Vedi Argentina dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Nonostante le recenti traversie economiche e finanziarie, l’Argentina, potenza economica, politica e culturale, rimane uno degli attori più influenti dell’America meridionale. Instabilità politica, erraticità economica e scarsa crescita demografica hanno infatti frenato lo sviluppo del paese, soprattutto in rapporto al Brasile, il grande vicino settentrionale, da sempre primo competitore. Ciò non toglie che in base ai più importanti indicatori di sviluppo, che si tratti di reddito pro capite o di scolarizzazione, di condizioni sanitarie o di mortalità infantile, il paese figura tra i più avanzati dell’intero continente latino-americano. Seppur indebolita dalla nuova crisi economico-finanziaria, l’Argentina rimane una potenza regionale in grado di far pesare la sua influenza nei forum latinoamericani e ancor più nella vita dei suoi vicini: sia di quelli più deboli, come Bolivia e Paraguay, sia, seppur in misura assai minore, di quelli più forti, come Cile e Uruguay. Il paese rimane, inoltre, formalmente interessato a favorire i processi di integrazione regionale appoggiando talune organizzazioni, come l’Unione delle nazioni sudamericane (Unasur), sempre in funzione di limitazione del protagonismo brasiliano. Si spiegano anche in tal senso la vicinanza politica e ideologica con il Venezuela e i paesi dell’AlBa. Nel complesso, l’Argentina gestisce buone relazioni con i confinanti Cile e Uruguay, mentre con Colombia e Perú, più vicini agli Usa, i rapporti rimangono altalenanti. Sono, invece, mutevoli le relazioni con gli Stati Uniti, nonostante il riavvicinamento degli ultimi anni. A decretare il nuovo strappo, le accuse argentine nei confronti di Washington di aver spinto i suoi creditori a non accettare il piano di ristrutturazione del debito dei ‘Tango bond’ come invece ha già fatto il 93% degli altri insolventi. Sul piano internazionale, infine, l’agenda di politica estera dei governi argentini si è contraddistinta per una decisa apertura ai nuovi mercati emergenti asiatici e alla ricerca di partner internazionali in grado di dare voce ad alleanze strategiche il più ampie e trasversali possibile. Si spiegano in tal senso gli avvicinamenti a Russia e Cina – quest’ultima già partner commerciale di grande importanza – e una minore attenzione all’Europa, percepita sempre più lontana e perciò meno funzionale agli interessi argentini. Infine, rimangono complicate le relazioni tra Argentina e Regno Unito a causa della nota questione delle isole Falklands/Malvinas.
L’Argentina è una repubblica federale di tipo presidenziale. Il capo dello stato è eletto ogni quattro anni a suffragio universale e non può governare per più di due mandati consecutivi. La Costituzione liberale del 1853, benché emendata in più occasioni, rappresenta ancora oggi l’ossatura istituzionale del paese, fondata su un sistema rappresentativo bicamerale, sulla separazione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, e sulla giurisdizione, esercitata nelle 23 province e nel distretto federale della capitale dai governatori e dalle assemblee legislative elette. Nel 1930, dopo mezzo secolo di relativa stabilità politica, l’Argentina entrò in una lunga fase di instabilità e alternanza tra populismo peronista e autoritarismo militare. Si registrarono una serie di colpi di stato, l’ultimo dei quali, nel 1976, sfociò nel regime più repressivo della storia nazionale. Nel 1983, quando, a sorpresa, fu eletto presidente il leader del partito radicale Raúl Alfonsín, l’Argentina tornò alla democrazia. Da allora il sistema democratico ha resistito a gravi crisi politiche ed economiche: le insubordinazioni militari negli anni Ottanta, l’iperinflazione nel 1989 e la drammatica crisi finanziaria del 2001, in seguito alla quale il paese sprofondò nel caos, provocando il crollo dell’inedita coalizione di governo tra radicali e socialisti democratici. Il governo dell’Argentina è retto dal 2003 dal partito peronista – che dal 1971 ha assunto il nome di Partido Justicialista –, dapprima con l’esecutivo di Néstor Kirchner, e poi, dal 2007, con quello della moglie Cristina Fernández, già senatrice e dirigente del partito, che si è riconfermata alla guida del paese anche nell’ottobre 2011 con il 54% delle preferenze. I governi Kirchner hanno raccolto sia pluasi che critiche. I riconoscimenti sono legati perlopiù alla riapertura dei processi a carico dei militari e di figure influenti delle istituzioni, della Chiesa cattolica e della società che si erano macchiate, anche in maniera indiretta, di gravi violazioni dei diritti umani durante l’ultima dittatura. Altro merito riconosciuto è stato quello di aver saputo garantire una certa ripresa economica al paese, sebbene negli ultimi anni le difficoltà si siano moltiplicate. Le contestazioni, invece, si riferiscono a taluni tratti tipici della cultura politica peronista, insofferente al pluralismo e ai limiti imposti dalle procedure istituzionali che il governo tende spesso a distorcere e travalicare comprimendo la libertà delle opposizioni.
Nel novembre 2012, il parlamento argentino è riuscito ad approvare una legge che ha abbassato dai 18 ai 16 anni l’età per il voto. La riforma, fortemente voluta dalla Kirchner, avrebbe permesso a oltre un milione di giovani di recarsi per la prima volta alle urne. Secondo i detrattori della presidente, tale operazione elettorale sarebbe stata volta alla cooptazione del voto giovanile nelle legislative del 27 ottobre 2013. Ciononostante, i risultati delle legislative hanno confermato il trend negativo imboccato negli ultimi mesi dal partito governativo. Vincitori di questa tornata sono stati Sergio Massa, ex kirchnerista del Frente Renovador, e Mauricio Macrì, sindaco di Buenos Aires di Propuesta Repubblicana.
Nel tentativo di recuperare consenso dopo la sconfitta delle parlamentari, la presidente ha provveduto nel novembre 2013 ad un rimpasto di governo e dei vertici delle istituzioni finanziarie nazionali senza tuttavia raccogliere alcun risultato positivo. Infatti, pochi mesi più tardi, nel luglio 2014, il paese si è trovato a vivere una nuova crisi politica e finanziaria, simile a quella del 2001, dettata questa volta dall’incapacità dello stato di pagare i debiti contratti con gli investitori nazionali e stranieri, pubblici e privati.
In vista delle presidenziali dell’ottobre 2015, alle quali concorreranno Massa e Macrì, Cristina Kirchner non disponendo più dei seggi necessari in Senato per riformare la Costituzione e correre così per un terzo mandato ha dovuto lasciare il suo posto di candidato oficialista a Daniel Scioli, attuale governatore della provincia di Buenos Aires.
Per composizione etnica e trend demografici, l’Argentina si distingue da gran parte degli altri paesi latinoamericani per la sua relativa omogeneità etnica e culturale. Abitata perlopiù dai discendenti delle grandi migrazioni europee del 19° e del 20° secolo, il paese ha una popolazione composta in maggioranza da migranti di origine italiana e spagnola. Tale caratteristica, oggi in parte attenuata dalla crescente immigrazione dai paesi vicini a maggioranza meticcia o indiana, ha profondamente condizionato e in parte caratterizza ancora la sua storia, il suo rapporto con gli altri stati dell’area e la sua visione del mondo. Fanno eccezione le minoranze autoctone, concentrate soprattutto nelle province settentrionali, e il crescente numero di immigrati provenienti da Paraguay e Bolivia, economicamente più arretrati.
La popolazione è concentrata nelle aree urbane, soprattutto intorno alla capitale, dove vive circa un terzo dei 40,5 milioni di argentini. Il sogno dei fondatori dell’Argentina moderna di popolare l’immenso territorio con gli immigrati è perciò in buona parte svanito, e il paese ha perso definitivamente il passo della grande crescita demografica avvenuta nel frattempo in Brasile e in altri paesi della regione, il che ha contribuito a inibirne l’antica aspirazione a esercitare una sorta di leadership regionale.
Gli effetti delle gravi e ricorrenti crisi economiche hanno causato l’aumento della marginalità sociale, oltre che una crescita delle tensioni nei maggiori centri urbani tra abitanti locali e immigrati, aprendo così le porte delle periferie urbane a nuove forme di criminalità, in taluni casi legate al narcotraffico. In un paese che si è a lungo cullato nell’illusione di essere votato a un futuro prospero, tali conflitti e il diffuso senso di insicurezza hanno generato polemiche e tensioni, sfociate talvolta in manifestazioni di xenofobia. Insicurezza e conflitti sociali trovano poi costante alimento nei tassi di disoccupazione, tendenzialmente elevati, e nell’ampia forbice della disuguaglianza sociale, ulteriormente accresciuta dal crack del 2001 e dal nuovo default del luglio 2014.
I tanti governi autoritari e le gravi violazioni dei diritti umani che hanno costellato la storia dell’ultimo secolo mettono ancor più in risalto i progressi recenti compiuti dall’Argentina in tema di libertà individuali e di diritti civili. Tra i progressi spiccano quelli avvenuti durante il governo di Néstor Kirchner, allorché la Corte suprema revocò, sancendone l’incostituzionalità, gli indulti concessi ai militari e ai loro collaboratori civili che nell’ultima dittatura si erano resi responsabili di gravi crimini: nei loro confronti sono ripresi i processi. Le libertà fondamentali, a cominciare da quella di associazione, sono rispettate e lo stesso vale in grande misura per quella religiosa, in un paese dove il primato storicamente esercitato dalla Chiesa cattolica con l’attivo sostegno dello stato è andato attenuandosi nel tempo. La tolleranza religiosa viene esercitata anche nei confronti delle altri fedi come per esempio quella ebraica, che conserva una delle comunità più grandi dell’intero subcontinente. Maggiori problemi si riscontrano però su altri fronti. Sono per esempio frequenti le denunce di violenza e di arbitrarietà da parte delle forze dell’ordine, specie nella provincia di Buenos Aires, dove la criminalità è endemica. Sia nella polizia, sia in generale nella pubblica amministrazione rimane inoltre assai diffusa la corruzione, tanto che nel 2013 l’Argentina ha occupato la 106° posizione su 176 paesi nella classifica di Transparency International. Le denunce da parte dei media sono sfociate talvolta in conflitti tra il governo e i maggiori gruppi editoriali. L’esecutivo Kirchner ha più volte accusato i media, in particolare il gruppo che fa capo al quotidiano Clarín, di monopolizzare l’informazione e in tal senso ha promosso misure legislative per ridurne l’esteso potere. Le grandi imprese con interessi nei media hanno a loro volta denunciato l’intimidazione del governo nei confronti della stampa indipendente, che spesso ha denunciato la corruzione e le azioni arbitrarie dei funzionari pubblici.
Paese al quale la grande produzione di carne e cereali pareva un tempo garantire un ricco futuro e che dalla metà del Ventesimo secolo ha accentuato il suo profilo industriale, l’Argentina è passata attraverso bruschi mutamenti economici, perdendo nel corso dei decenni diverse posizioni nel ranking internazionale. Al modello incentrato sull’industrializzazione protetta e dirigista, prevalso nei decenni centrali del 20° secolo, è subentrato, dagli anni Settanta, e con particolare rigore negli anni Novanta, un modello di sviluppo neoliberista. Quest’ultimo, a differenza di altri casi nella stessa regione, non ha tuttavia dato i frutti sperati e all’inizio del 21° secolo i governi peronisti sono tornati a talune misure tipiche del nazionalismo economico trovando ampia legittimazione nel tracollo che nel 2001 ha colpito il sistema economico e finanziario nazionale. Tali misure hanno portato in alcuni casi a nuove nazionalizzazioni, laddove in precedenza erano state realizzate privatizzazioni, e al crescente intervento regolativo dello stato, sia in materia commerciale sia in materia finanziaria. La crisi del 2001 è stata perlopiù imputata dall’opinione pubblica proprio al fallimento del modello neoliberista, di cui l’Argentina era stata zelante discepola, e al disinteresse mostrato allora verso il suo destino dagli organismi finanziari internazionali. Nel decennio successivo l’economia argentina è tornata a crescere a ritmi sostenuti (con tassi superiori all’8-9%), uscendo rapidamente e con danni relativamente contenuti dalla crisi finanziaria iniziata negli Usa nel 2008. Vari fattori hanno alimentato la ripresa: tra questi spicca l’effetto della domanda cinese sulle esportazioni argentine e in generale sui prezzi delle materie prime, sulla cui esportazione si regge tuttora, in buona misura, l’economia.
Ciclicamente, il paese è colpito da un’elevata inflazione – secondo le statistiche governative questa sarebbe stabile intorno all’8%, mentre per l’Imf sarebbe prossima al 25-30% – che ne rallenta lo sviluppo. A seguito di una minore crescita rispetto al recente passato – nel 2014 la crescita del pil è stata negativa del -1,7% – e di una scarsa competitività sui mercati internazionali, con conseguenti riduzioni del surplus commerciale, l’andamento dell’economia argentina degli ultimi anni è stato molto deludente. La situazione è stata sfavorita anche da politiche impopolari in materia monetaria, come le restrizioni valutarie per frenare la fuga di capitali dal paese. L’azione congiunta di questi fattori ha provocato, da un lato, una forte perdita del potere d’acquisto sui salari; dall’altro, limitazioni e controlli sulle transazioni in valuta estera, portando il paese in una situazione di ‘default selettivo’. Tredici anni dopo la crisi del 2001, il nuovo crack è nato a seguito del mancato accordo sul pagamento di 539 milioni di dollari di interessi scaduti nel luglio 2014 nei confronti di due hedge fund statunitensi che non avevano accettato la ristrutturazione del debito come gli altri creditori internazionali. Le negoziazioni tra la delegazione argentina e il mediatore che rappresentava gli interessi degli holdouts sono andate avanti per diversi mesi senza che si trovasse un’intesa minima sul pagamento, costringendo così il governo all’obbligo di risarcire immediatamente i fondi di investimento in questione come stabilito dalla sentenza, a loro favorevole, della Corte distrettuale di New York del novembre 2012. Tra il 2014 ed il 2015 il paese dovrà ripagare debiti in valuta estera per oltre 20 miliardi dollari, a fronte di riserve attualmente stimate intorno ai 30 miliardi – pari a circa 4 mesi di importazioni.
Il settore energetico ha seguito il cammino spesso erratico della politica estera. Il monopolio statale sugli idrocarburi, di cui l’Argentina è quarta produttrice in Sudamerica, è stato un dogma del nazionalismo economico imperante per buona parte del Ventesimo secolo. Negli anni Novanta, nell’intento di razionalizzare il settore e di dare impulso agli investimenti, il presidente Carlos Menem promosse la privatizzazione dell’impresa statale Ypf, che passò nelle mani della multinazionale spagnola Repsol. Dal 2004, però, con la creazione dell’azienda pubblica nazionale Enarsa, lo stato argentino ha recuperato un ruolo centrale nell’intero settore energetico, in particolare nel campo del petrolio e del gas naturale che coprono quasi il 90% del fabbisogno energetico nazionale. Nel maggio 2012, Buenos Aires ha dunque rinazionalizzato la Ypf, denunciandone i mancati investimenti da parte della precedente proprietà (la compagnia spagnola Repsol) e l’elevato costo dell’energia per il paese. La recente scoperta di importanti giacimenti di shale gas e shale oil (pari a 802.000 miliardi di piedi cubi) potrebbe aprire una nuova stagione di investimenti nel settore, utili anche a rilanciare l’economia nazionale.
Come già in passato, la gestione di tale ambito strategico è oggetto di accese polemiche. Il governo vanta l’autosufficienza che l’Argentina ha quasi raggiunto e la progressiva differenziazione del mix energetico, mentre i critici osservano che il ritorno in forze dello stato nel settore energetico ha inibito gli investimenti e rallentato la ricerca di nuove fonti, mettendo a rischio proprio l’autosufficienza che le politiche di apertura avevano consentito di raggiungere. Qualcosa di analogo vale per le politiche ambientali. In tale campo l’Argentina figura tra i paesi col maggiore potenziale al mondo di energie rinnovabili, in particolare di quella eolica, e sta realizzando concreti passi in avanti per accrescerne la produzione, che si prevede aumenterà al ritmo di oltre il 10% negli anni a venire. Al tempo stesso, le autorità pubbliche sono spesso oggetto di critiche per l’assenza di una vera e propria politica ambientale e per l’elevato grado di emissioni del sistema produttivo nazionale e dei trasporti. In tal senso, è indubbio che la matrice energetica argentina sia assai più inquinante e assai meno differenziata di quella del vicino Brasile.
Uscite umiliate dalla guerra per le isole Falklands/Malvinas del 1982 e messe all’indice dalla gran parte dell’opinione pubblica per il massiccio ricorso al terrorismo di stato, le forze armate argentine hanno cercato, nell’ultimo ventennio, di recuperare il prestigio perduto. In tale ottica hanno preso sempre più parte, per volontà dei successivi governi costituzionali, a missioni internazionali ora di carattere militare (come nel caso del pattugliamento del Golfo Persico/Arabico durante la guerra in Iraq del 1990), ora, soprattutto, umanitarie (per esempio nei corpi di pace inviati dalle Nazioni Unite nella ex Iugoslavia in America centrale e in altre aree di crisi). Al tempo stesso, l’apparato di sicurezza argentino ha dovuto rinunciare all’enorme peso corporativo e alle cospicue fette di bilancio di cui aveva beneficiato in passato. Il fatto poi che l’Argentina intrattenga relazioni cooperative con i paesi vicini, specie Brasile e Cile, ha in gran parte eliminato potenziali minacce alla sicurezza nazionale e ha indotto un ridimensionamento delle istituzioni castrensi. Per questi motivi, pur prevedendo un piano di graduale incremento delle spese, perlopiù diretto ad ammodernare le tecnologie militari, negli ultimi anni l’Argentina non ha tenuto il passo nella corsa agli armamenti avvenuta in gran parte dell’America del Sud. Un caso a parte, dal punto di vista della sicurezza, è rappresentato dalla lotta al terrorismo e dalla questione delle Falklands/Malvinas.
Quanto al terrorismo, l’Argentina è l’unico paese latinoamericano a esserne stato seriamente colpito, quando, nella prima metà degli anni Novanta, due attentati ad altrettante istituzioni ebraiche di Buenos Aires provocarono numerose vittime. I governi e i tribunali argentini hanno individuato in Hezbollah e nel regime iraniano i responsabili degli attentati ma non sono riusciti a ottenere la sperata collaborazione internazionale, né quella dei paesi di origine dei terroristi. A questo fattore si deve in parte la preoccupazione per il sostegno ai movimenti terroristici islamisti, talvolta rilevato tra la popolazione di origine mediorientale residente presso la frontiera con Paraguay e Brasile, la cosiddetta ‘Triple frontera’, dove sono presenti cellule di Hamas e Hezbollah.
Per quanto riguarda, invece, l’annosa questione delle isole Falklands/Malvinas, la riapertura dei rapporti diplomatici nel 1990 non ha fugato le tensioni con il Regno Unito. A riacutizzarle ciclicamente contribuiscono, oltre al nodo della sovranità sulle isole, su cui i britannici non transigono, le ricorrenti dispute sullo sfruttamento economico del loro mare territoriale. Oltre alle abbondanti risorse ittiche, sembra che intorno alle isole vi siano importanti giacimenti di gas e petrolio. Nel 2012, in occasione del trentesimo anniversario della guerra, si è riacutizzata la tensione tra Buenos Aires e Londra. In realtà le due capitali si sono limitate a produrre solo un’aspra retorica e vicendevoli accuse di ‘colonialismo’. Nel marzo 2013 si è tenuto un referendum dall’esito scontato tra gli abitanti delle isole (solo tre contrari su 1500 aventi diritto) che ha ribadito la legittimità della sovranità inglese in base al principio di autodeterminazione dei popoli. Non riconoscendo l’esito referendario, la Casa Rosada si è rivolta a più riprese alle organizzazioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite, affinché venga avviato un negoziato con la controparte britannica, senza tuttavia raccogliere alcun successo diplomatico. La questione Falkland/Malvinas è tornata nuovamente in auge nel giugno 2014, a pochi giorni dall’inizio dei Campionati del mondo di calcio Fifa in Brasile. In occasione di una partita amichevole giocata a Buenos Aires tra le nazionali di Argentina e Slovenia, i padroni di casa hanno esposto uno striscione a sostegno della rivendicazione argentina delle isole contese. Il caso ha creato molto scalpore ma è stato immediatamente risolto dalla Fifa, che è intervenuta infliggendo alla federazione argentina una pesante multa pecuniaria e l’obbligo di scuse per avere politicizzato un evento sportivo.
Fedele a un’agenda di politica estera eccezionalista e dai tratti fortemente anti-americani, l’Argentina di Cristina Kirchner si è mossa in questi anni alla ricerca di nuovi partner internazionali in grado di permetterle alleanze strategiche trasversali e, allo stesso tempo, che le permettessero un rifinanziamento, o almeno un sostentamento, del pesante debito finanziario nazionale. In questa prospettiva si inseriscono le visite avvenute nel luglio 2014 da parte del presidente russo Vladimir Putin e del suo collega cinese Xi Jinping. Se i rapporti con la Cina sono già consolidati da anni per via anche dei forti legami commerciali bilaterali, quelli con la Russia sono relativamente recenti, ossia da quando nel 2013, in occasione di un viaggio in America Latina, Putin aveva individuato nell’Argentina un partner strategico con cui sviluppare strategie di cooperazione politica bilaterale ed internazionale, con la possibilità inoltre di approfondire i rapporti anche in campo energetico. Non a caso nel suo viaggio a Buenos Aires, Putin ha firmato con Kirchner una serie di protocolli d’intesa nei settori dell’energia – anche quella nucleare –, nell’industria dei macchinari e nella cooperazione tecnico-militare. La firma dei memorandum acquisisce anche una straordinaria valenza politica alla luce del fatto che entrambi i leader hanno espresso reciproco appoggio negli spinosi casi dell’Ucraina e delle Falkland/ Malvinas. Ben più fruttuosa è stata invece la visita della delegazione cinese composta da 250 imprenditori e guidata dal presidente Xi Jinping, che hanno firmato accordi bilaterali del valore di svariati miliardi di dollari in energia e infrastrutture (civili e militari). È stato inoltre raggiunto un accordo di tre anni per un deposito bancario cinese (pari a 11 miliardi di dollari) nella Banca centrale argentina in grado di garantire liquidità e stabilità alle istituzioni finanziarie locali permettendo alle stesse di non aggravare le già esanimi casse statali di Buenos Aires. Le visite di Putin e Xi Jinping in Argentina definiscono dunque gli assi strategici portanti su cui Buenos Aires rimodulerà la propria strategia di politica estera, in un’ottica marcatamente anti-americana. Parallelamente sia per Pechino, sia per Mosca, un rafforzamento della cooperazione con l’Argentina rappresenta da un lato un’ottima occasione per una maggiore penetrazione politica ed economica in Sudamerica, dall’altro una possibilità per colmare il vuoto che gli Usa hanno deciso di lasciare nella regione per puntare sul pivot asiatico
Per più di cinquant’anni, il Medio Oriente ha rappresentato il principale serbatoio energetico mondiale. Oggi, invece, paesi come Russia, Cina, Messico, Brasile, Venezuela, Canada o Usa grazie allo sfruttamento delle fonti di gas e petrolio non convenzionale (shale gas/oil), potrebbero diventare i nuovi giganti dell’energia: tra questi figura anche l’Argentina. Secondo i rilevamenti del colosso nazionale Ypf, uno dei maggiori giacimenti si troverebbe a Vaca Muerta, nella provincia di Neuquén. Secondo l’Agenzia per l’informazione sull’energia (Eia), Buenos Aires possiede 802 trilioni di piedi cubi (Tcf) di gas e 27 miliardi di barili di petrolio. Con un simile potenziale il paese potrebbe competere con Venezuela e Brasile come principale produttore sudamericano di combustibili, a patto che le autorità riescano a trovare una modalità di estrazione economicamente conveniente. In assenza del know how tecnico necessario, il governo di Buenos Aires ha venduto le concessioni per i pozzi di Vaca Muerta alla compagnia statunitense Exxon. Parallelamente l’esecutivo sta studiando nuove strategie e partnership con le maggiori compagnie russe e cinesi come Rosneft e Cnpc. Per comprendere la valenza strategica del fenomeno shale gas, è importante confrontare i dati di Vaca Muerta con quelli del più grande giacimento di gas convenzionale di Loma La Lata. Quest’ultimo detiene riserve solo per 10,8 Tcf mentre quello a Neuquén è pari a 425 Tcf, ossia il 53% delle riserve totali accertate dall’Eia. Una ricchezza incredibile per un paese nel quale la metà del settore energetico dipende dal gas e che garantirebbe, da un lato, una maggiore autosufficienza energetica e, dall’altro, una più attiva proiezione a livello internazionale.
L’intricata disputa delle isole Falklands/Malvinas risale al 1833, quando l’arcipelago, situato al largo delle coste argentine, fu assorbito dalla Gran Bretagna.
La disputa condiziona ancora oggi le relazioni dell’Argentina con il resto del mondo. In tal senso, la sanguinosa guerra del 1982, scatenata dall’occupazione dell’arcipelago decisa dalla giunta militare di Buenos Aires, e caratterizzata dalla violenta reazione britannica, costò un’umiliante sconfitta agli argentini e la crisi del regime, senza aprire spiragli alla soluzione del contenzioso e, anzi, rendendola più lontana e complessa.
Da allora, tutti i governi argentini hanno sollevato il tema della loro rivendicazione dinanzi ai maggiori organismi internazionali, raccogliendo in genere ampi consensi e creando in tal modo intese trasversali con numerosi altri paesi del sud del mondo, a loro volta interessati a combattere i residui di colonialismo ancora esistenti. Benché popolari dal punto di vista del consenso interno, tuttavia, le ricorrenti tensioni con il Regno Unito hanno talvolta ostacolato i rapporti argentini con i paesi europei e con gli Usa.
Nel marzo 2013, si è tenuto un referendum che ha confermato in modo plebiscitario (99,8% dei consensi) l’appartenenza dell’arcipelago ai territori britannici d’oltremare. Il governo di Buenos Aires, sostenuto dall’intera comunità sudamericana, non ha riconosciuto l’esito referendario e ha ripreso a fare pressioni su Londra per negoziare un nuovo accordo per le isole contese.
Dopo 12 anni l’Argentina è nuovamente in default sul debito estero, ma le ragioni che hanno portato il paese sudamericano a questo default sono molto diverse da quelle nel 2002. Per decisione del giudice Thomas Griesa del Tribunale di New York il governo argentino non ha potuto pagare gli interessi ad obbligazionisti che avevano partecipato alle ristrutturazioni del 2005 e 2010 e il 31 luglio 2014 l’Argentina è stata dichiarata in stato di ‘default tecnico’. Oggi il paese sudamericano è in default pur avendo la volontà e le risorse per pagare gli interessi dovuti, mentre nel 2002, quando dichiarò default su 82 miliardi di dollari di titoli esteri, il paese sudamericano non aveva la capacità di onorare il servizio del debito. Dopo alcuni anni di crescenti difficoltà economiche, tra dicembre 2001 e gennaio 2002, l’Argentina attraversò una drammatica crisi politica, finanziaria, economica e sociale: nel giro di pochi giorni si susseguirono quattro presidenti, fu dichiarato il default sul debito e svalutato il peso, per dieci anni mantenuto pari al dollaro americano. Nel 2002 il pil crollò dell’11%, la disoccupazione salì a più del 20% e la povertà raddoppiò, arrivando a colpire metà della popolazione. Già dal 2003, però, la situazione economica si riprese e fino al 2008 il paese è cresciuto a tassi dell’8-9% annuo.
Nel 2005 il governo argentino presentò una offerta pubblica di scambio (Ops) dei titoli in default, che, anche se considerata molto punitiva, venne accettata dal 76% degli obbligazionisti. L’OPS prevedeva lo scambio di vecchie obbligazioni con tre categorie di nuovi titoli (par, discount e quasi-par). Expost, anche grazie ai bassi tassi d’interesse sui mercati finanziari internazionali, la perdita subita da chi aderì all’Ops è stata più bassa rispetto al previsto (alla fine 2006 pari a circa il 60%). Per convincere i creditori ad aderire all’Ops, l’Argentina dichiarò che non avrebbe mai fatto un’altra offerta a condizioni migliori. Per rendere credibile questo impegno, nei nuovi titoli venne inserita la clausola Rufo, Rights Upon Future Offers, che stabiliva che chi aderiva all’Ops manteneva comunque il diritto a partecipare ad eventuali future offerte agli holdouts, cioè coloro che non accettavano l’Ops. Nel 2010 il paese sudamericano fece una seconda offerta di scambio a condizioni simili, che portò il totale delle adesioni al 92% dei titoli in default dal 2002 e l’ammontare di titoli in mano agli holdouts a circa 6,5 miliardi di dollari.
Il default del 2014 nasce dall’iniziativa di un gruppo minoritario di holdouts, precisamente alcuni fondi di investimento americani - Nml, Aurelius, Em e altri . Questi fondi avevano comprato titoli argentini a prezzi molto bassi dopo il 2002 – guadagnandosi il nome di ‘fondi avvoltoi’ - con l’obiettivo di ottenere per vie legali dal paese sudamericano il 100% del valore nominale più gli interessi maturati (valutati circa 1,3 miliardi di dollari a metà 2014). Il giudice Griesa ha dato ragione ai fondi d’investimento americani e ha condannato l’Argentina al pagamento integrale delle obbligazioni detenute da questi fondi, prima di poter procedere al pagamento delle cedole sul debito ristrutturato. Il governo argentino ha deciso di non rispettare questa sentenza perché, per la clausola Rufo, coloro che hanno accettato le ristrutturazioni del 2005 e 2010 potrebbero pretendere lo stesso trattamento, cioè la restituzione del 100% del debito originale più gli interessi. E così i soldi che l’Argentina aveva depositato alla Bank of New York per pagare gli interessi sono stati bloccati dalla sentenza del giudice Griesa e il paese è in una condizione di ‘default tecnico’. I fondi d’investimento non hanno accettato la proposta argentina di scambiare i titoli a condizioni simili a quelle delle Ops 2005-2010, che comunque avrebbero garantito un elevato profitto ai fondi, visto che i titoli erano stati comprati a un prezzo molto basso dopo il default.
Si è creata quindi una situazione finanziaria difficile per l’Argentina, in quanto il ‘default tecnico’ impedisce al paese di accedere ai mercati finanziari internazionali, rendendo più complicato il ritorno a una crescita economica stabile. Dal 2011 la situazione economica del paese sudamericano è andata peggiorando: nel 2014 il paese è in recessione, l’inflazione è elevata, il bilancio pubblico e i conti con l’estero sono in disavanzo. Le riserve ufficiali di dollari continuano a diminuire e senza l’accesso ai mercati finanziari internazionali, il paese rischia una crisi di bilancia dei pagamenti con svalutazione e pesanti effetti sull’economia reale. Il legame tra default e crisi economica è molto forte: ma mentre il default del 2002 è stata la conseguenza di alcuni anni di crisi economica e finanziaria, il rischio ora è che il default del 2014 diventi la causa di una prolungata crisi economica, con un’impennata della disoccupazione e della povertà.