristina Kirchner, decise di appoggiare la protesta contadina contro una legge agraria che aumentava le imposte sul grano. Altri ritengono che il vero punto di frattura tra i Kirchner e il gruppo multimediale argentino si sia creato nel 2007, quando l’allora presidente Néstor Kirchner, marito di Cristina, ritirò il proprio appoggio politico dall’iniziativa di acquisto di una quota di Telecom Argentina da parte del gruppo Clarín, intuendo i rischi di un eccessivo monopolismo da parte di quest’ultimo nel settore delle telecomunicazioni. Da quel momento in poi la querelle è proseguita nella forma e nei modi che tutti conosciamo. Leggi, attacchi mediatici, accuse di collaborazionismo con i vertici delle dittature militari degli anni Settanta, offensive giudiziarie e minacce di ricorso alla giustizia internazionale sono stati i refrain di questi anni di continue discussioni sulla riforma.
Anche se la misura sembra creare un ambiente mediatico più plurale, rompendo monopoli consolidati, è innegabile che la legge indebolisca notevolmente il gruppo Clarín. Come fa notare anche un report 2012 sui media argentini da parte della fondazione Open Society, il punto debole della legge dei media è che lo stato non esercita un ruolo super partes, bensì assume una funzione iniqua che gli permette di scegliere come, a chi e quanto destinare dei fondi statali per l’editoria e quelli per la pubblicità. In tal senso i gruppi più critici con l’esecutivo non riceveranno più sussidi, a beneficio invece di quelli più allineati.
Uscite umiliate dalla guerra per le isole Falklands/Malvinas del 1982 e messe all’indice dalla gran parte dell’opinione pubblica per il massiccio ricorso al terrorismo di stato, le forze armate argentine hanno cercato, nell’ultimo ventennio, di recuperare il prestigio perduto. In tale ottica hanno preso sempre più parte, per volontà dei successivi governi costituzionali, a missioni internazionali, ora di carattere militare (come nel caso del pattugliamento del Golfo Persico durante la prima guerra in Iraq, nel 1990), ora, soprattutto, umanitarie (per esempio nei corpi di pace inviati dalle Nazioni Unite nella ex Iugoslavia, in America centrale e in altre aree di crisi). Al tempo stesso, l’apparato di sicurezza argentino ha dovuto rinunciare all’enorme peso corporativo e alle cospicue fette di bilancio di cui aveva beneficiato in passato. Il fatto poi che l’Argentina intrattenga relazioni cooperative con i paesi vicini, specie Brasile e Cile, ha in gran parte eliminato potenziali minacce alla sicurezza nazionale e ha indotto un ridimensionamento delle istituzioni castrensi. Per questi motivi, pur prevedendo un piano di graduale incremento delle spese, perlopiù diretto ad ammodernare le tecnologie militari, negli ultimi anni l’Argentina non ha tenuto il passo nella corsa agli armamenti avvenuta in gran parte dell’America del Sud. Un caso a parte, dal punto di vista della sicurezza, è rappresentato dalla lotta al terrorismo e dall’annosa questione delle Falklands/Malvinas.
Quanto al terrorismo, l’Argentina è l’unico paese latinoamericano a esserne stato seriamente colpito, quando, nella prima metà degli anni Novanta, due attentati ad altrettante istituzioni ebraiche di Buenos Aires provocarono numerose vittime. I governi e i tribunali argentini hanno individuato in Hezbollah e nel regime iraniano i responsabili degli attentati, ma non sono riusciti a ottenere la sperata collaborazione internazionale, né quella dei paesi di origine dei terroristi. A ciò si deve in parte la preoccupazione per il sostegno ai movimenti terroristici islamici, talvolta rilevato tra la popolazione di origine mediorientale residente presso la frontiera con Paraguay e Brasile, la cosiddetta ‘Triple frontera’. Per quanto riguarda, invece, la questione delle isole Falklands/Malvinas, la riapertura dei rapporti diplomatici nel 1990 non ha fugato le tensioni con il Regno Unito. A farle ciclicamente riacutizzare contribuiscono, oltre al nodo della sovranità sulle isole, su cui i britannici non transigono, le ricorrenti dispute sullo sfruttamento economico del loro mare territoriale. Oltre alle abbondanti risorse ittiche, sembra che intorno alle isole vi siano importanti giacimenti di gas e petrolio. Nel 2012 è caduto il trentesimo anniversario della guerra. La ricorrenza ha in apparenza riacutizzato la tensione tra Buenos Aires e Londra. In realtà le due capitali si sono limitate a produrre solo un’aspra retorica e vicendevoli accuse di ‘colonialismo’. Nel marzo 2013 si è tenuto un referendum dall’esito scontato tra gli abitanti delle isole (solo tre contrari su 1500 aventi diritto al voto) che ha ribadito la legittimità della sovranità inglese in base al principio di autodeterminazione dei popoli. La Casa Rosada si è comunque rivolta a più riprese alle organizzazioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite, affinché venga avviato un negoziato con la controparte britannica.
La nascita del MERCOSUR, con il Trattato di Asunción firmato il 26 marzo 1991 assieme a Brasile, Paraguay e Uruguay, ha imposto all’Argentina la scelta dell’integrazione regionale. Il MERCOSUR è a tutt’oggi l’area di libero commercio più vasta dell’America del Sud, il cui più visibile effetto è stato far lievitare il commercio e gli scambi tra i paesi membri. Pur essendosi consolidato nel tempo, il MERCOSUR rimane una costruzione di difficile gestione e in Argentina è talvolta soggetto a critiche perché, sostengono i detrattori, imporrebbe all’economia nazionale la subordinazione a quella brasiliana, assai più dinamica e potente. Anche per questo, i governi argentini hanno fatto pressioni affinché venisse ratificato l’ingresso nel MERCOSUR del Venezuela, che nel 2006 ha avanzato ufficiale richiesta e nel luglio 2012 è stato accolto. Secondo il governo argentino, la cooperazione tra Argentina e Venezuela servirebbe implicitamente a equilibrare lo strapotere brasiliano.
La drammatica crisi economica argentina del 2001, poi sfociata in gravi disordini sociali e in un periodo di intensa instabilità politica, ha profondamente influenzato l’opinione sull’affidabilità del paese sia nella comunità finanziaria internazionale, sia nell’opinione pubblica dei paesi i cui risparmiatori sono stati più coinvolti. A pagare la sospensione dei pagamenti, dichiarata allora dal governo di Buenos Aires, vi furono centinaia di migliaia di risparmiatori di vari paesi occidentali, che avevano sottoscritto i titoli del debito argentino, confidando nella solvibilità del sistema finanziario dell’Argentina e nella garanzia delle banche che avevano gestito i loro risparmi. Sul modo in cui tale pesante eredità è stata gestita dal governo di Néstor Kirchner prima e di Cristina Fernández de Kirchner in seguito esistono tuttora versioni assai divergenti. Per i loro estimatori, entrambi avrebbero conseguito l’enorme successo di anteporre la crescita del paese al saldo dei suoi immani debiti, offrendo ai creditori il rimborso negoziato di una quota ridotta dei loro investimenti senza passare dalle forche caudine del Fondo monetario internazionale, a suggello della rinnovata indipendenza argentina. Per i critici, tra i quali figurano molti creditori che non hanno accettato la soluzione offerta dal governo argentino e reclamano ancora il compenso dovuto, quello perpetrato dalle autorità di Buenos Aires è un sopruso e la contrapposizione con il Fondo monetario internazionale un mero artificio demagogico a uso interno. Di certo, il principale effetto del default dichiarato nel 2001 rimane il colpo inferto alla credibilità finanziaria argentina e alla fiducia internazionale nella sua classe dirigente, causa dell’isolamento del paese dai grandi flussi di investimenti esteri. Tuttavia le recenti difficoltà economiche del governo Kirchner hanno imposto alla presidente di annunciare, il 27 agosto 2013, l’apertura di un terzo piano di ristrutturazione del debito. Il programma prevede lo swap (cambio) dei titoli per i creditori ancora in possesso dei ‘Tango Bond’ che non hanno aderito alle precedenti ristrutturazioni del 2005 e del 2010, lanciate dopo il default del 2001.
Per più di cinquant’anni, il Medio Oriente ha rappresentato il principale serbatoio energetico mondiale. Oggi, invece, paesi come Russia, Cina, Messico, Brasile, Venezuela, Canada o USA grazie allo sfruttamento delle fonti di gas e petrolio non convenzionale (shale gas/oil) potrebbero diventare i nuovi giganti dell’energia. In un simile contesto, l’Argentina potrebbe divenire presto un grosso produttore mondiale di energia. Dai rilevamenti del colosso nazionale YPF, uno dei giacimenti più importanti si troverebbe a Vaca Muerta, nella provincia di Neuquén, nell’ovest del paese. Secondo gli ultimi rilevamenti dell’Agenzia per l’informazione sull’energia (EIA), Buenos Aires possiede 802 trilioni di piedi cubi (TCF) di gas di scisto e 27 miliardi di barili di petrolio scistoso. Con un simile potenziale, gli analisti credono che se l’Argentina dovesse trovare una modalità economicamente conveniente per estrarre questi idrocarburi, potrebbe competere con il Venezuela come principale produttore sudamericano di combustibili. Per comprendere l’importanza strategica del fenomeno, basta confrontare i dati sulle stime di shale gas a Vaca Muerta con quelli del più grande giacimento di gas convenzionale argentino a Loma La Lata. Quest’ultimo detiene riserve solo per 10,8 TCF mentre quello a Neuquén è pari a 425 TCF, ossia il 53% delle riserve totali accertate dall’EIA. Una ricchezza incredibile per un paese nel quale la metà dell’energia dipende dal gas e che garantirebbe, da un lato, una maggiore autosufficienza energetica e, dall’altro, una maggiore proiezione a livello internazionale.
L’intricata disputa delle isole Falklands/Malvinas risale al 1833, quando l’arcipelago, situato al largo delle coste argentine, fu assorbito dai britannici. La disputa condiziona ancora oggi, in positivo e in negativo, le relazioni dell’Argentina con il resto del mondo. In tal senso, la sanguinosa guerra del 1982, scatenata dall’occupazione delle isole decisa dalla giunta militare di Buenos Aires, e caratterizzata dalla violenta reazione britannica, costata un’umiliante sconfitta agli argentini e la crisi del regime, non ha aperto spiragli alla soluzione del contenzioso. Anzi, l’ha resa ancor più lontana e complessa. Da allora, come in passato, i governi argentini hanno sollevato il tema della loro rivendicazione in tutti i maggiori organismi internazionali, raccogliendo in genere ampi consensi e creando in tal modo intese trasversali con numerosi altri paesi del Sud del mondo, a loro volta interessati a combattere i residui di colonialismo ancora esistenti. Benché popolari dal punto di vista del consenso interno, tuttavia, le ricorrenti tensioni con il Regno Unito hanno talvolta ostacolato i rapporti argentini con i paesi europei e con gli USA. Nel marzo 2013, si è tenuto un referendum che ha confermato in modo plebiscitario (99,8% dei consensi) l’appartenenza dell’arcipelago ai territori britannici d’oltremare. Il governo di Buenos Aires, sostenuto dall’intera comunità sudamericana, non ha riconosciuto l’esito referendario e ha ripreso a fare pressioni su Londra per negoziare un nuovo accordo.