arte
Se l’a. in generale si riferisce a un certo sapere unito a una certa abilità, l’a. in senso estetico non sembra definibile propriamente né come sapere, né come abilità, che sono condizioni necessarie ma non sufficienti della sua possibilità e del suo modo di funzionare. Il riferimento alle nozioni di genio o di creatività, che comincia a delinearsi a partire dalla fine del sec. 16°, è un segnale di questo suo statuto, implicante anche una classificazione ad hoc delle a. in senso estetico. In altre parole, ormai il parlante, anche senza uno specifico riferimento all’estetica, alle teorie dell’a., della letteratura e a esplicite assunzioni culturali, sembra supporre, da una parte, un campo semantico riferibile all’a. in generale e, dall’altra, un campo speciale, quello dell’a. in senso estetico, irriducibile al primo. Tale distinzione è relativamente moderna. Tuttavia essa viene avvertita, anche se in modo non necessariamente coerente e non nella parola stessa, fin dall’antichità. Sembra indicarlo, da un lato, la nozione greca di µουσικὴ τέχνη, che si potrebbe tradurre approssimativamente come musica-poesia e, insieme, a. protetta dalla musa; e, dall’altro, la discussione platonica – che suppone una identificazione di certe arti, in senso estetico, non omologa rispetto a quella – dello statuto delle cosiddette arti imitative (l’a. del poeta o del pittore) di contro alle arti in generale (l’a. del pescatore o del falegname), con la conclusione che le prime non sarebbero propriamente arti, in quanto non fondate su un sapere specifico. Già con Aristotele l’identificazione del campo delle a. in senso estetico si fa più coerente e più ferma; ma è soprattutto con l’affermarsi in età moderna di una prospettiva teorica estetica, che suppone a sua volta un lungo travaglio di assestamento culturale e una profonda trasformazione della distinzione tra a. liberali e a. meccaniche, che quella identificazione tende quasi a istituzionalizzarsi. Tuttavia, anche quando giunse a maturazione nel sec. 18° l’idea di a. in senso estetico, non si parlò di a. senz’altro, ma, sull’esempio francese, di «arti belle» o «belle arti» (beaux-arts), con un significativo plurale e l’altret-tanto significativa aggiunta di un aggettivo al sostantivo «arte». Nello stesso pensiero di Kant, dove si stabiliscono le basi teoriche della distinzione, l’aggettivo ricorre sistematicamente per marcare la differenza tra a. in generale (die Kunst überhaupt) e a. in senso estetico, ossia tra la nozione variamente specificabile e la nozione speciale (die schöne Kunst, l’«a. bella», in quanto appartenente, insieme alla angenehme Kunst, all’«a. piacevole», al campo della ästhetische Kunst). Tuttavia, nel corso del secolo successivo, l’aggettivo tende sempre più a cadere e comincia a porsi, semmai, il problema inverso di marcare come «a. minore» (o «artigianato», o «mestiere») certi tipi di a. che non possono essere considerati senz’altro a. in dominante accezione estetica. La percezione del carattere artistico, o estetico senza limitazioni, delle arti minori, del design, di altre produzioni o tecniche culturali specifiche, porta nel 19° e nel 20° sec. alla loro riassunzione nel dominio dell’a. in senso estetico, prima che a ricondurle, come pure è accaduto, nel dominio dell’a. in generale. Tutto ciò non comporta affatto, in presunta opposizione al modo di pensare tradizionale, la conquista di un vero rigore terminologico, che è piuttosto impossibile in questo campo, dove si ha a che fare con una molteplicità di attività anche storicamente determinate. Ne dà testimonianza, per es., la difficoltà di accordare la nozione di poesia con la nuova nozione estetica di a.: ciò può indurre presto anche a rifunzionalizzare i due termini, accentuando nel secondo l’aspetto più propriamente tecnico (nel senso dell’antica τέχνη, dell’a. in generale) e nel primo l’aspetto più propriamente estetico, come nel caso esemplare di Croce. Più in generale, l’estensione e la struttura del campo dell’a. sono soggette continuamente a nuove definizioni, dal momento che nessuna classificazione presuntivamente rigorosa (quali fiorirono soprattutto nel sec. 18°, come nel caso più noto di Lessing) ha mai raggiunto una sicura solidità teorica, presentandosi piuttosto come la manifestazione sistematica di un modo storicamente determinato di intendere, di percepire l’a. in senso estetico.
Il problema della nascita della nozione di a. in senso estetico non si lega a una classificazione o a un sistema determinato delle a.: esso riguarda piuttosto l’emergenza di un senso speciale, comunque esso si manifesti in questo o quell’autore, in questo o quel momento culturale, dall’ambito di un significato generale. La questione che interessa è innanzi tutto una questione di linguaggio, e non immediatamente di teoria estetica. Se infatti l’accezione estetica di a. è stata più volte messa in discussione proprio dagli specialisti, risulta invece immediatamente al parlante, che una cosa è il significato di a., quando si parla di pittura, di musica, di poesia, ecc., e una cosa è il significato generale, comunque specificabile, dall’«a. culinaria» all’«a. della guerra». Come accade anche nel caso dello specialista, il fatto che la distinzione venga percepita immediatamente dal parlante non vuol dire che essa sia facilmente esplicitabile, anche soltanto sotto un profilo linguistico. Non è infatti agevole – né allo specialista, né al comune parlante, che anzi si trovano accomunati nel medesimo imbarazzo – stabilire nei vari casi concreti se il termine a. sia usato nel primo o nel secondo senso; sia perché è possibile assimilare alle arti classificate convenzionalmente in senso estetico anche attività che di solito appartengono all’operare in generale (per es., nel caso in cui il materiale artistico, nonché la sua elaborazione, sia appunto non convenzionale in senso estetico, addirittura nel caso in cui si abbia a che fare con il comportamento o con il corpo – nel loro essere esibiti esistenzialmente, non quindi nella pantomima o nella danza –, come è accaduto in taluni indirizzi o varianti recenti dell’a. d’avanguardia, dallo happening alla body art); sia perché, anche nell’ambito delle a. convenzionali, la pertinenza dell’uso del termine può dipendere anche da un giudizio estetico esplicito o implicito (per cui si dice, per es., che «un quadro è sì pittura, e anche pittura di alta qualità, ma non è a.»; oppure, secondo una diversa terminologia, cui si è accennato, che «è a., ma non poesia»). Tale difficoltà, dunque, è propria anche del parlante non specialista; ma, naturalmente, essa è tanto più forte ed esplicita nello specialista, che è un parlante competente e che riflette su ciò di cui parla: nello storico o nel critico dell’a. e della letteratura, o nell’estetico o estetologo, ossia nel cultore di quella disciplina filosofica (o di solito considerata tale) che dovrebbe avere nell’a., come spesso si pensa, il proprio specifico oggetto di riflessione in generale sotto un profilo teorico. Questo significa che la difficoltà è, prima ancora che linguistica e teorica, di ordine culturale, in quanto riflette le difficoltà, la variabilità, le discrepanze, le contraddizioni di quella «cultura estetica» (per riprendere l’espressione di Lukács) che si è andata affermando soprattutto nel 19° e nel 20° sec. e che ormai mostra di declinare un poco. A questo livello di considerazione, la nozione estetica di a. è intrinsecamente ambigua, nel senso che essa aspira a essere univoca, senza poter mai realizzare compiutamente tale aspirazione. Con ciò l’ambiguità della nozione – ammesso che essa debba essere davvero alla base dell’estetica – rende ambigua l’estetica stessa. Esiste storicamente una stretta interdipendenza, interpretata talvolta come un vero e proprio circolo vizioso teorico, tra a. ed estetica, la definizione dell’una supponendo quella dell’altra, e viceversa. Per un verso, infatti, sembra che l’estetica esista come disciplina autentica, e non come mero aggregato di discorsi, solo se si conosce preliminarmente il suo oggetto, e quindi solo se si comprende in qualche modo che cos’è l’a.; mentre, per altro verso, si può sapere che cos’è l’a., in quanto si è già istituita una prospettiva estetica e si sono già stabiliti criteri di definizione opportuni, ossia in quanto esiste già un’estetica. Tale circolarità tra scienza specifica e suo oggetto non è, in linea di principio, una caratteristica esclusiva dell’estetica: ogni scienza o disciplina la comporta sempre in qualche misura. Tuttavia sembra che, così come avviene in generale nel campo delle scienze umane (ma nell’estetica forse in modo più forte, poiché il suo referente è problematico e sfuggente), non sia possibile contare sul fatto che sia pacificamente dato un referente osservabile e in qualche modo identificabile mediante il linguaggio comune o la semplice ostensione (qualcosa come: «questa è l’a., questi gli oggetti artistici concreti, di cui si occupa l’estetica»), tale da rappresentare un’anticipazione materiale e una sorta di garanzia per una possibile definizione più rigorosa dell’a. come oggetto formalmente costituito, dell’estetica come scienza.
Può nascere legitti-mamente il dubbio che l’estetica stessa, come di-sciplina più comprensiva rispetto alla supposta poetica, non abbia statuto teorico. Tale dubbio – anche al di fuori di esplicite e frequenti messe in discussione dell’estetica – ha spesso lavorato nel senso di una erosione dell’autonomia e della legit-timità dell’estetica in quanto disciplina dotata di statuto teorico, come spesso è accaduto e accade in quegli indirizzi di ricerca storiografica, spesso forniti di grande prestigio e apportatori di indubbie conoscenze, che studiano i fatti dell’arte e della letteratura, nonché la storia delle idee estetiche, in quanto momenti storicamente caratterizzati di una più generale storia delle idee o di una storia materiale-ideale che, proprio nel suo sviluppo concreto, permette di individuare e interpretare i fatti culturali, e in particolare quelli dell’arte. Il riferimento a ciò che si può definire, in senso ampio, storicismo, anche nella sua versione di materialismo storico, è trasparente. Con ciò l’a. in senso estetico viene vista – a meno di un quadro speculativo di riferimento, oppure di assunzioni teoriche non sapute, o ridotte ai minimi termini, o neutralizzate nella forma innocua, o quasi, della metodologia – come l’insieme delle sue effettive manifestazioni storiche: ciò è vero perfino nella storiografia estetica hegeliana o di derivazione hegeliana. È evidente che la nozione di a. in senso estetico tende a essere svuotata e ridotta a unità vuota delle determinatezze storiche. Di conseguenza, essa tenderà in pari tempo, per un verso, a essere riassorbita nella nozione di a. in generale, nel senso che ci si accontenterà di una sua definizione larghissima e infine onnicomprensiva in termini di sapere-abilità o di operare; mentre, per altro verso, le sue specifiche applicazioni este-tiche verranno spiegate soltanto in relazione ai de-ter-minati contesti storico-culturali, alle varie modalità dell’operare, ai contenuti fattuali delle determinate opere d’a. o di determinati insiemi di opere d’a., alla loro funzione sociale, e così via, in cui e per cui l’a. è propriamente quella determinata produzione culturale che si definisce a. in senso estetico. Comunque si giudichi questa dissoluzione della nozione di a. in senso estetico, e il suo recupero soltanto al livello della descrizione storiografica, rimane il fatto che la difficoltà già segnalata è stata ben presto avvertita nel corso della storia dell’este-tica, per es. da Hegel, e ripresa più volte, per es. da Heidegger: avvertita ma anche talvolta risolta, proprio come accade nei casi citati, in modo assai diverso, non nel senso di una semplice negazione dell’a. nelle sue manifestazioni concrete, ma piut-tosto nel senso di uno spostamento decisivo del problema dal livello di una riflessione specifica (l’estetica come la scienza dell’a.) a quello della riflessione in generale o della filosofia (l’estetica come scienza dell’estetico, quale momento neces-sario dell’attività teorico-pratica dell’uomo e della vita culturale in genere). In particolare, Heidegger assume la difficoltà non come un vero e proprio circolo vizioso, che sarebbe temuto, a suo dire, soltanto dall’«intelletto comune», ma come una forma di quel fondamentale «circolo ermeneutico» che è alla base di ogni riflessione autentica.
Il problema della definizione dell’a. in senso estetico perde rilevanza e il pensiero si volge piuttosto alla questione delle condizioni dell’a. o del sapere in generale (l’operare, la stessa a., la τέχνη, è essenzialmente un sapere, per Heidegger), non trascurando tuttavia di indagare in che senso tali condizioni possono spiegare anche quello specifico «essere-messo-in-opera della verità» che è appunto l’arte. Sia pure in una versione assai specifica, si ritrova qui il fondamentale problema di Kant, che – prima ancora di essere il problema del «bello naturale» o del «bello d’a.» – è quello delle condizioni del conoscere e dell’esperire effettivo. Sotto questo profilo, importa poco che non si possa dare una definizione rigorosa dell’a. e una classificazione definitiva delle a. in quanto concrete produzioni estetiche. Senza dubbio, l’a. non è una classe di oggetti (le cosiddette opere d’a.), esplicitamente definibile mediante un criterio di appartenenza, ma si presenta piuttosto, secondo la terminologia di Wittgenstein, come una «famiglia» di oggetti, semplicemente caratterizzati da «somiglianze di famiglia» (Familienähnlichkeiten), senza che sia possibile indicare in almeno una di queste il tratto pertinente comune a tutti e soli i membri della famiglia come classe. Se, inoltre, si pensa all’attenzione posta dalla storiografia moderna agli aspetti extraestetici dell’a., alla sua appartenenza a riti religiosi, comportamenti sociali e sistemi intellettuali, alla ‘scoperta’ di domini artistici tradizionalmente non considerati tali (l’a. dei primitivi, dei bambini, degli alienati), alla produzione artistica d’avanguardia o a certi fenomeni di estetizzazione della vita (la cosiddetta esteticità diffusa) – dove addirittura sembra spesso venir meno anche l’ultimo e più ovvio tratto pertinente dell’opera d’a., quello appunto di ‘essere-opera’ –, ci si accorge che si tratta di una «famiglia» in cui è difficile scorgere dappertutto le stesse «somiglianze di famiglia» che dovrebbero costituirla. Ciò tuttavia non rappresenta più una vera difficoltà. La «famiglia» non è infatti interpretabile come una casuale collezione di oggetti disparati e neppure come la sovrapposizione e confusione di un insieme preesistente di classi, parzialmente in reciproco rapporto di intersezione; dal momento che una collezione non è assolutamente nulla, non è neppure possibile, se non costituisce in qualche modo un’unità di senso; mentre, d’altra parte, le classi, lungi dal precedere la formazione di «famiglie», sono piuttosto formazioni tarde dell’esperienza. Così che le «famiglie» richiedono, per essere possibili, un’appropriata unità sintetica. In realtà, se è il linguaggio la base per un’ulteriore e più accurata conoscenza, e se i significati che vengono utilizzati sono, sempre nel senso di Wittgenstein, «famiglie», queste non sono più né casualità, né mere confusioni per difetto di critica, né infine soltanto un modo primario e ancora approssimativo di organizzare l’esperienza, ma sono piuttosto interpretabili come condizioni dinamiche, ma preliminari di distinzioni e classificazioni, tali da promuovere il problema della loro possibilità. In particolare, la «famiglia» dell’a. si propone come la «famiglia» per eccellenza, come «famiglia»-modello, ossia come unità estetica, non esaurientemente e coerentemente esplicitabile in forma concettuale, degli oggetti cui si riferisce. In tal senso essa è l’esibizione pura dell’unità o principio estetico dell’organizzazione dell’esperienza. Tale principio sarà sempre operante, anche quando si sarà analizzata l’esperienza in forma intellettuale, mediante concetti e relazioni esplicite, e non si avrà più bisogno di riferirsi a esso, poiché non è pensabile un qualsiasi linguaggio speciale, anche altamente formalizzato e non più bisognoso di ricorrere al linguaggio comune, che possa tuttavia diventare in tutti i sensi indipendente dallo stesso linguaggio comune. Si troverà quindi sempre qualcosa di estetico o, se si vuole, di creativo o di artistico in ogni attività umana. Ma ci dovranno essere per altro verso casi in cui il riferimento dominante a quel principio, o il fatto che si possa considerarli proprio in riferimento dominante a esso, farà sì che si potrà parlare più strettamente di esperienza estetica o, in quanto questa si istituzionalizzi, di a. in senso estetico. Si potrà allora anche configurare, sia pure in forme storicamente variabili, un qualche dominio dell’a.: se non una vera e propria classe rigorosa (in taluni casi specifici, del resto, costruibile), almeno una determinata «famiglia», in cui sia più agevole rintracciare e descrivere, benché con inevitabile imprecisione e non in modo coerente ed esauriente, le somiglianze che la costituiscono, e cioè i tratti pertinenti comuni, ma in modo incostante e con continui scambi di tratti, ai membri della «famiglia» in questione. La storicità dell’a. non sembra essere più in conflitto con l’esigenza di giustificare l’a. stessa, o il suo principio, sotto un profilo teorico.
L’unità di ogni possibile e determinata «famiglia» artistica, prima ancora che nelle effettive «somiglianze di famiglia», va infatti ricercata nell’atto di anticipazione dell’esperienza che si deve necessariamente presupporre, se tale esperienza si costituisce e se è possibile organizzarla anche sotto un profilo conoscitivo e nei modi più diversi. Questo è poi il problema delle condizioni dell’a., oggetto, nella terminologia di Kant, di una riflessione trascendentale. Così, l’estetica ha come suo oggetto non tanto l’a., quanto quell’atto di anticipazione, quel principio estetico, come condizione dell’esperienza e, in particolare, anche dell’arte. Come atto di anticipazione, esso non lo è nei riguardi della kantiana «esperienza in generale» e non, quindi, come condizione che anticipa, per così dire, la trama concettuale pura (le cosiddette categorie) entro cui un’esperienza è poi effettivamente specificabile. Un’anticipazione di questo tipo, secondo Kant, è «logica» ed è uno schema di unificazione in cui i principi intellettuali sono correlati sinteticamente con ciò che Kant chiama il «fenomeno in generale». Lo è invece nei riguardi di un’esperienza particolare, colta tuttavia come possibile nella sua particolarità, e quindi lo è come condizione che anticipa il materiale preorganizzato – secondo un’unificazione implicita, precategoriale – di un’esperienza effettiva. Un’anticipazione di questo tipo è ‘estetica’ e costituisce uno schema di unificazione in cui il principio estetico si correla sinteticamente con una «legalità intellettuale in generale». Va ricordato che, in Kant, «logico» significa «riferibile all’oggetto» ed «estetico» «riferibile al soggetto». Per cui, nel caso del principio estetico, non è in gioco l’anticipazione di un quadro logico-trascendentale che determina già, a priori, gli oggetti possibili ed entro cui essi vengono poi anche empiricamente determinati secondo concetti (per es., in classi e relazioni caratteristiche tra classi); ma è piuttosto in gioco una unificazione degli oggetti per il soggetto, che viene così a esserne determinato, secondo il principio che Kant chiama – non nel senso restrittivo di una «critica del gusto», in quanto questa si occuperebbe semplicemente di bello naturale o artistico – «sentimento» o «senso comune». La stranezza anche linguistica della distinzione tra «a. in generale» e «a. in senso estetico» può ottenere quindi una spiegazione plausibile. Essa nasce in realtà dal fatto che si intende precisare la distinzione in rapporto a oggetti concreti dell’esperienza, come se esistessero oggetti prodotti dell’a. in generale e prodotti dell’a. in senso estetico, chiaramente distinguibili tra loro nella loro concretezza. In realtà la distinzione sembra porsi, forse anche per il comune parlante, anche se in modo implicito, rispetto a due distinti livelli di riflessione e di applicazione: il livello degli oggetti concreti e quello delle loro condizioni. Così si spiega anche come mai non possa darsi a. in senso estetico che non sia nello stesso tempo a. in generale, ossia un sapere unito ad abilità, e che non possa a condizioni storico-culturali opportune essere percepita semplicemente come a. in generale; e come, viceversa, non sia pensabile alcuna a. in generale (nel senso più ampio possibile, tale da includere qualsiasi attività umana, anche strettamente intellettuale) che non sia condizionata da, e non contenga, un principio estetico, tale da poter essere percepita a condizioni opportune come a. in senso estetico: secondo quel gioco incessante di defunzionalizzazioni e rifunzionalizzazioni che è stato studiato in particolare da Jan Mukařovský.
La specificità e l’autonomia dell’a. sono tali a livello di principi e non di prodotti concreti, dove estetico ed extraestetico formano in qualche modo un tutt’uno. Ciò non toglie peraltro che sia possibile analizzare e registrare quegli indici empirici – come tali non mai utilizzabili per una qualche classificazione rigorosa delle arti in senso estetico e non – che manifestano di volta in volta, e anche secondo regole storiche più o meno istituzionalizzate, il carattere prevalentemente estetico di un prodotto. Ora, se si guarda alla produzione dell’a., piuttosto che alla sua fruizione, si trova – in accordo con l’analisi kantiana del bello e della sua produzione – che l’unità estetica si configura rispetto all’operare finalizzato come la condizione metaoperativa dello stesso operare, come distanziamento dal fine, come operare puro, in qualche modo come un «gioco operativo». Ma è un gioco che non è un lusso, dal momento che è piuttosto la condizione di una più potente strategia operativa, in quanto questa non è più del fine, del soddisfacimento di un bisogno, ma elaborazione anche estetica dell’esperienza in vista di fini mediati e solo possibili. In tal senso, «disinteresse», «contemplatività», «non-finalizzazione» – ossia i caratteri che tradizionalmente vengono attribuiti all’opera d’a. – sono i contrassegni non di un’esperienza privilegiata e separata, ma piuttosto di un’esperienza specializzata, che in qualche modo riassume esteticamente la complessiva esperienza teorico-pratica. Così che là dove si troveranno segnali di non-finalizzazione (ciò che di solito si chiama ‘forma’), là si troverà anche il riflesso di un’organizzazione estetica dell’esperienza e quegli indici empirici dell’a. di cui si accennava. Come è ovvio li si troverà anche nei prodotti più strettamente finalizzati e utilitari, come anche nell’espressione del pensiero e delle attività intellettuali più astratte; ma essi saranno in genere prevalenti proprio nelle cosiddette opere d’a., o nei prodotti o nei comportamenti a dominante estetica. Così, di volta in volta, ogni cultura storica costruisce esplicitamente o implicitamente i suoi sistemi di indici empirici metaoperativi ed esprime un suo sistema delle arti. Lo esprime o, come spesso è avvenuto nel 20° sec., lo dissolve, senza tuttavia dissolvere la percezione di un principio estetico e del suo modo di operare in forme negative, oblique, discrete o diffuse. In tal senso si è parlato spesso, dopo l’intuizione di Hegel, di «morte» o di «tramonto» dell’a., da parte di artisti e movimenti impegnati nella sua distruzione-trasformazione.