Arte e società
I rapporti tra arte e società mutano nel tempo e nello spazio; in particolare varia il significato del primo termine, quello di arte, che oggi si struttura in un sistema che comprende e accosta attività precedentemente considerate assai lontane (v. Kristeller, 1951-1952). Nel passato - dalla Grecia alla Cina - all'arte, intesa quale figurazione, fu attribuita la capacità di creare la vita e furono affidati grandiosi compiti magici, religiosi, politici, didattici e morali. Oggi l'arte viene ritenuta una delle attività più universali e distintive della specie umana, un fenomeno che ha accompagnato la sua intera storia. Essa è stata considerata un sistema di comunicazione simbolica, un essenziale elemento organizzativo dei sistemi culturali (v. Gerbrands, 1956), e nelle sue opere si è pensato di poter leggere le tendenze profonde di una società (v. Panofsky, 1939). Si è messo in rilievo come attività sociali e valori culturali possano trovare espressione figurativa, come le tradizioni artistiche possano apportare significativi elementi di lettura dei rapporti di produzione e della divisione del lavoro (v. Washburn, 1983), come l'arte sia uno strumento di controllo sociale ma possa essere anche coscienza critica; si è sottolineato il fatto che le sue opere sono beni di lusso che conferiscono, per eccellenza, la distinzione sociale.
Le interpretazioni del fenomeno artistico, da quando è diventato uno dei punti privilegiati della riflessione filosofica, sono tanto numerose che non sarà il caso di esaminarle qui. Si possono tuttavia distinguere modi diversi di avvicinarsi ai nessi tra arte e società: uno, di tipo antropologico, studia lo spazio e le funzioni che i fenomeni artistici occupano entro una certa società; un altro, proprio degli storici dell'arte, legge nella produzione artistica - di cui non mette in questione lo statuto - la capacità di esprimere i problemi e i valori di una società, e punta generalmente la sua attenzione sullo stile (v. Schapiro, 1953) e sull'iconografia delle opere; un terzo, di tipo sociologico, indaga sui modi in cui i rapporti tra arte e società si sono strutturati e intessuti, sulle funzioni attribuite alle opere, sulla figura, la situazione sociale e la carriera dell'artista, sulle forme della committenza, sul mercato, sul pubblico. Si aggiungano i problemi di delimitazione del corpus, vale a dire dell'insieme delle opere incluse entro il campo artistico, che pongono la questione delle frontiere di tale campo, questione che George Kubler (v., 1962) ha affrontato con tanta provocatoria efficacia allargandone smisuratamente i limiti fino "a comprendere, oltre alle tante cose belle, poetiche e non utili di questo mondo, tutti in generale i manufatti umani".
La storia dell'arte dipende essenzialmente dai criteri e dalle discriminazioni di coloro che Bourdieu ha chiamato i "produttori di valore": gli storici dell'arte, i critici. È quanto, in altro modo, affermava Roberto Longhi (v., 1950), evocando, a proposito della funzione del critico nell'interpretare, classificare e valorizzare l'opera, le parole di Corneille: "Vous ne passerez pour belle qu'autant que je l'aurai dit".
Gli storici dell'arte, i critici, sono i custodi delle frontiere del corpus, gli arbitri della distinzione tra ciò che va considerato e ciò che va escluso, tra ciò che va incluso nella produzione 'artistica' e quanto invece va collocato in quella artigianale, distinzione spesso difficilmente praticabile. Tuttavia il criterio prevalente per l'inclusione nel corpus delle opere d'arte - anche se non sempre dichiarato e consapevole -non sta tanto nelle distinzioni dei critici, quanto nel riconoscimento di una valenza artistica da parte dell'osservatore odierno.
Le rotture di campo e di ambiti verificatesi nella vicenda dell'arte contemporanea, l'uso di materiali e di forme espressive radicalmente diverse da quelle tradizionali, l'abbandono dei generi normativi, i problemi e le riflessioni sollevati dall'identità dell'opera d'arte rispetto a quella dell'oggetto comune, l'interrogazione sulle frontiere dell'arte ripropongono oggi una riflessione sui modi e sulle forme della produzione del valore e sui poteri di coloro che la praticano.
Attività figurative di vario genere, durevoli o effimere, furono praticate entro un amplissimo arco temporale in una vasta gamma di società, dove l'azione di dipingere, figurare, scolpire, costruire poté avere funzioni magiche, religiose, rituali, iniziatiche, sacrificali, propiziatorie, apotropaiche.
All'interno di quella che è stata chiamata 'arte primitiva' (o 'arte tribale', o 'arte etnologica') esistettero situazioni molto diverse a seconda della complessità delle società interessate. In molti casi non si formò una vera e propria specializzazione ma tutti i membri della comunità, con abilità e compiti differenti, svolgevano temporaneamente un'attività artistica; in altri invece esistettero veri e propri specialisti che avevano accumulato capacità, mestiere ed esperienze necessarie per produrre opere complesse, e che furono capaci di trasmettere ad allievi le loro conoscenze. Di conseguenza non tutte tra quelle che, con termine improprio, designiamo come società 'primitive' conobbero le tecniche artistiche che oggi noi privilegiamo: in particolare la scultura è stata praticata solo da popolazioni stanziali di determinate aree (v. Muensterberger, 1955).
La nascita di queste forme di specializzazione è stata un fatto fondamentale per l'incremento dell'innovazione artistica, tanto che Kubler (v., 1962), in una scala di situazioni a essa favorevoli, mentre situa in basso le società incapaci di dare spazio a operatori specializzati, colloca molto in alto le società tribali dotate di artigiani di professione.Diversificata la posizione sociale dell'artista: molto considerato in certe società africane, come nel regno Kuba, dove la sua posizione era appena inferiore a quella dei regnanti, meno in altre, dove il committente, che ordinava le opere e ne ricompensava i produttori, godeva di uno status sociale assai più elevato (v. Lewis, 1961). In certi casi la professione di artista era ereditaria, in altri veniva attribuita per via matrimoniale. Avvenne anche che gli artisti venissero reclutati per divinazione, come coloro che costruirono e ornarono le case Mbari nella Nigeria orientale, erette e decorate apparentemente senza una precisa funzione se non quella sacrificale e destinate a essere abbandonate una volta terminate (v. Cole, 1982). In certe società esistettero anche forme di collezionismo e di accumulazione di oggetti ricercati per le loro qualità estetiche (v. Johnson, 1986).
L'inclusione di molte opere di società cosiddette primitive entro i confini della storia dell'arte è relativamente recente. Nel corso dell'Ottocento, con l'ampliarsi delle collezioni etnografiche e il costituirsi di appositi musei, in rapporto con l'espansione coloniale degli Stati europei, i prodotti artistici delle società 'primitive' vennero presi sempre più spesso in considerazione, ma diverse furono le vie dell'apprezzamento e dell'inclusione nel corpus canonico (v. Frazer, 1971). Se, per esempio, il manuale di Franz Kugler (v., 1842) comprendeva descrizioni di opere dell'Oceania e del Nordamerica, Friedrich Ratzel (v., 1882-1891), tentando una prima classificazione di differenti tipi di maschere, e Leo Frobenius (v., 1899), studiando in un testo riccamente illustrato le maschere e le società segrete africane, non facevano rientrare questi prodotti nello specifico campo artistico.
Ci si concentrò per lo più sull'origine dell'ornamento, sui problemi del naturalismo e della stilizzazione nella rappresentazione, sulle funzioni degli oggetti, sul concetto (darwinianamente inteso) di evoluzione applicato alla produzione artistica, in base al quale le arti primitive venivano considerate come i primi gradini di un percorso. Una strada maestra fu quella dell'approccio attraverso le tecniche (v. Semper, 1860-1863), ma si cercò anche di mettere in luce gli aspetti funzionali e sociali dell'operare artistico: un ruolo importante in questa vicenda ebbe il libro di Grosse (v., 1894) sulle origini dell'arte.Nuovo impulso venne dal vivo interesse che si creò nei primi decenni del Novecento per queste forme d'arte, in coincidenza con l'autentica appropriazione che ne fecero certe avanguardie, il cubismo in particolare: in questa connessione si inseriscono contributi importanti come quelli di Eckart von Sydow (v., 1923) e di Carl Einstein (v., 1920). A partire almeno dalla pubblicazione dell'ecumenico manuale di Woermann (v., 1900-1911), e ancor più da quando Franz Boas (v., 1927) ha dedicato una trattazione d'insieme all'arte primitiva, gli studi sulla produzione figurata di società africane, australiane e americane si sono moltiplicati.Se le implicazioni sociali dell'attività artistica sono state oggetto di riflessione e di indagine e se, fin dagli inizi del nostro secolo, il campo della storia dell'arte si è straordinariamente esteso, pure continua a esistere una profonda differenza (per l'impostazione e per gli strumenti usati) tra gli studi sull'arte prodotta in società che ignoravano l'uso della scrittura (v. Haselberger, 1961) e quelli sulla produzione artistica di società 'letterate'. Certe opere studiate dagli etnologi e dagli studiosi delle tradizioni popolari sono state solo eccezionalmente prese in considerazione dagli storici dell'arte, così che i problemi dell'arte popolare non sono frequentemente affrontati (ma v. Riegl, 1894; v. Hauser, 1958; v. Gombrich, i contributi del 1979). Inoltre il definirsi di ambiti di intervento specifici ha fatto sì che archeologi classici, orientali, precolombiani, nonché studiosi e conoscitori dell'arte delle grandi civiltà orientali, dall'India alla Cina, al Giappone, all'Islam, abbiano considerato i nessi tra arte e civiltà con grande varietà di accenti e con criteri di inclusione differenti da quelli usati dagli storici dell'arte occidentale.Osservava Leo Frobenius che un'opera d'arte "suscita associazioni che sono culturalmente determinate" e spesso ci si è preoccupati di "ridurre il materiale dell'arte primitiva alle categorie degli storici dell'arte della civiltà europea. 'Scultura', 'maschere', 'pittura' e così via sono categorie usate come se fossero necessariamente quelle nel cui ambito tutti gli artisti debbono lavorare" (v. Freedman, 1978). Di fatto "ogni età organizza l'insieme delle rappresentazioni artistiche secondo un sistema istituzionale di classificazione che le è proprio, avvicinando opere che altre epoche distinguevano, distinguendo opere che altre epoche avvicinavano" (v. Bourdieu e Darbel, 1969).
Il fatto di definire come artistici i prodotti di culture che non conoscevano questa categoria, e quindi di dotare eventualmente di funzioni e significati nuovi gli esiti figurativi di queste società, è diversamente affrontato e dibattuto da storici dell'arte, archeologi, antropologi ed etnologi.Per Boas è la sua funzione rappresentativa-comunicativa che permette di comprendere un oggetto nel campo artistico, mentre per Mauss (v., 1947) è, per definizione, artistico un oggetto riconosciuto come tale da un gruppo, cosa che impone all'etnologo di svolgere una dettagliata inchiesta.Se non vi sono dubbi sul campo cui appartiene certa produzione plastica africana creata nei grandi centri di corte della Nigeria, dove vennero scolpiti gli splendidi pilastri di legno dei palazzi reali, dove vennero create le celebri sculture in terracotta, in bronzo, in avorio di Nok, di Ife, di Benin e dove le immagini poterono essere depositarie del potere, come nelle statue dei monarchi Kuba (v. Cornet, 1982), è però certo che la funzione di alcuni manufatti si è profondamente modificata rispetto a quella originaria e ciò richiede un approfondimento degli studi sui produttori e sulle condizioni della produzione di manufatti in rapporto all'organizzazione economico-sociale delle società in cui sono stati creati. D'altra parte, un'indagine sui modi in cui di quei prodotti si sono appropriate società diverse dovrà utilizzare sia la storia dell'apprezzamento, della ricerca e del collezionismo di questi oggetti (cfr. i saggi di E. Bassani e M. MacLeod e di J. C. King in Impey e MacGregor, 1985), sia l'uso che tra Otto- e Novecento artisti europei e americani fecero di prodotti di società considerate primitive (v. Goldwater, 1930).Prendiamo ora a esempio una situazione descritta nell'Antico Testamento, che presenta l'emergere di una certa strutturazione del mondo artistico. Qui l'artista viene presentato in positivo come un artefice esperto e in negativo come un fabbricante di idoli. Degli artefici esperti si fanno i nomi: Bezaleel e Ooliab ("dotati dal Signore di abilità e di intelligenza") lavorano su incarico di Mosè alla costruzione dell'Arca dell'Alleanza e all'esecuzione di altre opere per il santuario (Esodo, 35, 30-35); Hiram, figlio di un fenicio, "artefice di lavori in bronzo, di grande capacità tecnica e pieno di talento", è fatto venire da Tiro e impiegato da Salomone nella costruzione e decorazione del tempio che edifica al Signore (I Re, 7, 13 ss.). Dei fabbricanti di idoli, essi pure artisti, non si fanno ovviamente nomi. Scrive Geremia (10,3): "Gli dei delle Genti non hanno alcun valore, non sono che un pezzo di legno tagliato nella foresta, lavorato con lo scalpello per mano di un artista". Isaia (44,9) descrive gli scultori in legno e quelli in metallo come "fabbricanti di idoli", vale a dire come un gruppo professionale specializzato nella produzione di un tipo particolare di beni, gli idoli, che vengono acquistati dagli idolatri (rapporto che implica l'esistenza di un mercato). Daniele (3, 1-7) ci parla poi di un committente di alto lignaggio, il re Nabucodonosor, che richiede la costruzione di un monumento, specificandone materiali, dimensioni e luogo ("una statua d'oro alta sessanta cubiti e larga sei" da erigersi "nel vasto piano di Dura nella provincia di Babilonia"), e descrive la sua inaugurazione (il re "dette ordine che si radunassero i satrapi, i governatori, i sovrintendenti, i generali, i tesorieri, i giudici, i questori e tutti i prefetti delle provincie per l'inaugurazione della statua") e la potente funzione di dominazione simbolica affidata dal committente all'opera (il banditore gridava forte: "Quelli che non si prostreranno e non l'adoreranno saranno subito gettati in una fornace col fuoco acceso"; e tutti i "popoli e nazioni e genti di tutte le lingue si prostrarono e adorarono la statua d'oro che aveva eretto il re Nabucodonosor").
Le parole del Vecchio Testamento presentano alcuni dati importanti per l'analisi dei rapporti arte-società: a) la distinzione tra arte e artigianato operata da un gruppo sociale pervenuto a un certo grado di sviluppo economico, distinzione che permette ad alcune tecniche (nel caso citato la scultura e l'architettura) di emergere e di mutare di posizione gerarchica e di status; b) il riconoscimento per l'artista di una professionalità particolare, testimoniato dagli apprezzamenti espressi per la sua destrezza e abilità e quindi per la qualità dell'opera; c) la memoria, cioè il fatto che il suo nome venga registrato e tramandato assicurandogli un'identità e una fama futura; d) il tipo di rapporto produttivo che vede l'artista eseguire l'opera su commissione, oppure vendere i suoi prodotti sul mercato; e) il ruolo ricoperto da centri di committenza come le corti, che chiamavano a sé artisti celebri per la loro produzione, contribuendo così al diffondersi di tecniche particolari; f) la funzione di dominazione simbolica affidata all'opera.Ci siamo soffermati su questo esempio per illustrare, sia pure in modo schematico, alcuni rapporti che possono istituirsi tra arte e società. È chiaro che nel momento a cui i testi fanno riferimento non esistevano una autonomia e uno statuto particolare delle attività artistiche come avverrà in seguito.
In effetti, anche se si può tracciare una storia della produzione figurativa che, pur conoscendo aree e tempi privilegiati, coincide pressappoco con la storia dell'umanità, resta tuttavia limitato il numero delle situazioni in cui la funzione primaria attribuita a un'opera è stata appunto quella artistica. Ciò è avvenuto in Grecia e a Roma, in Cina, nell'Europa occidentale a partire particolarmente dal XV secolo, in Giappone, in India ai tempi dell'Impero moghūl. All'interno di queste aree troviamo una crescente domanda di opere d'arte, la nascita e l'estendersi di un collezionismo, di un mercato e di una letteratura specializzati, una particolare considerazione per la figura dell'artista che si esprime, tra l'altro, nelle firme apposte alle opere. La costruzione di uno spazio in cui l'arte è considerata un'attività specifica, distinta dalle varie funzioni che venivano attribuite ai suoi prodotti, in certo modo autonoma, sembra essere stata appannaggio di società ricche, evolute e con una grande diversificazione delle attività, ed è principalmente tra società di questo tipo che cercheremo esempi per il nostro saggio, nell'ambito di situazioni che presentino uno spazio definito e articolato, proprio della produzione artistica, uno di quei "campi di autonomia limitata" la cui nascita e il cui sviluppo sono stati messi in luce da Pierre Bourdieu.Sempre più chiaramente, d'altra parte, è emerso lo stretto rapporto tra il costituirsi di un campo artistico autonomo, il comportamento dei suoi componenti e l'economia, rapporto di cui già era fermamente convinto George Berkeley (Querist, 1735-1737) e che diviene macroscopicamente avvertibile nel caso dell'arte contemporanea. Di recente studiosi come Michael Baxandall (v., 1980) e John M. Montias (v., 1982 e 1987) hanno analizzato i prodotti artistici come luxury commodities di un tipo molto particolare. Goldthwaite (v., 1987) ha considerato la committenza artistica come una forma di consumo, mentre Pierre Bourdieu ha ripetutamente invitato ad abbandonare la visione dell'arte come un'isola sacra in un universo governato dall'economia. Ciò ci spingerà a utilizzare uno schema particolare, sistemando i diversi contributi che si collocano entro la problematica arte-società all'interno di quella che, nel linguaggio degli economisti, si chiamerebbe un'analisi di settore. D'altra parte di arte ed economia (v. Reitlinger, 1961-1970) e degli investimenti in oggetti d'arte, e quindi di prezzi, si occupano da tempo gli economisti stessi (v. Baumol, 1986; v. Frey e Pommerehne, 1988).
Una rassegna recente (v. Starn, 1983) mette in luce come negli studi di storia dell'arte sia stata privilegiata piuttosto l'offerta che la domanda, ci si sia concentrati su quello che l'artista fa, sui materiali, le tecniche e le forme piuttosto che sui committenti e sul pubblico, tendendo così a isolare l'arte come una provincia speciale dell'artista e dello storico dell'arte. Per far luce sulla posizione e sulle funzioni che la produzione artistica ha avuto in tempi e luoghi diversi, sarà bene esaminare invece tutti i fattori in gioco, senza favorire esclusivamente l'analisi degli artisti.Inizieremo quindi con il considerare la domanda. A causa della natura durevole del bene artistico, è bene distinguere tra domanda del bene in sé (che riguarda i committenti e i collezionisti) e domanda del servizio che fornisce il bene (fruizione del bene e quindi problema del pubblico). Dopo la domanda passeremo a considerare gli aspetti della produzione: gli artisti, le tecniche e le opere. Ma domanda e offerta non sempre sono sufficienti a definire il mercato: quanto più l'acquirente anonimo diventa rilevante, tanto più la produzione necessita di intermediari (individui, istituzioni e punti di vendita). Esistono poi una serie di istituzioni proprie del settore, dalle corporazioni alle accademie, dalle società promotrici ai musei, e un'imponente e diversificata mole di letteratura artistica il cui ruolo è di offrire servizi di vario tipo.Prima di affrontare gli argomenti elencati, poiché quanto conosciamo sui rapporti tra arte e società lo dobbiamo alla storia sociale dell'arte (v. Castelnuovo, i contributi del 1985; v. Bonfait, 1989), illustreremo brevemente quest'ambito, di cui tracceremo, per campionature, lo sviluppo. Non considereremo, prevalentemente, contributi che si richiamino esplicitamente alla sociologia dell'arte, dato il carattere estremamente composito e contraddittorio che presenta per molti aspetti questa disciplina ("uno dei rami meno consolidati e sistematici della sociologia contemporanea, nel quale è arduo discernere l'emergenza di indirizzi definiti di ricerca e di elaborazione teorica" l'ha definita Luciano Gallino: v., 1978), ma piuttosto testi assai diversi, scelti per la loro esemplarità e per il fatto che possono suggerire modelli e stimolare riflessioni.
Nel Settecento, oltre alle riflessioni sull'influenza del clima sulla produzione artistica dei popoli (dall'abate Dubos a Montesquieu), l'analisi si estende ai rapporti tra forme artistiche, comportamenti e consuetudini sociali: Winckelmann istituisce un parallelo tra il fiorire della scultura greca e la democrazia dell'età di Pericle.I meccanismi che legavano l'arte alla società furono ben evidenziati da Diderot nel suo articolo Art, scritto per l'Enciclopédie, e vennero presi in considerazione da coloro che compilarono le prime storie nazionali delle arti e delle scienze. Nel primo libro della sua Storia della letteratura italiana (1772-1795), Gerolamo Tiraboschi si sofferma sui "mezzi adoperati a promuovere le arti e le scienze", ovvero le corti, i committenti e diverse istituzioni quali biblioteche, scuole, musei. Entro la fine del secolo il problema del contesto sociale era divenuto parte importante delle storie culturali dei diversi paesi europei. George Vertue, autore della prima storia dell'arte inglese, scritta tra il 1712 e il 1756, raccolse un materiale quanto più possibile esauriente sulla vita dei pittori e degli incisori e anche sui committenti, sulle aste, sulle istituzioni artistiche, sui prezzi e sul più ampio numero possibile di variabili esterne che dal XVI secolo avevano svolto un ruolo di primo piano nello sviluppo delle arti nel suo paese (v. Vertue, 1929-1950). Le imprese antiquarie posero le basi del moderno metodo di ricerca storica, mettendo in luce le variabili 'esterne', vale a dire gli elementi che compongono il contesto sociale.Avanza intanto il processo di professionalizzazione degli storici dell'arte. Ne è esempio massimo Luigi Lanzi, che, attraverso i suoi viaggi e i suoi taccuini, la rete dei suoi corrispondenti e la sua attività museale, propone il prototipo di una nuova professione e, spinto dalle sue esperienze, affronta precocemente il problema della fruizione e dell'accessibilità delle opere: "Quanto i pittori senesi fecero di meglio, tutto è al pubblico in quelle chiese e chi le ha vedute non ha gran mestieri, a voler conoscergli, di osservare le quadrerie che molte e copiose si trovano per le case dei cavalieri. In Firenze non è così, niuna tavola del Vinci, del Buonarroti, del Rosso si vede in pubblico". È un modo, anche se un po' particolare, di porre il problema del pubblico.
Nel corso del XIX secolo il rapporto tra le società e le loro manifestazioni artistiche è al centro di un ampio dibattito, presto infuocato dalla centralità che i romantici attribuiscono all'arte. Questo rapporto è presente nelle lezioni sull'estetica di Hegel, che ricava il significato della produzione artistica e il posto che nelle società occupa l'arte dal confronto fra determinate forme di civiltà. La stessa morte dell'arte è postulata in rapporto allo spostamento delle priorità e dei centri di interesse all'interno di una società. Certe pagine di Hegel sulla pittura olandese del Seicento, analizzata in rapporto alla società a essa contemporanea e all'ascesa della borghesia, costituiranno un modello e segneranno anche l'inizio di quella attenzione che sarà rivolta particolarmente al caso olandese.
La critica della società industriale e i progetti riformatori passano nell'Ottocento attraverso lo studio e la rivalutazione del Medioevo gotico, in cui la cultura romantica scorge un'epoca di rapporti organici e diretti - di cui deplora la perdita - tra produzione artistica e corpo sociale. A.W.N. Pugin, con i suoi Contrasts (1836), mette a confronto edifici gotici e moderni per esaltare le funzioni e le forme dei primi; John Ruskin - che vede nell'arte, come poi William Morris, uno strumento di trasformazione sociale -, E.-E. Viollet-le-Duc e A. Didron studiano e ripropongono con successo i modelli gotici, considerati da Viollet-le-Duc grandiose testimonianze della prima società borghese libera e razionale.
Al pensiero hegeliano, che si pone all'origine di vaste sintesi storiografiche, dove l'arte appare come la realizzazione dello spirito di un'epoca (v. Schnaase, 1843-1864), si oppone la posizione empirica, lontana da ogni astrazione, di Jacob Burckhardt. Questi, mettendo al centro della sua ricerca il Rinascimento italiano e leggendovi come particolarmente significativo lo spazio occupato dall'arte, ne affronta una moltitudine di aspetti concreti, cercando di costruire una storia basata sui compiti affidati all'artista (Kunst nach Aufgaben), che ponga in primo piano il problema delle funzioni delle opere e le complesse sfide cui l'artista deve rispondere. Alcuni dei suoi scritti pubblicati postumi (v. Burckhardt, 1898) su temi di storia artistica del Rinascimento - sulla pala d'altare, sul ritratto, sui collezionisti - sono tra i contributi più intelligenti che da questo secolo siano venuti al problema del rapporto tra arte e società.Intanto, mentre Taine si sofferma sul modello fornito dall'Olanda seicentesca (Philosophie de l'art dans les Pays Bas, 1869), facendone il fulcro della sua teoria sociologica per cui l'arte è il prodotto di tre fattori - la razza, l'ambiente, il momento -, si manifestano, in seguito alle battaglie romantiche e alle rivendicazioni autonomistiche della dottrina dell'art pour l'art, le prime risolute richieste di assoluta indipendenza per il mondo dell'arte, le sue opere e i suoi protagonisti. In uno scritto del 1854 che segna la riscoperta di Rembrandt, E. Koloff (v., 1854), un conoscitore d'arte tedesco trapiantato a Parigi e grande ammiratore di Delacroix, dichiara: "Per la conoscenza di un artista le fonti principali non devono essere le storie della sua vita, ma le opere della sua mano".
Nell'arco del secolo l'aumentare del numero degli artisti, l'allargarsi del loro pubblico, l'estendersi del collezionismo, la crescita dei musei, l'ampliarsi del mercato ebbero come conseguenza il moltiplicarsi e lo specializzarsi di coloro che in qualche modo si occupavano d'arte, l'affermarsi e il consolidarsi di una specifica storia "che ha negli artisti i suoi eroi e nelle opere d'arte i suoi eventi" (v. Belting, 1983) e, grazie ai conoscitori, di una particolare filologia. Gli storici dell'arte ricercarono in molti modi una legittimazione e un'autonomia; per alcuni la strada passò attraverso una proclamata recisione dei legami con la storia, l'archivistica e la ricerca documentaria. Essi rifiutarono di considerare gli oggetti della propria attenzione come subordinati a fattori esterni, rivendicando per loro, onde evitare situazioni di dipendenza, uno statuto speciale. Il grande mutamento apportato alla riflessione sulle società e sulla loro storia dall'opera di Marx, che sanciva la priorità dei rapporti di produzione, non ebbe in un primo tempo particolare eco nel campo della storia dell'arte: le sue conseguenze si manifesteranno invece con forza nel nuovo secolo.
Per molti decenni i fatti procedettero su un doppio binario: accanto alle rivendicazioni autonomistiche vennero pubblicati imponenti regesti documentari, che gettarono luce sul contesto sociale entro il quale si erano sviluppate gloriose stagioni dell'attività artistica. Ricordiamo la documentazione di Gaetano Milanesi (v., 1854-1856) sui pittori senesi del Tre- e del Quattrocento e le ricerche di Eugène Müntz (v., 1878-1882) sull'arte alla corte dei papi, a Roma come ad Avignone, che individuarono appunto nelle corti una potente struttura di committenza. I volumi di F. Malaguzzi Valeri sulla corte milanese caddero in extremis sotto la critica di un giovane e geniale assertore dell'autonomia del campo artistico, Roberto Longhi.Un grande testimone di quel momento, Julius von Schlosser, acuto indagatore dell'arte di corte e impareggiabile conoscitore della letteratura artistica, convertitosi poi alla filosofia estetica di Benedetto Croce, così ricorda (Commentario della mia vita) la propria formazione all'Istituto Storico Austriaco: "Faceva precisamente parte degli scopi dell'Istituto l'indirizzare i suoi allievi alle tanto trascurate fonti letterarie, a quel ricco materiale disperso fra documenti storici e non storici, tanto più prezioso quando si pensi che i monumenti conservatici, specie per i tempi più remoti, offrono vaste lacune; questo permetteva di gettare uno sguardo in generale sui rapporti che corrono fra un secolo e l'arte che è sua".
Tra le ultime manifestazioni della ricerca positivista - tra cui è da citare l'opera di V. Mortet e P. Deschamps (v., 1911-1929), una grande raccolta di testi destinati a illuminare la storia delle professioni dell'architetto e del tagliapietre medievali - e le reazioni autonomiste che si allargano e si precisano sempre più nei partigiani della pura visibilità (Marées, Hildebrandt, Fiedler), nella scuola di Vienna (Wickhoff, Riegl, Dvořák), nell'Estetica di Benedetto Croce (che, fondendo in una teoria generale dell'espressione la storia dell'arte e quella della poesia, negava l'opportunità delle differenziazioni), nei Principî fondamentali della storia dell'arte (1915) di Heinrich Wölfflin, si inserisce un'altra dimensione: quella delle arti 'primitive', introdotte nel corpus della storia dell'arte da etnologi, antropologi, sociologi. Si aggiunga che il rigore 'autonomista' degli studiosi viennesi non intendeva certo staccare l'arte dalla società, ma piuttosto individuare precipuamente nei suoi prodotti alcune manifestazioni fondamentali e rivelatrici di una situazione: è quello che fa Riegl (v., 1931) nel suo saggio sul ritratto di gruppo olandese, o Dvořák quando considera la storia dell'arte come storia dello spirito vista come la più alta forma di storia culturale.Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento Aby Warburg (v., 1932), utilizzando una varietà di strumenti non usuali per gli storici dell'arte - dalla psicologia alla paleografia, all'archeologia, all'etnografia -, cerca sottili connessioni tra arte e società nella Firenze quattrocentesca, mettendo in crisi i modelli positivisti e scegliendo una strada decisamente diversa dalle ricerche autonomiste e 'purovisibiliste'.
Esce d'altronde nel 1905 uno studio sul mondo artistico dell'Olanda del Seicento (v. Floerke, 1905), che inaugura un nuovo tipo di ricerche sui rapporti tra arte e società nei loro nessi più diretti, mentre entro i due anni successivi vengono pubblicati i saggi di Willy Martin (v., 1905-1907) sulla vita dei pittori olandesi del Seicento, che mostrano quanto fosse ancora fruttuoso - grazie anche al vastissimo materiale documentario raccolto e pubblicato dagli studiosi olandesi (v. Obreen, 1877-1890) - il 'modello Olanda', una direzione di ricerca che sfocerà nell'opera di Bredius (v., 1915-1922).
Nel 1919 L'autunno del Medioevo di J. Huizinga illumina la civiltà borgognona del Quattrocento, sottolineando la centralità delle manifestazioni artistiche nello stile di vita della classe dominante. Allo stesso periodo, ma a tutt'altro ambiente e con diverse pretese, è consacrato un libro, laconico quanto intelligente e ricco di spunti, di Hans Huth (v., 1923), che si occupa delle botteghe tardogotiche tedesche, facendo luce sui modi e i luoghi della produzione e della distribuzione delle opere. Altra classica analisi di storia sociale di una professione è quella di Knoop e Jones (v., 1933) sui costruttori medievali in Inghilterra.
Nel 1934 due discepoli di Julius von Schlosser, E. Kris e O. Kurz (il primo, in contatto con Freud, abbandonerà poi la storia dell'arte per la psicanalisi), pubblicano a Vienna La leggenda dell'artista, un testo esemplare per la storia della costruzione sociale dell'immagine dell'artista e del suo operare. Nel 1938 appare lo studio di Martin Wackernagel (v., 1938) sul mondo artistico della Firenze del Rinascimento, un'opera dedicata non solo agli artisti (il sottotitolo del libro suona Commissioni e committenti, botteghe e mercato dell'arte), che si propone di restituire il contesto entro cui le opere sono state create, ricostruendo serie e tipologie, uscendo dalla contemplazione dell'unicità, spezzando l'isolamento conseguente alla musealizzazione, osservando, secondo le parole dell'autore, "l'intera vegetazione artistica sviluppatasi in suolo fiorentino [...], non solo i frutti profumati, ma l'intera struttura dell'albero, i semplici ciuffi d'erba e perfino le erbacce". Tra le motivazioni che spinsero Wackernagel a rivisitare il Rinascimento fiorentino, spicca la polemica nei confronti dell'arte contemporanea e dei suoi rapporti elitari e conflittuali con il pubblico, la quale sembra perpetuare certe visioni utopiche ottocentesche che opponevano la visione di un mondo passato, organico e solidale, alle separazioni e all'isolamento del presente. Pur nelle sue ingenuità questo libro, per saldezza, vastità e novità di impianto, rappresenta una nota isolata e dissonante nel mondo della storia dell'arte dell'epoca, dominato da paradigmi idealisti.
Negli stessi anni, non in un istituto universitario tedesco ma in esilio, con mente, angolazione e obiettivi ben diversi, Walter Benjamin (v., 1963) rifletteva sullo stato dell'opera d'arte dopo l'avvento della riproduzione meccanica e ricercava nella metropoli ottocentesca le forme, i modi e i caratteri della modernità. In America, alla vigilia della guerra, Erwin Panofsky (v., 1939), inaugurando il metodo iconologico, si proponeva di individuare nelle opere "quei principî di fondo che rivelano l'atteggiamento fondamentale di una nazione, un periodo, una classe, una concezione religiosa o filosofica, qualificato da una personalità e condensato in un'opera".
Nell'immediato dopoguerra vennero pubblicate in Inghilterra tre opere significative: Arte e rivoluzione industriale, di Francis Klingender (v., 1947), La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, di Frederik Antal (v., 1948) e la Storia sociale dell'arte, di Arnold Hauser (v., 1951). Le ultime due affondavano le loro radici nella temperie politica e culturale della Budapest del primo dopoguerra (Lukács) e nella sociologia della cultura tedesca della Repubblica di Weimar (Scheler, Mannheim). I tre libri vennero pubblicati in un momento in cui in Inghilterra si manifestava un interesse notevole e variamente atteggiato per la storia sociale. Diversi tra loro, i tre lavori sono accomunati dalla volontà di mettere in luce, nella storia dell'arte e degli stili, i rapporti della produzione artistica con le strutture profonde, i diversi gruppi sociali, i conflitti e i mutamenti della società. Se Klingender intende mostrare come la rivoluzione industriale abbia modificato le forme, i materiali e le tecniche dell'arte e il ruolo, la carriera e lo stesso immaginario dell'artista, Antal legge nella storia della pittura fiorentina dal Trecento al Quattrocento le vicende del precoce trionfo, prima, e della sconfitta, poi, della borghesia, attraverso il conflitto tra le ricerche razionali geometriche, spaziali e naturalistiche, da una parte, e le persistenze lineari, spazialmente ambigue, goticheggianti, dall'altra. Hauser infine utilizza la dialettica hegeliana e il materialismo dialettico in una grande sintesi storica a carattere universale.
Le reazioni a questi tentativi storiografici variamente colorati di marxismo non si fanno attendere. Da una parte Millard Meiss (v., 1951) studia la battuta d'arresto che, nella seconda metà del XIV secolo, viene a interrompere, a Firenze e a Siena, un tempo di rapide e straordinarie innovazioni artistiche, mettendola in rapporto non con il modificarsi dell'equilibrio sociale - come avrebbe voluto Antal - ma con la fortissima ripresa di religiosità dovuta alla grande peste del 1348. Dall'altra Ernst Gombrich (v., 1953 e 1960) critica Hauser per le eccessive generalizzazioni degli assunti e l'utilizzazione di schemi hegeliani globalizzanti, e condanna ogni relazione troppo stretta e univoca tra situazioni e strutture sociali e forme artistiche, raccomandando più particolareggiate microanalisi e una maggiore attenzione alle strutture istituzionali, alle abitudini mentali e all'orizzonte di attese del pubblico e degli artisti. Se Gombrich respinge l'idea di un legame tra i vari aspetti di una totalità storica, temendo finalismi e riduzionismi, Panofsky (v., 1951) identifica gli elementi strutturali comuni alla filosofia scolastica e all'architettura gotica. Secondo Panofsky, la presenza di questi elementi comuni dipende da un fattore istituzionale, la scuola, che, frequentata dai filosofi come dagli architetti, trasmetteva ai suoi discepoli comuni modi di pensare e addirittura un comune habitus mentale. Lo spostamento operato da Panofsky, che, di fronte al problema, evita le corrispondenze misteriose tante volte evocate, per portarsi sul piano di una realtà istituzionale, è stato segnalato come estremamente importante da Pierre Bourdieu (v., 1967), il quale ha visto nell'habitus mentale così trasmesso una sorta di grammatica generativa di comportamenti che sfugge a ogni riduzionismo volgare e nello stesso tempo dimostra quale potente forza formatrice di schemi mentali e di comportamenti possa esercitare un'istituzione sociale.
Bourdieu è il sociologo che con maggiore acutezza, negli ultimi anni, si è interessato ai nessi tra arte e società; egli ha ripetutamente rivolto la sua indagine alla lenta e crescente autonomizzazione del sistema di produzione culturale e, all'interno di esso, di quello della produzione artistica e ha studiato il funzionamento della produzione dei "beni simbolici" intellettuali e artistici nel sistema produttivo, nonché il costituirsi, attorno a essi, di un sistema di relazioni sociali relativamente autonomo che ha chiamato "campo". Il "campo" di Bourdieu non è una semplice aggregazione di elementi isolati, ma un insieme di fattori interagenti. Esso è un luogo di conflitto permanente. Gli agenti o i sistemi di agenti che ne fanno parte sono altrettante forze che con la loro posizione, composizione e opposizione gli conferiscono una specifica struttura, variabile a ogni momento. Un tale strumento permette di esaminare complessivamente e nel medesimo tempo l'insieme di individui, competenze, professioni e istituzioni che orbitano attorno all'attività artistica e di seguire le loro opposizioni e solidarietà. Funzioni attribuite alle opere d'arte, sistemi promozionali, mediazioni, carriere, strategie, legittimazioni, mercato possono essere così oggetto di un'analisi globale (v. Gamboni, 1989).
Il committente è colui che richiede all'artista l'esecuzione di un'opera e ne paga il prezzo. Il committente può riservarsi il diritto, spesso sancito da un regolare contratto, di specificare non solo il compenso e il termine di consegna, ma anche la tecnica, i materiali, le dimensioni e il soggetto dell'opera, facendo pesare le proprie preferenze. Come personaggio chiave della domanda e come finanziatore dell'artista, rispetto a cui si trova in posizione sociale ed economica superiore, il committente ha svolto un ruolo capitale nella storia dell'arte e quindi la sua figura e il suo operare sono stati di frequente oggetto di studi, specie da parte di coloro che scorgevano in lui un elemento rivelatore del funzionamento sociale della produzione figurativa, un nesso esemplare del rapporto tra arte e società. Il committente è stato così uno dei punti forti della storia sociale dell'arte di tendenza marxista. Per Antal egli è il regista che, in funzione degli interessi e della cultura del suo gruppo sociale, decide una vera e propria strategia delle immagini. Per Hauser egli agisce come portavoce del gruppo.
Sia Antal che Hauser privilegiano il momento della domanda (e quindi il ruolo del committente) rispetto a quello dell'offerta (e quindi al ruolo dell'artista). Il rischio di una forzatura eccessiva in questa direzione non è sfuggito a Gombrich, che ha ripetutamente sottolineato come non solo il committente influenzasse la produzione artistica, ma quest'ultima, a sua volta, stimolasse la domanda fra i committenti, come i mutamenti stilistici riflettessero uno spettro assai ampio di problemi, come molti e diversi fossero i motivi che potevano spingere alla committenza e come il prestigio conferito ai committenti dagli artisti avesse portato a un parziale rovesciamento dei ruoli sociali. L'appello a un approccio che tenesse conto delle molte variabili che esistono nel rapporto tra committente e artista è stato raccolto da Francis Haskell (v., 1963) nel suo studio sulla committenza a Roma e a Venezia nel Seicento e nel Settecento, subito divenuto un modello di riferimento.Recentemente Richard Goldthwaite (v., 1987) ha osservato come, nonostante i molti contributi, il tema del mecenatismo artistico e del suo ruolo nel Rinascimento italiano non sia ancora oggetto di studi di sintesi che lo situino nell'ambito più vasto della vita sociale ed economica del periodo. Per Goldthwaite non si può considerare questo tema senza ricorrere a un approccio che guardi al mecenatismo artistico come a una forma di consumo, legata ai valori complessivi dell'ambiente socioculturale di riferimento. In questo caso, data la natura di bene durevole del prodotto artistico, i benefici si distribuiscono nel tempo e quindi l'acquisto di un tale prodotto, oltre a essere una forma di consumo, è anche una forma di investimento, il cui rendimento varia a seconda dei periodi storici e delle aree geografiche.
Si possono avere rendimenti simbolici di status, di potere. Bourdieu (v., 1971) ha introdotto il tema del "mercato dei beni simbolici" e del resto a una forma di "rendita simbolica" alludeva già Leon Battista Alberti in un noto passaggio del De re aedificatoria: "E chi non sa come i cittadini sia in patria che altrove abbiano tratto dall'architettura non solo diletto e soddisfazione, ma anche gloria? Chi non trae vanto dall'aver realizzato qualche architettura? Inoltre siamo orgogliosi della casa dove abitiamo se è costruita con cura un po' maggiore del consueto. Se tu costruirai con molta eleganza un muro o un porticato, se lo adornerai di porte, colonne e tetto, i migliori cittadini plaudiranno e si compiaceranno per te come per se stessi, soprattutto perché avranno compreso che con tale frutto delle tue sostanze hai contribuito in modo cospicuo alla fama e allo splendore della tua famiglia, dei tuoi dipendenti e della città".
Oltre che rendimenti simbolici i beni artistici possono produrre rendimenti finanziari. In tempi recenti, anzi, la componente finanziaria è diventata preponderante, come indica la situazione del mercato dell'arte. Per un lungo periodo, invece, il pregio e il costo di certe opere d'arte dipesero essenzialmente dai materiali: agli inizi del Quattrocento il duca d'Angiò - ci racconta Ghiberti - non esitò a fondere una stupenda oreficeria, che aveva egli stesso commissionato a maestro Gusmin da Colonia, per ricavarne il metallo, mentre i francescani di Salisburgo mostrano, nel primo Settecento, di tenere in scarsa considerazione il grandioso altare maggiore quattrocentesco della loro chiesa, scolpito da Michael Pacher, facendolo distruggere e recuperando una parte dell'oro che era stato impiegato nella fattura. Malgrado il detto classico, frequentemente ripetuto, "materiam superabat opus", si è avuta per molti secoli una preponderanza della materia sull'opus; con il mutare della situazione, si è modificato il ruolo del committente-mecenate.
Il nome del committente troneggia con varie appellazioni (auctor, aedificator, fabricator, anche architectus), accompagnato da verbi quali fecit, accomplevit, ecc., in numerosissime opere medievali di architettura e di oreficeria - quelle più atte ad assicurare la fama -, ed è probabile che in alcuni casi l'intervento del committente ecclesiastico, educato in una scuola-cattedrale o in un monastero ed esperto in talune tecniche artistiche, sia andato molto al di là dell'aspetto economico, tanto da dar luogo a una sorta di simbiosi tra committente e artista, per cui il primo interveniva non solo nelle scelte, ma addirittura nella fattura dell'opera. I modi e i gradi di intervento di committenti ecclesiastici celebri come, all'inizio dell'XI secolo, il vescovo Bernwardus di Hildesheim, di cui le fonti ci ricordano le diverse abilità tecniche e fabbrili, non sono ancora del tutto precisabili, ma dovettero essere certo importanti.
Il problema si pone diversamente a seconda del grado di cultura del committente e dello stato sociale e della cultura dell'artista (fra l'altro, l'uso indiscriminato del termine 'artista', non utilizzato nel Medioevo nel senso che oggi gli attribuiamo, per indicare i diversi tipi di artefici, dal pittore all'orafo, all'architetto, può confondere, data la varietà delle situazioni). Mentre il committente ecclesiastico poteva disporre - ma non era sempre così- di un bagaglio culturale che gli permetteva di intervenire, di decidere programmi iconografici e altro, questo non era il caso dei committenti laici, accanto ai quali incominciarono ad apparire sempre più personaggi dalla singolare importanza, i consiglieri eruditi, che stabilivano temi e programmi, costituendo quindi, accanto all'artista e al committente, un terzo agente nella produzione dell'opera (v. Settis, 1981).
Le indagini hanno solitamente riguardato i casi più noti e macroscopici: la piccola committenza, di cui possiamo conoscere qualcosa attraverso i lasciti testamentari, è stata studiata poco. A partire almeno dalla fine del Trecento, i lasciti testamentari ci rivelano un diffuso interesse per la pittura e nelle loro formulazioni possono essere rivelatori delle funzioni che a essa venivano attribuite. Un esempio significativo è un testamento fatto a Losanna nel 1398 in cui il testante precisa: "Voglio che mia moglie faccia dipingere a sue spese nella chiesa di San Paolo la cappella dell'altare fondato in onore e riverenza di San Pietro, alla mia memoria, alla sua, a quella dei miei genitori e dei miei avi, e voglio che su questa pittura siano raffigurati il mio ritratto come quello della mia consorte e dei miei antenati dei quali così si conserverà la memoria" (v. Pasche, 1989).
Negli ultimi decenni gli studi sulla committenza si sono concentrati sul periodo rinascimentale (v. Kempers, 1987): particolarmente studiate sono state le corti. Recentemente si è tentato di imprimere una svolta allo studio della committenza calandola nel più ampio contesto del patronage, inteso sia come sistema di clientele che come mecenatismo inerente non solo alle arti figurative (v. Lytle e Orgel, 1981; v. Kent e Simons, 1987).
Oltre ai casi di singoli committenti e di dinastie - particolarmente studiati i Medici, i Gonzaga, gli Este, i Montefeltro -, si sono analizzati gli atteggiamenti di particolari collettività, come gli ordini religiosi e i governi cittadini, con le loro istituzioni politiche ed economiche (v. Finiello Zervas, 1987), e le strategie artistiche dei grandi Stati nazionali, delle corti e dei grandi centri di mecenatismo (v. Gundersheimer, 1973; v. Trevor-Roper, 1976; v. Da Costa Kaufmann, 1985; v. Bottineau, 1986; v. Southorn, 1988); si è guardato alla città e ai suoi edifici come a una summa dei rapporti tra committenti e artisti (v. Tafuri, 1985); si è individuata nella filantropia una fonte di committenza; si è indagato sul rapporto tra committenti e tipologie architettoniche; si è messa a fuoco la committenza per proiettare nuova luce sull'iconografia delle opere (v. Settis, 1978; v. Ginzburg, 1981); si è cercata nella tipologia delle opere la chiave per studiare il comportamento dei committenti (v. Blum-Nielsen, 1969); si è analizzata l'insoddisfazione di questi (v. Janson, 1981).
In linea di massima, dopo i secoli del Medioevo, in cui il rapporto tra committenti e artisti era fortemente squilibrato in favore dei primi, la situazione cambiò a vantaggio dei secondi: nell'Europa occidentale tra il Quattro- e il Settecento l'attività artistica andò configurandosi sempre più come produttrice di beni di lusso, in quanto segni di distinzione portatori di alto prestigio, il che determinò una crescita dello stato sociale e del potere contrattuale di alcuni artisti particolarmente rinomati. Il fatto, per esempio, che Federigo Gonzaga pregasse umilmente Michelangelo di fargli avere almeno una sua qualche traccia di carboncino (v. Luzio, 1913) indica un vero e proprio capovolgimento del rapporto, che non sarebbe stato possibile senza l'eccezionale maestria dell'artista e senza un mutamento della funzione attribuita ai prodotti artistici. Di fatto alle opere d'arte viene affidato un più accentuato ruolo di legittimazione e di dominazione simbolica nel corso dell'affermarsi degli Stati assoluti (il rapporto diretto che si instaura tra corti e accademie artistiche è, da questo punto di vista, assai significativo) e ciò ha conseguenze particolari sulla posizione sociale di alcuni artisti. Una situazione nuova si verifica nell'Olanda del Seicento dove, in seguito alla rottura politico-religiosa con le Fiandre, viene parzialmente a mancare la domanda di tradizionali gruppi di committenti e si precisa la fisionomia di un personaggio nuovo, l'amatore-committente-collezionista, che, senza ordinare un'opera specifica, acquista con continuità la produzione di un artista.
Con la Rivoluzione francese i centri tradizionali di committenza scompaiono, per riapparire durante la Restaurazione. Senza che si verifichi il totale rivolgimento che spesso si ipotizza - messo di recente in discussione da Boime (v., 1990) -, si manifestano, accanto alle antiche, nuove forme di committenza, meno dirette ma non meno importanti, quali i musei e i salons. Francis Haskell (v., 1987) ha messo in evidenza il peso esercitato sulla situazione francese dalla nascita di un museo destinato ad acquistare e ad accogliere opere di artisti contemporanei: il Musée du Luxembourg. Analogo discorso può essere fatto per i salons, le grandi esposizioni ufficiali dove venivano attribuiti i premi e dove lo Stato si faceva acquirente di opere d'arte. D'altra parte i dettami ideali che un tale tipo di committenza collettiva e astratta proponeva potevano essere letti dall'artista sia in positivo che in negativo. Zola, in L'oeuvre (1886), rappresenta nel personaggio di Claude Lantier (ispirato a Paul Cézanne) un artista ribelle e d'avanguardia che ha in mente una grande opera che lo renderà immortale. Egli sceglie per la sua tela dimensioni da salon ufficiale, ma nelle varie versioni rappresenta ostinatamente la realtà, un soggetto quindi da Salon des refusés. La sua strategia lo spinge a cercare il rifiuto: "L'opera, quando fu collocata sotto la luce livida della vetrata, riuscì a stupirlo per la sua brutalità; era come una porta aperta sulla strada: la neve accecava, le due figure si stagliavano, miserabili, in un grigio fangoso. Improvvisamente sentì che un quadro simile non sarebbe mai stato accettato; non si provò però ad addolcirlo: lo inviò ipso facto al salon".Il rifiuto della committenza ufficiale fu, tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, un comportamento distintivo di gruppi di artisti che si riconobbero come un''avanguardia' (non a caso un termine ripreso dal linguaggio militare), scegliendo una strategia di attacco che li indusse a cercare una serie di alternative. Questa strada, con alterne vicende, ha condotto all'attuale sistema delle gallerie e dei mercanti d'arte, che ha in molti modi sostituito le antiche strutture, pur senza determinare una sparizione della committenza, tuttora presente sotto forme diverse e non solo nel campo dell'architettura e della scultura, dove non è mai tramontata. Oggi si tratta di differenti tipi di interventi, diretti o indiretti, di organi governativi, enti, agenzie, fondazioni, musei, diverse istituzioni, gruppi, collettività, aziende, che meriterebbero studi altrettanto precisi e ramificati quanto quelli dedicati ai committenti del passato.
Le varie forme di collezionismo pongono problemi che devono essere affrontati da un punto di vista antropologico (v. Pomian, 1987) e che riguardano solo parzialmente la storia dell'arte e della produzione artistica. Il fenomeno si manifesta in tipi assai diversi di società, da quelle tribali (v. Johnson, 1986) a quelle più evolute. Se da un punto di vista generale l'attività del collezionare è estremamente diffusa e si può far risalire a età preistoriche, le società dove si è esercitato un collezionismo specificamente artistico, come oggi possiamo intenderlo, non sono numerose (v. Alsop, 1982).
Il collezionismo d'arte, coltivato in varie forme nell'età classica, specie a Roma, fu una vera e propria tradizione della corte imperiale cinese, inaugurata da alcuni imperatori della dinastia Han (202 a.C.-220 d.C.), appassionati collezionisti d'arte. Purtroppo la tendenza degli imperatori cinesi a riunire in un solo luogo tutte le opere d'arte disponibili fu all'origine di gravi distruzioni: durante il regno dell'imperatore Ming-Ti (58-76) la produzione artistica dell'intero regno fu riunita e quando, nel 190, la capitale venne assalita e saccheggiata le distruzioni furono immense. Niente di simile in Occidente, dove il collezionismo artistico, durante il Medioevo, si manifestò in una forma molto particolare e con funzioni molteplici: culto delle reliquie, accumulazione di materie preziose, raccolta di suppellettili rituali nei ricchi tesori ecclesiastici delle cattedrali e delle grandi chiese abbaziali. Solo alla fine del Trecento, nelle maggiori corti europee, da quella dei Valois a Parigi a quella dei Carraresi a Padova, a quella del duca di Berry, si manifestarono autentiche forme di collezionismo artistico, abbondantemente testimoniate.
Nel periodo rinascimentale e in quello barocco si sviluppano grandi raccolte, fatte oggetto di studi particolari: preziose le testimonianze sul collezionismo del primo Cinquecento nell'Italia settentrionale redatte dal veneziano Marco Antonio Michiel (v. Fletcher, 1973 e i contributi del 1981). Non ci si limita a collezionare opere d'arte: le Kunst- und Wunderkammern, illustrate dallo Schlosser (v., 1908), sono straordinarie collezioni di singolarità naturali e artificiali (macchine, oggetti scientifici e opere d'arte). Queste grandi raccolte sono state analizzate in tutti i loro aspetti (v. Lugli, 1983): nel loro nascere, nel loro destino, nell'avvicendarsi dei rispettivi proprietari - principi, prelati, banchieri, artisti, intellettuali, ecc. - nel loro prefigurare, per composizione e fruibilità, la fisionomia del moderno museo pubblico, negli intrecci di procacciatori, intermediari, agenti e mercanti che intorno a esse gravitavano.Il quadro si arricchisce nel Settecento, secolo che, grazie al posto di primo piano assegnato alle arti nell'educazione del gentiluomo, da quando lord Shaftesbury aveva rivelato le qualità morali del bello, vede l'affermarsi del grand tour, il viaggio che ha spesso per meta l'Italia (v. De Seta, 1982), intrapreso a scopi educativi e culturali. Questo fenomeno, pur riguardando tutti gli europei, è particolarmente legato alla calata dei britannici in Italia (v. Hibbert, 1987) e ha dirette conseguenze sulla genesi e sull'accrescimento delle grandi collezioni dell'aristocrazia inglese, che in questo secolo conobbero il loro massimo splendore.
Un terreno pochissimo esplorato è quello del piccolo collezionismo anonimo, difficile da individuare e da documentare (i dati relativi sono rintracciabili in inventari post mortem, cataloghi d'asta, contratti assicurativi, documenti riguardanti fallimenti, ecc.) eppure fondamentale per comprendere - come mostrano gli studi sull'Inghilterra tra il Sei- e il Settecento - il passaggio dai grandi centri di mecenatismo al mercato, dal grande collezionismo al collezionismo diffuso che accompagnò l'espansione dei consumi, l'ascesa delle nuove professioni e l'affermarsi della moderna società borghese.
Nell'Ottocento e nel Novecento il collezionismo si diffonde, contribuendo ad alimentare numerosi musei e fondazioni e a sostenere il mercato dell'arte.
Dagli onnicomprensivi 'teatri del mondo' seicenteschi, dalle grandi gallerie di quadri, dalle raccolte di antichità, dalle ammiratissime collezioni di calchi di statue classiche discendono e nascono le prime collezioni pubbliche cui illuministi e rivoluzionari conferiranno il compito di educare moralmente e culturalmente i visitatori: "Non ingannatevi cittadini - dichiarerà Jean-Louis David - il museo non è una vana raccolta di oggetti di lusso e di frivolezze che non devono servire che a soddisfare la curiosità. Bisogna che divenga una grande scuola".
Il grande museo moderno nasce con la Rivoluzione francese come risposta agli attacchi iconoclastici rivolti contro le immagini indissolubilmente legate all'ancien régime, ma da taluni ormai considerate parte del patrimonio culturale del paese e dell'umanità intera; una risposta che permette, attraverso l'estraniazione dal contesto, di trasformare le valenze delle immagini e di esorcizzarne il potere di dominazione simbolica. Nello stesso tempo il museo offre una parziale soluzione alla confisca delle collezioni reali e nobiliari e alla secolarizzazione dei beni ecclesiastici e risponde alla volontà napoleonica di fare di Parigi la capitale dell'Europa, rendendola depositaria dei tesori artistici del continente. Da una parte nasce il Musée des monuments français, dove Alexandre Lenoir raccoglie opere e monumenti in pericolo e suggerisce, attraverso uno studiato percorso espositivo, l'evoluzione della storia culturale della nazione, illustrata dai manufatti artistici, dall'altra prende forma il grande Louvre di Napoleone, che doveva riunire quanto l'Europa aveva prodotto di più bello e di più maestoso.
L'immenso sviluppo del museo, che implica, fra l'altro, la nascita e la crescita di nuove professionalità, di nuovi ruoli e di nuove specializzazioni, è una prova della crescente centralità dell'arte nella cultura ottocentesca. Il XIX secolo, che vedrà proliferare e diffondersi il collezionismo privato (v. Haskell, 1976 e 1987), da cui nascono i grandi musei americani, sarà per eccellenza l'epoca del museo, scuola di virtù morali, ma anche di tecniche e di gusto, macchina per viaggiare nel tempo ("Quando dico al mio cocchiere 'portami all'hôtel de Cluny' è come gli dicessi di portarmi nel XIV secolo" scrive nel 1834 un visitatore della celebre collezione parigina De Sommerard, dedicata alle testimonianze artistiche del Medioevo), repertorio universale di modelli per l'artigiano, l'artista, il designer, prima di divenire una sorta di tempio che santifica quello che ospita.Isola di salvezza per le opere minacciate dai grandi mutamenti contemporanei, il museo è per eccellenza lo spazio della decontestualizzazione e il luogo dove si celebra e si verifica il cambiamento di funzione delle opere provenienti dai contesti più svariati; esso svolge un ruolo capitale nella formazione dell'aura che circonda le opere d'arte, nel loro riconoscimento come tali, nei meccanismi dell'informazione e del mercato, nella legittimazione, sacralizzazione e spettacolarizzazione delle attività artistiche contemporanee. La straordinaria fioritura di musei nuovi o rinnovati in tutta l'Europa, in Giappone e in America negli ultimi vent'anni, la varietà delle tipologie, la rilevanza e l'impegno degli architetti che vi hanno lavorato, l'immagine che ne è stata trasmessa, la pluralità dei ruoli svolti testimoniano del crescente peso del museo nel campo artistico.
Il pubblico dell'arte è vastissimo perché comprende non solo i contemporanei alla produzione delle opere, ma anche le generazioni che per secoli le hanno continuamente reinterpretate, apprezzandole o meno."Lo storico dell'arte che facesse la storia dei soli artisti si comporterebbe come uno storico dell'economia che considerasse operatori economici soltanto i produttori e non i consumatori", scrive G.C. Argan (v., 1969), ma, mentre nella storia letteraria la ricerca sul pubblico, sul possesso dei libri, sulla composizione delle biblioteche, sulle forme della lettura è stata, specie negli ultimi tempi, largamente praticata, nella storia dell'arte la ricerca sui modi della ricezione si è limitata a occuparsi della fortuna di questo o quell'artista, questo o quel momento, questo o quello stile.Uno studio pionieristico è stato quello che Willy Martin (v., 1908) ha dedicato al gusto per la pittura del pubblico olandese del Seicento. In esso, utilizzando testimonianze di vario tipo, Martin ha seguito lo slittamento in direzione di un gusto più aristocratico manifestatosi verso la metà del secolo. La situazione olandese del tempo era del tutto particolare per la diffusione della pittura anche in abitazioni modeste, fatto testimoniato con stupore da molti viaggiatori dell'epoca: nel diario di John Evelyn come nelle osservazioni di B. de Monconys o di Descartes.
Il pubblico dell'arte è più difficile da valutare di quello letterario, perché è composto, sì, da committenti di diverso tipo, dai possessori di opere, da collezionisti grandi, piccoli o infimi, ma comprende anche i fruitori non proprietari. Si tratta del pubblico che fruisce delle opere d'arte accessibili a tutti o a molti (il problema dell'accessibilità delle opere e i fenomeni di privatizzazione e di pubblicizzazione che si sono verificati in determinati momenti sono elementi capitali in questa vicenda e assai poco studiati), che le apprezza e le interpreta secondo criteri, modi, abitudini ancora da definire. Chi entra in una chiesa o in un palazzo, chi cammina per una strada cittadina, chi frequenta un museo o una mostra ne fa evidentemente parte. Si tratta di pubblici diversi: i modi di rivolgersi alle opere di coloro che, entrati in una chiesa per partecipare al culto, ne guardano le vetrate, le pitture o le sculture, sono diversi da quelli del gruppo che visita un salon settecentesco (v. Crow, 1985). Per valutare la composizione e le reazioni del pubblico dell'arte si tratterà di utilizzare, se possibile, inchieste, questionari (v. Bourdieu e Darbel, 1969) e dati statistici; per le situazioni del passato, però, si dovrà fare appello a una sorta di archeologia del giudizio che va al di là della storia del gusto per diventare una storia delle esperienze e delle abitudini percettive, una sorta di storia sociale dei sensi.Michael Baxandall (v., 1972 e 1980) ha dedicato una parte importante delle sue ricerche sulla pittura italiana nel Quattrocento e sulla scultura lignea del Rinascimento in Germania proprio alla ricostruzione dei modi di vedere del tempo, attraverso una vasta indagine che non si limita alle sole testimonianze sulle arti visive, ma le integra e le interpreta con gli atteggiamenti verso altri campi dell'esperienza sensoriale, quali la geometria, la danza, la calligrafia, la musica, cercando di ricostruire quello che Lucien Febvre chiamava l'"outillage mental" di un particolare periodo. D'altra parte è foriero di equivoci parlare in modo unitario di un pubblico che come unità non è mai esistito. Una differenziazione dei pubblici comporta una distinzione di circuiti e di codici: questo è un discorso corrente nell'analisi dei pubblici della letteratura, ma non è abbastanza praticato dagli storici dell'arte.
C'è un terreno dove il discorso sul pubblico si incontra fatalmente con quello sulle opere ed è il terreno delle funzioni, una problematica per molto tempo trascurata, cui da un certo tempo viene dedicata un'attenzione particolare (v. Belting, 1983).Episodi significativi nella storia delle immagini, come le vampate di iconoclastia che si sono a più riprese scatenate - quelle dei secc. VII-VIII nell'Impero bizantino, quelle cinquecentesche occasionate dalla Riforma in Germania, Francia e Paesi Bassi, quelle legate alla Rivoluzione francese, quelle che si manifestano a intermittenza anche oggi nei confronti di opere contemporanee (v. Gamboni, 1989) o di celebri opere del passato (v. Freedberg, Iconoclasm..., 1989) - sono divenuti da qualche tempo oggetto di interesse per gli storici dell'arte (v. Warnke, 1977). Le ripetute distruzioni di opere figurative verificatesi in diversi momenti storici dovrebbero dimostrare che la posta in gioco attorno alle immagini era assai alta e che esse potevano essere fieramente avversate da una parte del pubblico come strumenti di dominazione e di oppressione simboliche. Questa constatazione ripropone il problema della composizione del pubblico, che non costituisce una categoria omogenea non solo nel tempo ma neppure nello stesso momento e nello stesso luogo.
Non sono molto numerose le ricerche dedicate alla figura dell'artista; oltre a quella di Kris e Kurz (v., 1934), sono da citare quelle di R. e M. Wittkower (v., 1963), di E. Camesasca (v., 1966), di Peter Burke (v., 1979), di Alessandro Conti (v., 1979), di N. Heinich (v., 1990) e alcune altre dedicate a singole situazioni: l'artista nella società tribale, l'artista nell'antica Grecia, l'artista medievale (v. Martindale, 1972; v. Castelnuovo, 1987), l'artista nel momento di passaggio dalle botteghe alle accademie, l'artista e le rivoluzioni politiche (v. Clark, 1973), l'artista contemporaneo (v. Moulin e Passeron, 1985). Abbondano, per contro, monografie sui singoli artisti, il cui scopo precipuo è però generalmente quello di precisarne il catalogo. Criticando la preponderanza del monografismo nella storia dell'arte George Kubler (v., 1962) scriveva: "La vita di un artista costituisce senza dubbio un'unità a sé stante. Quando però se ne fa l'unità fondamentale di studio in una storia dell'arte, si cade in un errore simile a quello di chi pretendesse di discutere del sistema ferroviario di un certo paese basandosi unicamente sull'esperienza fattane da un solo viaggiatore su alcune linee di quella rete".
Recentemente Jacques Le Goff ha suggerito una via d'uscita da questa situazione, intervenendo sul tema della biografia e delineando in termini empirici e autobiografici i problemi che si trovava ad affrontare nel suo studio su s. Luigi. Secondo il modello proposto, la biografia dovrebbe essere un luogo di osservazione che, attraverso l'analisi dei documenti e delle fonti, permetta di accedere a una conoscenza approfondita delle strutture sociali e dei comportamenti collettivi di un'epoca. Potrà essere questo un criterio per selezionare quegli studi sugli artisti che contribuiscono a delineare la storia dell'attività e della professione e a far conoscere il più vasto contesto entro il quale l'artista si inserisce e sul quale agisce.
Porre l'artista al centro dell'analisi vuol dire: a) studiarne la provenienza familiare, l'educazione, l'apprendistato, lo sbocco professionale, il tipo di rapporto lavorativo, il reddito, il luogo di lavoro, l'organizzazione della bottega (v. Tietze, 1939), del cantiere, dello studio, i dipendenti, il modo di abitare, gli investimenti, il patrimonio, i lasciti testamentari, la vendita dei beni; b) ricostruirne la cultura e la formazione, i maestri, gli studi, i viaggi, le letture, le amicizie, gli oggetti posseduti, i libri, le opere d'arte; c) individuarne la posizione all'interno della professione, i premi, le partecipazioni a mostre, l'immagine che emerge dai commenti e dall'aneddotica; d) delinearne i tratti psicologici, mettere in evidenza certe costanti del suo carattere o sottolinearne i mutamenti, enucleare la visione che egli aveva di se stesso e i rapporti affettivi che stabiliva con gli altri, attraverso memorie, corrispondenze, autoritratti, ritratti di familiari e amici; e) confrontarlo con altri artisti e confrontare la sua professione con altre professioni esercitate dai suoi contemporanei.
Momenti fondamentali nella 'filogenesi' dell'artista sono il suo specializzarsi come artigiano e, poi, il suo staccarsi dalla sfera del semplice artigianato per assumere una posizione e una professionalizzazione particolari. Questo processo avviene solo in alcune società e dipende dall'evoluzione sociale e dalla divisione del lavoro; inoltre molte cause possono accelerarlo o ritardarlo. In Cina un tale processo si verificò, per quanto riguarda la pittura, agli inizi della nostra era volgare. I pittori del primo periodo della dinastia Han (202 a. C.-9 d. C.) sono gente umile; più tardi invece troviamo annoverati, tra i pittori, importanti funzionari imperiali e intellettuali: un fatto che mostra la piena legittimazione della professione e la sua collocazione tra le attività che un potente o un intellettuale potevano svolgere. La diffusione della dottrina confuciana e il fatto che essa fosse accettata e praticata dai gruppi egemoni (l'adesione a tale dottrina costituiva addirittura un prerequisito per poter accedere alle più alte cariche burocratiche) propagarono il rispetto per la cultura, la letteratura e le arti. La descrizione, nel Kāmasūtra, della camera di un aristocratico, dove, accanto a un liuto appeso a un muro e a un libro, compaiono una tavola per dipingere e una scatola piena di colori e di pennelli, suggerisce come anche in India l'esercizio artistico potesse far parte dell'educazione di un personaggio altolocato.La considerazione che veniva accordata all'artista dilettante non comportava tuttavia che una analoga stima venisse automaticamente accordata al professionista. Per lungo tempo calligrafia e pittura, strettamente unite (e questo legame con la scrittura è una delle cause del posto elevato, nella gerarchia delle tecniche, occupato dalla pittura), si svilupparono in Cina all'interno di una casta di letterati e di grandi burocrati che le praticavano come dilettanti (v. Li e Watt, 1987). Il rango sociale e la ricchezza che derivavano loro dagli incarichi amministrativi li liberavano dal rapporto di subordinazione con il committente. La libertà e la superiorità dell'artista dilettante vennero magnificate dalla letteratura artistica (v. Bush e Murck, 1983); nell'XI secolo, definendo le migliori condizioni di creatività in cui avevano lavorato i pittori cinesi, Kuo Jo-hsu scriveva: "Alla mia umile maniera ho osservato che la maggior parte delle grandi opere del passato sono state create da persone di talento che occupavano un'alta posizione o da gentiluomini di rango che vivevano ritirati nella solitudine e che hanno seguito i dettami della cortesia e cercato il piacere nelle arti" (v. Soper, 1951).
Non tutti i pittori erano però dilettanti: ve ne erano di notevole talento che avevano botteghe e studi nelle città e che erano considerati una sorta di artigiani. D'altra parte lo sviluppo, sotto la dinastia Song (secc. X-XIII), di accademie e scuole di corte volute e sovvenzionate dagli imperatori ebbe come effetti una certa professionalizzazione dell'attività di pittore e l'instaurarsi di un rapporto diretto tra l'imperatore e i suoi artisti. Dopo che i Mongoli, alla fine del Duecento, si furono impadroniti della Cina meridionale, il sistema accademico fu ripreso e incoraggiato da Kubilay Khan. Molti artisti si rifiutarono allora di lavorare per la dinastia straniera, ma vi fu chi lo fece. Una volta ristabilita una dinastia nazionale, si manifestò una rigida reazione aristocratica che condannò l'istituto stesso dell'accademia e ogni genere di sovvenzione governativa e praticò una sorta di damnatio memoriae, non menzionando neppure alcuni dei più celebri artisti Song (tra i massimi della storia della pittura cinese), considerati compromessi con forme condannabili di professionismo. Ai tempi della dinastia Ming questi giudizi erano punti fermi nella riflessione sull'arte del pittore, calligrafo, conoscitore e storico dell'arte Dong Qichang.
Il fenomeno ha altro svolgimento nel mondo classico (sulla posizione dell'artista in Grecia v. Coarelli, 1980), dove, accanto a un interesse per le opere d'arte, che si manifesta in giudizi estremamente positivi, in forme di accanito collezionismo, in investimenti rilevantissimi, nello sviluppo (in Grecia molto più che a Roma) di una storiografia artistica, nel fatto che molte fonti tramandino nomi di artisti esprimendosi nei confronti di alcuni di essi in termini particolarmente ammirati, permane tuttavia il disprezzo per il lavoro manuale cui l'operare artistico è equiparato. È questo atteggiamento che porta al celebre passo della Vita di Pericle di Plutarco, che distingue tra il piacere procurato dalla vista di un'opera e il disprezzo per il suo artefice: "Mai fino a oggi davanti allo Zeus olimpico e alla Hera di Argo si è risvegliato in un giovane nobile e ben dotato il desiderio di divenire anch'esso un Fidia o un Policleto" (v. Gilli, 1988).
D'altro canto, nella Roma classica, la straordinaria importanza attribuita alle immagini come strumento di potere, a partire dall'età augustea (v. Zanker, 1987), non ha conseguenze sulla posizione sociale dell'artista.
Strettamente legata al prestigio di cui gode l'artista è la sua firma. La firma è un indizio significativo dell'autocoscienza dell'artista e del riconoscimento della sua individualità e dei suoi modi espressivi da parte dei committenti e del pubblico.
I primi nomi di artisti ci giungono da aree del Mediterraneo e dell'Estremo Oriente pervenute a un certo grado di sviluppo e a una certa laicizzazione dell'attività figurativa: "In termini molto generali si potrebbe dire che la sollecitazione a nominare il creatore di un'opera d'arte indica che tale opera non svolge più unicamente una funzione religiosa, rituale, o, in senso lato, magica, che non serve più per un solo scopo, ma che il suo pregio è ormai, fino a un certo punto, svincolato da tali rapporti di funzionalità" (v. Kris e Kurz, 1934).
La firma dell'artista, diffusa nell'antichità in Grecia, ma assai meno a Roma, viene apposta, per quanto riguarda la pittura, con continuità in Cina, in modo assai più sporadico e frammentario in India (dove il proliferare delle firme, accompagnato da importanti forme di collezionismo, caratterizzerà più tardi l'Impero moghūl) e regolarmente, secondo notizie recenti, a opere appartenenti al periodo classico Maya, verso il 950 d. C. Durante il primo Medioevo la firma dell'artista sparisce dall'Europa occidentale, per poi riapparire in Italia a partire dall'VIII secolo in opere di scultura e di oreficeria: Magister Ursus firma con i suoi collaboratori una lastra incisa a Ferentillo; l'orafo Vuolvinio, nel IX secolo, firma l'altare d'oro di Sant'Ambrogio di cui è autore. Agli inizi del XII secolo un nuovo atteggiamento verso l'artista si fa strada in Italia; a Pisa e a Modena iscrizioni elogiative poste sulle mura delle nuove cattedrali ne lodano i rispettivi autori: gli architetti Buscheto e Lanfranco. La lapide modenese vanta la chiesa e ne celebra l'architetto, famoso per il suo ingegno, dotto e capace, che dell'opera è capo, rettore, maestro. La tomba di Buscheto, architetto della cattedrale di Pisa, è murata nella facciata dell'edificio, coperta da un'epigrafe che tesse le lodi dell'artista. A giudicare dalle firme e dalle iscrizioni, i committenti celebravano i nomi degli artisti che avevano lavorato alle imprese da loro promosse, sottolineandone la capacità e la dottrina come qualità che portavano lustro a loro stessi e alla città. Relativamente frequente nell'opera di scultori e di orafi, la firma non appare spesso nel caso di pittori, anche se in Italia, nel XIII secolo, le firme dei pittori apposte a opere su tavola non sono rare. Nello stesso secolo, in Francia, la firma dello scultore scompare completamente, per lasciar posto, nelle grandi cattedrali gotiche, al nome dell'architetto, a indicare il ruolo di grande importanza che questi ricopre nei nuovi cantieri, dove progetta l'edificio e coordina l'attività dei diversi specialisti: scultori, pittori, maestri vetrai, orafi, carpentieri, ecc. Quella dell'architetto è la prima figura di artista che assume un rilievo particolare nella società medievale e a essa è stato dedicato il maggior numero di studi (v. Kostof, 1977).
Contro l'offensiva della scolastica, che ribadisce il pregiudizio nei confronti delle arti meccaniche, Pierre de Montreuil, architetto di alcune delle maggiori imprese parigine del Duecento, è chiamato nella sua lastra tombale 'doctor lathomorum' e Hugues Libergier è raffigurato a Reims vestito con una sorta di toga magistrale e con in mano il modello della chiesa da lui progettata, privilegio sinora riservato ai committenti. Le due lunghe iscrizioni autobiografiche di Giovanni Pisano sul pulpito della cattedrale di Pisa - l'una in cui si esprimono le idee sull'arte e sulla creatività, considerata come un dono divino, e l'altra una sorta di personale apologia che rievoca le critiche ingiuste che dovette sopportare - annunciano già una nuova posizione per l'artista. Questi aveva trovato posto nel sistema delle corporazioni, spesso confuso con altre categorie di artigiani, ma le vie che gli permetteranno di uscire dalla sua condizione di inferiorità saranno altre: da una parte l'ingresso nel sistema delle corti, dall'altra l'alleanza con gli intellettuali e i letterati, custodi e legislatori di quel campo privilegiato cui per secoli solo i cultori delle arti liberali avevano avuto accesso.
Il termine 'doctor', che compare sulla tomba dell'architetto Pierre de Montreuil, era stato già usato per l'autore del grande mosaico duecentesco sulla facciata della cattedrale di Spoleto - "doctor Solsternus / hac summus in arte modernus" - e termini come 'doctus' o 'doctissimus' indicano scultori e lapicidi tra il XII e il XIII secolo: "il pollice dotto" dello scultore Gerardus a Milano e "la dotta mano" di Nicola Pisano sono espressioni usate per forzare retoricamente il ghetto delle arti meccaniche. Un'autentica sanzione della nuova situazione è rappresentata dal passo di Dante in cui i nomi di due pittori, Cimabue e Giotto, e di due miniatori, Oderisi e Franco Bolognese, vengono accomunati a quelli di due letterati. Nel corso del Trecento i letterati fiorentini si impadroniscono della figura di Giotto, la cui arte innovatrice andava conoscendo una straordinaria accoglienza europea, fino a farne un loro pari, un artista che appartiene a un'élite e che da questa élite è compreso. Verso la fine del secolo Filippo Villani includerà Giotto e altri pittori nell'elogio degli uomini illustri della propria città "stimando molti non a torto che certi pittori non fossero inferiori di ingegno a coloro che furono maestri nelle arti liberali".Questo processo di rivalutazione continuerà nel corso del Quattrocento, mentre, d'altra parte, patrocinando imprese artistiche e stabilendo legami privilegiati con artisti, le corti di Borgogna, di Francia, di Napoli, d'Aragona, quella imperiale e quella papale, nonché diversi centri italiani contribuiranno a eludere le strettoie dei regolamenti corporativi e a modificare l'immagine stessa dell'attività artistica. La straordinaria posizione raggiunta da artisti quasi divinizzati, come Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Tiziano; il sorgere di una vera e propria letteratura artistica, che trova il suo culmine nelle Vite del Vasari, prima grande pubblicazione dedicata a biografie di artisti; la costituzione, sul finire del Cinquecento, di accademie artistiche specifiche e autonome contribuiscono a modificare radicalmente la situazione. Un artista come Rubens sarà un grande collezionista, un diplomatico, un fine intenditore, all'occasione un acquirente per conto d'altri di opere importantissime e avrà un altissimo tenore di vita (v. Muller, 1989).
Molteplici studi sono stati dedicati ad artisti olandesi del Seicento, a partire almeno dai già citati studi di Willy Martin. In effetti nell'Olanda del Seicento i rapporti tra artisti e società si presentano con una nettezza particolare e si diversificano da quelli in atto nella parte dei Paesi Bassi rimasta cattolica e imperiale dopo la secessione politica e religiosa della fine del Cinquecento. Esemplare la monografia di Montias (v., 1989) su Vermeer, biografia e al tempo stesso microanalisi documentaria della vita urbana e della professione d'artista, illustrazione di piccoli mondi separati e distinti che convergono illuminando la vita e l'attività dell'artista, la sua produzione, l'accoglienza riservata alle sue opere. Studi recenti su Rembrandt (v. Schwartz, 1984; v. Alpers, 1988) vanno anch'essi nella direzione di una storia sociale dell'artista e della sua produzione.
Con le rivoluzioni politiche, sociali, economiche e tecnologiche della fine del Settecento, la posizione dell'artista subisce bruschi mutamenti. In Francia Jean-Louis David, con la sua multiforme attività di politico, di pittore, di creatore di nuove iconografie, di regista di inedite forme artistiche collettive, occupa un posto radicalmente nuovo.
Di fronte alla crisi del vecchio sistema di committenza e di produzione, gli artisti iniziano a legarsi in gruppi, comunità, movimenti. D'altra parte si accentuano e si precisano certe forme di comportamento: è questo il momento della nascita dell'artista bohémien (v. Levitine, 1978). In Francia il sistema delle esposizioni pubbliche (i salons dell'Accademia, succedutisi con una certa irregolarità a partire dal 1667, dal 1725 cominciano a essere allestiti ogni due anni), legato all'insegnamento e alle giurie accademiche, propone agli artisti ormai professionalizzati uno sbocco diverso da quello artigianale della bottega, e a un pubblico sempre più vasto e a una domanda in aumento un crescente numero di opere. Nel corso dell'Ottocento all'interno della cultura romantica si sviluppa anche per gli artisti l'ideologia della vocazione, del genio, che spinge all'adozione di certe forme di comportamento sociale che già si erano manifestate in un gruppo di pittori fiorentini in un altro periodo di crisi: nel primo Cinquecento. Numerose si fanno le reazioni al sistema ufficiale, finché emerge con chiarezza il contrasto tra due strategie: quella di coloro che puntano alla grande diffusione e quella di chi invece mira a una diffusione limitata e selezionata. Incuranti dei favori del grande pubblico, coloro che si considerano d'avanguardia rifiutano il successo commerciale ottenuto attraverso gli abituali circuiti e, sempre sotto il segno della distinzione e dell'innovazione, cercano la propria legittimità non nel consenso accademico ma nell'approvazione di un piccolo gruppo di intellettuali, di cui condividono giudizi e valori, e nell'appoggio di singoli mercanti. Di fronte alla temporanea crisi delle istituzioni ufficiali, i critici, divenuti 'produttori di valore', artefici della consacrazione e della diffusione delle opere, stringono con i mercanti legami sempre più stretti fino a costituire un vero e proprio sistema (v. White e White, 1965) che governa il mercato.Il dilatarsi e il crescere d'importanza dell'universo dei media spingeranno poi l'artista medesimo a sviluppare nuove strategie.
Lo studio delle tecniche può svelare importanti aspetti del rapporto tra arte e società; tuttavia, sia a causa della svalutazione del mestiere verificatasi nel corso della reazione antiaccademica novecentesca, sia in opposizione a un certo determinismo di pensatori come Gottfried Semper, che avevano legato troppo strettamente tecniche, materiali ed esiti formali, sia, soprattutto, a causa della reiterata affermazione dell'onnipotenza dell'artista, per cui ogni vincolo tecnologico costituirebbe una limitazione, le tecniche non hanno ricevuto un'attenzione sufficiente al di fuori di un ambito strettamente specialistico.
Gombrich (v., 1989) ha notato recentemente come, nel campo della pittura, le vicende attraverso cui si è giunti alla soluzione di determinate difficoltà, alla risposta a certe sfide, siano state per lo più trascurate. Mentre ci si è occupati molto della rappresentazione dello spazio, a causa certamente del fatto che nella prospettiva è stata riconosciuta una forma simbolica che può caratterizzare il modo di sentire e di pensare di un certo tempo, pochissimo ci si è occupati della resa della luce o della superficie della materia. Scarso interesse è stato in ultima analisi riservato ai problemi dell'abilità tecnica, tanto apprezzata nel passato quanto poco indagata oggi. Eppure, se attualmente abbiamo l'abitudine di classificare le opere attraverso la loro appartenenza a uno stile, per molti secoli il criterio di classificazione fu proprio quello della tradizione tecnica propria di determinati centri: lo dimostra la terminologia degli inventari medievali, in cui si parla di "opus lemovicense", di "opus veneticum", di "opus romanum", di "opus atrebatense", di "opus lucense", e via di seguito, per indicare un certo tipo di smalto, di oreficeria, di arazzo, di tessuto. Anche il celebre "opus francigenum", termine con cui è stata indicata la costruzione gotica, venne inteso come una specialità tecnica in cui aveva larga parte un certo modo di tagliare e montare le pietre più che come uno stile quale oggi lo intendiamo. Interessanti da questo punto di vista gli studi di Kimpel (v., 1977) sulla costruzione gotica e in particolare sugli inizi della standardizzazione nel taglio della pietra, in cui le vicende della tecnica riflettono problemi economici e sociali.
Nella tradizione anglosassone gli studi sulle tecniche - in particolare sulle tecniche costruttive - nei loro aspetti sociali hanno sempre avuto una certa importanza, specie quelli riguardanti la costruzione medievale (v. Knoop e Jones, 1933). Un libro esemplare è stato quello di John Summerson (v., 1945) sulla Londra georgiana, che andava alle radici della prassi costruttiva del periodo. Esso si soffermava sul tipo di mattoni utilizzati, sull'uso della pietra artificiale, sulla sua invenzione, sullo sfruttamento della patente che ne autorizzava la produzione, evocava i vincoli imposti alla fabbricazione di porte e finestre dalle norme approvate dal Parlamento, presentava gli architetti come costruttori edili e soci in affari degli industriali della pietra artificiale e i committenti come speculatori, costruttori, sfruttatori dei terreni da cui si ricavavano i materiali per l'edilizia. Al centro di quest'opera, che certo non si esauriva nella trattazione di problemi relativi ai materiali e alle tecniche, c'era il problema dei vincoli tecnologici nel loro rapporto con la produzione artistica.Altra ricerca stimolante è quella di Goldthwaite (v., 1980) sull'edilizia fiorentina nel Rinascimento. L'architettura è un'arte con forti vincoli tecnologici ed è dunque in questo campo che troviamo le trattazioni più ampie e mature dei problemi che riguardano materiali e tecniche, per l'epoca romana come per il Medioevo, per il Rinascimento e per l'età moderna, nella quale le possibilità del cemento armato hanno suscitato studi significativi come quello di Peter Collins (v., 1959).
La scultura, che per l'uso dei medesimi materiali e di analoghi strumenti di lavorazione ha molto in comune con l'architettura, è stata fatta oggetto, in questi ultimi anni, di importanti contributi. Un esempio di questi lavori è la sintesi fatta da Jennifer Montagu (v., 1989) dei problemi riguardanti le tecniche, i materiali e la loro lavorazione nella scultura barocca romana, magistrale ricostruzione dei diversi elementi relativi all'organizzazione di una vera e propria industria.Altre ricerche che hanno messo nel dovuto risalto il ruolo delle tecniche, con le loro potenzialità e le loro limitazioni, hanno riguardato la pittura e in primo luogo l'affresco, che, grazie alle grandi campagne di restauro e di stacco del dopoguerra e alla clamorosa scoperta delle sinopie - vale a dire dei disegni preparatori nascosti sotto l'intonaco -, ha conosciuto una grande fortuna negli anni sessanta (Meiss, Gombrich; v. anche Borsook, 1960). Sono state studiate anche la miniatura e l'illustrazione di manoscritti, dove Otto Pächt (v., 1984) ha saputo leggere in modo sottile i complessi rapporti tra la pagina scritta e l'immagine. Un caso particolare, quello delle pitture fiamminghe su tela del Quattrocento, è stato recentemente oggetto di un'analisi esauriente (v. Wolfthal, 1988).
Punto di partenza e di arrivo della riflessione dello storico dell'arte, le opere sono un deposito di relazioni sociali (Baxandall), il punto d'incontro delle strade percorse dall'artista, dalle tecniche, dai committenti, dal pubblico. Una volta compiute, le opere vivono nel tempo (v. Girouard, 1978), fatte oggetto di un ripetuto filtro sociale, reinterpretate, riviste, rivisitate. La storia della loro genesi ha un limite preciso: il compimento; più protratta nel tempo è quella della loro ricezione. Attraverso le due storie si pratica la lettura dell'opera.
Significativa, da questo punto di vista, la constatazione, tante volte ripetuta, della permanenza del richiamo esercitato da certe opere anche dopo che la società in cui sono nate è scomparsa e i modi di vedere e di pensare dei suoi produttori sono stati dimenticati (il giovane Marx affrontò la questione a proposito della pretesa perennità dell'arte greca). Il destino e la ricezione di un'opera possono essere estremamente rivelatori dei mutamenti di funzioni che ha conosciuto l'intera produzione artistica. Il problema della estraniazione e della decontestualizzazione delle opere è per molti aspetti un problema moderno che va in parallelo con l'autonomizzazione del campo artistico.
Proviamo a considerare il destino di un'opera d'arte trecentesca, di un polittico dipinto, composto da diverse tavole, provvisto di una predella, di pilastri, di cuspidi, di fastigi, che si ergeva un tempo sull'altar maggiore di una chiesa e che oggi, smembrato nelle sue parti, è conservato in differenti musei e collezioni. Le tavole dipinte con immagini di santi o con storie della loro vita sono state fisicamente separate le une dalle altre; con la decontestualizzazione e lo smembramento si sono smarriti il senso e l'unità del messaggio iconografico e si sono perse, nello stesso tempo, l'integrità e la complessità dell'opera che, nata dalla confluenza di diverse tecniche - pittura, disegno architettonico, carpenteria -, viene a essere ridotta alla sola dimensione della pittura. Le parti smembrate trovano accoglienza, dopo un passaggio sul mercato, in musei e collezioni dove vengono proposte all'attenzione come opere autografe del tale o talaltro artista. Per molto tempo le possibilità di sopravvivenza si sono giocate sul frammento e attraverso il frammento (rivelatore da questo punto di vista il concetto di musée imaginaire di André Malraux) e non solo per capolavori dell'arte classica, ma per opere appartenenti a epoche diverse e lontane, cui la funzione puramente artistica conferita dalla nuova contestualizzazione museale assicura un richiamo diverso da quello originario, ma ancora operante, proprio grazie al mutare delle funzioni, attraverso il tempo e lo spazio.Particolare interesse per intendere il modo in cui si guardava alle opere e i compiti loro affidati ha lo studio dei generi artistici e della loro gerarchia (v. Fortini Brown, 1988). L'emergere del ritratto, l'affermarsi di una pittura rivolta alle forme della natura, l'attenzione riservata alla resa di un paesaggio particolare e caratterizzato illustrano la funzione conoscitiva svolta dalla pittura tra la fine del Trecento e gli inizi del Cinquecento (v. Romano, 1978). Successivamente, in seguito alla nascita e allo sviluppo delle accademie, alla loro conquista del monopolio dell'insegnamento e alla conseguente professionalizzazione delle attività artistiche, la situazione mutò: si arrivò a una sorta di sistemazione istituzionale; per quanto riguarda la pittura, in particolare, si precisò una gerarchia al cui livello più alto era posta la riproduzione di scene storiche e in posizioni inferiori il paesaggio, il ritratto, la natura morta. Nel contempo si verificò una separazione tra pittura e illustrazione scientifica: quest'ultima continuò a perseguire quell'indagine conoscitiva che non era stata prima distinta dagli altri compiti della pittura. Qualche opposizione al sistema dei generi ideato e imposto da critici e da intellettuali venne dagli artisti; il Caravaggio, per esempio, sostenne che per lui il dipingere non conosceva distinzioni di contenuti, "che tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori come di figure" (Vincenzo Giustiniani, Lettera sulla pittura). Significativo è il fatto che analoghe distinzioni si ritrovino nella gerarchia dei generi applicata dalla Académie Royale francese (storia, ritratto, animali, paesaggio, natura morta, ecc.) come, molti secoli prima, nella precettistica accademica cinese (Buddha, uomini, paesaggi, uccelli, fiori). Queste categorie, ancora utilizzate nei salons ufficiali dell'Ottocento, vennero messe in crisi dal tramonto del sistema accademico e dalla priorità attribuita all'azione dell'artista.
Committenza e mercato sono i due destinatari cui si indirizza l'offerta dell'artista. A lungo sono coesistiti, prevalendo ora l'una ora l'altro secondo i periodi e le aree, fino a quando, nel corso degli ultimi due secoli, il mercato non ha preso il sopravvento.Il mercato non è stato sufficientemente studiato fino a tempi recenti. Nel 1980 Baxandall ha fatto del problema del mercato un punto centrale del suo libro sulla scultura lignea tedesca del Rinascimento. Nel 1982 Montias è intervenuto sull'organizzazione del mercato della Delft del Seicento. Successivamente Marianne Grivel (v., 1986) ha studiato nei suoi vari aspetti il mercato delle stampe nella Parigi del XVII secolo e Svetlana Alpers (v., 1988) ha analizzato le strategie di Rembrandt rispetto al mercato. Precedentemente molte ricerche pionieristiche (come quella di Floerke sul mercato olandese del XVII secolo o quella di Denucé sull'esportazione di dipinti da Anversa da parte della casa Forchoudt) erano rimaste isolate, a causa degli indirizzi prevalenti nella storiografia artistica, attenti soprattutto alla descrizione del catalogo di un artista e alla sua rivalutazione.
Due sono i principali mercati artistici: quello delle opere contemporanee e quello antiquariale (quello delle opere prodotte per il mercato e quello delle opere che passano attraverso il mercato pur non essendo state in origine progettate per questo scopo). Una simile distinzione non deve far dimenticare che tra i due mercati sono sempre esistiti stretti contatti. Per molti secoli gli artisti hanno lavorato prevalentemente su commissione. Il mercato d'arte, già esistito in epoca classica, ricomincia a delinearsi, per quanto riguarda l'ambito europeo, nel corso del Trecento. La contessa Mahaut d'Artois acquista nel 1328 opere dipinte romane; un ricco trevigiano, Oliviero Forzetta, annota nel 1335 la sua intenzione di acquistare a Venezia due antiche sculture romane, un gruppo di disegni di animali fatti da un pittore già morto di nome Perenzolo e alcune opere di Paolo e Marco Veneziano; il celebre mercante di Prato Francesco Datini vendeva occasionalmente ad Avignone tavole dipinte che faceva acquistare a Firenze; il pittore Hugues di St. Albans menziona nel 1362 nel suo testamento un piccolo polittico lombardo dichiarando che gli era costato venti sterline. Tutto questo ci mostra che siamo ormai di fronte a un mercato che funziona sia per opere contemporanee sia per prodotti più antichi, un mercato già presente in precedenza per molti prodotti di piccole dimensioni e quasi seriali, come avori, smalti e oreficerie. Nell'XI secolo un abate di Fleury acquista in Italia oggetti di questo genere. A Baldassarre Embriachi, un fiorentino che morì esule a Venezia, faceva capo, sul finire del Trecento, un vasto commercio di opere d'arte e di oggetti in avorio e in osso che vendeva in tutta Europa (v. Trexler, 1978).
Nel corso del Quattrocento, a Firenze, esiste un vero e proprio mercato d'arte: da una parte molti artisti tengono nelle loro botteghe opere destinate ad acquirenti anonimi, che vengono rifinite e personalizzate solo all'atto dell'acquisto, dall'altra esiste anche un commercio di tipo antiquariale, di cui uno dei protagonisti è quel Giovan Battista della Palla di cui parla il Vasari. Nelle Fiandre, nello stesso periodo, esiste un mercato vincolato dalle regole imposte dalle corporazioni: oltre che per commissioni legate a un contratto, la vendita delle opere avviene attraverso l'intermediazione di agenti, attraverso mostre e vendite pubbliche, lotterie, fiere e mercati (v. Campbell, 1976).In linea di massima quanto più ci si avvicina a una moderna società capitalistica tanto più l'artista tende a lavorare per il mercato, ma le ancor scarse conoscenze al riguardo impediscono una maggiore precisione. Recentissima è, per esempio, la scoperta che la massima parte dei grandi altari lignei eseguiti in Brabante e nelle Fiandre tra il Quattro- e il Cinquecento erano prodotti per il mercato e non per un preciso committente (v. Jacobs, 1989) e che a Norimberga uno dei massimi scultori del tempo, Veit Stoss, destinava al mercato una parte della sua produzione (come faceva, peraltro, anche Dürer). Dal libro dei conti dell'artista apprendiamo, d'altra parte, come Lorenzo Lotto (v., 1969) oltre che su commissione lavorasse anche "per il magazzino", portando propri dipinti alla fiera veneziana della Sensa (Assunta).
La straordinaria accoglienza e l'eccezionale reputazione dell'arte italiana in Europa stimolarono il moltiplicarsi degli intermediari che si occupavano dell'acquisto e dell'esportazione di opere d'arte, come Jacopo da Strada, fornitore delle collezioni imperiali, e lo stesso Pietro Aretino. Alla fine del Cinquecento Anversa è un grande centro del mercato d'arte internazionale ed è qui che si sviluppa quel particolare genere di dipinto che raffigura l'interno di una galleria di quadri (v. Filipczak, 1987). D'altra parte proprio nel luogo e nel periodo più favorevoli al mercato, l'Olanda del Seicento, dove i quadri erano esposti per la vendita all'esterno delle chiese, sulle bancarelle del mercato o nei negozi di merci diverse, dove viveva un autentico mercante d'arte dalle molteplici attività, tale Gerrit Uylenburgh (la cui impresa fallì nel 1675), si è potuto constatare che alcuni artisti (Vermeer, Metsu, van Mieris, Dou) lavoravano esclusivamente per amatori e collezionisti.
La situazione sembra giungere a un punto di rottura nel corso del Settecento, in particolare in Inghilterra. Nella dedica a Giorgio III con la quale si apre l'edizione del 1778 dei discorsi tenuti da sir Joshua Reynolds agli studenti della Royal Academy of Arts si legge: "Consigliare coloro i quali si contendono la liberalità del sovrano è stato per anni il dovere della mia posizione nell'Accademia" (v. Reynolds, 1975). Reynolds fu presidente della Royal Academy dal 1769 al 1790. Dei progetti e delle iniziative che avevano preceduto la nascita dell'accademia era invece stato acerrimo oppositore William Hogarth, che alle regole istituzionalmente sancite, alla cristallizzazione delle idee sull'arte, alla codificazione della pratica e delle carriere artistiche preferiva la libertà del mercato. La carriera di Hogarth, dall'Engraver copyright act del 1735 - il provvedimento che stabiliva per legge i diritti d'autore per gli incisori - alla morte dell'artista nel 1764, è tutta all'insegna della lotta contro il mercato antiquario e per la nascita invece di un moderno mercato dell'arte contemporanea. Emblematica in tal senso The battle of the pictures, incisione nella quale Hogarth denunciava nel 1745 la casa d'aste, con i suoi antichi maestri veri e falsi, come l'istituzione responsabile di una politica che danneggiava gli artisti contemporanei, in particolare coloro che non erano in linea con il gusto per l'antichità classica, il Rinascimento e il grand tour, prevalente tra gli strati superiori della società inglese. Il problema di un mercato per l'arte contemporanea, posto da Hogarth con tanta precocità, restò di attualità.Nel 1808 un altro grande ribelle della pittura inglese, William Blake, polemizzò con il passo di Reynolds, sopra citato, sulla liberalità verso gli artisti (verso coloro, naturalmente, che seguivano i dettami dell'accademia) esclamando: "Liberalità! Non vogliamo liberalità. Vogliamo un giusto prezzo, un valore proporzionato e una generale domanda d'arte!" (v. Blake, 1984).
Posto di fronte alle strettoie del mecenatismo e del grande collezionismo e alle imposizioni dell'accademia, l'artista invoca un allargamento del mercato, unica soluzione che può garantire alla sua arte sopravvivenza e libertà. Non sarà poi questo il caso di Blake, che riuscì a sopravvivere solo grazie all'aiuto di un circolo ristretto di amici, di ammiratori e di intellettuali, ma l'alternativa era posta con chiarezza. Nel frattempo il mercato di opere d'arte del passato si era straordinariamente ampliato: lo scozzese Buchanan, esempio di moderno mercante antiquario, fa schiumare l'Europa dai suoi agenti per radunare opere da vendere in Inghilterra a un pubblico differenziato (v. Brigstocke, 1982). Nell'Ottocento la complessa realtà del mercato artistico trova un'illuminante descrizione nell'Éducation sentimentale di Flaubert nel personaggio di Jacques Arnoux, proprietario dell'Art industriel; nessuna testimonianza - nemmeno le memorie di Ambroise Vollard (v., 1948) - dà un'idea così chiara e sfaccettata della figura del moderno mercante d'arte e della sua multiforme attività, nella quale mercato, intermediazione, pubblicistica promozionale, istituzioni si intrecciano strettamente. Il quadro descritto da Flaubert è il punto dal quale andò poi sviluppandosi una vasta rete di interazioni, che per l'epoca contemporanea trovano un importante punto di riferimento nello studio di Raymonde Moulin (v., 1967). I grandi mercanti che si impegnano nell'appoggiare un pittore o una tendenza svolgono un ruolo analogo a quello dei grandi mecenati del passato: i ritratti di Vollard o di Kahnweiler sono in questo senso significativi come quelli di Leone X o di Filippo II (v. Haskell, 1968). Fenomeni macroscopici, come la rapidissima crescita dei prezzi delle opere di alcuni artisti contemporanei e gli altissimi prezzi raggiunti da opere di artisti del passato, l'unificazione del mercato a livello mondiale, i ruoli convergenti dei media, dei musei, della critica, dei mercanti, che hanno innescato implacabili meccaniche di successo, hanno richiamato l'attenzione sulle nuove caratteristiche del mercato artistico. "Mercato è proprio la parola, è un mercato che ha più a che vedere con il denaro che con l'arte [...]; il mercato dell'arte contemporanea come altri mercati finanziari è diventato globale", constatava recentemente un articolo dell'"Economist".
Corporazioni, club, gruppi, cenacoli, associazioni professionali e sindacati di artisti, accademie pubbliche e private, scuole di disegno, scuole di arti applicate e istituti professionali, società promotrici di mostre, fondazioni, enti e amministrazioni incaricati della tutela dei monumenti, musei privati e pubblici, pinacoteche, gipsoteche, collezioni, case d'aste e gallerie d'arte, sono tutte istituzioni che offrono servizi, di diversi tipi, al settore arte nel suo complesso. Esse si occupano di un buon numero di compiti, dalla legittimazione alla promozione, all'educazione, alla selezione, alla consacrazione, allo scambio, alla vendita, alla conservazione, alla protezione, all'inventariazione, alla spiegazione, alla riproduzione. Istituzioni artistiche sono anche quei manuali di disegno che ebbero la funzione di accademie a stampa, i musei cartacei e via di seguito. L'importanza di questo vasto territorio era ben presente agli antiquari che nel XVIII secolo scrissero le prime storie nazionali delle arti e delle scienze; ma è solo in tempi recenti che gli studi dei vari momenti istituzionali, delle loro interazioni, dei loro rapporti con la committenza, il collezionismo, il mercato sono entrati in una nuova fase.
Le istituzioni artistiche non vivono isolatamente, ma sono parte integrante di un sistema istituzionale delle arti e delle scienze, che può svilupparsi in un contesto di mecenatismo in cui le decisioni sono centralizzate (è il caso dell'Accademia del Disegno, fondata a Firenze nel 1563, dell'Accademia di San Luca, nata a Roma nel 1593, dell'Académie Royale de Peinture et de Sculpture, creata a Parigi nel 1648, e, più anticamente, delle accademie di corte cinesi, la cui attività si svolge fin dall'XI secolo) oppure in un contesto di mercato in cui le decisioni sono decentralizzate, come in Inghilterra (v. Bignamini, 1989), dove la stessa ufficiale Royal Academy of Arts, creata nel 1768, è finanziariamente indipendente dal re e dal governo.
Le istituzioni possono svolgere un ruolo capitale nel mutamento dello stato sociale dell'artista: se la corporazione regolava, disciplinava e difendeva le attività dell'artista-artigiano, l'accademia ebbe una parte importantissima nel processo e nei modi della professionalizzazione, per subire poi, a distanza di secoli, le critiche e gli attacchi degli artisti che al modello della professione opponevano quello della vocazione (v. Heinich, 1989).
Negli ultimi due secoli le istituzioni del campo artistico si sono moltiplicate, sono diventate più importanti e hanno assunto nuove forme e nuovi aspetti. Sinora gli studi su di esse hanno avuto un carattere specialistico che, separando le une dalle altre, non ha permesso di integrarle e di studiarle all'interno del più vasto sistema delle arti cui esse appartengono. Sono state fatte storie delle accademie d'arte (v. Pevsner, 1940), sono stati presi in considerazione modi di reclutamento e di cooptazione, gerarchie, forme di professionalizzazione, istanze legittimanti, mediazioni; è stata indagata l'origine della critica, quella del libro e della rivista d'arte, quella delle istituzioni di tutela del patrimonio artistico, quella delle esposizioni e, naturalmente, quella dei musei. Ognuna di queste istituzioni si è trovata a comporsi, a giustapporsi, qualche volta a opporsi alle altre ed è questa situazione generale sempre in movimento che occorre tenere presente, anche abbordando le indagini particolari.
Una specifica letteratura impegnata a ripercorrere le vicende e le vite degli artisti, a esaminare le loro opere, a nominare, ordinare, classificare, collocare nel tempo e nello spazio artisti, opere, stili, a illustrare i monumenti di un'area, a costruire una storia dell'arte come vicenda autonoma, a dare un ordine gerarchico a opere e generi nasce solo dove il campo artistico conosca un inizio di strutturazione, dove si manifestino forme di collezionismo, dove certe opere siano apprezzate e ricercate in quanto opere d'arte, dove l'artista goda di qualche considerazione. Fu questo il caso della Grecia, dove, con la nascita della biografia artistica come genere letterario nel IV secolo a. C. (Duride di Samo, Senocrate), si verificò una vera e propria "rivoluzione della classicità verso le arti visive e chi le pratica" (v. Schweitzer, 1925) e dove ebbe un posto importante la letteratura periegetica; molto meno il caso di Roma, dove Plinio introdusse notizie, riprese dalle fonti greche, su artisti, tecniche e materiali in una Naturalis historia e non in un'opera esplicitamente dedicata a illustrare protagonisti e monumenti del mondo artistico. Una letteratura artistica nacque presto in Cina, dove, a partire almeno dal V secolo, si svilupparono una critica e una riflessione estetica sulla pittura che sfociarono in una sorta di normativa quale quella dei sei principî di Hsieh Ho, che fissavano i requisiti di un buon dipinto indicando il discrimine tra arte e artigianato. Dagli scritti di quest'epoca si ricavano nomi di artisti, i soggetti in cui eccellevano e un certo numero di giudizi critici, ed emerge con chiarezza anche una gerarchia dei generi. Una storiografia e una critica in cui si manifestarono le grandi capacità di conoscitori e di attribuzionisti furono praticate durante la dinastia Ming (è questo il periodo in cui il collezionismo delle rare opere del passato sopravvissute prende forme particolari e le opere superstiti vengono accuratamente restaurate e studiate). Gli storiografi e i critici in questione erano dei letterati conservatori che condividevano idee e valori e i cui giudizi sull'arte del passato e sui principî tecnici e morali dell'attività artistica erano singolarmente omogenei; essi tratteggiarono un quadro generale della pittura in Cina fortemente lacunoso e partigianamente profilato, che ha influenzato le prime storie moderne della pittura cinese scritte da storici dell'arte occidentali.
In Occidente una letteratura artistica nasce tra il Trecento e il Quattrocento, con le prime biografie di pittori fiorentini del Villani e con il secondo libro dei Commentari di Ghiberti; ma è nel Cinquecento, in seguito all'innalzamento del ruolo, dell'immagine e dello status dell'artista e alla nascita delle accademie, che viene pubblicato a Firenze, nella città che ebbe un ruolo capitale nel precoce delinearsi di un complesso campo specificamente artistico (v. Barocchi, 1979), il primo grande capolavoro della letteratura artistica che rimarrà per secoli un modello per l'Europa: le Vite del Vasari. Potente strumento di legittimazione dell'attività dell'artista, il modello delle biografie vasariane suscita emulazione negli altri centri italiani e in Europa: l'opera di Karel van Mander sulle vite dei pittori olandesi svolge appunto tale ruolo. Con l'estendersi del campo artistico e il suo divenire più complesso la letteratura artistica allarga i suoi orizzonti: con Diderot, e in diretto rapporto con l'imporsi dei salons parigini, nasce la critica d'arte, che interviene su artisti e opere contemporanee con giudizi, distinzioni, preferenze, indicazioni, prospettive; nasce una storia dell'arte che non è più la storia degli artisti, ma piuttosto quella che si costruisce sulle loro opere, cui viene attribuito uno sviluppo lineare e un percorso autonomo; nascono i primi periodici e giornali d'arte (v. Haskell, 1987), le prime monografie su artisti (v. Levi, 1988), le prime storie universali. Critica e storia divergono e si incrociano. L'esercizio della critica da parte di letterati, una critica che assume sempre maggiore importanza nel sistema di legittimazione, consacrazione e diffusione delle opere d'arte, conduce, tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, a una crisi nei rapporti tra scrittori e artisti. Questi ultimi, appoggiati dagli storici dell'arte, rivendicano l'autonomia e la specificità delle arti visive, sostenendo che i letterati non posseggono le competenze necessarie per intervenire nel campo.
La grande varietà e la mutevolezza delle funzioni affidate all'operare artistico e agli artisti non sono state sufficientemente e comparativamente indagate in tutte le loro dimensioni.Malgrado siano state scritte molte storie universali dell'arte dall'Ottocento a oggi, manca tuttora un'analisi comparata delle origini e degli sviluppi dei diversi spazi artistici quali sono stati determinati dai committenti, dagli artisti, dal pubblico, dalle opere, dalle diverse istituzioni.Ciò è dovuto: a) all'assenza di un'adeguata e coerente storia dell'arte 'mondiale' (che non può evidentemente essere affrontata senza un'identificazione e una distinzione degli elementi variabili nelle singole situazioni e senza la strumentazione sufficiente ad analizzarle); b) alle compartimentazioni dovute alle diverse specializzazioni; c) alle differenze degli indirizzi e dei criteri di ricerca e di inclusione propri delle varie discipline che si occupano della storia della produzione artistica; d) alla particolare tendenza all'enfatizzazione e alla celebrazione dei fatti artistici da parte degli storici dell'arte.
L'esaltazione dei prodotti artistici, la promozione dell'artista a personaggio mitico, l'affermazione dell'unicità dell'opera figurativa, indiscutibile nella massima parte dei casi, ma enfaticamente ripetuta, non sono senza conseguenze pratiche, data l'esistenza di un mercato dell'arte vasto e internazionale, basato, fra l'altro, appunto sulla rarità o addirittura sull'unicità dei prodotti. C'è poi da fare i conti con i rovesciamenti di posizioni provocati dall'arte contemporanea, dai comportamenti e dai ruoli assunti dagli artisti, dall'avvento della multimedialità, della riproducibilità, tutti elementi che hanno alterato profondamente una situazione che per secoli non aveva conosciuto profondi cambiamenti.
D'altra parte una considerazione globale e un confronto dei problemi posti dall'emergere di specializzazioni e di una professionalità artistiche o di quelli relativi alle tendenze di autonomizzazione del campo richiederebbero ricerche convergenti e comparate cui sarebbe bene partecipassero antropologi, sociologi della cultura, archeologi e storici dell'arte di diverse competenze.Certi aspetti essenziali e rivelatori dei rapporti tra arte e società, come quelli riguardanti il mercato o il pubblico, sono stati trascurati molto a lungo (è un fatto significativo), così come sono stati negletti quelli relativi alle funzioni delle opere e al mutare di tali funzioni. Manca una conoscenza comparata delle forme diverse che hanno preso la committenza artistica, il mercato, il collezionismo; fanno difetto (tranne pochissime eccezioni) indagini globali sulla condizione degli artisti nelle diverse società. I tentativi di collegare troppo direttamente le opere di un artista, il loro stile, le loro strutture significative con le tendenze, la visione del mondo, i valori della società a lui contemporanea sono falliti perché si è abusato di omologie riduttive e si è tenuto troppo poco conto di una quantità di fattori particolari, di mediazioni, di funzioni attribuite all'opera.Attualmente la storia dell'arte - come l'arte, oggetto del suo studio - si trova in crisi di paradigmi e non possiede modelli con cui sistemare soddisfacentemente l'enorme quantità di situazioni, di oggetti e di spazi diversi e contraddittori che per essa e attorno a essa sono stati riuniti e accumulati nell'ultimo secolo, in cui includere e con cui affrontare, coerentemente con il resto del corpus, la produzione contemporanea che al termine e al concetto di arte si richiama (v. Belting, 1983). Un'attenzione prioritaria alle forme e alle funzioni sociali dei fenomeni artistici, che non consideri l'arte come un dato eterno e sempre uguale a se stesso, ma ne esamini i diversi aspetti sul piano della produzione come su quello della ricezione, sembra offrire una direzione lungo cui muoversi.
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