ARTE (dal lat. ars, artis; fr. art; sp. arte; ted. Kunst; ingl. art)
Il significato moderno della parola non è quello che essa aveva in antico e che in via secondaria continua ad avere anche oggi. Arte fu per gli antichi l'opera dell'uomo in quanto si distingua dall'operare della natura: l'opera cioè illuminata e governata dall'intelligenza e dalla riflessione in opposizione a quello che è l'operare inconsapevole della natura, e che nella stessa vita dell'uomo perdura in tutte le forme della sua attività istintiva, e perciò puramente naturale. In tal significato il complesso delle arti fu l'equivalente di quel che oggi si dice la civiltà o la storia; nella quale l'uomo viene manifestando la sua originalità e creando un mondo morale al di sopra di quello ch'egli trova nell'universo, e che si chiama natura. In tal significato si parlò di un'arte umana distinta dalla divina, e a questa di tanto inferiore di quanto il finito è da meno dell'infinito, e una potenza meramente imitatrice e subordinata rispetto a una potenza creatrice e autonoma. Fa l'uomo come fa Dio; l'uomo però non produce gli oggetti onde egli è capace di aumentare l'insieme delle cose se non servendosi della materia e delle forze stesse della natura, e conformandosi alle sue leggi, ed esponendosi sempre al rischio dell'errore, ma sopra tutto non riuscendo, malgrado ogni suo sforzo, a introdurre di suo nella natura un solo principio vivente. L'arte imitatrice di cui parlano ancora i più grandi filosofi greci, a proposito della poesia, è ancora quest'arte nel significato antico della parola; che oggi si distingue dal nuovo, contrapponendo all'arte la tecnica. Col quale termine si vogliono designare due forme di attività, che sono strettamente congiunte, e, a rigore, ne formano una sola: 1. l'insieme delle conoscenze naturali, fisiche e matematiche che hanno per oggetto le cose e le forze della natura e i loro rapporti quantitativi, in quanto tali cose e forze occorrono alla produzione di determinati oggetti o forme o stati da realizzare nello stesso mondo dell'esperienza, e che sono fini del volere umano in quanto rispondono a bisogni umani; 2. l'insieme delle azioni che occorrono con siffatte conoscenze per la suddetta produzione. Conoscenze e azioni che si condizionano reciprocamente, e in effetti si fondono in un ordine unico di attività spirituale, poiché una conoscenza tecnica non può esser posseduta se non in quanto si sa applicare; e il saperla applicare non può essere semplice presunzione, ma si dimostra nella stessa pratica. E il tutto risponde a quello che gli artisti dicono il "padroneggiamento della tecnica", che non è né l'arte, né un elemento dell'arte, ma il presupposto dell'arte.
La storia del concetto moderno dell'arte è, sotto uno de' suoi aspetti essenziali, la storia della progressiva distinzione dell'arte dalla tecnica, e della progressiva elaborazione, in forma sempre più coerente, del concetto della spiritualità (o umanità) immanente nello stesso concetto dell'arte come tecnica. Giacché, con tutti i suoi difetti, l'arte umana, distinta dalla divina arte creatrice del mondo naturale, era concepita come un'attività propria dell'uomo intelligente, e cioè dello spirito umano, e caratteristica di questo non soltanto di fronte a tutti gli esseri naturali, ma anche di fronte agli esseri soprannaturali e a Dio stesso. Ma, una volta che si distingua ed opponga lo spirito umano, per la sua originale indole e capacità, a tutti gli altri esseri, non è possibile pervenire al concetto di quello che esso sia per sé stesso e per la sua propria natura, senza sceverare dalle manifestazioni di questa sua natura tutto ciò che gli è estraneo, e importa un'estrinseca aggiunta resa possibile dall'inserirsi dell'attività spirituale in quella natura a cui essa si contrappone. In realtà, l'arte è tecnica in quanto si considera come attività spirituale che si manifesta nella natura; e se si vuol intendere come pura attività spirituale per quel che essa ci dice propriamente dell'attività stessa, bisogna che si faccia astrazione dalla tecnica ond'essa interviene nel mondo naturale e lo modifica salvo a ricercare se, per una più profonda considerazione, in questa dualità di arte e di tecnica non sia per avventura da vedere una verità provvisoria da approfondire ulteriormente e risolvere in una forma superiore di verità.
Finché la distinzione non si faccia e l'arte si confonda con la tecnica, può, quasi istintivamente, il pensiero umano essere indotto a ricercare l'essenza dell'arte come attività tutta umana e propria dello spirito nella poesia e nella musica, in cui pare che una tecnica che renda l'uomo con lo studio padrone di mezzi appartenenti al mondo naturale, non occorra: a differenza di quel che accade evidentemente alla pittura, alla scultura, all'architettura e a tutte le arti meccaniche decorative. Ma queste medesime distinzioni tra arte e arte sono evidentemente fondate piuttosto sopra una considerazione che è estranea all'arte, e non sono intelligibili se non nel dominio della tecnica. E per la stessa via della confusione tra il tecnico e l'artistico distinzioni illegittime congeneri si introdurranno nella stessa poesia, via via che con lo studio si verranno individuando, definendo e distinguendo quei mezzi tecnici di espressione, o forme poetiche (generi letterarî, forme metriche, ecc.), che faranno erroneamente riferire a quel che per essere arte deve essere intimo e affatto spirituale, discriminazioni inesistenti fuori della natura e in generale di quel mondo svariato di oggetti che formano, comunque, il contenuto dell'umana esperienza. Suoni e note, e rapporti di note e ritmi, accenti e metri, linee e forme geometriche d'ogni genere, e colori, e marmi, e pietre sono, per sé stesse, cose della natura, accanto alle quali vengono a collocarsi tutte le regole, e gli stili, e le parole, e i mezzi di espressione e rappresentazione svariatissimi, di cui lo spirito può servirsi nell'arte. Ma come con tutta la maggior ricchezza immaginabile del vocabolario non si dice nulla se non c'è nulla da dire, così tutto l'universo è necessario all'uomo perché parli e canti e dipinga, ma l'universo non basta, e ci vuole qualche altra cosa, che dal suo interno inspiri l'uomo e lo faccia parlare, cantare, dipingere.
Depurare l'arte da ogni tecnica, questa è stata la via e questa è la condizione indispensabile per entrare nel concetto dell'arte, e intendere il segreto del poeta, del musico, del pittore e quel non so che divino che incanta e fa battere il cuore d'ogni uomo innanzi a ogni cosa bella che l'arte produca. E si può dire che una delle più aspre battaglie che la dottrina dell'arte o estetica (v. estetica) abbia dovuto combattere e vincere, nello scorso secolo, per attingere il concetto dell'arte pura da ogni mescolanza con la tecnica, sia stato il contrasto tra la cosiddetta estetica del contenuto e l'estetica della forma. Poiché questi due concetti, così distinti ed opposti, di contenuto e forma sorgono nella loro divergenza medesima dal seno dell'arte intesa ancora come tecnica. Poiché mero tecnicismo è il trattare la forma dell'arte come qualche cosa che abbia in sé il suo valore indipendentemente dal contenuto di cui è forma, quasi forma vuota; e non è possibile considerare una certa classe di contenuti come per sé stessi estetici, in astratto, e perciò già, prima ancora della trasfigurazione od elaborazione artistica, come suscettibili di simile trattazione, senza presupporre un'arte di carattere tecnico che sceveri gli uni dagli altri i contenuti più adatti all'arte. E in verità il contenuto e la forma nella loro astrattezza sono due opposti che s'identificano, e si possono entrambi considerare sia come forma sia come contenuto, restando entrambi qualcosa di materiale, estraneo e ripugnante alla spiritualità dell'arte.
La contesa parve conclusa quando il valore dell'arte, o bello, si fece consistere in una forma che non fosse nulla di opposto al contenuto dell'arte, ma come forma assoluta risolvesse in sé, cioè fondesse e idealizzasse interamente e senza residuo, il suo contenuto; in guisa che tutto nell'arte fosse forma, e un determinato contenuto non esistesse se non nella sua forma, e la forma pertanto non fosse se non la forma di un contenuto determinato. In questa concezione l'arte parve staccarsi definitivamente dalla tecnica, e librarsi nella vita ideale dello spirito come attività assolutamente libera, alla quale non preesista né una regola tecnica né una realtà bella, che a lei spetti di imitare o comunque investire. Ed era il concetto moderno della funzione in generale dello spirito, libera attività in ogni sua forma, perché produttrice di una sintesi, i cui elementi sono bensì idealmente distinguibili ma non sono concepibili come termini ciascuno per sé stante senza l'altro. Ma era appena il principio della definizione dell'arte. Poiché se tutto nello spirito è sintesi, e forma assoluta, fuori della quale non sono altro che morte astrazioni, non tutto è arte. E il problema si configurò come ricerca della distinzione dell'arte dalle altre forme della vita spirituale.
L'arte non è scienza o filosofia. Con l'arte non si estende il dominio del nostro sapere, né scientifico né filosofico. Perché sapere qualche cosa è saperne l'essenza: poter dire cioè che cosa sia: fare l'oggetto del sapere soggetto di un giudizio in cui esso venga illuminato dal predicato con cui si mette in relazione. E il processo del sapere è il passaggio non dal soggetto al predicato, ma dal mero soggetto alla sua relazione col predicato. Finché si ha il soggetto, ma non si è messo in quella relazione col predicato, nella quale il giudizio consiste, il sapere sarà un desiderio, ma non sarà niente di attuale. Tra il soggetto irrelato e perciò ancora oscuro e il soggetto illuminato dal giudizio c'è il passaggio dal pensiero immediato o assolutamente iniziale del soggetto al pensiero mediato o risultato della riflessione onde il soggetto si pensa attraverso il predicato. E insomma chi dice sapere, dice mediazione, pensiero che risulta da un processo di riflessione, che qualifica l'oggetto iniziale del pensiero stesso e lo costituisce nella sua oggettività mediante tale qualifica. Giacché prima di tale mediazione un oggetto ancora non c'è; e si può dire che il pensiero sia ancora solo con sé stesso. Ora l'arte non c'insegna a dire che cosa sia qualche cosa: non pronunzia giudizî, non costruisce teorie, non si propone d'istruire. In quanto se lo propone, obbedisce a fini non suoi, che la snaturano. Il regno dell'arte è il regno dell'immediatezza, in cui lo spirito si muove senza uscire ancora da sé e rimane con sé stesso. Ogni riflessione filosofica, che sottragga l'arte a quello stato di ingenua contemplazione del suo mondo, per cui l'uomo come il bambino rimane estatico, rapito nell'oggetto, tutt'uno con esso, e questo con lui, senza possibilità di uscire dalla situazione soggettiva in cui tale oggetto gli si rappresenta ed egli lo intuisce, spezza l'incanto dell'arte. Perciò l'arte è stata paragonata al sogno, in cui lo spirito vede e non giudica, e, chiuso nella sua soggettiva visione, non è in grado di criticarla e superarla; e prende per salda realtà un'immagine puramente soggettiva di sé medesimo.
Per analoga ragione l'arte non è morale o altra pratica attività, se alcuna se ne debba distinguere da quella morale. La quale, quando si distingua dalla conoscenza, pare le si contrapponga per ciò che la realtà conosciuta si presenta come il punto di partenza dell'attività spirituale corrispondente, laddove la realtà voluta come bene da compiere è invece punto d'arrivo della corrispondente attività. Il bene si fa; e se non si fa, non c'è. La realtà c'è anche se sconosciuta, e non si potrebbe conoscere se non ci fosse. Tuttavia così il conoscere come il volere si muovono nella realtà: nella realtà obiettiva, universale: nel mondo effettivo, in cui l'uomo sa di vivere e di operare, e rispetto al quale sa che tutto ciò che egli fa e tutto ciò, del pari, che egli pensa o dice, va giudicato. E che non è il mondo dei sogni, ma della dura vigilia; e non è neppure il mondo dell'arte, la quale perciò si dice spazii nella fantasia, ossia in un mondo creato dal soggetto e sottratto al controllo e al confronto di quella realtà, a cui il sapere e il volere si riferiscono. A cui non si potrebbero riferire senza un processo di mediazione, il risultato della quale differisca dal principio.
E tanto meno l'arte può confondersi con la religione. La quale pone lo spirito umano alla presenza dell'assoluto, ossia della realtà incondizionata e infinita, in guisa da fargli sentire la propria nullità, e quindi il desiderio e il bisogno di immedesimarsi con questa realtà, fuori della quale nulla è possibile. E ognuno vede che non questa è la situazione propria dell'arte, in cui, come s'è detto, il soggetto è solo con sé stesso, senza sospetto d'altro, e perciò nella ingenua beatitudine del principio e della spontaneità, favoleggiata nel mito d'ogni età primitiva del genere umano e della stessa irriflessa infanzia d'ogni singolo uomo ancora ignaro dei travagli e dei dolori della vita che gli toccherà di vivere. La religione è la negazione del soggetto, e cioè l'astratta affermazione dell'oggetto; e l'arte, al contrario, pone il soggetto infinito, immediatamente, e non conosce l'oggetto, con cui il soggetto deve pure commisurarsi
L'arte, come pura o assoluta forma, fu detta perciò intuizione, volendosi con tal nome designare la forma iniziale ed elementare del conoscere, nella quale senza giudizio si contemplerebbe la realtà indiscriminata e non ancora perciò qualificata. Concetto deficiente per due rispetti: 1° perché un conoscere che sia puro contemplare senza giudicare è una contraddizione in termini, poiché conoscere è giudicare, e per quanto s'impoverisca il contenuto dell'intuito il carattere conoscitivo non gli si può attribuire senza riconoscergli come intrinseca ed essenziale la distinzione fondamentale dell'oggetto, e quindi quella posizione più semplice dell'oggetto che è sempre giudizio, perché conferisce all'oggetto stesso quella universalità, e cioè quell'indefettibile predicato che è base di ogni predicazione e universalizzazione, l'oggettività; 2° perché l'intuizione in ogni caso vuol essere rapporto, e se era dato uno dei termini del rapporto (il soggetto, lo spirito dell'artista) restava pur da determinare l'altro termine, con cui il rapporto nell'arte si stabilisce Intuizione di che?
A tale domanda si credette rispondere con la teoria del carattere lirico dell'arte; nella qual teoria, vincendo le precedenti ambagi intorno all'oggetto dell'intuizione, si indicò nel sentimento il contenuto dell'arte. La quale si venne a definire come l'intuizione del sentimento, o pura intuizione, non essendo il sentimento un particolare contenuto, ma il solo possibile contenuto che lo spirito trovi nel suo ritmo dialettico come materia da intuire. Poiché un'arte pura o puramente spirituale, come l'arte modernamente vuol essere intesa, libera da ogni rapporto e legame con la natura esterna, non può infatti attingere se non dallo stesso interno dello spirito la materia di cui possa nutrirsi. E questo sentimento contenuto della intuizione estetica si concepì essenzialmente congiunto in una sintesi a priori con l'intuire, in guisa da non potersene staccare per esser considerato come già esistente in sé stesso.
Questo è in verità il più alto concetto dell'arte raggiunto dall'estetica moderna, per opera dell'italiano B. Croce (v.); la cui dottrina abbondantemente svolta in speciali trattati e molteplici saggi e polemiche, ha nel primo quarto del secolo corrente molto efficacemente contribuito a rischiarare nella coscienza filosofica e critica d'ogni paese i concetti fondamentali dell'estetica.
Rimane bensì la necessità di approfondire il concetto di intuizione, come si può soltanto se si indaga più a fondo la natura del sentimento. Il quale non è uno stato, o una passività dello spirito, come per solito si descrive; non è quell'oscuro tumulto passionale, come fantasticamente viene da altri rappresentato, sul quale interverrebbe l'intuizione a far luce. E non è, perché l'intuizione che l'investe non è un processo, e non è un rapporto del soggetto con sé stesso: non è mediazione. Il sentimento è il momento soggettivo, immediato, dello spirito: ma lungi dall'essere qualche cosa di passivo è la stessa attività del soggetto nel suo prorompere, nel suo essere immediato, ossia nella ricchezza infinita di tutte le energie, alla cui manifestazione si assisterà nello svolgimento della vita dello spirito. E l'intuizione è alla base del conoscere e di tutta la vita dello spirito in quanto, anch'essa, ne è l'essere immediato, e il principio assoluto: quel punto di partenza, da cui muove ogni uomo che operi, parli o pensi; e non può operare, parlare o pensare se non come quel che egli è, e in quanto, prima di tutto, egli, comunque, c'è. L'intuizione insomma è il sentimento, e s'identifica col soggetto nella sua immediata posizione; e così si chiarisce in possesso di tutte le qualità positive che le sono state attribuite, ma scevra del difetto sopra indicato di voler essere conoscenza mancando dell'attributo essenziale al conoscere, ossia della mediazione.
Il sentimento, come essere immediato del soggetto, ossia come soggetto nel momento ideale in cui non ancora pone il suo oggetto, e perciò non pensa, non giudica, non sa, non teorizza o filosofa, e neppure agisce, è quello che nella teoria della conoscenza si dice Io puro: quell'Io, la cui segreta presenza rende possibile ogni esperienza o sviluppo della vita dello spirito, perché ne è il principio. Empiricamente si colora nelle forme più svariate nell'infinita molteplicità dei caratteri, restando sempre quell'unità assoluta e immoltiplicabile che esso è, non pure attraverso le diverse forme successive di una individualità empirica, ma attraverso tutte le differenze e tutti i contrasti tra le varie empiriche individualità. Principio di ogni conoscenza e di tutta la vita consapevole, è la sorgente della luce nel mondo dello spirito, e del calore che riscalda ed avviva questo mondo che conosciamo e sentiamo come il nostro mondo, sostenuto dal nostro interesse, e cioè dalla partecipazione nostra al suo essere, o meglio dal suo partecipare alla nostra vita. Questo è il sentimento che l'uomo invano si sforza di conoscere; poiché conosciuto, s'invola; che lo accompagna dalla culla alla tomba, attraverso tutte le esperienze e tutte le riflessioni; le quali non lo liberano se non dalle forme via via insufficienti di questo sentimento per farlo risorgere sempre più robusto e vitale in forme più adeguate alla vita che si rinnova nel suo sviluppo. Questa è la Musa ispiratrice, il dio che detta dentro, impadronendosi dell'animo del poeta: di cui infatti è il più intimo essere. Lì è la vera e schietta intuizione, l'essenza dell'arte. Posto il sentimento, attendere inoltre l'intuizione, è condannarsi a smarrire per sempre l'intuizione. Dopo, c'è la mediazione e l'immediatezza, quella divina immediatezza in cui da Platone in poi s'è fatta consistere l'intuizione, non c'è più.
Se così è, l'arte è un momento ideale dello spirito, non è una attualità storica. Il che non significa che non abbia il suo posto nella realtà. Anzi, significa che non c'è realtà (spirituale) in cui non sia presente l'arte. Soltanto, un'opera d'arte, come comunemente si concepisce, storicamente individuata, e che sia tutta arte e nient'altro, è un assurdo. L'arte vive morendo, ossia integrandosi con gli altri momenti della vita dello spirito; onde accade che non c'è poeta od artista che non sia una personalità, più o meno, intera, pensatore insieme ed uomo d'azione.
Ma la morte dell'arte non è morte empirica e di fatto: bensì morte ideale, e quindi vita eterna. Essa è presente e incancellabile nella pienezza della vita dello spirito, in cui la potenza del soggetto, o del sentimento che dir si voglia, viene espressa attraverso la mediazione del pensiero.
ll carattere ideale e non empirico dell'arte dimostra il carattere empirico delle distinzioni storiche, ossia introdotte nelle stesse manifestazioni storiche della vita dello spirito, tra poesia e prosa, tra arte e non arte. Nessun'opera umana che rechi impresso il sigillo dello spirito, ossia dell'artefice, può essere esclusa dai dominî dell'arte. Dove batte il cuore dell'uomo, alto o basso che sia il battito suo, ivi è bellezza; ivi è la tentazione di chiudersi nel sogno della pura realtà subiettiva; tentazione a cui nessun filosofo infatti si sottrasse mai così perfettamente che un pensiero più maturo non intervenisse poi a dimostrare la soggettività e però la limitazione del suo.
Ma arte e non arte, poesia e prosa sono classificazioni (quando si fanno), le quali, come ogni classificazione, spogliano le opere dello spirito del loro valore spirituale, convertendole in meri fatti di osservazione, come sono quelli della natura. Sicché cedere alla velleità di classificare i fatti storici, mettendo in una classe, da tener distinta da tutte le altre, quelli che si ritengono specificamente artistici, è mettersi già fuori del terreno in cui un'esperienza d'arte è possibile.
Altro significato e valore ha la distinzione tra arte e non arte, quando col secondo termine non s'intenda designare qualche cosa di positivo, che arte non sia, ma sia opera di pensiero o di azione, bensì qualche cosa di negativo, che non è arte e non è nulla. L'arte insomma ha il suo posto non in una serie, comunque raffigurata, di atti distinti dello spirito, ma nel ritmo dialettico dell'unico atto, che o è tutto, o è nulla. Una cattiva poesia non può essere né una scoperta scientifica o formulazione d'una verità, né una buona azione. Dove manchi il sentimento, manca la base a tutta la vita dello spirito, e tutta questa vita crolla. E la mediocrita estetica è sempre anche mediocrità logica ed etica.
L'origine della distinzione empirica tra arte e arte, arte e non arte (poesia e prosa), quando non si riconduca a una considerazione tecnica, è da ricercare in una differenza egualmente estranea alla natura dell'arte, e pertinente a quel processo di mediazione in cui l'arte si spiega come sapere e come azione; in quanto gli uomini e le loro opere occupano un posto maggiore o minore nella storia a seconda dell'importanza del contributo che essi vi recano col pensiero, conoscendo nuove verità e realizzando comunque nuove forme di vita dello spirito.
E ora può intendersi l'intimo rapporto fra tecnica e arte: della quale fu già accennato che la prima è un presupposto. E cioè il soggetto, nella cui immediata posizione l'arte consiste, è a volta a volta quello che è in funzione del suo svolgimento, in cui il padroneggiamento della tecnica rientra. Così l'uomo che parla un determinato linguaggio è quel determinato soggetto che è e può essere in conseguenza del suo anteriore sviluppo, di cui l'apprendimento di quel linguaggio fa parte. La tecnica in quanto posseduta s'identifica col soggetto, cioè col sentimento, e quindi con l'arte. La tecnica estranea all'arte è l'astratta tecnica, che non è diventata carne della carne dell'artista, il suo stesso spirito nella sua fondamentale immediata soggettività.
Bibl.: v. estetica.
Il concetto di arte figurativa.
Quado il Rinascimento italiano trattò della teoria e della storia della pittura, scultura e architettura, sentì spontanea la necessità di un termine che comprendesse tutte e tre quelle arti. E per bocca di Giorgio Vasari (1550) quel termine fu arti del disegno, giustificato esplicitamente dalla convinzione che il disegno è il padre comune alle arti. Data l'importanza del pensiero artistico del Rinascimento, il termine durò a lungo e non è andato del tutto in disuso: esso si trova ancora nella divisione delle arti fatta dal Hegel; e nel 1880 Charles Blanc scriveva la sua Grammaire des arts du dessin. Il Winckelmann precisa di volersi occupare delle arti che hanno connessione col disegno, e solo per brevità le chiama al singolare: "Storia dell'arte". Come è noto, l'uso di arte per arti del disegno è tuttora corrente. Il Vasari chiama le tre arti anche "bellissime arti", e il Baldinucci parla di "arti belle ove s'adopra il disegno". Tuttavia si ha l'impressione che in questi e in casi consimili il Rinascimento abbia usato "bello" come epiteto, e non come termine definitorio. Non così in Francia nella seconda metà del Seicento; fondata l'Accademia reale nel 1648, il problema estetico relativo alle arti del disegno s'impose, e ut pictura poesis tornò a girare come cardine di ogni idea. Il concetto di "disegno", che era servito a distinguere, doveva cedere il campo a un altro concetto che avesse il compito di unire: la "bellezza". "Beaux-arts" compresero di fatto non solo le arti del disegno, ma anche la poesia e la musica; e quando per ragioni pratiche fu pur necessario distinguere si parlò di "beaux-arts" e di "belles lettres". Nel 1690 fu pubblicato Le cabinet des beaux-arts di Charles Perrault che si proponeva infatti di riformare l'Accademia. E poiché la formula giunse in Italia rinviata di Francia, non più di "arti belle", ma di "belle arti" si scrisse, p. es. dal Bettinelli nel suo Dell'entusiasmo delle belle arti, del 1769. Per non dar torto alla moda, e nemmeno alla tradizione italiana, il Milizia combina i due termini: Dell'arte di vedere nelle belle arti del disegno, ch'è del 1798. E oggi il nome di "belle arti" ha suono accademico e burocratico: "Direzione generale delle antichità e belle arti".
Sino a che prevalse in Germania la tradizione del nostro Rinascimento, si mantenne il nome di arti del disegno: oltre il Winckelmann, si può citare l'oriundo italiano Fiorillo che nel 1798 pubblicò la Geschichte der zeichnenden Künste. Sino a che la moda di Francia pervase la corte del gran Federico non si parlò che di belle arti: nel 1777 il Sulzer pubblicava la sua fortunata Allgemeine Theorie der schönen Künste. Ma la sorgente cultura tedesca assumeva carattere polemico di fronte alla tradizione francese; e il Laocoonte del Lessing, pubblicato nel 1766, che ha tanta importanza anche per la storia della lingua tedesca, contiene la nuova formula bildende Künste. Il concetto di "bello" univa pittura e poesia; com'è noto, il Laocoonte è stato scritto per distinguere pittura e poesia. I concetti di spazio, di oggetti coesistenti, di corpi, si riferiscono alla pittura; come quelli di tempo, di oggetti consecutivi, di azioni, si riferiscono alla poesia. Ma il desiderio della distinzione non basta per sé stesso a giustificare la denominazione di bildende Künste. Bisogna pensare alla convinzione diffusa nell'età lessinghiana della perfezione assoluta della scultura greca, di fronte alle altre arti d'ogni tempo e d'ogni luogo; convinzione che suggerì allo stesso Lessing di formulare la sua teoria della distinzione della pittura trattando di una scultura; e allora si comprende che la parola Bild sia divenuta il simbolo delle arti del disegno. Bild è "figura", e Bildhauer è "scultore"; ma, secondo il Sulzer, l'accezione è più vasta: Bild è ogni oggetto che sia stato massa informe e abbia già ricevuto dall'arte una forma precisa. E però August Schlegel può rifiutare le altre definizioni, quella del disegno perché questo è un accessorio, e quella del bello perché non distingue, a fine di adottare bildende Künste, per tutte le arti che "parlano all'occhio". E la prima Geschichte der bildenden Künste, quella dello Schnaase (1843), giustifica il nome per le arti che si sviluppano "sull'elemento spaziale e dalla materia corporea".
In Italia fin dal 1821 si rilevava l'opportunità della nuova terminologia tedesca, che si tentava di tradurre con "arte formante o arte che forma". Nella prosa del Selvatico (1852), e con riferimento al Lessing, si trova già il nome di "arti figurative", che in seguito è stato comunemente adottato. "Arti plastiche", che è la traduzione dal francese di un concetto tedesco, è stato di recente sporadicamente ripreso. Nei tentativi compiuti dal Fiedler e da altri per distinguere filosoficamente le arti figurative dalla poesia e dalla musica, è apparso che l'elemento essenziale della distinzione non consisteva né nella "figura", né nella "scultura". E la "pura visibilità" del Fiedler ha suggerito il nome di "arti visive", che non ha trovato tuttavia diffusione, perché le necessità della coscienza critica relative alla distinzione delle arti non offuscano l'esigenza della unità dell'arte.
Prima del sec. XIX non appaiono né il nome né il concetto di "arte decorativa". "Decorazione" significava nel '700 soprattutto la scenografia teatrale (Milizia). E se i libri di architettura parlavano dell'ornato, questo consisteva soprattutto negli ordini classici. L'esigenza critica dell'arredamento comincia con le esposizioni industriali, sin da quella parigina del 1798, dove la produzione artistica degli oggetti d'uso comune si afferma. L'esposizione di Londra del 1851 e quella di Parigi del 1867 furono particolarmente importanti per questo riguardo. Sorsero allora i termini di "arti industriali, arti applicate all'industria, scuole di arti e mestieri", e simili. E il Dall'Ongaro (1867) proponeva di chiamare "arti dell'uso o arti utili" quelle che i francesi chiamavano "arti industriali".
D'altra parte lo spirito neo-classico prevalente nelle accademie artistiche aveva allontanato dall'architettura, scultura e pittura, dalle tre arti così dette maggiori, tutte quelle che si consideravano applicate a un'industria, e cioè "minori". Ma dall'intisichire accademico delle "maggiori", risultava un nuovo e più vivo interesse per le arti "minori". Il Selvatico (1856) proponeva di distinguere l'"ornato architettonico" dall'"ornato decorativo", mobili, tappezzerie, ecc. Nel 1868 sorgeva in Germania la parola Kunstgewerbe e nel 1883 si pubblicava la prima Aesthetik des Kunstgewerbes per opera di J. von Falke. In Italia Camillo Boito, che nel 1874 e nel 1881 scriveva di "arti industriali", nel 1892 dirigeva la rivista intitolata Arte italiana decorativa e industriale.
E quando si volle assurgere dalla distinzione pratica delle arti alla distinzione dei concetti, si contrappose dapprima "decorativo" a "costruttivo", e cioè visione del piano contro visione della profondità, o piacevolezza accessoria contro rigore di essenza. Viceversa si contrappose "decorativo" a "illustrativo", e cioè bellezza eterna contro interesse storico contingente. Concetti che, nati dal bisogno di distinguere e di caratterizzare, finiscono col pretendere a norma di giudizio estetico: allora sulla scomparsa delle "arti" riappare "l'arte".
Il concetto di arte popolare.
Arte popolare, è alla lettera, l'arte del popolo. Ciò che va inteso in tutta l'accezione della parola. Poiché in quest'arte il popolo è insieme autore, esecutore e consumatore, a differenza della produzione d'arte in senso generale, cui la mano d'opera operaia contribuisce, ma senza che dall'operaio proceda l'invenzione, o all'operaio sia destinata. Il suggello quindi della popolarita è, dalla concezione, attraverso la materia e la tecnica impiegata, fino all'uso, la caratteristica fondamentale dell'arte popolare.
Dato ciò come punto di partenza per distinguerla da ogni altra arte, l'arte popolare può essere divisa in due grandi categorie. La prima è quella degli oggetti creati all'infuori d'ogni intenzione di lucro, la seconda quella dei manufatti, invece, prodotti per un fine commerciale. Rientrano nella prima tutti gli oggetti che sono connessi con gli avvenimenti familiari del matrimonio, delle nascite e delle morti, coi riti religiosi, con le superstizioni e credenze soprannaturali, infine con l'abbellimento degli strumenti del lavoro più cari, e con gli arredi della casa più intimi. Nella seconda tutti quei manufatti di consumo abituale per le necessità indispensabili della vita, del lavoro e della persona, che possono essere fabbricati con i mezzi primordiali dell'artigiano e dalla piccola industria.
S'intende quale differenza profonda d'ispirazione, di fattura e d'impiego costituisca la ragione di questa partizione, e come essa si rifletta sul valore artistico del prodotto. Ove mancano ragioni di lucro e sussistono solo quelle spirituali della fede o degli affetti domestici, l'esemplare è unico, lavorato nelle ore di riposo durante le veglie o le sieste, da mani che, perite o ignare, studieranno di farsi più brave che possono, arricchito di simboli cari, accarezzato e curato sino alla preziosità; esemplare unico ciascuno nel suo genere, sia il ricamo per corredo o la coperta da letto, il bastone del pastore o il coltello del marinaio, il nappo da festino o l'immagine da preghiera, questi oggetti formano tutti insieme l'aristocrazia, per così dire, i capolavori, gli archetipi dell'arte popolare. Dove invece movente della produzione è il commercio locale per fornire biancheria o vestiti, la mensa o la cucina, gli strumenti dei campi o della stalla, l'interesse artistico è in genere di minore levatura, sia per la ripetizione in innumerevoli esemplari, quand'anche tutti fatti a mano e perciò non meccanicamente identici, sia per la finalità tutta pratica e materiale di tali esemplari. Se si potesse riassumere la posizione rispettiva delle due categorie, si potrebbe dire che la prima è la poesia, la seconda la prosa dell'arte popolare.
Basterebbe già questo a dimostrare l'estensione e la varietà dell'arte popolare, che però trae dalle comuni sorgenti di spontanea e ingenua fantasia e dalla tecnica vergine di cerebrali moventi estetici la più unitaria coerenza. Essa non concepisce la bellezza astrattamente come una qualità perseguibile per sé stessa: alla bellezza essa giunge perché i fini che la spingono ad adottare certe forme rispondono a moventi concreti di maneggevolezza e di resistenza, consacrati da lunghe tenaci tradizioni. È su tal fondo realistico che lavora poi la fantasia popolare nutrendosi delle più varie fonti della leggenda e della vita, riecheggiando modelli intravisti nella chiesa o nel palazzo, talvolta solenne talvolta arguta, sempre concisa e sapiente come i proverbî. E come ai proverbî l'anonimato dà un senso patriarcale di cosa antichissima e insieme di tutti i tempi, così l'arte popolare sembra superare l'appartenenza a un determinato momento per essere perennemente attuale.
Di fatto però non è così. Se stabilire le origini dell'arte popolare non è possibile, in quanto naturalmente essa è sempre esistita, né è facile distinguere il momento nel quale con una netta separazione i corsi e ricorsi della storia hanno diviso il suo campo dal dominio della grande arte pura, tuttavia la maggior copia di opere a noi giunte risale al secolo decimottavo e al principio del decimonono. Poi con l'assestarsi del mondo moderno e lo sviluppo della meccanica, delle industrie, delle comunicazioni essa ha incominciato a risentire delle nuove condizioni economiche e sociali, declinando e facendosi più rara. Sin che oggi sopravvive ancora soltanto dove la civiltà contemporanea giunge più tardi, come, soprattutto, nei paesi alpini.
Ed ecco, contemporaneamente a questo suo affievolirsi, un subito destarsi d'interesse per lei. L'arte popolare è una scoperta, per così dire, dei tempi moderni, anzi dei nostri. Non in quanto se ne ignorasse prima l'esistenza, ma in quanto non ne veniva riconosciuto il valore artistico. Né poteva essere altrimenti fin quando le teorie sull'arte derivavano ancora dalla concezione neoclassica del bello, per cui tutto veniva riportato all'esempio dei Greci, dei Romani, e all'influenza della classicità sulla Rinascenza italiana. Ci volle il romanticismo e poi il positivismo maturati durante il sec. XIX per spostare la base delle teorie sull'arte, e allargarle a comprendere come fatto artistico tutti i prodotti dell'espressione umana che si configurasse in qualche manifestazione concreta, dalla parola al poema, dal segno delle caverne alla cattedrale, dalla nota musicale alla sinfonia. Allora soltanto sorse la disposizione spirituale atta a riscontrare nel più umile oggetto uscito dalle mani del popolo un valore artistico.
Questa disposizione però trovava il campo già preparato dagli studî di etnografia, che erano andati raccogliendo largamente e con metodo, per i propri fini, tutta una larghissima documentazione degli usi popolari nelle loro più varie manifestazioni. Era un interesse scientifico, è vero, per il quale la conocchia o il giogo, il tappeto o il cesto entravano nelle raccolte e nei musei di etnografia allo stesso titolo che faceva ricercare e mettere loro accanto la lancia o il feticcio dei selvaggi; era il desiderio di penetrare attraverso l'iconografia e la tecnica nelle credenze e nei metodi di lavoro del popolo. Ma indubbiamente questo interesse nuovo e questa raccolta di materiale giovarono a rivelare la varietà e molteplicità della spontanea inventiva popolare, mettendone sotto gli occhi degli artisti le creazioni fino allora disperse nei luoghi d'origine e ignorate.
Poiché furono gli artisti a sentire e additare quale forza d'espressione fosse nell'imperizia e nei balbettamenti, quale raffinata sensibilità si nascondesse negli accenti schietti di una manualità che all'arte giungeva di primo acchito, o che ripeteva tecniche antiche quanto una razza. Nella ricerca, anzi, di liberarsi dal realismo fotografico dell'ultimo Ottocento, gli artisti attinsero a quella spontaneità vergine e scevra di convenzioni scolastiche, che è dell'arte popolare, come a una fonte di rinnovamento. Molte conquiste dell'arte moderna, della russa per esempio, dipendono in gran parte da tale fatto. Ma in complesso fu una breve illusione, ché il profumo campagnolo e rustico che affascina nell'arte paesana, sfuma appena lo si voglia chiudere in un'elaborazione cosciente e complessa, quale compie ogni personalità artistica originale e potente. Né miglior esito hanno avuto movimenti numerosi iniziati per tenere in vita e industrializzare quanto ancora rimane, ed è sperabile continui a sopravvivere, di produttività popolare.
Tuttavia l'arte popolare, oltre che nei musei, ove ormai ha un suo posto, ammirata e studiata, sopravviverà, sotto tutte le forme applicate, negli oggetti d'uso corrente. Le sue colorazioni vivaci, le sue linee franche reggono, talvolta, al confronto con rari pezzi d'autore. Evidentemente poi essa si presta mirabilmente alla decorazione e all'arredo delle case di campagna; specialmente quando queste siano, per intonarsi bene al paesaggio, costruite secondo il tipo pittoresco e il materiale disadorno della casa rustica e colonica. In questi limiti di una piacevolezza d'architetture e d'arredi, sta forse l'insegnamento migliore dell'arte paesana, di cui gli odierni prodotti meccanici faranno sempre più apprezzare l'umanità. Quell'umanità casalinga e virtuosa in cui confluiscono qualità originali d'inventiva, osservazioni dirette del vero, ricordi nostalgici di arte colta, e che perciò riflette, accessibile a tutti, l'anima di tutti. V. anche folklore e i paragrafi sull'arte popolare sotto le voci dei singoli paesi.
L'arte dei popoli primitivi.
Concetto e limiti. - È necessario dapprincipio specificare di quali primitivi s'intenda parlare, in quanto che sotto tal voce si sogliono comprendere intere serie di artisti dell'era cristiana e del nostro mondo artistico europeo. Le manifestazioni d'arte primitiva, che qui si considerano, appartengono ai popoli preistorici (primitivi scomparsi) e ai popoli naturali viventi (primitivi attuali), impropriamente anche chiamati "selvaggi"; tale limitazione corrisponde al più giusto concetto comunemente oggi accettato dagli studiosi. La concezione di un primitivismo vero e proprio, così ristretto, è pienamente giustificata per i tempi preistorici, poiché realmente in essi si vede l'origine del fenomeno d'arte; può soltanto variare, secondo le idee dei singoli studiosi, o meglio secondo il diverso sviluppo delle civiltà antiche nei varî paesi, il punto in cui si vuole far terminare il primitivismo. In ogni modo, per noi è logico stabilire per convenzione che il secondo termine non sorpassi la prima età del ferro; ed è ragionevole escludere da una trattazione dell'arte dei primitivi anche i primordî di quelle arti che sono oggetto di studio ampio e particolare sotto il titolo di arte orientale e classica, vale a dire l'egiziana, l'assiro-babilonese, la cretese-micenea, l'etrusca, ecc. L'esclusione si giustifica, non perché questi primordî, in cui le manifestazioni artistiche sottostanno alle leggi del primitivismo in generale, non ricevano luce dalla comparazione con le altre attività artistiche che comprendiamo nella presente trattazione; ma per il fatto che ne trattano in particolar modo i singoli capitoli della storia dell'arte che si riferiscono al mondo orientale mediterraneo e classico. Anche per i tempi attuali, riguardo ai popoli naturali viventi, la concezione del primitivismo non è così facile come sembra; ma basti qui stabilire la convenienza di non far rientrare nel quadro dei "primitivi" le manifestazioni artistiche di certi popoli, anche detti barbari o semi-civili, ovvero quelle di determinate epoche storiche nello sviluppo della civilta di certi paesi, come ad esempio la maya, tolteca e azteca, dell'America Centrale, la incaica dell'America Meridionale; le quali rappresentano per il loro complesso e per la loro ricchezza gradi così elevati di attività spirituale, veri apogei, paragonabili ai più noti del nostro mondo mediterraneo, sì da aver bisogno di studî, di trattazioni particolari, perché sarebbe ingiusto confonderle nel grande quadro del primitivismo più propriamente detto.
Storia degli studî. - Fino a quasi tutto il secolo scorso, una storia dell'arte dei primitivi sembrava inutile o superflua; oggi, invece, trattazioni del genere abbondano, specie nei paesi germanici.
Prima che sorgesse, organizzata con proprî metodi e con un proprio fine, l'archeologia preistorica, non si pensava affatto all'esistenza di un'arte preistorica, tanto meno di un'arte quaternaria, ovvero dei tempi pleistocenici. Intorno alla metà del secolo scorso si fecero le prime scoperte di oggetti fossili adornati dalla mano dell'uomo; nel 1864 Lartet e Christy pubblicarono le prime notizie organiche sull'arte dell'epoca della renna; nei suoi Précis de Paléonthologie humaine l'Hamy nel 1870 dimostrava d'intendere l'arte quaternaria; ma un primo movimento di vivo interesse per queste prime manifestazioni dello spirito d'arte dell'uomo si ha soltanto dopo l'esposizione internazionale di geografia a Parigi, del 1875, in cui Ed. Piette fece mostra delle collezioni da lui formate scavando nelle grotte pirenaiche; movimento che andò sempre più crescendo dopo la fortuita scoperta delle pitture della Grotta d'Altamira (1879) e le relative pubblicazioni di Marcelino de Sautuola, che dettero luogo a vivaci discussioni, presto troncate dal riconoscimento dell'alta antichità e dell'autenticità, mentre negli anni seguenti, in una col progresso degli scavi in caverne e sotto rocce strapiombanti, i documenti di sorprendente attività artistica dell'uomo quaternario apparivano con impressionante frequenza Nel 1898, M. Hoernes pubblicava la sua Urgeschichte der bildenden Kunst, e da allora l'arte preistorica ha il suo posto riconosciuto nella storia universale dell'arte.
Passando alle manifestazioni artistiche del mondo dei naturali viventi, si deve riconoscere che il loro apprezzamento, come fatti d'ordine superiore o degni di essere separati dagli altri di mera vita materiale, non ha tardato troppo dopo i grandi viaggi di esplorazione del sec. XVIII; i quali, facendo entrare in Europa numerose raccolte di oggetti etnografici, permisero l'approfondirsi delle nostre conoscenze sui costumi dei popoli "selvaggi", specie del mondo oceanico. Se già, agli inizî del detto secolo, qualche filosofo "naturalista" aveva fermato la sua attenzione sul problema di quest'arte primitiva, e se il Herder, sulla fine del secolo, si studiava d'interpretare alcune delle cause determinanti quell'attività artistica "selvaggia", il movimento filosofico subito succeduto, forse per l'influenza esercitata dall'opera del Winckelmann, si mostrò indifferente di fronte ai documenti forniti dall'etnografia, e le forme di espressione estetica dei popoli naturali, come le altre della loro vita materiale, restarono esclusivo patrimonio degli studî specializzati. Quanto di artistico vien prodotto dai primitivi viventi non fu trascurato nelle molte opere naturalistiche, tipo quella celebre del Ratzel, né venne lasciato in disparte dalla speculazione dei sociologi del secolo scorso; ma l'arte non fu compresa nella sua vera essenza, e il suo problema fu studiato solo dal punto di vista fisiologico, fino a concepirla come una funzione vitale qualsiasi, o tutt'al più d'importanza sociologica. A ogni modo, in questi tempi, caratterizzati sotto il punto di vista filosofico dagl'indirizzi materialistici, i quali per l'estetica trovano il migliore assertore nel Taine, esce la prima opera meritoria richiamante in vigore l'attenzione già in passato rivolta ai documenti etnografici e soprattutto intesa allo studio organico del problema dell'arte primitiva: Die Anfänge der Kunst (1894) di Ernesto Grosse, trascurante peraltro i documenti preistorici. Un precedente, sotto l'aspetto non unitario, ma della valorizzazione dei documenti etnografici, era stato già segnato da R. Andree con i suoi studî sul disegno dei popoli naturali e con i paralleli etnografici.
Dopo il fortunato libro del Grosse, gli studî intorno all'arte dei primitivi viventi, origine, forme, significato, si vanno sempre più intensificando; e senza contare i contributi apportati dai tanti esploratori con l'illustrazione di particolari ambienti o produzioni artistiche, si ricordino i nomi di Stolpe, Balfour, Haddon, Hoernes, Vierkandt, Frobenius, come quelli degli studiosi che più hanno contribuito con le loro pubblicazioni (citate tutte nelle bibliografie dei trattati più recenti, qui sotto elencati) alla migliore conoscenza del fenomeno artistico dei primitivi. Si passa così alle opere più complete, più organiche, moderne, dello Spearing, Woermann, von Sydow, Kühn, le quali, inquadrando insieme arte preistorica e arte selvaggia, nonostante le divergenze teoriche o di metodo, studiano il valore della funzione estetica in sé e per sé.
Non è da tacersi, nei riguardi del progresso fatto dalla storia dell'arte dei primitivi, concepita da H. Kühn come branca essenziale della storia universale dell'arte, il vigoroso impulso che guadagnò il favore popolare all'arte dei selvaggi, provenuto dall'esaltazione fattane ai nostri giorni dagli artisti post-impressionisti francesi, preceduti dal Gauguin, il quale, morto nelle Isole Marchesi, scriveva che soltanto dai selvaggi aveva potuto apprendere le più profonde verità. E l'arte negra e l'arte oceanica sono state e ancora sono tema prediletto di studio da parte degli amatori di Francia. Nonostante il progresso fatto e l'organicità raggiunta oggi dagli studî, si è ben lungi dal poter asserire che il problema dell'arte primitiva sia in qualche modo risolto in ciò che riguarda la parte più ardua, essenziale, cioè l'origine e il significato, anche se le forme in cui si esprime la mentalità artistica del primitivo scomparso o attuale, vengono ben definite e intese. Soprattutto esistono punti disagevoli da superare, o controversi, nell'interpretazione dell'essenza stessa del primitivismo, nell'estensione del concetto, nell'ordito del metodo da seguire. Questi punti si possono esprimere con le seguenti interrogazioni, indicanti in sostanza i diversi orientamenti tenuti dagli studiosi. Si può insistere sul confronto tra l'ingenua grafia estetica dei nostri bambini e il disegno dei selvaggii. È giusto o no ravvicinare più o meno intimamente l'arte preistorica e l'arte dei naturali viventi? L'arte quaternaria è nata realmente dalla religione, cioè dalla magia? L'arte dei primitivi viventi ha anch'essa origine religiosa? Va essa intesa come funzione dell'organismo sociale, atta alla conservazione di questo? Dobbiamo ritenerla, date le diverse forme di concretazione, cioè il mutamento degli stili, determinata oltre che da cause d'ambiente fisico perfino dal diverso regime economico?
Converrà, prima di soffermarsu su questi punti, vedere le forme in cui si concreta la mentalità artistica primitiva.
L'arte preistorica. - Bisogna distinguere nettamente l'arte dei tempi quaternarî o pleistocenici, cioè del Paleolitico e dell'Epipaleolitico (detto anche Miolitico), da quella dei tempi geologici attuali, cioè del Neolitico-eneolitico, bronzo, ferro. Una differenza essenziale s'impone subito: la prevalenza quasi esclusiva della figura, riprodotta con senso realistico, nella prima; mentre nell'arte dei tempi attuali prevale la stilizzazione delle forme, anche se organiche, cioè l'arte geometrica, soprattutto intesa ad ornare. Mentre la tendenza alla geometrizzazione si può notare alla fine dello sviluppo dell'arte quaternaria stessa (ad esempio nelle pitture e incisioni dell'Epipaleolitico spagnolo), i primordî dell'arte mediterranea, classica, segnano un ritorno al naturalismo dell'espressione, una rinascita quasi del figurato organico.
Anche nel mondo dei popoli naturali viventi si riscontra una differenza siffatta, e ondeggiamenti fra uno stile e l'altro. Il Kühn, il più teorico fra tutti i trattatisti moderni, chiama l'uno stile naturalistico (sensorico) o concreto; l'altro stile intellettuale (imaginativo), astratto o geometrico. Altri, come il Luquet, per la sola arte quaternaria (ma si può estendere il concetto a tutto il mondo dei primitivi) riconosce la presenza di due fondamentali tendenze che conducono l'una all'arte figurata, l'altra all'arte decorativa, fondate ambedue su un duplice realismo, il primo "di visione" o naturalismo, il secondo puramente intellettuale.
L'arte quaternaria, del cosiddetto Paleolitico superiore, in quanto alla tecnica, comprende sculture, incisioni e pitture. La scultura e l'incisione sono predominanti nell'Aurignaciano (v.), la pittura nel Magdaleniano (v.), ma in questo periodo anche l'incisione è abbondante. I materiali usati nella scultura sono l'avorio, l'osso, il corno cervino, e alcune pietre tenere (steatite) o meno dure (alcuni calcari, serpentina); l'incisione è fatta sia su pareti rocciose, sia su oggetti d'uso o con fine a sé stessi; la pittura, basata su tre colori, nero, giallo e rosso in diverse gradazioni, per mezzo dell'affresco e anche d'una tecnica paragonabile al pastello, si distende nell'interno delle caverne, talvolta interamente oscure. Si contano più di cinquanta caverne, fra le meglio ornate, con pitture ed incisioni, disseminate nel mezzogiorno della Francia occidentale (Périgord, Pirenei, Ariège, Alta Garonna) e nella Spagna del nord, cantabrica (prov. di Santander, Asturie, ecc.). La Spagna ha anche pitture e incisioni in ripari sotto roccia che si distaccano per lo stile, e in molti casi anche per l'età più recente, dalle caverne franco-cantabriche (prov. di Valencia, Andalusia, Murcia meridionale, Salamanca, ecc.). Qualche affinità con esse hanno le incisioni rupestri africane del Sud algerino e dell'Atlante sahariano (v. africa: Arte), meno antiche; e le pitture su roccia sud-africane attribuite ai Boscimani (v. africa: Arte). Altri petroglifi sono stati notati fuori del continente africano, in Asia (India centrale), nell'America Settentrionale (Bassa California, ecc.) e Meridionale (Brasile); incisioni e pitture su roccia assai notevoli si conoscono pure nell'Australia (Port Jakson, presso Sydney, Glenelg River, ecc.).
Nell'arte quaternaria franco-cantabrica, rari elementi tratti dal mondo vegetale accennano timidamente a spirito decorativo; la figura umana, in statuette femminili di tipo caratteristico, è soprattutto trattata nell'Aurignaciano, ma compare raramente nell'epoca magdaleniana e con rappresentazioni grottesche; è molto trattata nell'arte dell'Epipaleolitico di Spagna con tendenze allo schematismo; la figura animalesca, riproducente con ammirevole senso realistico gli animali contemporanei dell'uomo (bisonti, mammouth, renne, cavalli, cervidi, bovidi, capridi, rinoceronti, felini, orsi, lupi, ecc.) è quella che trionfa. Si sono distinte nella tecnica pittorica, soprattutto con gli studî del Breuil, alcune fasi che vanno dal semplice contornato all'espressione pittorica completa, alla policromia; le figure, in cui le tre dimensioni appaiono felicemente espresse, hanno spesso movenze vivaci e perfino ardimenti disegnativi.
Si è discusso se la scultura preceda o no l'incisione; il Piette ammetteva questa precedenza che sarebbe valsa anche sulla pittura, credendo che l'astrazione della terza dimensione vigente nell'incisione indicasse un procedimento complicato e quindi posteriormente attuato. Ma il fatto dell'astrazione è spontaneo, non richiede operazioni mentali d'ordine superiore; inoltre oggi è ammesso dai più che glittica, pittura e scultura siano sorte contemporaneamente. In quanto al significato di quest'arte, che tanta importanza dava alla figura animalesca, non raramente rappresentata con segni di ferite, si riteneva comunemente con S. Reinach che non fosse disinteressata, ma che rivelasse un'operazione magica, giustificabilissima con la civiltà degli uomini che la produssero, viventi di caccia e di pesca; da ultimo il Luquet si è opposto a questa origine religiosa totalitaria, ammettendo una precedenza di arte disinteressata, di pura arte per piacere, che solo col Magdaleniano sarebbe stata usata a scopo utilitario. Ciò che rimane sorprendente, oltre al carattere di omogeneità, è la ricchezza della sua fioritura, che ha pure limiti spaziali, e il senso di fresco e vivace realismo che non ha confronti nelle età preistoriche seguenti.
Infatti, lo spirito artistico che si rivela dalla civiltà neolitica ed eneolitica e da quella enea fino ai primi tempi dell'età del ferro, che si son presi qui come limite, è del tutto diverso. L'arte, se arte possiamo chiamarla, è solamente decorativa ed è tutta rivolta a rendere più vago l'aspetto della stoviglia d'uso funebre e anche corrente. Lo stile della decorazione è essenzialmente geometrico e vi si aggiungono motivi tratti dal mondo vegetale, in qualche caso, e, più frequentemente nell'età dei metalli, dal mondo animale e poi dalla figura umana; sempre con processo di schematizzazione o stilizzazione. Momenti più significativi, sotto l'aspetto estetico, di questa uniforme arte decorativa si possono indicare. Uno è segnato dalla ceramica dipinta a più colori dell'eneolitico di Tessaglia (Dimini, Sesklo, Zerelia), di Sicilia e dell'Italia meridionale (Molfetta, Matera), che non raggiunge peraltro negli schemi compositivì la varietà e la bellezza della ceramica dipinta della Caldea e dell'Elam (periodo proto-elamitico), nota dopo gli scavi condotti nella Susiana dal De Morgan, e certo superiore alla ceramica dell'Egitto predinastico. Un altro momento può scorgersi nella "cultura del vaso campaniforme" (o bicchiere a campana), la quale, nata nella penisola iberica, caratterizza l'Eneolitico di questa regione e largamente si diffonde per l'Europa.
La plastica non è trascurata, ma si riduce a schematiche figurette d'argilla, idoletti dell'età neo-eneolitica, che talvolta, come nelle isole dell'Egeo, sono anche scolpiti in pietra; a rozzi, infantili abbozzi di figurine animalesche dell'età enea; si aggiunge anche all'incisione e alla pittura (più rara) nella decorazione dei vasi, sotto forma di protomi umane o animalesche, e nella elaborazione delle anse. Nella prima età del ferro, rispetto particolarmente all'ltalia, mentre già l'Asia Minore, l'Egitto e Creta sono focolari di arte più elevata, quest'arte ornamentale europea, nel cui spirito geometrizzante si mescola qualche tratto naturalistico, sale a un notevolissimo grado di sviluppo, in una col progresso tecnico della metallurgia, soprattutto per ciò che si riferisce all'invenzione dei motivi e all'armonica loro disposizione; maggiore valore o indipendenza essa assume nella civiltà preistorica del nord d'Europa, di più lunga durata, e il suo carattere essenzialmente geometrico è in opposizione col figurato dell'arte mediterranea (cfr. A. van Scheltema in Ipek, I, 1925, p. 17 segg.; e Nordischer Kreis in Ebert, Reallex. d. Vorgeschichte).
Un interessante capitolo di scultura primitiva è formato dalle statuette di bronzo della Sardegna, appartenenti al fiorire della civiltà nuragica (v. nuraghe), dallo stile segaligno, sommario, in cui più che rozzezza infantile può scorgersi ingenua austerità.
Per l'architettura, sotto l'aspetto estetico, quasi nulla si può indicare, se non il carattere di forza emanante dalle costruzioni megalitiche (v. megaliti) spesseggianti nell'Europa atlantica, e nelle grotticelle artificiali scavate a scopo funerario, nell'Eneolitico e nell'età del bronzo, dell'Italia e di altri paesi mediterranei.
Naturalmente, si potrebbe fare qualche riserva sulla possibilità che noi abbiamo d'intendere compiutamente lo spirito d'arte dei primitivi scomparsi, in quanto che nulla ci è pervenuto, ad esempio, di materiale ligneo trattato esteticamente; poco o nulla ci è rimasto, specie per i tempi più antichi, di ciò che riguarda l'abbigliamento; nulla assolutamente si sa intorno alla danza, alla musica, ai canti, che formano un complesso notevole di manifestazioni atte alla migliore comprensione della mentalità artistica dei popoli primitivi.
Arte dei popoli naturali viventi. - Il primo fatto che deve porsi in rilievo è la generalità, quasi assoluta, dell'attitudine artistica delle razze umane viventi allo stadio primitivo; quest'attitudine che, se si pensa ai primissimi saggi lasciati dagli uomini paleolitici, sembra essere congenita, spontanea nell'anima umana, ci è rivelata da quasi tutti i popoli per lo meno nell'arte ornamentale. Questa è la più diffusa, quasi universalmente, in mille forme di concretazione, nelle quali si devono comprendere, oltre agli oggetti mobili più comunemente presi in esame per lo studio del fenomeno estetico, anche tutto ciò che si riferisce all'abbigliamento e all'adornamento corporale (tatuaggio, ecc.). Un'eccezione, forse l'unica, è presentata dai Fuegini, viventi allo stadio dei pescatori dei køkkenmøddinger; ma popoli di bassissima levatura civile come i Botocudo del Brasile, e peggio gli Andamanesi, pur hanno le loro manifestazioni estetiche. E qui giova anche notare che alcuni popoli, quali gli Australiani e molti indigeni americani, ritenuti fra i più schietti primitivi per la loro cultura materiale, attardata o retrograda o non evoluta, mostrano invece che in fatto di vita spirituale si trovano in uno stadio avanzato; ciò ha valore per lo studio dell'arte, e non è allora da meravigliarsi che gli Australiani posseggano eccellenti qualità di disegnatori e di pittori, tanto più se paragonati ad altri gruppi umani forniti di una cultura materiale più progredita. Non è dunque da ammettersi una troppo intima correlazione fra l'attitudine artistica e l'elevazione intellettuale, come è dimostrato dai Boscimani, pittori di non comune valore, e da qualche popolo, antico o attuale, che pur essendo intellettualmente superiore, è sordo in fatto di estetica.
L'attitudine artistica così viva nei naturali viventi si manifesta con notevoli diversità, non solo nella produzione materiale, ma anche nella estrinsecazione che implica il lavoro dello spirito: ciò che si dice stile. Tale diversità compare nella stessa arte ornamentale con caratteri così spiccati, da continente a continente, e nell'ambito di uno stesso continente è perfino così differenziata, che si potrebbe giustamente parlare di un'arte decorativa oceanica, melanesiana e polinesiana, africana, nord-americana, sud-americana, col proposito di indicare per mezzo della distinta trattazione un prodotto che si differenzia secondo il genio proprio della razza. Fra gli ornati degli Indiani Pueblo dell'Arizona, in cui l'elemento geometrico si mescola col figurato in schematiche composizioni piene di chiarezza e di equilibrio, e l'ornamentazione serrata, spiraliforme e tortuosa, piena d'immagini fantastiche che stanno fra l'umano e il mostruoso, dei Maori della Nuova Zelanda, esiste un divario immenso; anche la materia è diversa (gli uni sono dipinti sulla ceramica, l'altra è intagliata nel legno dei battelli, delle case, delle armi), ma il divario non è qui, bensì nella mentalità artistica che si rivelerebbe diversa anche se la materia fosse la medesima. Punti di contatto, forme comuni d'interpretazione degli elementi naturali scelti a comporre gli schemi ornativi, anche si ritrovano; e fra popolazioni ben distanti fra loro, come gli Haida e i Tlingit dell'America del nord-ovest, e gli oceanici dell'arcipelago di Bismarck (Nuova Brettagna, Nuova Irlanda, ecc.). Forme fantasiose con sovrapposizioni di elemnenti figurati umani, resi mostruosi, e bestiali insieme, che potrebbero in certo modo ravvicinarsi, non mancano in questi due centri produttori che hanno in comune l'abilità di scolpire e intagliare il legno, per esempio, in una sorta di stele per abbellimento delle case; ma, mentre gli Haida si contentano della tinta monocroma del legno, gli isolani della Melanesia tutta (non solo i nominati) amano ravvivarlo con i colori, bianco, rosso e nero; i quali, terna fissa, finiscono per costituire una limitata tavolozza fondamentale. In generale, l'arte ornamentale di tutti i popoli naturali, anche quella dei polinesianì e dei Melanesiani che appare più fantastica, non è astratta, ma si fonda sul reale; non c'è motivo, per quanto stilizzato ed elaborato in questo senso, che non riveli l'oggetto naturale dalla cui forma l'artista primitivo ha tolto l'ispirazione. La forma è sempre semplificata; ma la sua linea essenziale subisce una serie di trasformazioni o di adattamenti tali, che talvolta ai nostri occhi riesce difficile rintracciarla. Alcuni motivi appaiono dominanti nelle singole arti, divenendo così caratteristici dello stile ornativo di un certo popolo o gruppo umano; e non è sempre facile spiegare l'insistenza del motivo con ragioni basate sul totemismo. Accanto ai motivi che, usando la classificazione del Haddon, si dicono zoomorfi, antropomorfi (i due più frequenti), fitomorfi e fillomorfi, fisicomorfi (più rari), se ne aggiungono altri tratti da oggetti materiali fabbricati dall'uomo stesso (chiamati dal Colley March skeuomorfi), si aggiunga la grande varietà di complessi lineari suggeriti dalla tecnica dell'intreccio, sia per la tessitura, sia per stuoie e per panieri.
Non è infrequente il caso che la forma schematizzata in motivo tradizionale divenga addirittura simbolica; uno degli esempî più istruttivi è il tiki polinesiano, cioè la figura umana con arti divaricati e piegati, semplificata e stilizzata al massimo grado, come può scorgersi nei grandi manichi lignei traforati delle asce di Mangaia (arcipelago di Cook), monumenti unici del genere.
Passando alle arti figurative propriamente dette, si deve in primo luogo riconoscere la mancanza di un'architettura che possegga effettivamente doti estetiche e non sia soltanto prova di una rudimentale capacità tecnica, ispirata alle necessità pratiche. Tuttavia, qualche carattere stilistico, che è possibile prendere in considerazione ai fini dell'arte, si ritrova fra alcune popolazioni dell'Africa (Sūdān, Guinea), dell'Oceania (Nuova Guinea, Nuova Caledonia, Samoa), soprattutto fra i Maori della Nuova Zelanda. Per le Americhe, non contando il lato essenzialmente pittoresco delle abitazioni in pareti rocciose dei Pueblo, manifestazioni architettoniche degne di nota dal punto di vista artistico sono quelle lasciate dalle antiche civiltà del Messico e del Yucatán e del Perù; ma è bene che esse, come quelle plastiche e quelle pittoriche delle medesime civiltà, siano trattate a parte, fuori del quadro del vero primitivismo.
In quanto alla scultura e alla pittura, se esse non sono così universalmente diffuse come l'arte ornamentale, ciononostante fra i popoli naturali sono largamente praticate; e la prima con maggiore intensità. Il talento plastico non è in intimo rapporto, non è concomitante col pittorico; né l'arte ornamentale con essi sempre si accompagna. Vi sono popolazioni primitive, e sono in maggioranza, che posseggono solo quest'ultima; ve ne sono altre esclusivamente dedite alla pittura o al disegno, e nello stesso tempo non produttrici di arte ornamentale; altre ancora esprimono il loro talento artistico solo con opere plastiche e scultorie, e quasi sempre accompagnate dall'arte decorativa. Quindi, quest'arte più diffusa non va di pari passo con le figurative, come già osserva l'Andree.
Anche per l'arte dei selvaggi attuali si è discusso se la plastica abbia preceduto il disegno, e come questo sia sorto. Il problema, se pure utile a porsi, è insolubile; in ogni modo bisognerebbe distinguere fra disegno semplice, o generico, e disegno figurato. La tendenza a gettar giù linee o tratti con qualche determinatezza e significato è tendenza molto comune nei popoli primitivi; ma una facoltà disegnativa in senso "figurativo", quale spiccatamente mostrano gli Australiani e i Boscimani, è invece rara. Questi popoli, che con proprietà possono chiamarsi pittori, oltre che disegnatori in generale, non hanno prodotti di plastica e nemmeno dimostrano inclinazione all'arte ornamentale; altre popolazioni, come i Sioux (Dakota) dell'America Settentrionale, i Caribi e Arawak delle Guiane, uniscono alla prima dote, pittorica, anche l'altra, ornativa; i popoli artici (Eschimesi, Ciukci, ecc.), artisti eccellenti, sono scultori e incisori, e disegnatori insieme, infine la maggioranza delle popolazioni primitive attuali esercitano la scultura e l'arte decorativa, ma nulla o quasi è la loro attività nel campo del disegno figurato. La conseguenza più ragionevole è il riconoscere una differenza qualitativa nella disposizione d'animo dei primitivi di fronte alla tecnica espressiva. La figura umana e quella animalesca sono trattate con pari sensibilità dai popoli che si posson chiamare pittori o disegnatori, ma la seconda è rappresentata con più frequenza. Il contrario avviene nei popoli più inclini e più dediti alla scultura, nella cui produzione la figura umana occupa un posto preminente. Soltanto i popoli artici, o polari, fanno eccezione, dato il gran numero delle loro figurette animalesche, e anche per il senso realistico, più spiccato e proprio, della loro produzione.
Le migliori o più significative prove di sensibilità plastica (s'intende sempre nel campo figurativo) ci provengono dall'Africa in primo luogo (Sudanesi-Guineani, Bantu), dall'Indonesia o Malesia, da isolani della Melanesia più che dalla Polinesia, da qualche tribù dell'America (Haida al nord; Mauhe e Cadiueo nel Brasile).
La materia più trattata da questi scultori selvaggi è il legno, pur non mancando opere plastiche e scolpite in pietra, osso, avorio. Le dimensioni delle figure scolpite generalmente non raggiungono mai un grande sviluppo. Fanno completamente eccezione le colossali statue scolpite in pietra vulcanica dell'isola di Pasqua, o Rapanui; altrimenti la grandezza è sempre minore della naturale, con prevalenza del minuto.
Un capitolo assai interessante è costituito dalle maschere, da danze guerresche e funebri, e per cerimonie religiose o di società segrete, molto in voga presso tutti i primitivi, ma nella cui produzione eccellono per originalità d'inventiva i Negri dell'Africa e i Melanesiani; altri prodotti più notevoli si hanno dagli Eschimesi, specialmente dell'Alasca, dai Wakash dell'America nord-orientale, dalle tribù indigene dell'Amazzonia, del Rio Negro e Xingú (Caribi, Arawak, ecc.). Benché la dote propria dello scultore sia base alla costruzione, nella complessa costituzione della maschera entrano anche elementi pittorici e soprattutto decorativi. Si potrebbero stabilire alcune differenze o particolarità, più che di stile, di spirito informatore; si potrebbe riconoscere una prevalenza di sostanziali elementi decorativi, misti ai pittorici, nelle maschere melanesiane e degli indigeni dell'America del Sud, mentre in più d'una tribù dell'Africa equatoriale è prevalente il senso plastico, scultorio. Ma una distinzione rigorosa è molto difficile a farsi; perché scultura, arte ornamentale e pittura generalmente si fondono con efficacia straordinaria nella fabbricazione di un oggetto così importante per la vita delle tribù primitive.
Problemi, origine, significato dell'arte dei primitivi. - Chi osservi con occhio penetrante le molteplici forme, per mezzo delle quali si esprime la mentalità artistica dei popoli naturali viventi, non deve lasciarsi sopraffare dal fondo comune in cui sembra rientrare ogni loro attuazione artistica; ma deve riconoscere e dar più valore alle diversità, realmente esistenti e notevoli, delle concezioni. Il fondo comune, una specie di convenzionalismo generale che uniforma, esiste pure; ed è determinato da alcune leggi che regolano tutta l'attività artistica primitiva. Intanto si osservi che le leggi più fondamentali, vigenti anche nell'arte dei popoli civili, quali la disposizione armonica, la simmetria, la contrapposizione di elementi analoghi, il contrasto, sono già presenti e praticate dall'artista primitivo. Ma le leggi più costanti e basilari, dalle quali scaturisce quella specie di esteriore uniformità delle produzioni artistiche primitive, sono due: quella delle "vedute principali" regolante l'espressione nel disegno e quindi nella pittura; e quella della "frontalità" vigente nella plastica, nella statuaria. Nel disegno, nella pittura, le figure sono ritratte secondo la veduta che pone più in evidenza la forma stessa, il profilo; è raro trovare, come nella pittura paleolitica dell'età della renna, tentativi di approfondimento nello spazio, quindi vedute di scorcio. Si noti inoltre l'assenza di ogni norma di prospettiva, e l'assoluto predominio di quella forma rappresentativa che il Wölfflin ha chiamato lineare; solo nell'arte paleolitica franco-cantabrica si può scorgere, se non nel complesso della figura, per lo meno nei particolari interni, una tendenza di sviluppo verso il pittorico, cioè lo sfumato o l'apparenza impressionistica.
Nella scultura, in virtù della legge enunciata e ben conosciuta anche nei primordî dell'arte classica, la figura a tutto tondo è sempre divisibile da un piano ideale, tracciato verticalmente nel suo mezzo, in due parti, che se non risultano sempre perfettamente simmetriche, sono però sempre equivalenti. Alla costante applicazione di queste leggi si accompagna una preoccupazione dei particolari che per lo più va a scapito dell'insieme; e siffatta disposizione d'animo, comune a tutti i primitivi, è soprattutto la causa di quel carattere strano e suggestivo che il prodotto d'arte primitiva assume per i nostri occhi di civili. Oltre a ciò, è notevole una costante tendenza alla semplicità costruttiva, che non sempre è in intimo rapporto con quella dei mezzi pratici.
È stato osservato che l'arte dei bambini, specie il disegno, si avvicina in modo sorprendente a quella dei selvaggi; ma ciò vale soltanto per l'esteriorità, per le forme e per i mezzi d'espressione. Ma non bisogna procedere in una supervalutazione, perché la mentalità dei selvaggi, essenzialmente diversa, non può essere rassomigliata a quella dei nostri bambini, viventi in ambiente così diverso e che possono essere inconsci eredi di una millenaria esercitazione. Più ragionevole è il ravvicinamento che si fa tra l'arte preistorica e quella dei primitivi attuali, se non altro perché alcune condizioni di vita possono supporsi analoghe; ma anche su questo punto è bene procedere con cautela, in considerazione dello sviluppo raggiunto dalla vita spirituale di alcuni popoli selvaggi, nonostante l'aspetto primitivo della loro vita materiale.
La mancanza di confessate individualità nel campo dell'arte primitiva ha fatto sì che questa venisse studiata con più rigore sulla base dell'ambiente stilistico, in corrispondenza con lo stadio della cultura materiale. A questo proposito, recentemente il Kühn è giunto ad una precisa sistemazione. Stabilita la differenza degli stili in due stili fondamentali, come più sopra si è accennato, il "sensorico" e l'"imaginativo", il Kühn divide in tante "provincie" artistiche le manifestazioni di tutta l'arte primitiva, raggruppandole poi secondo lo stadio di civiltà proprio dei popoli cacciatori (parassitario), degli agricoltori (simbiotico), degli organizzati politicamente con separazione economica delle classi. Il primo gruppo abbraccia l'arte del Paleolitico europeo, dei Boscimani, dei popoli artici, del Mesolitico o Epipaleolitico europeo, degli Australiani (stile sensorico dello stadio parassitario); il secondo gruppo comprende l'arte dell'età neolitica e del bronzo e della prima civiltà del ferro europea, quella dei negri dell'Africa, degli indigeni americani, degli Oceanici (stile immaginativo dello stadio simbiotico); il terzo gruppo, infine, comprende lo stile sensorico di civiltà più progredite, cioè l'arte cretese-micenea, di Benin, del Messico e del Perù, precolombiani, dell'epoca delle grandi invasioni o barbarica. Il mutamento dello stile, sulla cui determinazione influiscono dapprima cause naturali, d'ambiente fisico, di clima, dal Kühn è messo in correlazione con lo sviluppo economico, che peraltro egli concepisce come un fenomeno non puramente materiale, ma determinato dall'attività spirituale, dagli individui pensanti e produttivi. È da osservarsi che, sebbene il determinismo economico sia reso così meno efficace, pure il regime economico più progredito potrebbe al caso spiegare l'intensità della produzione artistica, e la preferenza per certe materie adoperate, ma non mai la diversità dello spirito essenziale dell'arte. D'altra parte, le arti del terzo gruppo, così complesse e sviluppate, non appaiono unicamente sensoriche, perché elementi di schietto naturalismo sono mescolati e fusi con quelli astratti o fantastici, decorativi; inoltre esse non rientrano nel quadro del vero primitivismo. Basta pensare che l'arte di Benin soggiacque indiscutibilmente a influssi europei; né sono ignorate le influenze estranee subite dall'arte cretese-micenea e dalla barbarica. È bene anche intendersi sul senso preciso che si deve dare alla parola "realismo" o "realistico" a proposito dell'arte dei selvaggi. Non bisogna dimenticare che la mentalità dei primitivi è essenzialmente diversa dalla nostra; che essa, come ha sostenuto il Lévy-Bruhl, è una mentalità prelogica, mistica. L'abilità tecnica dei primitivi non è mai guidata da vere e proprie riflessioni intellettive; onde l'artista primitivo non si preoccupa della realtà quale essa è, ma spontaneamente offre la sua visione del reale, senz'altro. Questa profonda, intima soggettività dell'arte primitiva, insieme con le cause d'ordine naturale che certamente influiscono sul variare della sensibilità estetica presso i popoli primitivi, basta per spiegare le diverse apparenze d'espressione e il cammino dell'arte stessa. Quindi, anche dal punto di vista dell'origine e del significato, si può ripetere per i naturali viventi l'osservazione già fatta per l'arte paleolitica. Totemismo, animismo, culto degli antenati, sono la grande sorgente d'ispirazione dell'attività artistica dei selvaggi; ma la causa prima del fenomeno estetico sta forse al di là. Sarebbe infatti difficile spiegare con la causa religiosa, o ammettendo questa come causa prima, originaria, in senso assoluto, le molte forme d'arte puramente disinteressata, e anche il sorgere e lo sviluppo dell'arte decorativa più propriamente detta. La religione, concepita in senso generico, lato, in un momento della vita dell'uomo primitivo che si deve supporre di elevazione o di sviluppo spirituale e mentale, dà all'uomo quasi la coscienza del suo potere creativo e lo spinge in certo modo a utilizzare il prodotto di una facoltà innata, diventando anche regolatrice e il più fecondo stimolo del lavoro; essa è anche atta a fissare tutta una serie d'indirizzi rappresentativi. Ma, l'origine vera dell'arte, se si scruta ben addentro la ricca e multiforme attività estetica dei primitivi, consiste in un profondo sentimento innato, in una dote spontanea, vero dono divino, che l'uomo porta con sé fin dalla nascita e che altre cause assai naturali determinano in un modo d'espressione piuttosto che in un altro: è un potere, una forza spirituale che realmente serve ad elevare l'uomo al di sopra del mondo animale, traendo anche alimento dai molteplici aspetti della natura, le cui forme, pur nel grande avvicendarsi, tendono al perfezionamento e contengono il segreto, l'essenza della Bellezza che l'uomo traduce nelle sue figure scolpite o disegnate, nelle sue immaginazioni plastiche o pittoriche, che non sono mai astrazioni assolute o inconciliabili allontanamenti dalla realtà sensibile, ma interpretazioni della sua divina essenza.
Bibl.: R. Andree, Das Zeichnen bei den Naturvölk, in Mitteil. d. Anthrop. Gesellsch., XVII, Vienna 1887; A. Anile, Dati antropologici sull'origine dell'arte, in L'uomo nella scienza e nell'arte, Bologna [1922]; H. Balfour, The Evolution of Decorative Art, Londra 1893; A. Della Seta, Religione e arte figurata, Roma 1912; E. Grosse, Die Anfänge der Kunst, Friburgo 1894 (trad. francese: Les débuts de l'art, Parigi 1902); A. C: Haddon, Evolution in Art Life - Histories of Design, Londra 1895; M. Hoernes-O. Menghin, Urgeschichte d. bildend. Kunst in Europa, Vienna 1925; H. Kühn, Die Kunst d. Primitiven, Monaco; id., Die Bedeutung d. prähistor. und ethnogr. Kunst, in Ipek, I (1925), pp. 3-13; id., Primitive Kunst, in Ebert, Reallexikon d. Vorgesch., X, (1928); L. Lévy-Bruhl, La mentalité primitive, Parigi 1922; G. H. Luquet, L'Art et la Religion des hommes fossiles, Parigi 1926; H. G. Spearing, The Childhood of Art, Londra 1912; V. Spinazzola, Le origini e il cammino dell'arte, Bari 1904; Eck. von Sydow, Die Kunst d. Naturvölker u. d. Vorzeit, Berlino 1923; E. Vatter, Religiöse Plastik d. Naturvölker, Francoforte sul M. 1926.
L'arte greco-romana.
L'arte greca, a differenza di quella di tutti gli altri popoli dell'antichità, e anche di quella di molti dei popoli dell'evo moderno, ebbe un carattere di universalità, che la innalza e la astrae dal ristretto ambiente geografico in cui sorse e dalle vicende del popolo che la creò, per farla assurgere al grado di espressione eterna e generale dello spirito umano. A ciò concorsero insieme il valore immanente, assoluto dei problemi che essa si pose e la perfezione ideale cui giunse nella loro soluzione. Onde, pur lasciando da parte quelli che furono i particolari svolgimenti storici di quest'arte che, al pari di quelli dell'arte degli altri popoli, verranno trattati sotto la voce relativa (v. grecia: Arte), la ricerca e l'illustrazione delle sue forme fondamentali e della sua intima essenza, e degli immediati riflessi e dei più ampî sviluppi che essa ebbe nel mondo romano ed italico, paiono invece elementi necessarî a integrare lo studio del fenomeno artistico in generale.
Ciascun'arte, e così l'antica classica (greca, etrusca, romana), riceve la sua fisionomia peculiare dal complesso dei compiti che le si presentano, e delle forme di cui si serve a risolverli.
Ciò è senz'altro evidente in quel ramo dell'arte che suol considerarsi il ramo maestro, nell'architettura. Al nostro concetto dell'architettura greca va strettamente connesso quello di uno stile ben definito: le diversità esistenti nella conformazione di alcune parti (zoccolo, colonna, trabeazione), onde si distinguono i tre ordini (dorico, ionico, corinzio), paiono piuttosto varianti di un tipo che è sostanzialmente uno, trattisi di templi, edicole, tesori, o di edifici profani, luoghi di adunanze, mercati, portici, propilei, oppure, in alcune parti del mondo ellenico, di mausolei. Le diversità degli usi si esprimono nella pianta: ma anche dove questa si discosta maggiormente dalla consueta, come nei templi destinati a misteri (Eleusi) o nei non frequenti edifici circolari (teatri, odei ecc.), gli elementi dell'alzato, tutt'al più diversamente combinati o moltiplicati, sono i medesimi. L'impressione dominante risiede nell'aspetto esteriore, nella facciata, i cui concetti si ripetono persino all'interno quando vi siano delle navate.
Parlavamo dell'architettura classica. Il precedente periodo minoico-miceneo possiede bensì qualcuno di siffatti elementi (colonna), ma li adopera diversamente. Questo periodo non conosce templi, la sua arte architettonica si esplica principalmente in edifici profani, soprattutto palazzi, con profusione di stanze, corridoi, magazzini, disposti a più piani ed aggruppati intorno ad uno o più cortili, ma, nella sede centrale di quella civiltà, a Creta, senza facciata vera e propria. Solo nelle reggie della Grecia continentale si hanno mègara e propilei, precursori del tempio classico.
E all'interno ancora è diretta l'architettura minoico-micenea negli edifici sepolcrali con le loro vòlte ammirevoli (tholoi), mentre di fuori sono pur semplici tumuli di terra comunicanti con l'esterno soltanto mediante una porta, talvolta sontuosa, ma quasi nascosta in fondo a un andito lungo e stretto.
Il tipo classico dell'architettura viene adottato con lievi modificazioni da quella etrusca (ordine tuscanico), ed integro, sebbene di preferenza con la variante orientale del podio, dalla romana. Da Roma poi si diffonde l'arco trionfale, connubio della facciata classica del propylon con la costruzione a vòlta. Ma anche il principio opposto viene accolto dall'Etruria e da Roma con il sepolcro a tumulo, e Roma porta la costruzione circolare alle dimensioni degli edifici centrati del Pantheon e dei mausolei imperiali, che nella grandiosa loro audacia preludono alla creazione nel suo genere più alta del genio artistico italico, alla cupola di San Pietro.
Ampliamento romano della costruzione circolare è altresì l'anfiteatro. E, sempre ingigantendo, Roma arriva alle proporzioni delle sue terme, basiliche, trofei, ninfei, settizonio, nonché ai palazzi (domus aurea) e alle ville (Adriana), che nella vastità e nella complessità della pianta ricordano alquanto, pur superandoli enormemente, i palazzi minoici.
Al corpo struttivo dell'opera architettonica accede l'elemento decorativo. Vi si prestano prevalentemente certe parti della superficie esterna quali i fregi, i frontoni, le porte, nonché gli angoli ed i comignoli del tetto (cui si sovrappongono gli acroterî), talvolta anche parti della colonna. Ma già il periodo minoico conosce pitture all'interno, uso che nel periodo classico continua, in Grecia e nell'Oriente ellenico come nelle varie regioni d'Italia, con i fregi e le grandi pitture murali nell'interno di templi e di altri edifici di culto, di portici, case private, terme e sepolcri, e nei dipinti e stucchi di vòlte e soffitti.
Quel che si dice dell'architettura vale di qualunque altro oggetto manifatturato ad uso pratico, quali sono mobili, lampadarî, incensieri, caldaie ed altro vasellame, armi, utensili di ogni genere. Se le loro forme fondamentali o tectoniche vengono dettate dalle esigenze pratiche, l'arte vi si esplica nelle sagome e proporzioni, nell'armonia statica ed ottica delle parti. Ma vi ha anche qui l'elemento decorativo che occupa le superficie ed i punti adatti, spesso si sostituisce, con forme umane, ferine, vegetali, alle parti costitutive (anse, piedi, sostegni), e persino s'impossessa dell'oggetto intero, trasformandolo, come non di rado avviene di vasi, lucerne, pesi ed altro, in figure o teste dei tipi accennati.
È proprio "decorativo" il concetto originario di siffatto elemento? In molte delle forme in parola, soprattutto in quelle di bestie temibili (leone, toro, serpente), o di esseri mostruosi (sfinge, grifo, testa della Medusa, sileno) è ovvio l'ufficio apotropaico, quello cioè di difendere l'oggetto e rispettivamente il suo contenuto da influenze malefiche. Concetto che ugualmente si applica all'uso delle forme medesime nella grande architettura. Se non che accanto a questi soggetti se ne riscontrano, fin dai tempi più antichi, altri, tolti dalla vita reale o dal mito, spiegabili talvolta con qualche ufficio allusivo, altre volte invece ispirati apparentemente al solo piacere della vista di oggetti belli, della riproduzione di momenti attraenti della vita umana, oppure, come già nelle pitture parietali minoiche, del mondo animale e vegetale. Sono dunque due le radici dell'arte decorativa, magica l'una e l'altra puramente estetica? Ovvero anche questa seconda deriva dalla prima? Certo è che nell'evoluzione ulteriore anche le forme apotropaiche passano sempre più in estetiche: esempio tangibile l'adornamento della persona, che da amuleto protettivo diventa ornamento vero e proprio. È certo altresì che la Grecia per prima crea e porta al massimo sviluppo un'arte decorativa, attingendo, per i soggetti, alla fonte inesauribile del mito.
In quanto vedemmo finora, non v'ha differenza sostanziale tra l'uso sacro e profano dell'opera d'arte; l'uno e l'altro si servono generalmente delle forme medesime. Ma se la fioritura d'un'arte profana dipende da condizioni particolari, quali nel periodo minoico-miceneo l'esistenza di lussuose corti principesche e poi le tirannidi della Grecia arcaica, universali e perenni sono le fonti dell'arte sacra, e l'arte antica ne riceve i più potenti impulsi. Non solo per gli oggetti del culto propriamente detto, ossia i simulacri e gli arnesi rituali. Diffusissimo nel mondo antico è il dono votivo, con il quale l'uomo - l'individuo come le comunità - si mette in relazione diretta con il nume, o per implorarne la benevolenza o per ringraziarlo di un favore ottenuto. Caccia e pesca fortunata, buoni affari, imprese e gesta vittoriose, onoranze, salvezza da pericolo, esaudimento d'un desiderio, guarigione da malattia, liberazione da prigionia, ma anche sciagure pubbliche e private possono dar luogo a doni votivi. E molteplici come le cause sono le forme. Spesso sono oggetti naturali, quali pure i sacrifici, o di valore soltanto materiale, monete, metalli preziosi, oppure oggetti cultuali, incensieri, vasi, tripodi. Ma spessissimo assumono la forma d'immagini esprimenti il concetto dell'offerta.
Fonte non meno perenne, pure d'ordine sacro, è il culto dei morti. L'arte vi si esplica in tre modi: nella cassa o altro recipiente per il cadavere o le ceneri; nella suppellettile che li accompagna; e nel monumento che indica la sepoltura e che può essere tutto uno con il recipiente.
Varie sono le forme di quest'ultimo. Spesso, anche nella Grecia classica, son semplici vasi fittili. Il sarcofago, noto già alla civiltà minoica, nel periodo classico si usa piuttosto ai confini orientali e meridionali del mondo ellenico (Asia Minore, Egitto, Cipro, Sicilia) e l'arte greca lo eseguisce anche ad uso straniero (Licia, Fenicia, Ponto). Più comune fin da principio il sarcofago nell'Occidente, specie nell'Etruria, dove riveste forma di banco o kline su cui le figure dei defunti costituiscono il coperchio. Forma che passa al mondo romano, il quale accanto ad altri tipi, presi in prestito in parte dalla Grecia ellenistica (a tino o vasca ovale, baccellato, a colonnato, ecc.), crea un tipo suo particolare: semplice cassa oblunga, coperchio a uno o due spioventi, spesso con acroterî agli angoli. E sotto l'influsso di Roma il sarcofago si diffonde poi, con forme più spiccatamente architettoniche, nell'Oriente greco, nell'Italia meridionale, e, con innumerevoli varietà, nelle provincie dell'impero. Gli stessi tipi con le figure sul coperchio, servono, impiccoliti, alle urne cinerarie etrusche, precedute da altre forme, come i "canopi". Roma predilige le forme ellenistiche di urne cilindriche e rettangolari o di are, con nel coperchio spesso la cavità per le libazioni. Con la suppellettile funebre si vuol corredare il defunto di ciò che gli possa servire nell'esistenza futura o prestargli quella difesa magica di cui sopra si è detto. Spesso anziché oggetti realmente servibili se ne depongono imitazioni, anche rimpiccolite e di materia, secondo le circostanze, più preziosa o più vile. Vi sono anche dei tipi (p. es., di vasi fittili) esclusivamente destinati all'uso funerario.
Dei monumenti innalzati sopra la sepoltura le forme più semplici sono il pilastro o stele coronata da acroterio, frontone o cornice; la colonna, il banco o tavolo (trápeza); poi vasi, veri o riprodotti in pietra; l'edicola (naiskos); e, fuori della Grecia stessa, in grande varietà di tipi e dimensioni, il tempio e la torre.
Nell'evoluzione ulteriore si aggiungono alle classi enumerate di opere d'arte i monumenti commemorativi e onorarî: profani sì, ma che si possono riannodare al concetto votivo.
E relativamente tardi appaiono anche i generi rispondenti al solo diletto o interesse offerto dal soggetto e dal modo della sua riproduzione: il ritratto (singolo o di più persone), il "genere" propriamente detto, anche burlesco (ispirato anch'esso, in origine, al concetto apotropaico), la natura morta, il bruto, il paesaggio.
Solo in queste ultime categorie, appartenenti ai periodi inoltrati dell'antichità, si può fare una certa parte a quel genere di compiti, che per noi altri moderni occupa un posto altissimo nella produzione artistica: quelli che l'artista si pone da sé senz'ordinazione. Nel periodo aureo si può affermare che l'artista non aveva l'iniziativa dell'opera d'arte - eccetto nei prodotti industriali - questa venendogli sempre commessa. Il tirocinio si faceva nelle officine.
Fin qui, parlando di arte figurativa, non si è fatta distinzione tra i varî generi tecnici: scultura e pittura, con le loro suddivisioni. Infatti l'uso dell'uno o dell'altro genere dipende spesso da circostanze esteriori, quali le dimensioni e il prezzo dell'opera, i materiali disponibili; e non di rado nella stessa opera concorrono due o più tecniche. Tuttavia si nota per certi compiti la prevalenza di determinate tecniche. Alla ricorrenza di compiti identici risponde il ripetersi di soluzioni già trovate e provate; si stabiliscono alcuni tipi soltanto eccezionalmente abbandonati e tutt'al più con lievi modificazioni adattati alla specialità del caso. Onde si raccomanda una rapida rassegna delle diverse tecniche, in vista degli usi cui vengono di preferenza adibite e delle forme che ne risultano.
La statua. - Le materie più comunemente usate dalla statuaria antica sono: la pietra, soprattutto il marmo, ma anche, nell'età posteriore, pietre dure (porfido, basalte, ecc.), ed il bronzo battuto e fuso. Inoltre l'argilla, lo stucco, il legno, l'oro, l'argento, l'avorio, più di rado l'ambra, il vetro e la cera. Si usarono pure combinazioni, quali l'oro su fondo di legno e d'avorio (statue criselefantine), il legno e la pietra (acroliti), il bronzo e l'argento dorato. E all'opera dello scalpello per molto tempo accedeva la colorazione (policromia).
La statua si può dire l'opera d'arte assoluta, in quanto in essa non c'è dualismo, bensì unità perfetta dell'elemento figurato e dell'elemento materiale o tettonico. E vi ha un campo di esclusiva sua applicazione: il simulacro dei numi che non ammette (rarissime eccezioni in qualche culto straniero di età tarda non contano) se non la forma statuaria. Il simulacro greco, salvo casi isolatissimi, è antropomorfo. La sua sede è, di regola, la cella del tempio (che in altre sue parti può servire a deposito di tesori ed alla loro gestione), talvolta un antro; né mancano esempî di simulacri conservati per turno in case private. In alcuni culti il simulacro viene periodicamente mosso dal suo posto per subire certi atti rituali (lavanda, vestizione); di solito permane fisso anche quando accoglie il sacrificio che ha luogo sull'altare, fuori del tempio.
Al concetto primitivo del simulacro è inerente il suo rapporto con lo spettatore, ossia l'orante: al quale dunque, o seduto o in piedi, è rivolto, spesso porgendogli la patera per la libazione. Se in principio i tipi sono generici, tutt'al più individualizzati dagli attributi esteriori (tra cui l'animale favorito posato sulla mano o accanto al dio), il differenziamento si estende poi all'atteggiamento fisico e infine alla caratteristica morale, abbandonandosi anche la stretta comunicazione con lo spettatore. L'effetto dell'immagine divina è non di rado accresciuto da proporzioni sovrumane.
Parliamo della Grecia classica e delle civiltà che ne adottano le forme d'arte (cipriota, etrusca, italica, romana). La precedente età minoica non ha simulacri come non ha templi; i suoi culti si compiono nel recinto delle abitazioni, in cappellette, oppure sulle alture, in antri, ecc. Non per questo tali culti difettano di opere statuarie: ma sono o idoletti (di significato non di rado protettivo) o doni votivi, gli uni e gli altri di dimensioni assai inferiori a quelle usate per i simulacri dell'età classica.
Anche in questa, fin da principio, accanto al simulacro, appare la statua votiva, piccola o grande, deposta, appesa o innalzata nei santuarî. Spesso si appropria i tipi dei simulacri, ai quali però ne aggiunge altri. Rappresenta cioè il nume in azioni speciali: inoltre tipi umani, ministri e ministre del culto, adoranti, danzatrici, musici, guerrieri, cavalieri, quadrighe, esseri demoniaci, animali. Talvolta si deve vedere in esso il dedicante stesso, sia che si offra in perpetuo servizio al nume, sia per ottenerne, in effigie, la tutela costante: effigie limitata anche alla sola testa, come quelle fittili trovate in Etruria e in altre parti d'Italia.
Forse una fusione dell'idolo tutelare e di quello destinato all'adorazione si ha da riconoscere nelle statuine dei lararî romani (ricordanti, da lontano, le cappellette dei palazzi minoici). O in quelle che accompagnano persone di non stabile dimora, militari, commercianti e simili; tra le quali statuine prevalgono tipi come la Fortuna, Mercurio, Venere, Ercole (aiuto validissimo).
Né del tutto si è offuscato il primitivo concetto protettivo nelle figurine poste sulle mense a guisa di "trionfi". E nemmeno in quelle di Amorini, Vittorie ed altri, formanti pendenti e ciondoli nell'ornamento femminile. E brevemente ricorderemo ancora i balocchi figurati.
Abbastanza limitato è il campo della grande statuaria sepolcrale. La figura umana vi comparisce bensì, ma senza allusione manifesta alla persona del defunto. Talvolta anzi si crede dovervisi riconoscere divinità ctonie, quali Ermete, Persefone. Più frequenti sono animali o esseri fantastici, custodi del sepolcro: leoni, arieti, sfingi, sirene, ecc. Abbondante invece è il repertorio delle figurine fittili deposte nelle tombe, fino a quella dovizia delle necropoli di Tanagra o Mirina, nei cui soggetti pare smarrito ormai ogni rapporto con l'ufficio di tutela o di corredo ad uso del defunto.
Un'altra classe poi di dediche della propria immagine va particolarmente rilevata: cioè quella delle statue dei vincitori negli agoni, espressi con lo speciale arnese di palestra o con in mano o sul capo il premio della vittoria (corona, benda o altro), in atto di adorazione, nell'atteggiamento caratteristico dell'esercizio, più tardi anche in qualche azione accessoria (unzione, ecc.): sempre nudi. Per vittorie nelle corse si dedicano riproduzioni di carri con i destrieri e l'auriga.
Con queste statue, pur sempre votive, ci accostiamo a quelle onorarie d'indole profana. La statua onoraria esordisce verso il 500 a. C., per diventare frequente e frequentissima nel periodo ellenistico e romano. Lo stratega con l'elmo e la clamide, l'oratore vestito d'himation, il poeta e il filosofo, in piedi o seduto, ammantato o più o meno nudo, sono i tipi più usuali. La somiglianza individuale delle fattezze si ottiene e si richiede soltanto gradatamente. Né solo ai vivi e contemporanei si erigono statue, ma anche, con ritratti immaginarî, a ricordare personaggi del passato e per ornare teatri, scuole, palestre, biblioteche.
Ritratti in quanto concerne la testa sono pure le statue degli imperatori e dei loro congiunti, mentre del resto sogliono essere generiche, togate, loricate, in piedi o a cavallo. Dell'imperatore deificato oppure nel culto del vivente le statue non di rado assurgono a grandezza colossale, come già avveniva per i principi ellenistici. E sull'esempio di costoro la testa-ritratto va unita a una figura ideale di divinità greca; il che si verifica anche nelle statue d'imperatrici e di altre matrone romane.
Creazione greca è una forma statuaria limitata a parte del corpo e segnatamente alla testa, e nel rimanente pilastro: l'erma. In origine questa ha funzione tutelare all'ingresso di case e città, sulle strade e piazze, fors'anche su tombe: e se destinata a stare su crocevie, può essere duplice o quadrupla. Più tardi l'erma si usa come abbreviazione di statue, soprattutto ritratti, per i quali inoltre s'introduce la forma del busto, in varî modi ritagliato, e di uso profano sepolcrale. Abbreviazione ulteriore è la maschera umana o mostruosa, apotropaica dapprima e sospesa o deposta nei sepolcri, poi decorativa. Viceversa, allo sdoppiamento dell'erma fa riscontro l'Hekateion di tre figure reciprocamente addossate ad esercitare tutela magica in ogni direzione.
L'opera statuaria di sua natura vuol essere guardata da sola. E anche quando ragioni determinate esigono dualità o molteplicità di simulacri, questi, in origine, sono semplicemente giustapposti. E così, pure in età inoltrata, si hanno doni votivi rappresentanti personaggi, strateghi vittoriosi, famiglie o episodî storici o mitologici, battaglie, cacce, composti di tante figure tra di loro staccate. Solo più tardi si giunge all'unione materiale, al gruppo; cominciando dalla decorazione statuaria di grandi frontoni, che per l'effetto si debbono piuttosto avvicinare al rilievo.
Funzione di rilievo adempiono anche i barbari prigionieri collocati avanti l'attico degli archi trionfali. Invece puramente statuarî sono spesso nell'architettura gli acroterî figurati; e talvolta la statua si sostituisce alla colonna o ad altro sostegno in forma di canefora o cariatide, di Atlante (Telamoni), di Sileno inginocchiato.
Che se poi nel periodo ellenistico e romano la statua di più in più e in grandi quantità viene adibita a decorare piazze, templi, portici, terme, case urbane e ville, giardini, fontane, le fronti delle scene ecc., questo di solito non avviene con forme nuove, ma con tutte quante indistintamente le già enumerate, sia che le opere venissero trasferite dalla loro sede originaria, sia che fossero, tutt'al più con qualche adattamento, copiate all'uopo.
La pittura. - Il termine va inteso qui nel senso più largo, comprendente anche il disegno (dipinto o inciso), il musaico, la tarsia e la tessitura. Materia della pittura sono dunque argilla, stucco, pietra, legno, metallo, vetro, avorio, tessuti, carta e pergamena.
La pittura in servizio dell'architettura per ragioni ovvie si svolge principalmente nell'interno, sebbene non manchino esempî della sua applicazione in metope di templi e in edicole sepolcrali. Della pittura parietaria dei periodi preellenico ed ellenico già facemmo parola. Il primo conosce anche la pittura pavimentale su stucco, alla quale più tardi subentrerà il musaico. Del periodo ellenico arcaico abbiamo esempî di lastre fittili formanti fregi interni di sepolcri. Assai più importanti, anche indirettamente per la storia della pittura greca, sono i dipinti delle tombe etrusche, rappresentanti in parte scene del mito greco, ma anche riti funebri nazionali, danze, banchetti, corse, esercizî di palestra, e il mondo degl'Inferi secondo le credenze etrusche.
Notissima poi la decorazione murale delle case di Pompei, Ercolano, Roma e di altri luoghi, informata di regola al concetto di fingere un'architettura, più o meno verosimile, in cui si aprono vedute o prospetti. I quali prospetti dànno l'illusione di fatti svolgentisi di fuori, prevalentemente mitologici, con sfondi architettonici, paesistici, ecc. Altre volte i riquadri nei riparti delle pareti presentano paesaggi terrestri o marini, scene di genere, animali, natura morta e simili. Oppure vi sono tondi o quadri con dentro busti ideali o realistici, o figure singole di Amorini, Muse e così via. Le scene mitologiche ci offrono riproduzioni più o meno fedeli di pitture più antiche: queste stesse, talora dipinti murali di templi o portici, il più delle volte tavole (pinakes) servite in parte a doni votivi, tra cui una classe speciale è costituita da quelle dedicate per vittorie nelle gare drammatiche. Più modeste sono le tavolette fittili, offerte da artigiani, di cui si hanno esempî arcaici rappresentanti i numi protettori o mansioni del mestiere. Il musaico in massima condivide i soggetti della pittura parietaria, ma non di rado supera questa nell'estensione e complessità dei quadri, circondati spesso di graziose cornici con maschere, fogliami, scene acquatiche ed altre.
Della pittura scenografica soltanto indirettamente ci possiamo formare un concetto. E così pure dei quadri portati nei trionfi romani illustranti avvenimenti e luoghi della guerra.
Così della Grecia stessa e dell'età classica, come di altri periodi e regioni, pochi sono gli esemplari conservati di stele sepolcrali in pietra con figure dipinte. Di sarcofagi dipinti se ne hanno, in pietra o terracotta nella Grecia minoica e poi nell'Etruria, in legno altrove (Crimea, Egitto), donde si hanno anche avanzi di casse e cassette di uso ordinario decorate in pittura. I cosiddetti sarcofagi di Clazomene, dell'età arcaica, sono piuttosto cornici per l'esposizione del defunto. Funerarie pure sono le tavolette in legno con il ritratto del defunto che, continuando un vecchio costume del paese, si ponevano sul viso alle mummie nell'Egitto ellenistico-romano.
Largamente rappresentati nel nostro patrimonio monumentale sono alcune classi di pittura o disegno applicati ad opere industriali.
Primeggiano tra questi i vasi fittili pervenutici in grandissimo numero causa il loro uso universale: domestico, votivo, sepolcrale. La pittura vascolare, fin dall'età minoica e per gran parte del periodo classico, fiorì in molti centri locali, fra i quali emergono le officine attiche dal se. VI al IV a. C. Con tavolozza assai limitata, dai contorni più o meno monocromi in semplice disegno lineare, cui non molto spesso si associa una parziale colorazione, quest'arte svolge un repertorio immenso di soggetti, tolti dalla vita reale e più ancora dal mito. Disegno a linee incise si applica a oggetti di metallo, legno, osso, avorio, per es. corazze, elmi, cassette, specchi, questi ultimi più frequenti in Etruria al pari degli scrigni cilindrici (ciste). I soggetti sono simili a quelli dei vasi.
Di lavoro d'intarsio e di ageminatura già l'età preellenica ci offre saggi stupendi nei pugnali di Micene. Di età classica se ne hanno esempî nell'incrostazione di mobili e di altri oggetti.
Alla fine del mondo antico appartengono i vetri dorati e dipinti non che i codici miniati a noi pervenuti, mentre di stoffe istoriate si hanno saggi di varie tecniche e di varie età.
Il rilievo. - Tra la statuaria e la pittura il rilievo occupa un posto intermedio, più unito a quella quando sia alto rilievo, molto affine alla seconda come bassorilievo. Nessuna materia adoperata dalla statuaria che non serva al rilievo, che usa inoltre alcune altre, come le pietre preziose; esso raggiunge inoltre tutti gli effetti dell'arte disegnativa presentando maggiore monumentalità e resistenza alle azioni atmosferiche. Ad esso, come alla statua, per molto tempo si applica, dove sia possibile, la policromia.
Dominante è la parte sostenuta dal rilievo nell'architettura sacra e profana. Esso invade frontoni e fregi (continui o alternati con triglifi esterni o interni), le porte, i pilastri reggenti il soffitto nella tomba etrusca (Cerveteri), e persino il capitello e il piede delle colonne (Artemisio di Efeso); lo zoccolo di sepolcri grandiosi (mausoleo di Alicarnasso) o di altari (Pergamo), la cinta murale di sepolture (Trysa) e altari (Ara Pacis), fino al rilievo storico ricoprente gli archi trionfali. E, d'altra parte, in stucco o pietra, si accompagna o si sostituisce alla pittura, incastrato, a guisa di quadro, nelle pareti di ambienti sontuosi.
Ma anche opere architettoniche minori si prestano a fregi o quadri in rilievo: are, cippi, puteali. E così gli zoccoli di oggetti varî, tripodi, candelabri, incensieri, e soprattutto le basi di statue, siano esse simulacri o altro: tali zoccoli e basi assumono talora forme e proporzioni monumentali. Sostegno di statue già in tempi antichi è pure la colonna, più tardi geminata o tripla. E come l'arco trionfale stesso si può considerare basamento colossale delle statue sovrapposte, così nell'uso romano la colonna coclide ritorna ad essere piedestallo gigantesco di statue d'imperatori, e vi fanno riscontro nell'arte provinciale altre colonne o pilastri istoriati, sorreggenti statue di dei o gruppi simbolici.
Poi ogni specie di utensili: mobili, scrigni, vasellame, specchi, pesi, armi, carri, finimenti di cavalli, ecc. Le tecniche variano come le materie: lavoro a sbalzo, a fusione, rilievo scolpito, applicato, stampato da forme a giorno. E secondo le tecniche e le maniere di decorazione si distinguono classi, come, nella ceramica, le coppe megariche, aretine, i vasi caleni, i buccheri etruschi, e così via.
In particolare dobbiamo fermarci sui rilievi dei sarcofagi. Quand'anche nel periodo preromano il sarcofago vero e proprio non si riscontri quasi nell'uso greco, le forme decorative e per lo più le tettoniche gli vengono dall'arte greca. Soggetti favoriti sono battaglie e cacce, per lo più in veste mitologica e solo raramente di carattere storico: caso isolato pure è la rappresentazione del cordoglio in una nobile schiera di donne (sarcofago di Sidone).
Maggiore varietà di soggetti offrono i sarcofagi etruschi e la loro riduzione, le urne cinerarie: soggetti di preferenza atroci e cruenti, tolti dal mito greco ed espressi con forme greche bensì, ma travisate e infiltrate di elementi locali; oppure scene dell'oltretomba, riti funebri e affini.
Alle forme genuine dell'arte greca ci riportano le urne ellenistiche e le loro continuazioni romane dell'età imperiale: festoni e ghirlande, appesi a bucranî o a teste d'ariete, maschere di Medusa, di Ammone, Vittorie e Amorini, aquile e uccelletti, danzatrici, i defunti a banchetto o in riunione familiare, ecc.
Nei sarcofagi prettamente romani (v. sopra) predominano pure, come già in quelli dipinti, i soggetti mitologici greci, scelti, almeno in origine, con trasparente intento allusivo (Achille, Meleagro, Ippolito, Fetonte, Proserpina, Niobidi, Prometeo ecc.). Allegoriche pure le scene bacchiche, le fatiche d'Ercole, o le figure di Tritoni e Nereidi, fors'anche gli Amorini, le Vittorie, le Stagioni; difensivi i grifi, le sfingi. A interessi letterarî accennano le Muse. Ma anche la vita reale romana si suole ritrarre, così il matrimonio, e le gesta militari, o il defunto stesso, solo o con la consorte, rappresentati a mezzo busto, incluso in medaglione o in conchiglia. E a tutto ciò accede l'elemento decorativo come nelle urne.
Alcuni dei soggetti medesimi, insieme con altri, si riscontrano poi nei sarcofagi greci e greco-orientali dell'età seriore. E con varietà innumerevoli il sarcofago si diffonde attraverso le provincie.
Talora, nel sarcofago romano, la fronte del coperchio tettiforme porta dei rilievi, e gli angoli hanno delle maschere: di carattere apotropaico come i mascheroni (ferini o demoniaci) alla bocca di fontane. Apotropaiche pure, nel concetto originario, le maschere, di solito teatrali, degli oscilla: lastre tonde o peltiformi liberamente sospese e quindi scolpite dai due lati.
Né mancano, nel campo del rilievo, i compiti in cui la parte figurativa assorbe la costruttiva. Così nei rilievi votivi. Sono tavole, talora di metallo o fittili, per lo più di pietra, di solito con incorniciatura architettonica. In tale quadro è figurato lo strumento del mestiere, la parte del corpo di cui si è implorata o impetrata la guarigione. Vi appaiono anche le divinità, espresse nei loro tipi statuarî, di rado comprese in qualche azione mitologica. Il più delle volte però sono rappresentati dei e mortali insieme, questi adoranti e recanti sacrificio a quelli. Spesseggiano in queste dediche i numi che presiedono alle più imprescindibili necessità della vita umana: la salute, il pane quotidiano, le acque potabili e salutari, le dispensatrici delle quali, le ninfe, sono espresse in atto di danza, e, a somiglianza dei consueti loro santuarî, il rilievo stesso suol essere foggiato ad antro. A culti speciali rispondono tipi speciali, o meglio, varianti dei tipi fondamentali. Così gli eroi, ossia i mortali divinizzati, sono rappresentati come nobili figure accoglienti la libazione o recumbenti a mensa.
E questi tipi, dovuti in gran parte all'arte attica, si diffondono poi e si applicano ai varî culti locali, greci, romani e provinciali, sebbene non manchino, in alcuni casi, tipi particolari, come per es., le lastre fittili di Locri, o, nell'antichità tarda, i rilievi mitriaci.
E l'Attica pure produce un'altra classe di rilievi che parte anch'essa dal concetto votivo. In testa alle stele di pietra (di rado lastre enee) in cui s'iscrivono decreti pubblici, trattati d'alleanza, rendiconti di funzionarî, onoranze a cittadini e stranieri, si mettono figurazioni allusive al contenuto del documento. Uso questo che nell'Attica più tarda si ripercuote nelle vignette a rilievo delle stele che riferiscono i nomi e le gesta dei giovani (efebi) educati ai servizî militari.
La forma primitiva dei rilievi sepolcrali è la stele o pilastro, alta e snella, coronata da palmette o da figure di leoni, sfingi, sirene, arieti cozzanti; la rappresentazione vera e propria in origine tiene un posto subordinato. Ma di più in più prendendo essa il sopravvento, il pilastro si allarga in quadro incorniciato a somiglianza del rilievo votivo, ma per solito di dimensioni maggiori fino a quelle edicole (ναΐσκοι) in cui l'alto rilievo delle figure rasenta le proporzioni naturali. Vediamo il defunto nell'atteggiamento caratteristico del vivo: l'artigiano con gli attrezzi; il giovane armato o in atto di combattere o di leggere o intento all'esercizio ginnastico; il fanciullo con i giocattoli; la donna che fila o guarda i suoi gioielli; la madre accarezzante il bambino; coniugi o genitori e figli stringentisi la mano in atto di congedo. Anche quando invece della stele il monumento è un grande vaso di pietra, i tipi del rilievo sono i medesimi. Né di rado vasi simili in rilievo son riprodotti nelle stele. Più ancora che per il rilievo votivo in questo ramo l'arte attica ha il primato; essa offre i modelli che infinitamente variati perdurano fin tardi anche in Italia e in tutto l'impero romano. Solo che i tipi sempre più s'irrigidiscono, le figure, spessissimo ridotte ai soli busti, a guisa di statue posano immobili per lo spettatore.
Non mancano peraltro speciali tipi locali, quali ad esempio i cippi frequenti soprattutto nell'Etruria o le stele istoriate della necropoli felsinea. E qui vanno rammentate le maschere d'oro coprenti il viso dei morti in tombe micenee, e altre più recenti fino alle maschere e teste di stucco colorato che nell'Egitto grecizzato ebbero funzione identica a quella delle tavolette di legno sopra ricordate.
Passiamo ai rilievi di dimensioni più minute. Frequentissimo già fin dall'età minoica è l'uso delle pietre incise, che servivano da sigillo o, portate al collo o al polso, da amuleto; e insieme con esse i castoni degli anelli di metallo. Le immagini, in principio destinate a protezione magica della persona o dell'oggetto cui il suggello va applicato, solo più tardi diventano distintivo individuale; e poi, affermandosi sempre più la tendenza estetica con immensa ricchezza di soggetti, si giunge a quei capolavori della glittica che tutti ammirano. Molto spesso, anzi nell'Etruria normalmente, il lato opposto della pietra incisa era foggiato a scarabeo.
Nel periodo ellenistico sorge la tecnica inversa delle figure rilevate. cioè il cammeo, destinato di solito ad essere incastonato in oggetti preziosi, ma anche talvolta considerato come opera d'arte indipendente.
Alle ultime fasi dell'antichità appartengono i dittici d'avorio, che i funzionarî entranti in carica donavano agli amici; alcuni di essi sopravvissero come legature di libri.
Affini in tecnica alle pietre incise sono i conî di monete. Sia pure dei Lidî, come si vuole, il merito dell'invenzione, l'arte anche delle più antiche monete conosciute è greca. E qui pure si nota il passaggio dalle immagini protettive alle determinanti, qui pure l'evoluzione fino ai più squisiti prodotti artistici.
Collaterali alle monete sono le diverse marche o tessere, di piombo, osso, argilla: teatrali, giudiziarie, commerciali, frequentissime nel mondo romano per l'ingresso ai bagni, agli spettacoli, per le distribuzioni frumentarie, e così via, recanti gli emblemi più svariati ed esse stesse foggiate talvolta a figura.
Varianti pure delle monete sono i medaglioni conferiti dagli imperatori; di forma affine i dischetti in metallo con in rilievo teste e figure, che nell'uso militare romano servirono di emblemi (signa) e di onorificenze personali (phalerae).
Ultimo in quest'analisi, ma non ultimo per importanza, rimane l'ornamento propriamente detto, che superficialmente si può distinguere in lineare o geometrico e figurale (vegetale, ferino, fantastico). L'ornamento (in quest'accezione della voce) è comune a tutti i generi dell'arte, accompagna l'arte antica in ogni sua manifestazione, mirabilmente armonizzato con il carattere dell'oggetto o con le funzioni della parte decorata e non di rado da sé parlante. E se pure qualcuna di siffatte forme ornamentali l'arte classica stessa ha accolta da altre arti più anziane, essa però le ha assimilate, modificate, organate di suo genio, e ve ne ha aggiunto delle altre. E sono le forme soprattutto dell'ornamento vegetale greco (rosetta, palmetta, bottone e fior di loto, voluta, ovolo, foglia d'acanto) quelle che hanno pervaso ogni arte posteriore e che indistruttibili vivono nella nostra.
Bibl.: Le illustrazioni e le bibliografie particolareggiate si riservano agli articoli speciali: qui si dànno soltanto alcuni riferimenti a opere riassuntive e a raccolte di materiale. V. anche la bibl. in A. Della Seta, Italia antica, 2ª edizione, Bergamo 1928, e id., Religione e arte figurata, Roma 1912; Ch. Daremberg e E. Saglio, Dict. des Antiq.; G. Perrot e Ch. Chipiez, Histoire de l'art dans l'antiq., I-X, Parigi 1882-1914; J. Durm, Die Baukunst d. Griechen, 3ª edizione, Lipsia 1910; id., Die Baukunst d. Etrusker. Die Baukunst d. Römer, 2ª edizione, Lipsia 1905; A. Evans, The palace of Minos at Knossos, I, II, Londra 1921-28; W. H. D. Rouse, Greek votive offerings, Cambridge 1902; S. Reinach, Répert. de la statuaire grecque et rom., I-V, Parigi 1893 segg.; H. Brunn e P. Arndt, Denkm. griechischer und röm. Sculptur, Monaco 1888 segg.; P. Arndt, Griesch. u. röm. Porträts, Monaco 1891 segg.; R. Kekulé e altri, Die antiken Terracotten, Stoccarda e Berlino 1880 segg.; P. Herrmann, Denkmäler d. Malerei d. Altert., Monaco 1906 segg.; S. Reinach, Répert. des peintures grecques et rom., Parigi 1922; A. Furtwängler (poi F. Hauser, E. Buschor) e K. Reichhold, Griechische Vasenmalerei, Monaco 1900 segg.; S. Reinach, Répert. des vases peints grecs et étrusques, I-II, Parigi 1899-1900; Union Académique Internat., Corpus Vasorum antiquorum, 1922 segg.; S. Reinach, Répertoire des reliefs grecs et rom., I-III, Parigi 1909-12; C. Robert, Die antiken Sarkopagh-Reliefs, Berlino 1890 segg.; W. Altmann, Architectur u. Ornamentik d. antiken Sarkophage, Berlino 1902; H. Brunn e G. Koerte, I rilievi delle urne etrusche, I-III, Roma e Berlino 1870-1916; W. Altmann, Die röm. Grabaltäre d. Kaiserzeit, Berlino 1905; A. Conze, Die attischen Grabreliefs, I-IV, Berlino-Lipsia 1893-1922; A. Brueckner, Ornament. u. Form d. attischen Grabstelen, Strasburgo 1886; G. Kieseritzky e C. Watzinger, Griechische Grabreliefs aus Südrussland., Berlino 1909; A. Kisa, Das glas im Altert., I-III, Lipsia 1908; A. Furtwängler, Die antiken Gemmen, I-III, Lipsia-Berlino 1900; B. V. Head, Historia Nummorum, 2ª ed., Oxford 1911; M. Rostowzew, Tesserarum Urbis Romae et Suburbii plumbearum Sylloge, Pietroburgo 1903; W. Froehner, Les Médaillons de l'Empire Rom., Parigi 1878; R. Delbrück, Die Consulardiptychen u. verw. Denkm., Berlino-Lipsia 1926 segg.; A. Riegl, Stilfragen. Grundlegungen zu einer Gesch. d. Ornamentik, Berlino 1893.
L'arte medievale e moderna.
Una trattazione della storia dello sviluppo artistico nell'età medievale e moderna non può prescindere da un breve chiarimento iniziale circa i concetti che debbono informarla. Che significa storia dell'arte? Deve dar maggior posto alla "creazione" o all'"evoluzione"? Se la storia dell'arte non può avere per oggetto che i grandi genî creaiivi, deve allora necessariamente essere monografica, come la tentò per primo l'avo di tutti i veri storici dell'arte, lo scultore fiorentino Lorenzo Ghiberti, e quale un altro grande Italiano, Francesco de Sanctis, l'ha data all'Italia nella Storia letteraria, che forse è l'unica degna di questo nome? Certo, vicino a questa vera e propria concezione "storico-artistica" ne sussiste anche un'altra, che vorremmo chiamare "linguistica", in cui l'opera d'arte non è considerata come autonoma e in sé stessa, ma come coordinata e quasi documento di uno sviluppo della cultura, o, come oggi si ama dire, della storia spirituale. Se l'arte non è che linguaggio, come vien detto già da tempo, è giustificata anche questa concezione della sua storia: e tanto le dottrine quanto le esemplificazioni storiografiche di un Croce e di un Vossler ne forniscono chiaro esempio. Ma, sotto questo rapporto, la storia delle cosiddette arti figurative è rimasta assai addietro alla storia della letteratura: povera di monografie che raggiungano veramente lo scopo, offre nei suoi manuali uno sgradevole miscuglio di considerazioni storico-artistiche e storico-linguistiche, che si disturbano e talvolta si distruggono a vicenda.
La seguente trattazione intende dare, con la necessaria brevità, più che uno schizzo, un indice ragionato di un libro sulla "linguistica" delle arti figurative nell'età cristiana, dal Basso Impero in poi. Non biologia, cioè, né sociologia, né, tanto meno, "grammatica storica" sul tipo di quella intravista da A. Riegl e insinuatasi anche nella Storia dell'arte senza nomi d'artisti del Wölfflin; e neppure una Storia dell'arte come storia dello spirito (ch'è, in fondo, una tautologia) quale la concepì M. Dvořak sulle orme del Dilthey: ma semplicemente una storia del "linguaggio" che in sé è storia della cultura, non per i paralleli e i rapporti esteriori, troppo frequenti nelle "storie dello spirito" in uso, ma perché è in sé filosofia, cioè storia della concezione del mondo.
Soltanto ragioni pratiche impongono di considerar qui solo le cosiddette arti figurative come linguaggio, entro quei determinati limiti di tempo e di spazio, e di tralasciare la storia dell'architettura, la quale da tempo forma una distinta materia d'indagini, affine per situazione a quella occupata dalla musica rispetto alla poesia. Pure d'ordine esclusivamente pratico è un'altra distinzione, per cui si faranno precedere le considerazioni sui "soggetti" a quelle sulle "forme", ma non già per rinnovare un ormai sorpassato dualismo tra contenuto e forma. Impressione ed espressione debbono essere distinte praticamente: il pubblico, il committente, il laico, con le sue necessità e pretese, deve essere distinto dall'artista creatore: quanto, cioè, vien detto iconografia - per lo più in un significato diverso, cioè quello lessicale - dallo studio della forma. È ovvio che, come altrove perfino la paleografia, qui anche l'architettura e la musica possono dar luce alla ricerca, poiché tutte le arti formano un'unità, un aspetto dello spirito teoretico. L'arte, in ogni suo aspetto, se la consideriamo in modo empirico, non è fondata su leggi (e tanto meno sulle ormai superate leggi fonetiche). L'arte, come il linguaggio, non è punto da considerare come un organismo vivente a sviluppo biologicoi bensì come funzione dello spirito. Se facendone la storia - come "storia del linguaggio" - vi si parlerà di progresso, esso sarà da intendere, nonostante la contraddizione, come progresso immanente. E non hanno senso le definizioni di ascensione, fiore, decadenza, quando si fondino su valutazioni esterne, normative, e se ne dimentichi il valore metaforico.
L'antichità cristiana. - Il cristianesimo, che sempre più si affermò dal sec. II d. C. in poi, trasse tanto il suo contenuto quanto la sua espressione formale dalle ultime fasi del mondo antico. La religiosità di questo mondo, in tutto nuova, gli preparò il terreno con la sua fede trascendente in un migliore al di là, quale si manifesta già sui sarcofagi pagani. L'Oriente esercitò la sua potenza anche in questo campo; e se il cristianesimo poté trionfare (e con quanta difficoltà !) sulle sette orfiche e soprattutto sul mitratismo vicino alla religione persiana di Mitra, lo deve in parte al fatto di aver trovato i suoi seguaci fra coloro che non avevano nulla da sperare quaggiù, tra i diseredati e gli schiavi dell'antichità. Era già un simbolo che il suo maggior mistero, il sacrificio e la morte del suo Dio, si presentasse in una nudità non eroica, ma obbrobriosa, sul legno destinato al supplizio degli schiavi: e certo questo massimo dramma dell'arte cristiana restò per lungo tempo senza raffigurazione. Troppo forte fu l'orrore dell'immagine nelle prime comunità ebraico-cristiane; molto tempo dovette trascorrere, prima che alla "mano di Dio" si sostituisse l'immagine del Creatore: e la colomba, come simbolo del Logos, vive ancor oggi, e non ha mai assunto altra forma. E così è caratteristico che le chiese della Siria abbiano sempre rinunciato a rappresentare la figura umana. Il linguaggio della prima arte cristiana è essenzialmente simbolico, e questo simbolismo dissolve ancora le rappresentazioni, già così rare e abbreviate, della storia sacra. Esse non sono nulla nel loro senso storico letterale, sono tutto nel loro senso apagogico: conferma della salvezm dalla morte e pegno per la vita ipostatizzata nell'al di là, che è la vera vita. Non invano, in quell'epoca, il platonismo risorgeva in forma nuova e profondamente mistica. Anche qui il cristianesimo si accostava alla religiosità pagana, che rappresentava i suoi misteri in forma simbolica; esso non era "nemico della luce" come questa, e aveva in comune con essa, e non soltanto col più forte dei suoi concorrenti - il culto di Mitra - il carattere sotterraneo dei suoi santuarî. Tanto nell'uno quanto nell'altra il giorno della morte era il vero dies natalis, sicché la preghiera mortuaria diventava la fonte liturgica più importante, commento e soggetto dell'immagine. La figura è scrittura, non ha un valore proprio, e presto sorge l'idea della Biblia pauperum. La porta semiaperta dell'Ade degli antichi sarcofagi viene trasformata nella porta del paradiso cristiano. La tomba fu la fonte più antica dell'arte cristiana, ma neppure ciò era una caratteristica particolare: i cristiani, appena contarono nelle loro fila più numerose le persone superiori per condizioni sociali e finanziarie, non solo continuarono a usare i sarcofagi antichi, adattati alle loro credenze, ma le loro catacombe in sostanza non differiscono affatto da quelle ebraiche, pochissimo dai sepolcreti e templi della tarda antichità pagana, come quelli trovati a Palmira, o le basiliche sotterranee, di cui quella di Porta Maggiore a Roma è la più grandiosa.
Ma l'immagine non è soltanto simbolo, ha anche la funzione artistica di ornamento. Anche i cristiani appartenevano al mondo antico, e così anche nella loro arte, come ovunque, entrò una larga corrente di forme antiche pagane. L'idillio bucolico dei pastori e dei pescatori (segno caratteristico di tutte le epoche tarde: tipico quindi in Alessandria, dopo l'età di Teocrito), con le numerose statuette del Buon Pastore; il ciclo bacchico con la festa della torchiatura, trattato nell'ultimo antico epos da Nonno, divenuto poi cristiano; il tracio Orfeo, con i suoi misteri di Eros e Psiche, rappresentati da Apuleio in una novella che ebbe un'eco inaudita; tutta la taumaturgia, come Filostrato la fa vivere nella biografia leggendaria dell'uomo miracoloso di Tiana; la tendenza a fondere natura e pensiero nella personificazione (di cui fanno testimonianza ancora le nostre carte astronomiche): tutto questo appartiene a quel sostrato comune ai cristiani e ai pagani, così profondamente studiato dall'Usener. E non ha solo valore di ornamento; ma, come nel paganesimo, significa qualcosa di superiore a sé, di trascendente. Fra tutto è notevole come rinascessero l'antichissimo e il primitivo; per rappresentare in modo sensibile il tanto contrastato tipo della Omousia, la divina identità di essenza nella Trinità, si riadottò la figura del trifronte, che ritroviamo dalla vecchia Gallia sin nella Persia. Anche gli animali ripresero, come simbolo, importanza simile a quella che avevano avuto nella più remota antichità; e dal paese dei culti animali, dall'Egitto, tornò lo strano libro, fonte iconografica di ogni arte medievale, il Physiologus. Il procedimento però col quale il naturale, il profano, venne trasformato in spirituale e divino, ebbe certamente radice nell'antichità ellenica; fu nondimeno rielaborato in senso religioso negli ambienti filosofico-ebraici di Alessandria: l'interpretazione dell'antica mitologia (lo stesso processo dell'ipotiposi usato dai filosofi greci per i loro poeti) trovò un'eco in un libro caro ancora alla Rinascenza, nelle Mitologie di Fulgenzio. Quanto fosse allegorica l'essenza di tutta la tarda antichità, vien dimostrato dai libri didascalici avidamente accolti dal Medioevo: il tanto pagano De Consolatione di Boezio, e De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella.
Molto significativo per il carattere intellettuale di quel periodo è il fatto che il libro per eccellenza del popolo ebreo - popolo sempre tenutosi in disparte, duramente perseguitato, politicamente distrutto - la Bibbia -, divenne nella sua qualità di "sacra scrittura" base della nuova arte cristiana. Storia e dogma, con il loro carattere didascalico e autoritario, vi hanno la base. Ciò fu qualcosa di nuovo anche rispetto alla tarda antichità, che pur aveva conosciuto l'illustrazione dei testi, o poetici o didascalici. Si diffonde così la miniatura, la quale assunse quell'importanza universale che poi conservò per tutto il Medioevo. Furono illustrati non soltanto l'Ottateuco del Vecchio Testamento e l'Evangelo, ma i Salmi, l'Apocalisse e anche i popolari "apocrifi", frutto della stessa Terra Santa, che fornirono la più ricca materia di ispirazione alla fantasia. La Bibbia diventò il libro fondamentale - in quanto, soprattutto, libro sacro e quindi imperativo - per tutta l'iconografia cristiana: fatto che l'antichità, nonostante Omero e i tragici, non aveva, in forma così categorica, mai conosciuto. La Bibbia diventa fonte di soggetti per la stessa "grande" arte sin nel tardo Medioevo, fino alla Biblia pauperum già ripetutamente riprodotta dalla stampa. La nuova Bibbia illustrata portò però ancora per molto i segni che rivelavano i suoi luoghi natali: l'ultima grande metropoli antica della moda e dell'arte, Alessandria (Lazzaro come mummia, il granaio a piramide di Giuseppe egizio, ecc.), e in seconda linea la siriaca Antiochia, i luoghi sacri della Palestina con le loro leggende locali.
La crisi di questo cristianesimo primitivo cominciò nel secolo IV col suo riconoscimento ufficiale come religione di stato, sotto la forma universale del "cattolicismo". L'al di qua reclamava oramai i suoi diritti. Il vecchio Impero, divenuto cristiano, rivestito di tutta la pompa della sua missione divina e di tutto il suo fasto, nella sua qualità di potenza protettrice della Chiesa, determinò anche il contenuto iconografico dell'arte che si rivela nei fastosi musaici parietali delle grandi basiliche post-costantiniane. L'elemento storico, ignoto sotto questa forma al cristianesimo primitivo, si affermò nei grandi cicli parietali allo stesso modo che nei palazzi la rappresentazione delle gesta guerriere o pacifiche degl'imperatori, la "Cronaca" dell'antico Oriente. Il sistema tipologico nella contrapposizione delle profezie del Vecchio testamento e delle realizzazioni del Nuovo appare già intimamente collegato al commento edificante, ai tituli composti di preferenza negli antichi metri. In opposizione alla storiografia antica, profana e pessimista, l'elemento storico assunse un nuovo significato e un più profondo valore per la Chiesa ormai consolidata: nella vita e nel sacrificio dell'Uomo-Dio si compie tutta la storia precedente, mentre con il ritorno del Signore, con la Civitas Dei di Agostino, il paradiso celeste, ha suo termine l'intera storia umana. Questo paradiso celeste appare, in visione apocalittica, nell'arco trionfale delle nuove basiliche, che s'incurva al di sopra dell'altare dove si compie quotidianamente il mistero dell'incarnazione dell'Agnus Dei e il sacrificio incruento a cui partecipa la comunità: il Dies irae, ancora in forma simbolica, come annunciazione del dogma. Accanto alla nuova storia si afferma appunto il dogma definitivamente fissato nei concilî; risuona in esso l'apologetica del primo cristianesimo retorico, conferendogli un colore, patetico e cupo, nella lotta contro pagani ed eretici, i più pericolosi nemici. Nell'abside appare la figura di Dio Padre non più raffigurato come una volta, quale "pedagogo" classico, ma già come dominatore del cielo e della terra; vicino a Lui la Madre di Dio, sollevata dal famoso concilio di Efeso (430) sopra un piedestallo che non era stato concesso a nessuna dea dell'antichità, l'umana femminilità nel suo splendore supremo e sentimentale di madre e di regina; e infine i santi e i martiri del nuovo Olimpo. Tutto vien presentato però con la massima pompa possibile: anche qui, come sempre, l'uomo rappresenta il divino secondo il suo più alto ideale sensibile. Era l'apoteosi del nuovo stato romano, divenuto cristiano; e tutta la pesante pompa orientale non riusciva a nasconderne il severo carattere latino: l'apoteosi dell'organismo più potente e più longevo conosciuto dalla storia, a cui rimaneva sempre l'impronta dello spirito antico, anche in questa sua nuova forma, che termina solo con Giustiniano. Alla nuova Roma di Costantino fu nuovamente assoggettato l'Occidente, con la redazione in latino - la lingua ufficiale dell'impero ancora vigente - del Corpus iuris, e con la costruzione dell'edificio in cui è fuso l'Occidente con l'Oriente la navata con la cupola: con la costruzione, cioè, della chiesa di S. Sofia, ultimo riflesso dell'architettura antica. Come l'arco trionfale della basilica richiamava la caratteristica forma dell'arte imperiale romana, così la gerarchia ecclesiastica fu esemplata su quella della burocrazia statale romana, a cui anche la cancelleria dei nuovi pontifices dovette la sua incomparabile solidità. Cristo e Maria apparvero con la veste ufficiale e gli attributi proprî ai monarchi secolari (Maria, p. es., come Pietas Augusta), tanto che medaglioni costantiniani poterono venir presi per rappresentazioni religiose. L'"uomo forte" assiro della Bibbia prese le sembianze dell'antica Vittoria; i nuovi etimologisti tradussero i trofei della vittoria nella croce del messo celeste, dell'angelo. Il trono vuoto con l'evangelo, l'ἐτοιμασία, come espressione simbolica del Giudizio universale, è il trono imperiale con i sacra mandata, ben noto nelle illustrazioni del Calendario romano. È un processo che può esser seguito sin nei più minuti particolari. Il "sacro", nuova concezione del vecchio Sanctum romano, si assimilò il profano e il laico per poi escluderlo quasi completamente. Con gli ultimi imperatori d'antico stampo scompare dai fori anche la vecchia statua onoraria. La statua equestre di Giustiniano nell'Augusteo di Costantinopoli è l'ultima di questo tipo. Ma gli evangelisti portano la veste degli antichi filosofi sin nella più tarda età, esattamente come il prete cattolico ancor oggi appare sbarbato e vestito secondo la moda dell'antichità tarda.
Il contenuto, invece, del cristianesimo era sostanzialmente estraneo all'etica classica; e un sentimento assolutamente nuovo era penetrato nell'arte. Essa doveva esaltare un eroe che soffre, la cui vita termina con la "passione" e che appare come trionfatore solo dopo la sua morte. Le cose stanno diversamente se consideriamo l'espressione formale. Benché fortemente ispirata dal nuovo contenuto, tra forma cristiana e pagana non v'è sostanziale contrasto, sebbene uno dei più importanti e più difficili problemi dello sviluppo stilistico si presenti proprio quando avviene il riconoscimento ufficiale del cristianesimo, poiché intorno al 300 d. C. si può dire incominci l'ultimo periodo della classicità, il cui termine si può porre intorno al 600 d. C.
Il distacco appare chiaro nei rilievi dell'arco di Costantino a Roma, del 315 circa, dove sono stati utilizzati anche rilievi più antichi del sec. II; e sembra che nessuno allora si rendesse conto della differenza tra questi e i più recenti, come, allo stesso modo, nel campo letterario, Sidonio Apollinare, credeva in buona fede di poetare in latino classico. Tutto era ormai cambiato. Al posto di quello che il Hegel chiamò "soggettività atomistica" della classicità, rispetto alla figura e allo spazio, era subentrato qualcosa di nuovo, primitivo e raffinato insieme; al posto dei gruppi variati e vivi troviamo masse, squadrate e scaglionate a blocchi; al posto di altorilievi composti con fine senso d'equilibrio, bassorilievi incassati, dove i contorni puramente lineari vengono sottolineati dal contrasto di luci ed ombre. Il tutto è costretto entro una struttura rigida, sottoposta alle norme della simmetria e della frontalità. Le proporzioni sono alterate, corte e grevi; il tipo prende il posto dell'individuale che dominava ancora l'arte del sec. III, irrigiditasi nel naturalismo etrusco-romano. L'elemento primordiale delle arti, e non soltanto di quella dei suoni, il ritmo, ne è il vero e proprio spiritus rector.
Confrontato con l'arte antica, tutto questo sembra veramente decadente, brutto, morto, barbarico, goffo, ed è stato considerato a lungo come tale. Ma senza dubbio qualcosa di nuovo si stava maturando, da cui uscì quel Medioevo anch'esso così lungamente disprezzato e misconosciuto, che solo oggi, in virtù della nostra esperienza, sappiamo apprezzare e valorizzare in ben altro modo di quanto non abbiano fatto romanticismo e positivismo. Si è parlato un tempo, in modo un po' troppo semplicistico, dell'imbarbarimento e dell'orientalizzazione dello stato e della società, sempre più notevoli nel sec. III; e ciò risponde anche alla verità, inquantoché i popoli germanici e i Parti furono i più pericolosi nemici dell'Impero romano. E il cristianesimo trionfante, dal cui ascetismo e disprezzo dei beni terreni non si può però far derivare senz'altro questo nuovo stato di cose, è una religione che viene da quell'Oriente al quale il culto ufficiale romano aveva già prima largamente attinto; e molti elementi orientali si nascondono nello stile ufficiale narrativo dei monumenti imperiali, in tutta la vita dell'epoca, sin nel costume e nell'etichetta, nella stessa sua raffinata primitività. La precedente descrizione dei rilievi di Costantino potrebbe convenire, con le dovute modifiche, anche a un rilievo assiro. Si tratta però di un processo assai più profondo, iniziatosi nell'antichità greca non derivabile da influenze esterne e, come il Bachofen ha per primo bandito e noi oggi sempre più facilmente constatiamo, questo processo si era svolto già una volta in Italia, presso quel misterioso popolo etrusco venuto, come sembra, dall'Asia Minore, che iniziò la prima arte italica, romana, con il suo naturalismo e il suo impressionismo, e permise all'Italia di accogliere la pittura ellenistica, specialmente quella alessandrina.
La scissione tra spirito e natura era già da tempo preparata; non per caso, in quel sec. III così fortunoso, rinacque il platonismo, con un nuovo colorito romantico, pieno di quel calore e quella fantasia che dànno la propria impronta all'ambiente, ormai quasi del tutto cristiano. I due indirizzi che posero fine alla filosofia antica, il neoplatonismo e il contemporaneo scetticismo, avevano minato quello che l'alta antichità considerava realtà. Era rinato il dualismo, così profondamente impresso nel vecchissimo pensiero dell'Oriente: apparenza ed essere si scindono, preparando lo spiritualismo ultraterreno cristiano. Il naturalismo romano, attestato, se pur con crescente rigidità, dalle numerose monete imperiali del sec. III fino a Diocleziano, poté celebrare un connubio, certo fatale, con la pittura illusionistica del tardo ellenismo, definita dalla vecchia critica conservatrice romana "spudoratezza egizia". Il rilievo, come ha poi riconosciuto e affermato Leonardo, viene distrutto e dissolto dalla "luce libera"; ed è caratteristico che l'ultimo filosofo dell'antichità greca, Proclo, definisca "sottilissima luce" lo spazio illimitato. In questo mondo "senza dei" equilibrio e ordine si poterono raggiungere solo attraverso una costruzione severamente architettonica nei modi dell'antico Oriente (costruzione ideologica realizzata poi dalla Scolastica nelle classiche forme delle cattedrali dell'Occidente) con la osservanza delle leggi più elementari, simmetria e frontalità, e della primordiale essenza di tutte le arti, il ritmo, e sotto la spinta della necessità di trovare un'immediata espressione al sentimento e alla fantasia. Abbiamo visto, nella nostra epoca, come il naturalismo positivista, minato dall'impressionismo, si sia trasformato in espressionismo (termini, per sé stessi, privi di significato); stiamo traversando uno dei ricorsi del Vico, una "nuova barbarie eroica", e questo ci consente oggi di rivivere quella violenta crisi di pensiero e d'intuizione, che inizia il secolo IV.
I rilievi costantiniani segnarono la nascita di un nuovo mondo, che andava lentamente sorgendo: quello dell'ultimo periodo dell'antichità, transizione tra la classicità e il Medioevo; e senza dubbio anche noi, nel nostro rinnovellato Medioevo, traversiamo un'epoca di transizione, con caratteri nuovi e vecchi, che ad un tempo ci attrae e ci respinge. Avanzi del naturalismo romano e dell'illusionismo alessandrino-romano operarono sin nel più inoltrato Medioevo. Quell'apparente librazione delle figure sulla punta dei piedi ne è un esempio, fra tanti. Si verificò una discrepanza tra le forme d'arte, come tra la lingua scritta e la lingua parlata (così si scriveva amorem quando l'm finale era caduta da un pezzo). Il musaico, espressione principale dell'arte figurativa nelle nuove basiliche, conservò nella sua tecnica divisionistica molto dell'antico illusionismo, che cercava gli effetti a distanza; ma non si può, come vogliono alcuni, e particolarmente A. Riegl, il più profondo indagatore di questi problemi, vedere nel nuovo colorismo a distanza, determinato da ragioni di razza, un primo concetto dello "spazio infinito" dei moderni; sembra piuttosto si debbano riscontrare gli ultimi effetti dell'impressionismo in lenta decadenza; ciò si vede nettamente nei più antichi manoscritti miniati cristiani, specialmente là dove cercano un effetto atmosferico.
Uno dei più notevoli aspetti di questo periodo dell'antichità tarda si ha nel continuo diminuire del numero di autentici ritratti individuali; è veramente straordinario come già sulle monete di Costantino il Grande, cioè in un prodotto dell'arte ufficiale, sia sparito di colpo il vecchio ritratto naturalistico "etrusco", vivo ancora nel sec. III. Nasce il ritratto di tipo già noto all'epoca dei Diadochi, e che separa sempre più l'Occidente latino dall'Oriente (compreso quello ellenistico), divisi politicamente e amministrativamente già dalla fine del sec. IV. Il medesimo orientamento dello spirito fu causa dell'allontanamento dall'oggetto naturale; la nudità classica, gioiosamente sensuale, divenne nel crocifisso l'espressione della miseria; il corpo sparì sotto i rigidi paludamenti delle vesti orientali, fastose quanto quelle delle statue ioniche arcaiche; le teste non mostrarono né la tranquilla calma espressione del classico stile impero, né quella patetica dell'antico barocco; nello sguardo e nell'espressione apparve qualcosa di sofferente, qualcosa di estaticamente teso, domato dalle severe, rigide linee della nuova tipologia. Questa dualistica scissione tra spirito e corpo conferisce ai busti (non più frequenti) di quell'epoca un fascino raffinato, oggi, di nuovo, particolarmente sentito da noi moderni.
Che è da dire, ora, della polemica intorno all'Oriente e a Roma nei loro rapporti, mossa dallo Strzygowski, e che da tanto tempo divide gli studiosi? Ci andiamo forse avvicinando a una composizione, che non è per niente un compromesso. Badando solo alle apparenze, l'orientalizzazione della vita e della società è un fatto innegabile; bisogna però stare attenti a non guardare le cose unilateralmente: non si deve cioè accettar senz'altro l'ipotesi bizantina o quella romana. Quest'ultima è dovuta alla mente acuta di F. Wickhoff, che con la propria esperienza contemporanea (da vero storico, quindi) per primo riconobbe e rappresentò l'arte romana, a cui la storia dell'arte era sempre stata matrigna, per lo meno in ciò che concerneva la sua fase più recente. Anche prescindendo dalle sue creazioni politico-economiche, la romanità diede, soprattutto nell'arte monumentale, sufficienti opere originali, che ebbero un valore universale e influirono anche in Oriente, come andiamo sempre più chiaramente constatando. Se la filosofia e la scienza rimasero greche, Roma conferì alla storia e alla poesia l'elemento creativo e informatore: è un fatto che dà a pensare.
Due fatti soprattutto non vanno dimenticati: prima, che l'Oriente, in parte e soltanto superficialmente ellenizzato, non presenta un'unità nazionale, e, in secondo luogo, che i due paesi più importanti per la sua evoluzione, Egitto e Siria, con le loro due grandi metropoli, Alessandria e Antiochia, stavano in antitesi. Era l'antichissimo contrasto tra Egitto e Assiria, si potrebbe dire, tra poesia e prosa (oppure storia), tra rappresentazione e descrizione, tra spirito camitico e spirito semitico. Le due città contrastavano anche per il loro sviluppo, ugualmente importante nel campo ecclesiastico e artistico. Nell'esegesi biblica il metodo speculativo di Alessandria si differenziava decisamente dal metodo razionale di Antiochia; da un lato l'esegesi allegorica, poetica, d'impronta greca, dall'altro l'arida esegesi storico-tipologica.
L'Asia Minore aveva una funzione propria, la cui importanza è stata insistentemente sottolineata. La sua costa ellenica, dinnanzi al retroterra barbarico, ne fece un'importante regione di tramite. Apollonio da Tiana proveniva dalla Cappadocia, da cui usciranno poi le due grandi figure di Gregorio Nazianzeno e Basilio da Cesarea. In Asia Minore, in modo significativo per l'evoluzione artistica, si separarono la "figura" camitica e la "scrittura" semitica. Le chiese siriache, in evidente contrasto con l'antichità, evitavano di rappresentare la figura umana; invece spetta in grande parte ad Alessandria d'Egitto lo sviluppo delle composizioni cristiane secondo i concetti ellenistici. La Siria sviluppò l'arte ornamentale, con modi nuovi e originali, seguita dall'islamismo arabo, d'origine affine. Assume così un certo significato la vecchia "teoria dei barbari"; poiché non si deve dimenticare che dai Flavî in poi le provincie s'affermarono sempre più accanto a Roma: non solo quelle orientali, soprattutto la Siria, ma anche le occidentali e prime fra queste la Gallia, la Spagna, l'Africa. S'iniziò nelle provincie la formazione del romanico, e, se non è strettamente dimostrabile, per lo meno è presumibile che la base etnica influenzasse lo stile e la fonetica delle lingue neolatine. Lo studio dell'arte provinciale romana, specialmente nella Gallia altamente evoluta, ha un'importanza grandissima. Ci troviamo così di fronte il problema dello sviluppo della lingua, sviluppo parallelo e intimamente connesso con quello dell'espressione formale. Il latino e il greco degli ultimi periodi dell'antichità mostrarono tanto nel paganesimo quanto nel cristianesimo caratteri nuovi, che ci sembrano decadenti, e lo sono effettivamente in un primo tempo. Nonostante le letterature nazionali dell'Oriente (che mancano all'Occidente) la parte greca dell'Impero potrebbe sembrare più unitaria, nella sua κοινή, di quella occidentale, più differenziata e individuata in provincie stilistiche; ma in Oriente vi era non soltanto l'arte siriaca, bensì anche un'arte così spiccatamente nazionale, come la copta, a cui si può dare per riscontro linguistico la notevolissima iscrizione di un re etiopico Silko, scritta con parole greche ma con grammatica etiopica. La lingua della tarda antichità è specialmente notevole perché la parlata e la scritta presero a differire ognor più e perché si verificò un'assimilazione assai caratteristica tra poesia e prosa retorica; si produssero un'ampollosità barocca e una strana rigidità e compattezza, specie nella cadenza del discorso, che certo già da gran tempo si erano venute preparando per opera degli stili retorici asiano e africano. Un'intonazione nuova venne alla letteratura cristiana dal suo libro sacro; il cui nuovo contenuto modificò la veste latina e greca, dandole un nuovo colorito. Grande influenza, specialmente per il vecchio libro ebraico dei Salmi, ebbe il parallelismo tra forma e pensiero; del resto la rima era anche un'eredità italica. I Romani, anche per via etrusca, avevano accolto soltanto nella forma esteriore il metro ellenico, così intimamente legato alla musica. La melodia linguistica greca, con il suo principio musicale della quantità, si poteva trapiantare solo parzialmente: pronunziare, e soprattutto scrivere, ma non cantare. L'italico poggiava appunto su tutt'altro elemento; sull'accento ritmico primitivo ed espiratorio, che numerava le sillabe, non le misurava; ed è molto importante il fatto che S. Ambrogio, fondatore del canto corale liturgico occidentale, pur congiunto per contenuto e forma all'Oriente semitico, abbia ricorso non già al metro classico, ma a quello italico, appunto perché più comprensibile, più intimamente affine al popolo. Lo stesso principio di accentuazione ritmica, fondato su antichissime basi etniche, vigeva nella composizione degl'inni siriaci, i quali ebbero molta importanza e influenza.
L'Ellade era sempre stata un'isola in mezzo a un vasto mare con coste orientali e barbariche: ora, essa viene sommersa. Ma nell'Occidente "barbarico" sorge lentamente una formazione, spazialmente appena più vasta, anch'essa di carattere prettamente insulare, e oggi - a quanto pare - anch'essa già in procinto di sgretolarsi nell'infinito mare, l'isola della musica armonica occidentale. Ed ora entriamo nell'epoca bifronte, e che siamo ancor usi chiamare età di mezzo, "Medioevo".
Arte romaica e romanica. - Il Vasari, distinguendo le maniere "greca" e "tedesca", ha opposto sin dal Rinascimento l'uno all'altro questi due indirizzi. La Romània, però ebbe un'evoluzione linguistica che non può senz'altro compararsi a quella dell'impero romano d'Oriente, dove il volgare ebbe un ben minore significato; il latino occidentale era una lingua morta in tutt'altro senso di quel che non fosse l'attico per i Bizantini. Geneticamente parlando, l'impero orientale fu ad un tempo lo specchio e l'antipodo di quello occidentale; Costantinopoli e Parigi - prima che Roma col suo barocco ridiventasse di nuovo la metropoli mondiale - furono le capitali del Medioevo; la divisione politica dell'Impero, tra Occidente e Oriente (395) fu più tardi acuita dallo scisma religioso.
L'evoluzione in Oriente fu molto più severa e più rigida; sebbene le regioni aventi lingua propria, specialmente l'Egitto e la Siria, fossero state staccate dall'impero ancor prima che s'iniziasse l'evoluzione bizantina vera e propria - che noi, con gli storici, poniamo circa all'epoca di Eraclio (morto nel 641) - non si verificarono in queste regioni fatti simili a quelli avvenuti nello sviluppo delle nazioni occidentali. Dall'alto Medioevo in poi, diventa sempre più chíaro con quanto vigore l'organismo imperiale assimilasse l'ellenismo; basta questo a dimostrare che la cosiddetta arte bizantina non ebbe affatto quella rigidità di mummia, che prima vi si vedeva. Il suo sviluppo si può molto bene suddividere entro lo schema delle sue dinastie: alle dinastie della Siria e dell'Asia Minore da Eraclio sino alla fine della lotta contro gli iconoclasti (867) e alle dinastie macedoni-armene (- 1081) del più antico Medioevo, si oppongono quelle puramente greche dei Comneni (- 1204) e dei Paleologi (- 1453). Per quanti paralleli si notino nell'evoluzione delle arti romaica e romanica (tale la ragione della contrapposizione, qui adottata, di questi due termini) non bisogna dimenticare che l'impero bizantino fu la potenza a cui la severa e unitaria legittimità e autorità assicurarono sino all'ultimo il rispetto dei regni barbarici d'Occidente; se troviamo qui maggiore agilità creatrice, abbiamo là più dignità e più "stile". Gli scambî tra Occidente e Oriente furono, naturalmente, sempre molto attivi, ma l'Oriente, straordinariamente florido non fosse altro per il suo traffico e per l'esportazione della sua industria d'arte, ha dato più che ricevuto, fuorché durante l'episodio "franco".
Le divergenze tra i due mondi, accentuate ancora dallo scisma del sec. X, si rivelarono subito nella scelta dei soggetti per l'arte. Sin dall'inizio del Medioevo romaico si deve registrare un avvenimento, che non ha affatto toccato l'Occidente, o tutt'al più gli ha fornito argomento di discussioni scolastiche: la lotta iconoclastica. L'origine siriaca della dinastia sotto la quale si manifestò pone in evidenza l'affinità dell'indirizzo di questo movimento con l'odio delle immagini impresso dai profeti del popolo eletto alle vecchie popolazioni semitiche, odio rafforzato dall'Islām arabico ugualmente orientato e allora trionfante. Esso portò, anche quando fu finito, al grande fatale scisma d'Oriente.
In questi secoli oscuri anche per l'Occidente (il VII e l'VIII), l'arte religiosa sparì quasi completamente e dovette esser creata ex novo. Le conseguenze furono molto gravi: la ricostruzione di quanto era stato perduto non poteva avvenire che rifacendosi al materiale nazionale, cioè a quello lasciato dall'ultimo periodo antico: il che è particolarmente visibile nell'imitazione dei manoscritti miniati classico-cristiani: una prima fase dell'ellenismo, che ha riscontro per tempo e per forma nel rinnovamento di edifizî, di opere d'arte, della calligrafia nella cosiddetta rinascita carolingia. I barbari del Nord, popoli senza immagini, avevano preso un interesse sintomatico alla lotta per l'iconoclastia. Ma anche in questo caso le somiglianze sono accompagnate da divergenze. Nell'era macedone possiamo parlare di una vera rinascita, perché prodotta da cause interne e nazionali; alla comprensione del vecchio tesoro figurativo ellenistico non si opponevano ostacoli, mentre le personificazioni, puramente greche, di stati d'animo e di fenomeni naturali, nulla dicevano all'Occidente, che tutt'al più non ha fatto che sciuparle. Cotale rinnovamento è un tratto assai caratteristico per l'arte di questi nuovi greci, che dall'alto Medioevo in poi non si sentirono più romani, ma elleni, rimettendo in onore l'antico nome della stirpe. Benché quest'arte sia quasi esclusivamente religiosa, il profano vi ritorna anche più vigoroso che nell'Occidente romanico. Da quanto le fonti scritte ci riferiscono sulle pitture di soggetto storico che decoravano i palazzi imperiali, sappiamo che la tarda vita classica vi trovava eco: e a questo ambiente appartengono pure le scene e figure mitologiche che s'affacciano sulle strane cassette d'avorio del sec. X, che sono, come è stato giustamente notato, quasi una notte di Valpurga classica.
Ma l'arte religiosa predominante nell'Oriente cristiano mostra che la divisione dall'Occidente, lo scisma, era divenuto totale. Vibra in essa lo spirito polemico della lotta per l'iconoclastia, conferendole quel colore dogmatico-ascetico particolare, che doveva mancare all'Occidente. A Bisanzio tutto è subordinato al dogmatismo, in quell'autentica forma bizantina impressagli sin dall'inizio dell'epoca dal grande dogmatico d'Oriente, Giovanni Damasceno. Ad esso sono da attribuire descrizioni apocalittiche della fine del mondo, la cui azione si rintraccia sino nell'Italia, la quale funge da mediatrice fra Oriente e Occidente. Questo dogmatismo, e l'arte che ne era dominata, fu assolutamente intellettualistico e non popolare, sebbene la scissione tra clero e laici fosse meno profonda che in Occidente, e i laici s'interessassero assai più alle dispute teologiche. Anche la lingua scritta rimase attica e con l'estendersi dell'ellenismo giunse, specialmente all'epoca dei Comneni e dei Paleologi, a un purismo arcaizzante; la vera lingua popolare neogreca decadde, formò un mondo a sé, poco considerato: e codesta scissione dura ancora all'epoca nostra, conducendo a gravi lotte interne, difficilmente comprensibili per gli occidentali. Questo greco popolare - chiamato ancor oggi dal popolo stesso "romaico" in opposizione alla lingua dotta "ellenica", e sviluppatosi di fatto parallelamente alle lingue romanze - si ritrova tutt'al più nell'arte monastica (assai importante, ma completamente diversa da quella occidentale), nei libri ascetici, e specialmente in una redazione, molto diffusa, di commenti ai Salmi. Anche qui l'"allegoria dei vocaboli", anch'essa quasi incomprensibile all'Occidente, si riallaccia strettamente alla lingua figurata del testo orientale, pur conservando molto della sottigliezza propria alla retorica e alla dialettica dell'ultimo periodo antico, mantenutasi a Bisanzio.
Il sistema della pittura chiesastica bizantina - ridotto nell'arte del monte Athos ad uno schema immutabile, perpetuato nell'arte dei popoli slavi, e fissato anche letterariamente - presenta un'unità dogmatica rigorosamente organizzata rispetto all'Occidente: è il trionfo della Chiesa sull'eresia dopo le gravi lotte sopportate, il grande calendario delle feste e dei santi dell'Ortodossia (come si chiama ancor oggi la Chiesa), quale è stata celebrata negl'inni del più grande poeta bizantino, Romanos, siriaco anch'esso. La scelta dei soggetti è subordinata allo scopo delle omelie. Queste prediche dipinte sono però qualcosa di ben diverso dalle pitture su vetro dell'Occidente: vi è trascurato il Vecchio Testamento, e particolarmente ogni elemento storico, che si manifesta soltanto dove vive il ricordo di quella lotta contro l'eresia, che condusse alla grandiosa e rigida costruzione dell'ortodossia: nelle rappresentazioni dei grandi sinodi, nella concezione solennemente rappresentativa di un periodo profondamente vivo della storia ecclesiastica di questo Oriente; e l'Occidente non ha nulla di simile da contrapporvi. Parallelamente si svolse la rigida formazione dei tipi iconografici, innanzi a tutti quello del Pantocratore, poi quello della Theotokos (fiorente dopo il concilio di Efeso), nelle loro diverse forme ieratiche con vari nomi; finalmente le lunghe serie, a mo' di calendario, dei santi rappresentati in forme astratte e impersonali. Si potrebbe quasi parlare di una specie di platonismo; e non certo a caso il più importante e autentico scrittore bizantino, Michele Psello, rinnovò effettivamente il platonismo. Di nuovo riappare il carattere astratto dell'Oriente greco, già notevole nell'antichità; non trovano qui posto né i ritratti né le leggende di santi d'Occidente, ricche di tratti individuali. Cotale pittura ecclesiastica dell'Oriente cristiano forma un insieme grandioso e impressionante, anche se nell'epoca franca abbia accettato alcuni caratteri occidentali; e nell'iconostasi che nasconde l'altare, nell'aspetto del prete che si presenta come Cristo con barba e capelli fluenti, contrasta fortemente con l'Occidente. Il quale non ha nulla da contrapporre a quel manuale prettamente bizantino, che presenta, con conio particolare, le formule medievali: al Libro della pittura redatto, certo in epoca più tarda, dai monaci del monte Athos. Esso non presenta soltanto le norme ad uso del monaco-pittore, ma contiene il completo tesoro iconografico definitivamente e canonicamente fissato della Chiesa orientale.
Lo sviluppo stilistico non fa che confermare il patrimonio iconografico. L'arte romaica presenta un continuo sviluppo (lungamente misconosciuto) del suo intimo linguaggio, in modo parallelo a quella occidentale, ma con aspetto suo proprio: le sue vicende si possono riportare, come già si è detto, a quelle delle diverse dinastie imperiali. Il processo di dissolvimento subito dall'antica maniera plastica, che già si nota nell'ultimo periodo dell'antichità, si può seguire altrettanto bene in Oriente quanto in Occidente; ma l'Oriente, in conformità alle sue particolari condizioni, non andò mai troppo oltre; sempre conservò la propria innata, antica misura, anzi l'accentuò sempre più. L'Occidente non subì alcuna pausa nel più importante dei campi artistici, in quello religioso, pausa che conferì invece una fisionomia così particolare ai primi secoli romaici. Il processo della riduzione ornamentale assunse in Oriente particolare importanza, poiché lo spirito semitico-orientale non si dimostrò attivo solo nell'avversione alla "figura", ma sviluppò anche la tendenza all'arte decorativa già così palese nella Siria sul finire dell'antichità. Questo spirito nelle regioni orientali, ora sotto il completo dominio dell'islamismo, si sviluppò particolarmente nelle opere delle arti minori che, largamente diffuse dall'esportazione, furono anche per l'Occidente sorgente di continua ispirazione. E l'epoca in cui gli strumenti musicali antichi cadono in disuso e l'Oriente, accanto al barbaro Settentrione, comincia a diffondere in Europa forme antichissime, il flauto frigio antico e specialmente il liuto, così importante per la vita musicale dell'Occidente, che ha conservato il suo nome arabo in tutte le lingue, sebbene sia diventato il rappresentante di un nuovo indirizzo nordico-occidentale dell'armonia: entrambi barbari, nel senso dato a questo vocabolo dall'antichità, come barbara è l'armonia "gotica".
La reazione contro i principî orientali avvenne nei secoli IX e X sotto la dinastia macedone, col ritorno, già detto, ai modelli ellenistici; il movimento si svolse, quanto al tempo e all'aspetto esteriore, parallelamente alla rinascita carolingia; ma è ben più profondamente nazionale, se lo si ponga in rapporto con l'Impero che va diventando sempre più unitario. Le regioni orientali se ne sono già staccate, e così quelle occidentali (che Giustiniano aveva riconquistate), ma l'ellenismo ha ancora tanta forza da assorbire gli elementi slavi, come nel Peloponneso, o per lo meno da assimilarli spiritualmente, come nel Settentrione - processo che politicamente dura ancor oggi. Si può seguire questo processo particolarmente nell'illustrazione dei Salmi. Di fronte al gruppo "aulico" delle antiche figurazioni severamente inquadrate, troviamo lo stile neogreco dei fregi a penna, che si svolge con libero carattere decorativo. Certo, lo spirito medievale si affermò energicamente anche nell'Oriente greco; le figure tendono al lineare e al piano, alla disposizione decorativa, non più plastica, dei panneggi, filettati d'oro; lo spazio illusionistico dell'ultima classicità si riduce a indicazioni simboliche nella rappresentazione delle architetture e del paesaggio; la plastica a tutto tondo, l'altorilievo scompaiono completamente, al contrario di quanto avviene in Occidente, nella stessa Italia bizantina. Non troppo lontano dalla classica Delfi, dove la celebre Lesche di Polignoto già da tempo era stata distrutta, la chiesa di Hosios Lukas ha affreschi di carattere schiettamente lineare. È degno di nota come la musica della Chiesa greca ancor oggi rifiuti la musica strumentale che invece non ha mai interrotto durante i secoli, in Occidente, il suo intenso sviluppo, e così anche rifiuti il vecchio organo ellenistico (quale strumento di lusso mondano) che sebbene giunto per il tramite di Bisanzio diventa, in Occidente, lo strumento tipico della musica liturgica; come a Bisanzio, la musica liturgica greca rimane attaccata all'ethos delle antiche tonalità, presentando ancor oggi una forte opposizione nazionale all'armonia occidentale.
L'arte romaica non andò tanto oltre quanto l'occidentale nel dissolvere i modi antichi del comporre le figurazioni e, per la loro evoluzione, poté mantenere residui della concezione spaziale classica (formule cioè dell'antica prospettiva, certo trasvalutata in forma affatto nuova), specie attraverso la mediazione dell'Italia. Anche la sua teoria delle proporzioni fu qualche cosa di profondamente nuovo: non si fondò più su divisioni assunte dal corpo umano come dall'antica "misura di tutte le cose"; ma, in modo singolare, su una misura fissa e definita: la lunghezza del volto (quale mezzo dell'espressione spirituale, già sottolineata dalla tarda antichità), contribuendovi la mistica ellenistica del numero e forse anche qualcosa di orientale, ma giunto per la stessa via. L'arte romaica tenne così la medesima strada percorsa dalla sua sorella romanica, in accordo con l'amore del Medioevo per gli schemi e le formule, e in contrasto con l'antico antropomorfismo. Soltanto l'arte bizantina non raggiunse (come il gotico) il polo opposto, ma, seguendo lo spirito ellenico che le era proprio, mantenne le rappresentazioni organiche delle figure. Un analogo processo si può osservare nella metrica: a Bisanzio, come nell'Occidente e nell'Oriente (anche in quello islamico) l'accento trionfava sulla quantità, l'esametro aveva ceduto il posto al settenario "politico", una specie di alessandrino. Nonno, l'ultimo poeta classico, convertito poi al cristianesimo, tenne conto della quantità solo in modo piuttosto esteriore. Ciò nonostante anche in questa esteriore forma linguistica attica, Bisanzio rimase molto più classica dell'Occidente, dove il latino popolare delle provincie, e ancor più il volgare germanico raggiunse un'espressione libera, mentre il vero greco popolare è trattato ancor oggi da cenerentola.
L'immagine meravigliosa e raffinata dell'arte bizantina sotto la dinastia dei Comneni, nel sec. XII, epoca anche politicamente fiorente, mostra una sua perfetta maturità. Davanti ai musaici con i quali il più brillante dei suoi rappresentanti, Manuele II, cognato dell'imperatore romano-germanico, fece ornare, una volta ancora, la chiesa di Betlemme, appare chiaramente che i pittori si preoccuparono di puri problemi artistici, come i letterati dello stesso tempo si sforzavano di ottenere la palma della grazia attica. E un ultimo riflesso attico di questa è nei musaici del monastero di Dafni presso Atene. Il Palazzo era ora puramente greco, e consci ne erano gl'imperatori; benché la compattezza meravigliosa del loro stato fosse dovuta al realismo romano. Con la vecchia patria risorse anche il nome di Elleni. È proprio di questo periodo l'amore della bellezza formale: la retorica antica (che ha perso ogni valore per l'Occidente, anche se vi è insegnata in modo scolastico) continuò a fiorire qui, perché rispondente all'intima essenza della nazione. Il platonismo - preludio del Rinascimento occidentale - rifiorì una volta ancora, come in Psello, per opporsi all'aristotelismo della Chiesa, dove il predicatore aveva ancora conservato il tipo del retore della tarda antichità. Tutto questo si ritrova nella grande e splendente retorica delle arti figurative, che con l'oratoria e la letteratura contemporanea conservò con ogni cura l'armonia dell'espressione. Quando il Krumbacher affermò che tali cose sono ancor oggi "quasi incomprensibili per noi Barbari settentrionali" certo si riferì allo spirito di quest'epoca: così la principessa storiografa Anna Comnena, dinnanzi ai crociati, si sentì greca di fronte a "barbari". Quando all'inizio del sec. XIX, un teorico greco di musica sacra respinge tutta la musica polifonico-armonica dell'Occidente come inadatta e incomprensibile, egli fa riecheggiare in tono minore il dispregiativo "barbarico", come gl'italiani del Rinascimento dinnanzi al gotico. Ma già da un pezzo J. J. Rousseau aveva annunziato nella patria stessa del gotico: toute notre 'harmonie' n'est qu'une invention gothique et barbare, dont nous ne nous fussions jamais avisés, si nous eussions été plus sensibles aux véritables beautés de l'art, et à la musique vraiment naturelle. Un nuovo ellenismo sta per sorgere.
L'ultimo periodo bizantino, che comprese più di due secoli, e giunse sino alla caduta dell'Impero (1453), fu contrassegnato dal nome della dinastia dei Paleologi, un nome che ha un valore quasi simbolico. Il ritomo all'antico, sentito come qualcosa di nazionale, crebbe sino a divenire mania, sino a divenire, come nell'Italia di quel tempo, un vero Rinascimento. I nomi latini dei mesi furono sostituiti da quelli greci antichi, e gli storiografi di questa età videro i nuovi nemici dell'Impero, i Turchi, sotto l'aspetto di quelli antichi, dei Persiani, in una specie di tipologia mitologica, che ricorda l'arte di Pergamo. Ma l'ultima fase dello stile bizantino non fu affatto "decadente", anzi fu piena di forze vive e creative. Si svolse parallelamente al Trecento italiano, come si deduce dal suo più importante monumento, i musaici della chiesa di Chora a Costantinopoli. In questa fase tale stile potrebbe essere definito con una locuzione, che ancora una volta unisce in sintesi dialettica la vecchia concors discordia tra romaico e romanico: "gotico bizantino". Il particolare verticalismo che caratterizza le snelle, slanciate chiese a cupola di questo periodo, si fa notare anche nelle alte figure dipinte, piene di una vita stranamente vibrante. C'è in tutte una nuova tensione interiore, un nuovo rapporto verso lo spazio e il mondo. La teoria superficiale degli influssi potrebbe troppo facilmente vedere in esse una derivazione dal Duecento e dal Trecento italiano, e troverebbe una conferma alla propria ipotesi nel fatto che un innesto e un episodio "franco" vi furono realmente nella storia generale bizantina, non tanto quello un po' assurdo dell'Impero latino, quanto lo stabilirsi in Grecia e nelle isole di cavalieri occidentali, il cui più insigne ricordo è nelle rovine del Castello di Mistra presso Sparta. Certo s'incontrano ovunque tracce gotiche: nella lingua, nella letteratura, perfino nell'architettura e nell'iconografia, ma l'arte dei Paleologi si sviluppò per virtù propria, parallelamente a quella italiana, con cui essa, la rinascenza bizantina, aveva comune la radice. Questa pianta fu poi recisa dall'islamismo turco (che d'altra parte per quanto gli fu possibile, continuò a costruire sulle sue fondamenta) e in certo modo si schematizzò, come dimostra con le sue formule il Libro della pittura del monte Athos, che creò per lungo tempo il mito della "mummia" bizantina. Ma quest'arte, ancor oggi vivente, pur avendo accolto nelle scuole - il nome è adatto - di Salonicco, di Creta, di Venezia, e oltre a queste, nelle nazioni ortodosse dell'Occidente, vari elementi italiani, specie iconografici, mantenne il suo carattere, non senza nuovi tratti particolari.
Arte romanica e arte antica del Settentrione. - Rispetto alla chiusa cerchia romaica, che andò sempre più eliminando e assimilando gli elementi estranei, la meta latina dell'antico Impero romano diviso amministrativamente sin dal 395, presenta un quadro molto più variopinto e irrequieto. I popoli barbari celti, e specialmente germanici, giunti al dominio, potevano, ancora meno delle popolazioni della provincia romana, divenute sempre più le rappresentanti della cultura latina, aggiungere qualcosa di nuovo al tesoro iconografico dell'antichità. Lo zelo dei catecumeni impediva di per sé a quanti erano divenuti cristiani di apportarvi le rappresentazioni pagane, non molto definite; il primitivo orrore dell'immagine, avvicinava nei giorni dell'iconoclastia i nordici figli di Enak ai nuovi nemici dell'Impero, ai Musulmani che andavano sostituendo in Oriente i Persiani, con i quali avevano in comune la tendenza all'enigmatismo decorativo e al simbolismo delle figurazioni animali. Un'intima affinità d'espressione formale si manifesta nelle rappresentazioni della simbolica lotta tra luce e tenebra, che ebbe la sua più alta espressione artistica nei candelabri romanici delle chiese. Non è da negare una specie d'intima comunanza di linguaggio "interno", ma è antistorica, e superata, l'idea che sugli enigmi della plastica romanica, sulle pitture su vetro dell'alto Medioevo abbiano influito ricordi dell'Edda, del Muspilli, ecc. La grandiosa, nuovissima concezione storica dell'antichità cristiana, particolarmente quella di S. Agostino, l'historia spiritualis, che cerca nel corso storico non la realtà sensibile oggettiva, ma la verità spirituale, non l'apparire, ma l'essere, la grande parabola, dinnanzi a cui doveva cedere quanto è occidentale, come già l'elemento ritrattistico, questa concezione, che a noi sembra e sembrava antistorica e sentimentale, portò nell'alto Medioevo a quella particolare elaborazione della tipologia antica, in cui l'Antico Testamento (che non è mai riuscito del tutto simpatico al cristianesimo ariano) con le sue durezze ed asperità, disciolte in simboli con spirito veramente medievale apparve come una similitudine, come un'immagine formale e allegorica dell'unica vera storia sub gratia, di quella storia che terminerà per sempre col giudizio universale, nella civitas Dei e nell'inferno. Questa tipologia, che si svolse confusa e arabescata nei manoscritti miniati e nei cicli pittorici nel tardo Medioevo e ancora negl'incunaboli (Biblia pauperum, Concordantia caritatis, ecc.), penetrò nella grande costruzione ideologica della scolastica, nell'enciclopedia dei diversi specula (Speculum naturale, doctrinale, historiale di Vincenzo di Beauvais) che anima le sculture delle cattedrali gotiche di Francia. A prova del carattere nordico di questa forma si noti che poco venne usata in Italia, e in modo assai diverso a Bisanzio. Per certo in Occidente come a Bisanzio l'omelia fu una delle più importanti e ricche fonti di rappresentazioni, che ricevé la sua realizzazione artistica non tanto nel grande calendario dipinto dell'anno ecclesiastico quanto nella struttura ben diversamente spirituale dei portali e nella pittura vetraria del Gotico. È pure singolare come il lato popolare e fantastico dell'Occidente si sia manifestato nelle sacre rappresentazioni che mancarono all'Oriente e furono anzi considerate con un'antipatia non attribuibile al solo scisma.
L'indirizzo totalmente spirituale dell'arte medievale spiega come essa rendesse omaggio, in ben altra misura che non Bisanzio, all'allegoria; tutto appare in terra come un simbolo dell'unica vera trascendenza. Al significato letterale della parabola e dell'immagine si unì quello triplice, superiore, che si affermò nell'esegesi del libro dei libri. Il senso dell'al di là pervade tutto; non solo le "sette arti liberali" calcate sullo schema del tardo classicismo, non solo la costruzione dell'"enciclopedia dipinta" che si elevò, analogamente alle chiese, basandosi sulla mistica e sul simbolismo delle cifre, ma anche la trasformazione delle vecchie favole del Physiologus nei bestiarî medievali; e l'adattamento chiesastico di quanto vi era di profano nella storia e nella vita. Nel primo Medioevo i soggetti profani, principalmente storici, ebbero, come a Bisanzio, una parte secondaria. L'alto Medioevo gotico del Settentrione, che termina quasi esattamente a metà del sec. XIV, elevò a sistema questo spiritualismo e moralizzò la storia mondiale (Gesta Romanorum) e persino il profano Ovidio: il tardo classicismo l'aveva già preceduto con la mitologia allegorica di Fulgenzio. Sinanche l'osceno e l'orrido così vicini allo spirito nordico riuscirono a introdursi nelle drôleries della plastica e miniatura gotica; motivi popolari, persino su testi lascivi, entrano anche nelle forme polifoniche. Con il laicizzarsi del gotico per opera della nobiltà e della borghesia cittadina in via di formazione, una larga corrente profana entrò nell'arte: l'epica e la lirica di quell'età, specialmente quella così sviluppata della Francia che era a capo del movimento, trovò un'eco nei manoscritti miniati, negli affreschi, negli arazzi e negli avorî, ma specialmente nel particolare carattere amoroso assunto dalla vita aulica del tempo. Il romanzo allegorico sul tipo del celebre Roman de le rose continuò a vivere, con parole ed immagini, sin nel Rinascimento. Altrettanto degno di nota il fare semireligioso e allegorico del Physiologus - ancora elaborato da un Leonardo! - che si afferma anche in questo giuoco d'amore del tutto profano: esempio ben caratteristico il Bestiaire d'amour di Richard de Fourneval.
Tutta la profonda differenza che divide l'evoluzione di cuì parliamo da quella antica, si rivela in questi soggetti; poiché la scissione tra il sacro e il profano, la vita del clero e quella dei laici era ignota all'antichità (o forse l'avevano conosciuta gli Etruschi). Per secoli i soggetti artistici erano stati determinati dalla Chiesa, provocati e decisi dai suoi interessi, e il mondo laico che andava affermando i suoi diritti, per lungo tempo rimase ancora con i suoi soggetti profani sotto la giurisdizione ecclesiastica.
L'espressione formale del medioevo, nel suo pieno sviluppo, contrasta anch'essa con l'antichità classica. Ed eccoci là dove il nucleo vitale di questa esposizione, l'identità dell'evoluzione del linguaggio artistico con quella del linguaggio verbale (non si tratta di una metafora) diviene particolarmente evidente. Un termine molto felice della storia dell'arte, quello di stile romanico (Style roman) è stato coniato dagli studiosi francesi partendo dalla considerazione dello sviluppo delle lingue romanze (langues romanes). L'arte dell'ultimo periodo classico è spesso paragonabile, anzi identificabile con il latino volgare, che ne fu il fecondo terreno; questa identificazione è particolarmente evidente nella storia dell'architettura, dove la trasformazione della basilica latino-volgare, si può effettivamente seguire nei dialetti costruttivi che poi vennero a convergere in una comune lingua scritta, cioè nel "gotico" dell'Isle de France, lingua internazionale, per nulla legata al popolo.
Se alla Francia del Nord spetta l'ultima parola, la prima fu pronunziata dai Celti e dai Germani, innanzi a tutti dai Sassoni, che con gl'Irlandesi non furono mai - nel senso più lato - sottomessi alla signoria romana. Le regioni tedesche (francoorientali) precedettero quelle franco-occidentali, non soltanto nell'evoluzione architettonica (e politica), ma anche in quella linguistica: l'antico alto tedesco esisteva già, aveva bisogno di educazione, non di formazione; precedette perciò, anche letterariamente, le lingue romanze, che cominciano a manifestarsi nettamente solo nel sec. VII e VIII, e la loro espressione scritta, ancor più tarda, specialmente in Italia. Abbiamo già visto come nella tarda antichità le provincie romane andassero sempre più affermandosi; quella in cui la supremazia greco-romana era particolarmente forte, la Provincia romana, divenuta poi Provenza, sostenne, prima della vicina e affine Italia, la parte della protagonista, se pure per breve tempo. Ma sotto la vernice romana del latino volgare esisteva, specialmente in Gallia, un vecchio e profondo strato culturale, che, come dovunque, partecipò, influendo sulla fonetica e sulla formazione dei vocaboli, all'evoluzione della lingua ormai romanza. Vi corrisponde, nel campo delle arti figurative, l'arte romana provinciale, il cui colore etnico non si limita al solo contenuto. Lo studio iniziatone seriamente appena ora, per quanto riguarda il Medioevo, promette una ricca messe d'insegnamenti. Al di là della Provenza s'iniziava il regno dei barbari, indipendenti, che conquistati tra il sec. IV e il X alla Chiesa e quindi alla civiltà romana, sopraffatto il vecchio Impero d'Occidente - nuovamente in contrasto con quello d'Oriente - lo scomposero, fin sulle coste dell'Africa, in tanti nuovi stati nazionali, principio di tutta la storia medievale, anzi moderna. Questi barbari, più o meno profondamente romanizzati, oppure indipendenti, si possono paragonare, sotto più di un aspetto, ai nemici saraceni dell'Impero orientale: essi furono, ab ovo, agli antipodi della civiltà antica. Se, nonostante ciò, riuscirono a fare del latino volgare - in tutti i sensi - il rappresentante della propria evoluzione, ciò fu per il fatale decorso che esso ebbe a seguire dalla tarda antichità in poi. Il latino venne loro naturalmente incontro, con la sua tendenza all'impersonale, all'oggettivo, all'astratto, al tipico, all'universale - caratteristiche attribuite al latino volgare dal suo più acuto indagatore, il Vossler. Esso conteneva già in germe il dissolvimento della vera forma antica, dissolvimento a cui contribuì pure il romaico, il quale però come legittimo erede dell'Impero e delle forme antiche, non condusse quest'opera di dissolvimento sino al suo polo opposto: al gotico.
La numismatica antica appare d'un tratto come un'inaspettata alleata, mai presa sinora in seria considerazione: non solo ci sono d'aiuto le monete provinciali, specialmente quelle dell'Oriente greco, ma anche le monete barbariche, appartenenti, in parte, all'età precristiana. È assai istruttivo vedere come nei diffusissimi falsi delle monete macedoni di Filippo fu alterata l'antica forma; come il rilievo plastico venne costretto in linee e in piani, geometrizzato, ornamentalizzato, reso enigmatico; vi ritroviamo, in nuce, la linea dell'evoluzione medievale. Lo stesso spirito animava dopo secoli i monaci d'Irlanda colti, dotati di gusto artistico, che sapevano perfino di greco, quando si accostarono all'alto Settentrione scandinavo (allora ancora persistentemente pagano). I loro manoscritti miniati, dove immagine e scrittura, "forma tattile" e "ornamento" si confusero in uno, rappresentarono il primo grande fenomeno stilistico del Medioevo, primitivo ma raffinato insieme, paragonabile solo come "ricorso" all'antichissimo stile geometrico congiunto alla migrazione dorica. Ed è sintomatico, che da quella Tule celto-germanica sembra derivi anche la nostra (staremmo quasi per dire, ancora nostra) musica, non più armonico-polifonica, ma qualcosa di assolutamente nuovo ed estraneo all'antica omofonia ed eterofonia, dominata dalla parola: musica a cui erano rimaste chiuse le porte dell'Oriente, a cominciar da Bisanzio, sebbene questa avesse rinunziato da tempo (come l'Occidente per antichissime ragioni etniche) al principio classico della quantità a favore di quello (orientale) dell'accentuazione. E parallelo è il processo dell'assimilazione degli strumenti orientali, usati per gli effetti polifonici.
Nella progredita arte romanica dell'età degl'imperatori salici questi elementi fondamentali - e in ciò, più che altrove è il vero senso dell'antica teoria barbarica - si fusero in un indirizzo formale nuovo e altamente caratteristico, dopo che l'epoca dei Carolingi e degli Ottoni (parallelamente all'evoluzione romaico-orientale, partendo però naturalmente da ben altre premesse) aveva portato, con la ricostituzione del vecchio Impero anche nel campo plastico e letterario, uno sviluppo secondo lo spirito dell'ultimo periodo classico. L'arte monumentale dell'età salica e di quella immediatamente successiva - da lungo tempo la si è avvicinata, come ricorso, a quella antico-ellenica - ci appare severamente costretta nell'opera architettonica (anch'essa legata da severi, accentuati ritmi e rime). Ma questa sorta di trasformazione dell'immagine nel senso della sua pura costruzione architettonica non appare soltanto nelle cosiddette arti applicate (per es. nell'arte dello smalto, ora fiorente), ma anche nei codici miniati dell'età di Enrico II, liberi da qualsiasi influsso di carattere costruttivo. Sino al gotico inoltrato l'opera d'arte riunì veramente e nuovamente tutte le arti. Rinunziando del tutto agli effetti plastici e prospettici, cercò una forma intima di espressione, la quale con soli piani e linee agisse in modo assolutamente irreale, puramente decorativo e coloristico, raggiungendo quello schematismo, cui Bisanzio si era soltanto avvicinata. Il monumento letterario di questo spirito è l'unico vero libro teorico d'arte del Medioevo, l'album dell'artista gotico Villard de Honnecourt, non ancora messo pienamente in valore. In esso si vede anche quell'uso di modelli e di formule, tanto caratteristico per tutta la vita del vero Medioevo (con le sue "formazioni analogiche", che già abbiam veduto nel campo iconografico), elevato, da semplice mezzo tecnico per la produzione ordinaria quale fu usato in ogni tempo, a dignità di teoria, come poi nel Rinascimento la proporzione. Se la figura si liberò dalla eccessiva tendenza ornamentale del primo periodo barbarico, questa però persistette, specialmente nelle grandi iniziali miniate, così tipicamente medievali, che Bisanzio, sempre fedele ai principî dell'arte antica, non aveva accolto nonostante tutte le influenze siriaco-saracene (l'arabesco, intimamente affine ma fiorito da ben diverse premesse, era tutt'altra cosa). Tuttavia, anche nella più alta fase gotica di questo sviluppo, non si possono separare figura e ornamento; e la famosa animata linea ondeggiante gotica (la serpentina ritorna alla vigilia del Barocco) era l'espressione di una nuova verità artistica, che, come la storiografia e la concezione filosofica contemporanea, ispirata ad Agostino e spezzatasi solo al termine del periodo gotico, non ebbe e non volle avere niente di comune con la realtà e la presupposta oggettività. Perciò il ritratto, già svalutato dalla tarda antichità, il modello come viene concepito da noi, non ebbe alcun senso per il gotico schietto, come non ne aveva per l'autentica antichità ellenica, se pur con spirito ben diverso: la portraiture gotica intende a qualcosa di ben diverso, cioè all'universale, non a un singolare inessenziale. Tale fu il realismo filosofico dell'autentico Medioevo: concezione affatto opposta a quella di noi moderni. La dialettica storica, nel movimento di oscillazione fra i termini estremi del suo dualismo, tocca qui quello della pura spiritualità, non tanto in opposizione alla antichità quanto alla concezione che di essa si fece poi la figlia del Medioevo, la Rinascenza.
Si noti che l'Occidente, contrariamente a Bisanzio, non rinunziò mai né alla plastica a tutto tondo né all'arricchimento strumentale della sua musica sacra. Certamente il Medioevo non conobbe nell'opera d'arte, considerata nel suo insieme, la divisione puramente empirica delle arti, i cui limiti illusorî furono stabiliti solo dall'intellettualismo del Rinascimento. Pure, in un primo tempo, s'impose anche allora, specialmente nel primo periodo romanico, e per esempio nella plastica quasi lineare delle regioni sassoni, la tendenza alla negazione dei principî plastici e spaziali, ereditata dalla tarda antichità. Le figure in funzione di sostegno, dell'arte romanica, sono veramente "colonne vestite", secondo la scherzosa definizione datane dal Goethe; le loro vedute principali sono rapportate in piano su tre o quattro lati del masso; ma la tanto ripetuta costrizione esercitata dai massi e dal materiale è soltanto un residuo di una concezione storica positivistica ormai quasi totalmente oltrepassata, insufficiente a spiegare così la storia dell'arte medievale come quella dell'antica: cosa che l'archeologia ha compreso prima e meglio. Le statue gotiche ebbero anch'esse soltanto uno pseudonaturalismo: erano legate con i loro caratteristici baldacchini e mensole, e con le loro nicchie all'insieme architettonico dell'opera d'arte e solo il tardo Rinascimento, come già l'ellenismo, cercò effettivamente e trovò la piena indipendenza della figura, che si eresse liberamente nello spazio. È probabile si tratti di una confusione tra espressione interna ed esterna, quando si vuole riscontrare in certe statue della Francia del Nord (p. es. di Reims) un'influenza classica; si tratta ancora di un ricorso interno.
Il problema della personalità dell'artista, la quale, come nell'antichità, tende a scomparire nonostante parecchie firme, appartiene più alla storia dell'arte vera e propria che alla storia di quella che qui s'è detta espressione linguistica. È questo il problema straordinariamente arduo, noto anche alla storia letteraria, della personalità artistica collettiva, quasi formazione corallina, che torna ora ad assillare. La sua trasformazione in forma moderna si svolge in un altro campo, al quale ci andiamo ormai avvicinando.
Il Medioevo italiano. - Ci si potrebbe domandare, come altri ha fatto, se l'Italia, paese di tramite tra Oriente e Occidente, abbia avuto un Medioevo nel senso nordico della parola. Tra le nazioni romanze la vecchia nazione latina entrò per ultima in campo, ma vi entrò subito, come ha detto il Burckhardt, quale primogenita tra le nazioni moderne, nell'alba eroica del suo Trecento, età mai più superata da altre. Si affermò con una lingua letteraria sino ad oggi appena mutata nella sua essenza, con la sua letteratura classica, il suo dolce stil novo nella poesia, nelle arti figurative, nell'ars nova della musica fiorentina: questo nell'età che ha per rappresentanti i più grandi artisti italiani, Dante e Giotto. Basta ciò a dimostrare che l'antichissimo centro etrusco-latino manteneva l'egemonia nel paese. All'Italia propriamente peninsulare si opponeva da tempo quella continentale gallo-veneta, regione dai pronunziati contrasti geografici. La storia del suo linguaggio artistico si fuse nel primo Medioevo con quella del retroterra gallo-germanico, ed essa formò una sottospecie particolare del romanico, pur conservando una propria caratteristica lombarda: allo stesso modo come i dialetti ivi parlati mantennero la loro indipendenza rispetto al tipo italiano. Il centro tosco-romano e la Magna Grecia rimasero fedeli, sin nel più inoltrato Medioevo, come al latino, non mai completamente divenuto lingua morta (e che si svolge parallelamente al greco dell'Oriente), così all'ambiente e al contenuto della tarda antichità e del primo cristianesimo, sebbene vi si possano riconoscere tracce, certo non visibili alla superficie, della magistra latinitas - per usare un'espressione ormai consacrata dal Chronicon Cassinense.
Col sec. XII s'iniziarono due movimenti di rinascenza, un termine originario dell'Italia e che soltanto in essa è intimamente giustificato. Primo, il protorinascimento della Toscana e dell'Umbria, che si allargò sino a comprendere la vecchia provincia romana e che mirava, particolarmente nel campo architettonico, senza trascurare quello decorativo (l'arte cosmatesca romana) e la stessa iconografia, a far rivivere l'antichità nazionale. Questo movimento anticheggiante, parallelo all'atticismo dei Comneni, si trovò di fronte l'altro movimento, che presentava un'antichità romantico-cavalleresca in costume medievale e che, pur avendo il suo centro naturale nell'Italia superiore, s'irraggiò sin nel Sud e si fuse con elementi dell'epica cavalleresca francese, come nella bella novella della Chastelaine de Vergi. Se ne trovano ancora tracce nella Teseide del Boccaccio, nonostante il suo nuovo spirito; e quanto questa materia sia viva ancor oggi, non lo dimostrano soltanto i carri dipinti siciliani, ma anche i libri popolari tuttora letti, quali i Reali di Francia e il Guerin Meschino, che con le loro multicolori illustrazioni testimoniano un processo culturale facilmente osservabile, e cioè, che beni spirituali e materiali delle classi superiori, da queste respinti e ironizzati, continuano a vivere come forme ataviche nelle classi inferiori del popolo.
Il paese delle rinascite può inoltre annoverare nel tardo Medioevo un rinascimento bizantino. L'iconografia di conio bizantino, frattanto già sistematizzata, ebbe sempre un importante influsso in Italia; specialmente Venezia, l'Italia meridionale e la Sicilia, anche quando cessò il nesso politico, rimasero provincie romaniche. Ma l'elemento latino si affermò contro l'Oriente greco, come su base etrusca si era già affermato nell'antichità il romano. I rilievi dei pulpiti toscani con i loro sommarî cicli cristologici, a cui si associarono, per influsso del potente canto del Dies irae, i profeti e le sibille, proiettanti le loro ombre nell'avvenire, si riallacciavano all'antichità cristiana, al latino volgare, assai più longevo qui che altrove; è assai sintomatico, nei confronti con l'Oriente, che gl'italiani non rinunziassero al loro linguaggio plastico: ne fu conseguenza il tipo di Madonna che Pisa produsse in tutto il Trecento, riplasmando con spirito autonomo accenti ispirati dal gotico di Francia. Ma anche il Duecento portò nuovi accenti occidentali nei due principali gruppi monumentali del suo Rinascimento bizantino: le Madonne e i Crocifissi, che, come la cosiddetta Glykophilusa, la Madonna che stringe teneramente il Bambino contro la propria guancia, tradiscono lo spirito occidentale caratteristico del culto di Maria, spirito che ha finito poi per trasferirsi anche in Oriente. La maestà della Madonna apparve poi in uguale forma monumentale, quale protettrice del comune, specialmente negli affreschi che decoravano i palazzi dei comuni toscani: ancora qualcosa che mancava e doveva mancare affatto a Bisanzio, poiché il rigido municipio romano dell'antichità non ebbe nulla di simile in Oriente. nonostante le infinite monete civiche orientali dell'epoca imperiale romana.
L'Italia occupò una posizione altrettanto indipendente rispetto al gotico francese; il sistema scolastico della tipologia non assunse mai qui un'importanza paragonabile a quella avuta nel Nord, sebbene S. Tommaso, che peraltro insegnò a Parigi, fosse dell'Italia meridionale. Nella patria della novella, assai più incline alla chiara realtà che non psicologicamente raffinata, e quindi affatto diversa dal fabliau francese, la rappresentazione della vita individuale prese uno sviluppo non mai raggiunto nel Settentrione propriamente gotico. Pure caratteristico è il fatto che ciò non si manifestò nelle pitture su vetro, artificiosamente architettonizzate, ma nei grandi, tranquilli affreschi che si stendevano sulle lisce pareti delle chiese: quasi meridionale omofonia al posto della polifonia. E non fu soltanto la vita estesamente narrata di Cristo e della Madonna, ma anche quella dei loro "baroni", i Santi; e la codificazione di questo vecchio materiale avvenne proprio in terra italiana, nella classica Leggenda aurea.
Ma un nuovo sentimento, di origine assolutamente occidentale, anzi italiana, penetrò col Duecento gli schemi bizantini: il nuovo misticismo dei grandi ordini religiosi, e innanzi tutto del francescano, che agirono, attraverso le prediche e gl'insegnamenti, sulle più estese classi popolari. Questo mancò assolutamente all'Oriente, che lo scisma aveva separato dall'Occidente, e dove le pastoie dell'ortodossia anticheggiante vennero spezzate soltanto episodicamente, cioè solo quando se ne rivelò la necessità inevitabile: ultimo segno di un antichissimo fato storico. Anche Bisanzio subì l'evoluzione che trasformò il Crocifisso trionfante, il Promachos della vittoriosa Chiesa di stato, nel sofferente Salvatore dell'umanità, il Χριστὸς πάσχων del suo unico dramma. I grandiosi crocifissi delle nuove chiese popolari italiane erano pervasi dallo spirito francescano delle Laudi, che presentava agli occhi del popolo commosso la passione dell'umanità, nella persona del suo Salvatore. Lo stesso spirito viveva nei nuovi libri popolari francescani, che non hanno riscontro né nel Settentrione né tanto meno a Bisanzio: nei Fioretti di S. Francesco e nelle Meditazioni, attribuite al suo discepolo, S. Bonaventura: due libri affatto popolari, non scritti in latino dotto, ma in volgare. Biografie individuali di un eroe, e quindi anche in ciò pienamente italiane, rispondevano pure allo spirito del vero grande Medioevo, in quanto rientravano nella grande vicenda mistica sublimata anche nei minimi tratti. L'ultimo di questi due libri, composto tra il sec. XIV e il XV, agì particolarmente sul '400, tanto nel Nord quanto nel Sud, dove però non poté influire con il grande stile eroico del suo periodo di formazione. Il Settentrione, ben più serrato, com'era, nel suo gotico nazionale, rimase più vicino a questa mistica intima, la quale, però, alla fine del Trecento si volse nell'Italia superiore a un realismo quasi triviale.
Tutt'altro aspetto ha l'arte del dotto ordine domenicano, che non ebbe mai una leggenda popolareggiante simile a quella del suo rivale e oppositore. Suo campo d'azione fu la grande allegoria e l'enciclopedia scolastica, secondo lo spirito di S. Tommaso. Non già che quella mancasse all'ordine francescano, che Dante gli mise vicino in versi immortali; ma le allegorie serafiche, che compaiono già nella chiesa sepolcrale del fondatore dell'ordine rispondevano piuttosto allo spirito d'allegoria artisticamente sublimata dal poeta stesso: erano più adatte a essere trattate dall'arte, più comprensibili e più popolari. I grandi affreschi del Camposanto pisano erano sentiti direttamente, non arzigogolati intellettualmente sugli aridi sentieri della ragione come le allegorie di S. Maria Novella, a Firenze, sede principale dei domenicani. Furono poi proprio gl'ingegnosi monaci domenicani che nel sec. XV mantennero l'eredità dei vecchi tempi, soprattutto Fra Angelico, che sotto questo aspetto è ancora totalmente figlio ed erede del Medioevo mistico.
In quelle rappresentazioni non si può non avvertire un forte influsso letterario: siamo nel periodo eroico della letteratura classica italiana, del dolce stil novo con la sua doppia origine, così caratteristica per la mentalità italiana, e cioè l'artificiosa, raffinata poesia d'amore provenzale e l'intellettualismo scolasticamente rigido. Per quanto questo altissimo stile poetico poco potesse influire sul contenuto delle arti figurative, anzi sebbene le influenze fossero piuttosto in senso inverso (per Dante l'amore non è Frau Minne ma la donna angelicata; e i Trionfi del Petrarca stanno già sopra un altro piano), questo elemento letterario si manifestò in una nuovissima trasformazione del vecchio titulus, che talora ampliato sino a divenire sonetto o canzone (come nel celebre Trionfo della morte di Pisa) entrò indipendentemente nell opera d'arte. Questo fatto si può osservare particolarmente nelle allegorie politiche, fino alla lirica moraleggiante dei cartelloni demagogici di un Cola di Rienzo. La borghesia cittadina che andava affermandosi già con atteggiamenti assolutamente moderni, prima in Lombardia, poi nelle città toscane, trovò la sua espressione monumentale nelle composizioni che ornavano i suoi palazzi civici, mantenute ancora nel grande stile da elementi religiosi e allegorico-morali, che non sono le moralités del Settentrione francese. Anche il ritratto equestre, non quello del principe ma quello del capitano al soldo del comune, apparve per la prima volta entro l'ambito della gloria municipale; ed è ben nota la via che poi percorse in Italia e, uscito da questa, nell'Europa intera. L'Italia superiore, avvolta nella sua rete di piccole e grandi dinastie, si riattaccava piuttosto, anche per il suo carattere cavalleresco, alle vicine regioni francesi; mentre i "regali mercanti" di Venezia stanno a parte, ché la leggenda civica di questa città conservò sempre qualche cosa dello ieratismo della tarda antichità e di Bisanzio. Ma è caratteristico, per questa particolare intonazione letteraria della terra madre delle future accademie, che l'Italia tutta, unico paese in Europa dall'antichità in poi, trovasse la sua unità in un poema nazionale. Della Divina Commedia, dell'opera del suo più grande poeta, cominciò fin d'allora l'illustrazione, e se ne pose con ciò il problema generale, in fondo sino ad oggi insoluto e insolubile per l'arte figurativa.
L'evoluzione stilistica di quello che potremo chiamare il Medioevo italiano, possiede - nonostante il notevole ritardo con cui si manifestò in Italia la tendenza alla nazione unitaria, consolidata dalla lingua e della letteratura come dall'arte - un'impronta così singolare, da far prendere in considerazione, con minor scetticismo, la strana "teoria dell'espressione" di Rutz-Sievers, la quale attribuisce al popolo italiano sin dall'antichità un proprio indipendente tipo di voce, che si presenterebbe negli altri popoli soltanto in modo saltuario. Non fosse altro che per la sua storia, l'Italia da Venezia alla Sicilia ci appare ancora e per lungo tempo una provincia bizantina, mantenendo sempre il suo carattere di paese mediatore, mentre la Lombardia, gallica ab antiquo, pur col suo nome assunto dagli ultimi conquistatori, servì sempre e soprattutto nel suo periodo romanico, con il suo confine alpino, di tramite verso il Nord. Tralasciando questa regione, che per lo più fa parte per sé stessa, la magistra latinitas conservò, come in antico, di fronte all'Oriente greco, la sua indipendenza e la sua originale potenza creatrice. Per quanto sia difficile riconoscere nel primo e alto Medioevo l'elemento occidentale e proto-italico, esso era pur presente nell'iconografia e nelle forme. L'Italia, perfettamente tosco-latina, non rinunciò mai, come vi aveva rinunciato la sua sorella romaica, alla plastica a tutto tondo; è degno di nota che in un genere, il quale fu per l'arte italiana sino al tardo Rinascimento di grande importanza, nelle porte di bronzo, si superò con sempre crescente senso plastico il piatto rilievo bizantino. Come l'arte si mantenne fedele al tardo latino volgare - la formazione relativamente tarda di una lingua parlata e scritta puramente italiana trovò in ciò la comune radice - così l'arte rimase ab ovo vicina all'ellenismo nella sua forma bizantina, e non compì mai nella stessa misura del rimanente Occidente barbarico il dissolvimento del modellato plastico in linee e piani, né lo ridusse a semplici forme costruttive. L'arte bizantina, come abbiamo visto, non oltrepassò un determimto limite e conservò, anche nei suoi nuovi schemi, avanzi dell'antico illusionismo plastico e prospettico. L'Italia fu in questo la sua scolara e la sua erede; ed è per ciò che la categoria stilistica, per essa così importante, del rilievo, rimase costantemente uno dei suoi idoli. Restarono sempre in Italia, soggetti dell'evoluzione pittorica, il musaico del tardo stile bizantino (che nel Nord andava sparendo, o tutt'al più viveva d'importazione), e l'affresco, che, nato dal musaico, si veniva a poco a poco elevando ad una del tutto nuova e solida tecnica. La pittura su vetro nordica fu e rimase, sin nell'epoca più tarda, tanto stilisticamente quanto tecnicamente estranea allo spirito italiano, prodotto importato e non nazionale, anche se il primo Rinascimento le impose le proprie forme. Date tutte queste circostanze, si spiega come la formazione della nazione fosse lunga e difficile in Italia, ben diversamente che tra i barbari, celti e germani, i quali, potendo cominciare dagli inizî e non avendo da sormontar prima un lungo stadio di trapasso, poterono facilmente precederla. È veramente strano vedere quanto poco zelo la nazione, che si veniva formando, portasse alle cose artistiche, nel senso più lato, e quale indirizzo prevalentemente razionalistico abbia avuto, producendo con romana positività cose proprie e importanti soltanto nella matematica e nella giurisprudenza. Si formava quell'intellettualismo della nazione italiana, così estraneo, anzi urtante, per i settentrionali, che costituisce, come elemento classicistico, il sostrato della sua arte, come la sbrigliata fantasia lo è per il romanticismo delle regioni nord-occidentali.
Non senza ragione si torna a parlar sempre di Rinascimento in Italia; dove quel concetto, che vi è nato, ha un senso nazionale, comprensibile soltanto in essa e nella metà orientale del vecchio Impero, legato a lei così intimamente sin dai primordî, pur nell'ellenismo che ora la veniva sempre più occupando. Ne abbiamo un primo esempio nel protorinascimento dei sec. XI e XII, che si fa più fortemente sentire nella decorazione e nell'architettura, e culmina nell'arte dell'Italia meridionale promossa dallo svevo Federico II: nella porta di Capua ornata di busti e di statue, oggetto di una lunga tradizione letteraria, e nei conî delle Augustali, il cui carattere ritrattistico individuale non sembra fosse compreso dai contemporanei, se una cronaca parla semplicemente di caput hominis. (Un secolo e mezzo dopo appaiono, come nati dallo stesso spirito, i travestimenti all'antica sulle monete dei Carrara a Padova). Assai significativo per questo problema è il fatto che la prima scuola poetica veramente italiana, la siciliana, nacque nello stesso tempo e sulla stessa terra. In verità questo protorinascimento non si rileva solo nel campo etico-politico (da Arnaldo da Brescia sino a Cola di Rienzo), nel cosciente riattaccarsi dei municipî sempre più importanti al loro passato, sentito come una gloria cittadina (Antenore diventa l'eroe fondatore di Padova, Virgilio quello di Mantova, ecc., statue romane diventano palladî cittadini e oracoli), ma anche, e soprattutto, in quello letterario, specialmente nell'Italia meridionale, già nell'epoca longobarda. Si componeva in metri oraziani, e s'imitava l'Eneide.
In Italia si svolse poi, parallelamente a questo, il rinascimento bizantino del '200, a modo suo, e in certo senso nazionale, dato il vecchio carattere italo-bizantino del paese; ed è oltremodo caratteristico vedere come esso si fuse con un altro movimento spirituale, assolutamente italiano, civico e puramente occidentale. Sulle nude pareti delle potenti chiese appartenenti ai nuovi ordini monastici democratici, apparvero non solo le successioni figurate nel nuovo stile dell'affresco, ma anche quei grandiosi Crocifissi e Madonne, che nati dalle immagini di piccolo formato delle iconostasi orientali, annunziavano qualcosa di nuovo, cioè il nuovo indirizzo monumentale "romano", come qualcosa di nuovo rappresentavano le nuove chiese presunte gotiche sia di fronte al vero gotico sia al soffocato verticalismo delle tarde costruzioni bizantine.
La parte assunta da questo terzo fattore, cioè dal gotico francese in quest'epoca ormai dilagante, è veramente notevole. Mentre il Settentrione lombardo e il Mezzogiorno divenuto angioino si schiudevano più facilmente alla corrente francese, il gotico d'oltralpe subì sin dall'inizio una trasformazione che potremmo dire nazionale, nella parte centrale tosco-umbra del paese, dove già lingua e letteratura tendevano a divenir classiche e ad assumere l'egemonia. La volontà formatrice celto-germanica si spezzò dinnanzi all'amore per la misura e per la regola, a quella "disposizione matematica" degl'Italiani, così presto rivelatasi. Agli occhi di un settentrionale la meravigliosa cattedrale di Orvieto, con la sua severa simmetria, può sembrare un esempio aritmetico; ma vibra in essa lo stesso spirito che anima lo schema tipicamente nazionale del sonetto. L'indirizzo romano monumentale, già visibile nel Rinascimento bizantino e opposto al verticalismo nordico, non si manifestò soltanto nelle grandi basiliche che i nuovi ordini italiani crearono per le loro comunità; si tratta di un problema di organizzazione interna, non di opportunità esterna, a cui si potrebbe applicare la nota frase del Goethe, sul perché abbiano le corna i tori, e non i leoni. Su queste basiliche, a cui l'ampio arco a tutto tondo, che va sostituendo quello a sesto acuto, conferì un ritmo particolare, il gotico italiano pose ancora la cupola orientale, alla quale il Settentrione da un pezzo aveva rinunziato. Domina potentemente, fra tutte, la cupola del duomo di Firenze, che, ancor gotica nelle sue linee, preannunzia già largamente l'avvenire; edificio anche questo che può forse far effetto di frigidità e d'indifferenza, al settentrionale impreparato, non diversamente dalle plastiche creazioni del grande Giotto (si ricordino i giudizî dal tempo del Rumohr a oggi). Giungiamo così al grande avvenimento del Trecento, all'arte del più grande artista prodotto dall'Italia; la quale non ebbe egualmente, dopo Dante, altro poeta più grande. Esso rappresentò la prima scuola nel nuovo senso stilistico ancor oggi vivente, non più locale o professionale, ma formale, le cui norme, molto caratteristiche per la Toscana e l'Italia, furono fissate anche letterariamente. Che la sua origine fosse dovuta sostanzialmente ad un'individualità artistica impareggiabile, salta agli occhi: come tutti i grandi artisti, Giotto non ebbe mai un maestro se non nel senso puramente tecnico della parola, e meno che mai l'oscuro Cimabue di Dante, salvo che non lo si voglia concepire come il mitico Dedalo del bizantinismo italiano. Per la prima volta si fa innanzi, di fronte alla personalità artistica collettiva del vero Medioevo, il problema dell'individuo autonomo; così come gl'Italiani di quella stessa età produssero la prima opera letteraria moderna, e che moderna rimane. Affatto privo di ragionevolezza fu quindi l'attacco sferrato dalla gretta filologia contro il concetto di individualismo del Rinascimento, posto dal Burckhardt. Non fu causa di successivi punti di vista storici, bensì sintomo di una realtà, che dall'aneddoto e dalla novella fiorentina, attraverso l'elogio della città (Villani), l'individualità degli artisti si elevi nella considerazione storica fino al Ghiberti (testimone di questo aspetto del Trecento e insieme esempio, appunto, di propria personalità artistica) e al Vasari, che a quel concetto storico diede estensione internazionale. Lo stesso Vasari fa cominciare il suo Rinascimento da questa età eroica dell'Italia: concetto e parola (usati dai Tedeschi, dal Burckhardt in poi, nella forma e nel senso francese) del tutto italiani e nazionali, e che come il gotico toscano possono essere compresi solo in Italia, non come imitazione del passato (che in Italia certamente aveva ragioni nazionali), ma come riconquista di un'arte oggettiva, guidata dalla misura, dal numero e dalla norma, di cui appunto il passato nazionale aveva già dato un esempio. E nondimeno quest'arte nuova fu figlia dell'arte medievale, a cui venne presto attribuito come un'ingiuria il vecchio nome della stirpe germanica; l'arte medievale trasmise ad essa non solo la materia, ma anche la linfa vitale. Ed è caratteristico che alla stessa parola Rinascimento, come ha dimostrato in modo convincente K. Burdach, abbia dato un suo colore mistico l'idea medievale della palingenesi. Il dissidio fra lo spirito medievale e quello moderno si manifestò certo, poi, nel sentimentalismo del Petrarca.
Se l'idea non fosse un po' troppo semplicistica, si potrebbero ricondurre i tre indirizzi, rappresentati dalle grandi individualità cittadine della Toscana, ai tre fattori del nuovo stile: i Pisani (che per primi, come la loro città, scompaiono dalla scena) al gotico; i Senesi a Bisanzio; i Fiorentini all'antico (rappresentato dal rinascimento bizantino e dal proto rinascimento). Così, Duccio fu detto l'ultimo artista antico, con motto spiritoso, per quanto un po' dubbio; perché l'antichità rinacque veramente (con processo interno e non esterno) nel grande stile dei giotteschi fiorentini. In questi rilievi colorati il bizantino e il gotico furono completamente fusi e rifusi; se per essi esistette un precursore, questi fu il solitario romano Cavallini. L'evidenza plastica di queste figure che, sollevati al di sopra dell'oggettivismo quasi meschino in confronto del Quattrocento, si muovono su una scena e in una luce ideale, ha veramente della grandiosità ellenica. La parola d'ordine dell'arte toscana, specialmente di fronte alla pompa coloristica nordica e veneziana, disegno e rilievo, fu pronunciata allora; fu allora preparato il terreno da cui nascerà la formula classicista della bellezza "aderente" (ove il colore è considerato ornamento accessorio). Se quelle figure, così ben radicate nel suolo e nella chiara luce meridionale, non vogliono ricordarsi di proiettare la loro ombra, ciò può ricordare l'ammonimento del vecchio maestro Quintiliano, di non interpretare con troppa sottigliezza né il discorso né l'artista.
Di fronte a questo stile degno di Dante, l'arte senese ebbe un tutt'altro aspetto. Sin nella sua origine fu piuttosto figlia del rinascimento bizantino, affine all'età dei Comneni nella sua ricerca di bellezza formale. Molto più gotica nel suo contenuto affettivo e nel suo minuto realismo, preludeva, nella sua tendenza alla prospettiva, all'età successiva; più efficace con il suo amore per le grandi pareti decorative, portava in sé - essa, e non già i giotteschi - la missione di agire al di fuori, non solo percorrendo da nord a sud l'Italia, ma valicando le Alpi per varie strade (dalla sua sede di Avignone e attraverso le regioni austriache, dove già appare in unione con la vecchia scuola veronese) fino a raggiungere Parigi e la Praga dei Lussemburgo, dove gli avanzi della prospettiva bizantina anticheggiante, da essa conservati, potevano ormai fruttificare, essendo intanto stato preparato là il terreno. Fu questa la prima ondata internazionale partita dall'Italia. Non fu il dolce stil novo della poesia (che trovò innanzi tutto i suoi limiti nella costrizione linguistica), ma l'ars nova della musica fiorentina - come venne definita - sviluppatasi parallelamente ed in intima connessione con le arti figurative, che si oppose, autorevolmente e decisamente (sia pure stata sopravalutata la sua influenza), all'ars antiqua della musica mensurale parigina. Si trattava effettivamente di uno stile nuovo, veramente meridionale rispetto alla complicata polifonia nordica.
Nuovo oggettivismo nel Nord e nel Sud (Gotico tardo e Quattrocento). - Mentre nell'evoluzione sinora osservata potemmo notare un duplice parallelismo - concordia discors - come tra l'arte romaica e romanica, il gotico italiano, il Trecento, formò un'isola stilistica a sé, al pari della letteratura contemporanea, assai caratteristica nel suo stile divenuto classico, prima manifestazione cioè di un modernismo, che gl'Italiani definirono da sé stessi Rinascimento in chiara, cosciente antitesi con il gotico settentrionale. Il successivo sviluppo mostra in tutto il suo corso nuovamente un parallelismo che nel tardo gotico settentrionale e nel Quattrocento italiano ebbe, certo, caratteri fra loro contrastanti; in ogni caso, tra il Nord, che in nessun luogo aveva raggiunto ancora una lingua letteraria moderna, e il Sud non vi fu mai dopo il Trecento un distacco più profondo. Ma quel che li univa, era la ricerca di una nuova oggettività, che agl'Italiani appariva come già esistita nel loro passato nazionale.
Arte gotica tarda del Settentrione. - Nei soggetti trattati nel Settentrione, si nota una sopravvivenza dei grandi cicli medievali, che appaiono ora abbreviati e compendiati in modo caratteristico: lo dimostrano chiaramente i manoscritti (poi anche le stampe) della Biblia Pauperum, della Summa caritatis, e gli altri tipi ormai diventati fissi; tutte cose ignorate dall'Italia. Ciò si rivela perfino nel significato di una delle figure singole più rappresentative: la Madonna italiana è identica solo per l'espressione esteriore, non per quella interiore, a Notre Dame e Unsere liebe Frau (con quel suo affettuoso tono minore, che sembra scaturire dal tanto discusso e intraducibile Gemüt tedesco). Manca a queste la monumentalità delle forme meridionali; né la rappresentazione stessa è così frequente come nel Quattrocento, dove la Madonna si può dire, fu soggetto del maggior numero di dipinti. Specialmente la Vergine in trono è rarissima, e appare più sovente, sotto l'influenza italiana, solo alla fine di quest'epoca, come, ad es., nel Memling. La Madonna del van Eyck, che dal coro di una cattedrale gotica pare proceda familiarmente verso il visitatore, era ignota in Italia, dove si perpetuava ancora in qualche misura il ricordo della solenne Theotokos. Certo, la Madonna quattrocentesca delle immagini di devozione ebbe tratti più intimi, ma rimase pur sempre in una sua sfera, con un contegno più riservato. Il senso borghese-domestico tanto sviluppato nel Nord (e che appare ancora così accentuato nelle medaglie private del sec. XVI rispetto alla solennità italiana), vi assunse un carattere d'intimità essenzialmente diverso; così, il vasto e spoglio palazzo italiano si differenziava dagli ambienti piccoli e ricolmi della casa nordica. Tra la Madonna nel roseto, nordica benché si trovi anche nell'Italia superiore, fusa con la natura in un'unica armonia, e la meridionale Madonna in mezzo al verde, c'è la stessa profonda differenza che tra il parco italiano rimasto sostanzialmente antico, e il chiuso e stretto giardinetto nordico. Anche le statue di Maria, dai fluenti capelli, tipiche del tardo gotico, hanno una chiara impronta nordica. Nulla sottolinea maggiormente il distacco quanto la rappresentazione dell'Annunciazione; essa è molto rara nel Nord, e invece frequente in Italia (dove anche l'Angelus ebbe tutt'altro significato), ed ha qui, al solito, un aspetto monumentale: differenza analoga a quella del S. Girolamo nel suo studio di scienziato meridionale dal suo omonimo nordico, in soffitta. Per contrario, la rappresentazione della Sacra Famiglia, con quei suoi tratti accentuatamente familiari, fu altrettanto rara in Italia quanto frequente nel Nord; mentre in Italia anche l'affine rappresentazione della Discendenza di S. Anna assunse un aspetto solenne, i grandi quadri con l'Assunzione e l'Incoronazione di Maria, uno dei temi dominanti nel Sud, apparvero invece raramente e molto tardi nel Nord, per scomparire dinnanzi alla rappresentazione della Morte di Maria, al contrario di quanto succedeva in Italia: cosa veramente caratteristica e sintomatica. Passione e morte, e specialmente l'idea della cadueità umana, furono concezioni a cui il Nord rimase fedele in virtù del suo passato gotico: non solo le sofferenze di Maria, ma anche la passione di Cristo, che il Quattrocento pose in seconda linea, divennero, con le scene di martirî, i soggetti prediletti del Settentrione. Il nocciolo del dissenso religioso, che nel sec. XVI portò alla Riforma, si trova già in questo immergersi nelle pene terrene e nella terrena caducità, così estraneo al misticismo meridionale. Basta ricordare quale parte importante assunse la Passione nel canto ecclesiastico evangelico, che raggiunse l'apogeo con J. S. Bach. Vi si unì un elemento popolarescamente drastico, anzi caricaturale, in stretta relazione con le sacre rappresentazioni, mai comparso in Italia, elevato sino al feroce umorismo, che ricorda la giustizia nordica con tutti i suoi grotteschi strumenti di tortura.
La rappresentazione di Cristo sotto il torchio, con la sua orribile similitudine tra vino e sangue, era impossibile nell'Italia di quest'epoca. Così l'Italia rifiutò - fuorché nel Settentrione, più influenzato dal Nord - la danza macabra e il mondo fantastico di diavoli e di mostri del giudizio universale, che dominavano tutto il Settentrione. Effettivamente gli spettri nordici dovevano sentirsi spostati e ridicoli nella natura e nella luce meridionale, come Mefistofele nella notte di Valpurga classica. Ma, dovunque, l'Antico Testamento perdette terreno, e lo riguadagnò solo con la Riforma.
Anche il ciclo profano si attenne più lungamente nel Nord che nel Sud alla tradizione gotica. Lo spirito nuovo si accontentò di arricchire il quadro medievale di genere con nuovi tratti naturalistici; ne fanno testimonianza le descrizioni di quadri andati perduti, appartenenti alla scuola dei van Eyck (donne al bagno, caccia alle lontre) e i disegni marginali del famoso libro di preghiere dell'imperatore Massimiliano I, in cui rimane ancora qualcosa della vecchia drôlerie. Il paesaggio (e gl'interni) assunsero importanza già nel '400 nello strano cenacolo artistico intorno al duca di Berry, benché per certo risenta degli schemi dei calendarî illustrati, che influenzarono, più tardi, ancora l'arte del Brueghel dei contadini. Il paesaggio autonomo, di spirito in tutto diverso da quello veneziano, comparve finalmente nella cosiddetta scuola del Danubio del sec. XVI, in accentuato contrasto con l'Italia, dove l'uomo rimase sempre, all'antica, la misura di tutte le cose. L'uomo del Settentrione (specialmente il contadino e il bracciante) portò la rusticità medievale sino alla soglia della nostra epoca. La borghesia cittadina lo considerò come un involontario zimbello, e solo l'Italia del sec. XV precorse, in modo saltuario, la concezione moderna. In terra germanica l'antico conservò assolutamente l'impronta dei Mirabilia, la Roma fantastica dei pellegrini del Nord, specialmente negli arazzi, che corrispondono nelle proporzioni minori proprie del Nord, agli affreschi meridionali. Ancora nel diario düreriano del viaggio nei Paesi Bassi, le indicazioni dei soggetti antichi hanno un sapore di mirabilia, sebbene allora già vi fosse la corrente della letteratura dotta del giovane umanesimo tedesco. Mancava in Germania completamente lo spirito del Rinascimento che è nella novella italiana, e che agì più tardi anche sullo Shakespeare; vi regnavano ancora le facezie ed i lais gotici, e il Roman de la rose con la sua allegoria scolastica, ben diversa da quella del Sud, seguitò a influire fino sui romanzi illustrati dell'epoca dell'"ultimo cavaliero" e "primo umanista", Massimiliano I. È singolare che l'incisione nordica, tutta intima e illustrativa, ridivenne in certo modo monumentale nell'Italia di Raffaello e di Marcantonio, nel suo nuovo scopo e significato di riproduzione di opere classiche, specie antiche.
A metà del sec. XIV s'iniziò nel Nord (compresa l'Italia continentale, ad esso legata), una nuova tendenza, certo preparata già da lunga mano, che segnò tanto la rottura con le concezioni fondamentali del vero gotico, quanto il sorgere di un nominalismo positivistico opposto al vero realismo della scolastica aristotelica, insieme con una secolarizzazione, che mirò a separare la fede dalla scienza. Il mondo diventò più positivo; cominciò a guardare le cose con gli occhi del corpo, non più solo con quelli dello spirito; alla cronaca universale medievale si oppose una nuova specie di verità storica, che non cercò più l'universale, ma il singolare; alla formula, al simile (che mantenne ancora lungamente il suo dominio), alla biografia tipica se ne sostituì un'altra, intonata a un nuovo senso del ritratto, che poi è rimasto fino a ieri il nostro: non più portraiture ma ritratto, cioè qualcosa di tolto alla realtà, nel senso più lato: non solo il volto umano, ma anche tutto l'ambiente che lo circonda, paesaggio e scenario, con quanto in essi vi è di animato e d'inanimato. Il mondo guadagnò in ricchezza intellettuale quello che perdette in spiritualità e in fantasia. L'individualità, secolarizzata anche nel senso spirituale, andava sempre più sciogliendosi dalla bottega e dalla scuola (e il Trecento toscano fu un precursore anche in questo).
Guidavano quest'evoluzione in un primo tempo i barbari germanici e celto-illirici: i Fiamminghi, che si affermarono prima in Francia, prendendo radice sul terreno preparato dalla plastica delle cattedrali francesi, di cui continuarono l'ideale sviluppo, finché tutta l'Europa settentrionale e occidentale, dalla frontiera orientale bizantina sino all'estrema Lusitania, divenne loro feudo. Si affermarono al loro fianco, ma sempre indipendenti, i Lombardi e i Veneti, anzitutto i Veronesi, mentre il centro toscano d'Italia mantenne sino alla fine del secolo il suo grande stile eroico; si è già detto come tanto a Verona quanto nella Provenza l'influenza di Siena aggiungesse elementi di una visione neo-antica, conservati con cura e sviluppati con raffinatezza. Si trattava ora del "naturale", un'espressione, che penetrò persino nel vecchio formulario letterario dell'arte orientale, a noi noto però solo nell'ultima sua redazione.
I paesi nordici, certo, precedettero di circa mezzo secolo l'Italia, che di questo svantaggio si rifece, nel sec. XV, in modo assolutamente originale e che alla fine s'impose agli altri paesi d'Occidente. I nuovi problemi di questo gotico tardo, cioè il nuovo senso spaziale (nell'architettura gotica tarda, specialmente nelle cosiddette Hallenkirchen) col nuovo taglio di composizione che mirava all'illusione ottica, per cui la cornice ebbe nuova funzione, il nuovo rilievo; il nuovo senso ritrattistico, sotto ogni aspetto, comparvero empiricamente nell'autentica tradizione artigiana (e specialmente nell'incerta prospettiva) senza una sistemazione logica ed estetica, e non di rado tali particolarità ci fecero sembrare questi artefici superiori nel puro campo artistico ai Toscani del '400, anche se non consideriamo affatto il nuovo valore del colore. Ed è caratteristico che in fatto di colori solo i "fiamminghi" meridionali di Venezia, che primi ed energicamente accettarono la nuova tecnica ad olio, si possano paragonare ai nordici. Contemporaneamente continuò a dominare, con inalterata potenza, la vecchia formula del "simile", lo schema su cui venivano riportate le singole osservazioni empiriche; sicché, nonostante tutto l'amore della natura (apparso già prima nella plastica e nell'ornamentazione architettonica del tardo gotico), si potrebbe sempre parlare di uno pseudorealismo. L'architettura, nella perseveranza delle sue forme, fu anche qui il chiaro esponente. È noto come in tutto il Settentrione si costruisse goticamente per gran parte del sec. XVI; e la parola gotico ebbe per il Nord un senso nazionale ben diverso che in Italia. Ciò si rivela in modo particolarmente chiaro nella calligrafia dei manoscritti con intenti artistici; poi, nei drappeggi, con i loro ghirigori manierati, tanto nello stile duro e spezzato quanto in quello morbido e fluente, se vogliamo adoperare la parola stile nel malaugurato senso dei grammatici. Insieme, si manifestò appunto qui, e particolarmente nella vera e propria incisione nordica, specialmente tedesca, un prezioso manierismo dal raffinato fascino artistico, la cui influenza fu particolarmente sentita dai più settentrionali tra i popoli romanzi, dalla scuola vallone, tanto più attiva della sorella fiamminga. Questo tardo gotico olandese influì fortemente, appunto in virtù del contrasto, sul mondo umanistico italiano, che aveva un tono così diverso; e il più antico storico dell'arte nel senso moderno della parola, il Ghiberti, ammirava l'enigmatico suo contemporaneo di Colonia, Gusmin, che gli appariva come una figura leggendaria su sfondo d'oro, "al pari delli antichi statuarii greci": in quella bocca massima lode, che ha qui un sapore d'ingenuità. Nelle nuove collezioni degli amatori d'arte italiani, specialrnente a Venezia e a Napoli aperte agl'influssi nordici, e nelle corti principesche dell'Italia centrale, i quadri dei Fiamminghi furono ritenuti preziosi, quasi come più tardi le chinoiseries. Il nuovo contrappunto dei Fiamminghi che cercava e raggiungeva anche una profondità prospettica nella costruzione vocale polifonica trionfò proprio in Italia, sull'ars nova fiorentina (che si può paragonare all'ondata artistica senese), e vi s'impose lungamente. Ci si può piuttosto domandare: con quali occhi questi Fiamminghi, ad esempio, un Roggero van der Weyden, guardavano al classicismo meridionale nell'anno giubilare 1450? In fondo, esso non insegnò loro quasi nulla, sebbene proprio il van der Weyden mantenesse la composizione latina, nonostante tutto il contrasto del suo contenuto drammatico con la forma. L'assimilazione avvenne soltanto dopo due generazioni, e fu iniziata dalla Francia, dove comparvero già verso la fine del '400 artisti italiani: essa per prima ripudiò il suo passato gaulois e si ricordò di essere una nazione latina - benché su questo rimanga qualche dubbio.
Quello che divideva l'arte settentrionale da quella italiana - si è già detto che non mai l'abisso fu più profondo - fu il suo accentuato carattere popolare, spinto sino alla vera e propria buffoneria nella incisione, specialmente nell'intaglio in legno, così intimamente popolare, destinato a ornare cassapanche e altri utensili d'uso domestico, in tutto diversi dai cassoni italiani. Sarebbe attraente cercarne il riscontro nelle canzoni popolari tedesche; la parentela stilistica è evidente. La forma di quell'arte fu tanto intima e casalinga quanto i soggetti da lei trattati; si applicò, molto prima della pittura di interni olandese, a esprimere i valori della luce e del colore. S'intonava ad essa, contrastando con l'Italia, il piccolo formato casalingo delle sue pale d'altare - giù, giù, sino al quadro della Storia di tutti i santi del Dürer - eseguite col pennello del miniatore, non con quello del frescante meridionale. Mentre il Quattrocento abbandonava norme e regole, qui si osservavano ancor sempre leggi interiori, frutto dello stato d'animo, in fondo ancora gotico; leggi che seguivano la linea, non la forma organica, ed erano piuttosto sensazione interna, proiezione nel senso mistico, che non immagine nel nuovo senso italiano. Perciò fa su di noi, nipoti del Rinascimento, l'impressione di una caricatura, questo dissolvimento nell'immaginario, sentimento già provato dal Dürer; ma esso spiega anche il senso di freddezza e di calma che l'arte meridionale produce ancora sul settentrionale d'oggi. Lo stesso altare intagliato tardo-gotico, questo completo frutto, in piccolo, dell'arte costruttiva, con la sua intima fusione di elementi plastici e pittorici, è una protesta interiore contro la nascente teoria italiana dei limiti e della gerarchia delle arti.
La scissione col passato gotico, veramente nazionale, avvenne perciò a stento e con lentezza solo verso la fine del sec. XV; s'iniziò in Francia, dove Viator insegnava già nel 1504 la nuova prospettiva, originale e nordica, anche se ispirata alle dottrine italiane. Erano in gioco però anche le altre conquiste del Sud, che intorno al 1500 tendeva a uscire dal positivismo della vecchia generazione per raggiungere un nuovo idealismo. Come fu dura alla gente del Nord la lotta per il raggiungimento della nuova forma, che doveva sembrare al loro più profondo animo di barbari gotici estranea, anzi nemica: un vero idolo! Come dové riuscir loro difficile di penetrare il problema del volume e dell'interna organicità della figura! Gli humores del gotico tardo si ostinavano a vivere nelle arti figurative, come nell'architettura. Lo stesso Dürer, che volle por fine alla vecchia "falsità nel dipingere", sentì, con fare ben nordico, nella teoria meridionale una teoria misteriosa; e in nessun luogo quanto in Germania (si ricordi la Malinconia del Dürer !) sono stati più avidamente e manifestamente tradotti nell'allegoria tardogotica i geroglifici provenienti dall'Italia. Tuttavia i grandi maestri tedeschi trovarono la loro forma originale nordica: i maestri di Norimberga, con a capo il Dürer, l'alemanno Holbein (con alcuni francesi del paese classico della nuova letteratura dei Mémoires) con la sua inattesa nuova positività, il solitario Grünewald, ultimo cavaliere gotico con il suo misticismo colorato.
Decadde invece il ramo fiammingo, la cui egemonia nel campo musicale si trasformò a poco a poco, nel suo periodo romanistico, e cioè nei primi decennî del '500, in un formalismo e manierismo esteriore (il gotico tardo vi si presentò artisticamente raffinato) per finire in un fare da copisti, che, se non ha quasi più alcun posto nella storia dell'arte, tanto più lo ha in quella del linguaggio artistico. Vi sorse la grande scuola formale, quella palestra, che condusse al cosiddetto barocco, in cui solo fu possibile l'unificazione del Settentrione gotico e del Mezzogiorno antico, la nuova κοινή dell'Occidente. L'ultimo (e insieme primo) suo precursore fu quel fiammingo, completamente acclimatato nel Sud, fondatore a Firenze dell'ultima bottega internazionale, che gl'Italiani fecero proprio, sotto il nome di Gian Bologna. Quante novità serbasse in se questo Nord di fronte all'Italia, decadente a poco a poco, nonostante l'apparente potenza e pompa, lo dimostra un'altra solitaria figura d'artista, piena dei più moderni problemi, il vecchio Brueghel: ultima parola di una vecchia età e prima di una nuova.
Il Quattrocento. - Già il Vasari (a ragione, dal suo punto di vista di toscaneggiante) faceva cominciare il secondo periodo del suo Rinascimento dall'anno del memorabile concorso per l'allogazione della seconda porta del Battistero. S'iniziava una nuova epoca, che si rivelava anche nella scelta del soggetto. Certo, un sintomo dell'epoca nuova, il ritratto nel significato da noi conferitogli, si ha già nella vecchia arte veronese della fine del Trecento, dove fa capolino tra le sacre storie; e a Verona nacque la nuova arte della medaglia, prodotto pseudoclassico nonostante la sua connessione formale con il suggello medievale e la sua affinità con quelle strane serie fiamminghe di storie della Santa Croce, fiorite alla corte del duca di Berry, che furono, forse, sin dall'inizio supposte antiche e in ogni caso poi ritenute tali. Contrariamente alle posteriori medaglie nordiche, di carattere intimo, esse portarono sin dall'inizio un'impronta ufficiale di grande stile; servirono all'uomo celebre per ricordare la sua potenza spirituale o mondana, o alla bella donna che vi fece celebrare la sua grazia, e rappresentarono qualcosa di essenzialmente diverso dalle triadi mitologico-bibliche degli uomini famosi, care al Medioevo e che continuarono ad avere anche qui qualche influenza. La coscienza della propria personalità e autonomia, sentita dagli artisti sin dal Trecento, si rispecchiò negli autoritratti, come già, appunto, nelle porte del Battistero, creazione dell'artista che scrisse la prima autobiografia artistica veramente oggettiva: L. Ghiberti. Mentre il monumento ufficiale del duce repubblicano prima, del principe poi, completamente secolarizzato e sciolto dal legame di monumento sepolcrale, s'ergeva ormai nella pubblica piazza, nella pienezza delle sue forme plastiche, e non era più segregato quale affresco, come nel Trecento senese, in un palazzo municipale, lo stesso onore veniva tributato agli eroi del glorioso passato nazionale, come a secolari patroni del vecchio municipio romano, fin dal più alto Medioevo (Virgilio a Mantova) e poi nel '400 (Ovidio, in abito di scienziato quattrocentesco, a Sulmona). Ma nessuna statua pubblica, in tutto il corso dei secoli passati, fu elevata a un artista, neppure al poeta nazionale, al fondatore dell'unità spirituale italiana, a Dante. Nonostante il fascino esercitato dall'antichità, agiva ancora il vincolo della Chiesa, che permetteva il monumento equestre, perché riallacciato ad un'opera antica, che a quei tempi passava per cristiana: al caballus Constantini di Roma. Si rivela già in questo l'abisso che divideva l'Italia dalla tarda arte gotica, abisso che diventò ancora più evidente nel comune ciclo cristiano: mai il distacco tra Sud e Nord era stato così grande. In entrambi si nota la diminuzione dei soggetti tratti dall'Antico Testamento (in tutta l'opera del Beato da Fiesole non si trova neppure un soggetto tratto da esso): ma tutti i grandi cicli simbolico-allegorici scomparirono quasi completamente dall'arte italiana, e, nel Nuovo Testamento, il ciclo della passione passò in second'ordine, in accentuato contrasto col Settentrione, che lo sviluppava sino all'estrema crudezza. Erano soprattuttoo argomenti semplici, quelli che venivano preferiti: e che fossero particolarmente trattate le leggende dei santi, è cosa che sta con ciò in contrasto solo apparente. Appena ora, infatti, cominciava ad agire quello strano libro d'edificazione dello Pseudo-Bonaventura, e certo non tanto per la sua intima esperienza mistica (alla quale Fra Angelico si avvicinò più di ogni altro) quanto per la penetrazione, ivi per la prima volta offerta, del paesaggio e dell'ambiente toscano. Il carattere popolare di questo libro eccezionale era certo differente da quello dei libri nordici; e del resto la larga, mondana disinvoltura narrativa a cui si abbandonò il discepolo del frate, Benozzo Gozzoli, era ben più affine allo spirito della novella italiana, nata nel cerchio della raffinata borghesia cittadina, che non al più crudo e popolare racconto tedesco, simile a un intaglio in legno, o allo spirito cavalleresco della novella francese in versi. Il contenuto ideologico di questo periodo si rivelò, può dirsi, molto più chiaramente nell'arte figurativa che non nella letteratura contemporanea, in decadenza rispetto alla precedente grandiosa età eroica. Come nell'Oriente romaico, l'abisso tra popolo e intellettualismo umanistico diventò spaventosamente profondo: si poté persino pensare di sostituire il volgare con un latino bastardo. Le arti figurative rimasero nonostante tutto più vicine al sentimento popolare; la Madonna, il tema più comune del Quattrocento, dalla semplice immagine devota sino alla rappresentativa Sacra Conversazione in compagnia di santi, tra l'idillio di graziosi angioli musicanti (il Nord accolse solo tardi simili motivi), percorse tutta la gamma del sentimento lirico, del quale la poesia contemporanea non presenta nessuna o quasi nessuna manifestazione. L'incantevole figura, veramente fiorentina (del resto ispirata dalle Meditazioni) del San Giovannino fu anch'essa una creazione assolutamente nuova dell'arte figurativa, e influì, di rimbalzo, sinanco sulla vita reale (le processioni fiorentine di bimbi nel giorno di S. Giovanni). Essa rivela del resto, insieme con la figura tanto diffusa e comune di S. Sebastiano (così diversa da quella settentrionale che ne accentua, di solito, il tormento) le tendenze formali dell'età, servendo d'occasione al bel nudo. Quando quest'arie espresse finalmente, con asprezza etrusca, forme e accenti estremamente naturalistici nelle figure dell'asceta Giovanni e della penitente Maddalena (tanto diverse dalle figure teatrali del Cinquecento), non si trattò di dare una veste artistica al contenuto d'una predica, precipua preoccupazione del Nord, ma di risolvere problemi d'interesse artistico, ignoti al Settentrione in questa forma riflessa.
Sarebbe inesatto, certo, e si ricadrebbe in una concezione del Rinascimento, ormai superata, se si ponesse abusivamente l'elemento antico, a cui abbiamo già accennato, in un primo piano. Non si deve però dimenticare che l'antichità fu sentita qui (e, altrove, solo a Bisanzio) come qualcosa di nazionale; mentre essa non poteva invece avere un tale significato né per i popoli iberici, né per i gallici, né, tanto meno, per i germanici. Si realizzò così un ideale puramente mondano e profano, in un ambiente ben definito di dilettanti borghesi, umanisticamente colti (ambiente quasi completamente ignorato dal Settentrione). Tra i piccoli bronzi dell'epoca (che appaiono già nella bottega fiorentina del Ghiberti) raramente si trovano soggetti religiosi, e ancor più raramente soggetti che abbiano attinenza con la vita contemporanea; vi regna invece assoluta la mitologia, spesso la più remota, nella sua pagana nudità, assolutamente svuotata del suo significato religioso che pur avevano conservato i modelli diretti cioè i piccoli bronzi antichi: è solo l'art pour l'art per artisti e per collezionisti. Il Trecento classico (col Boccaccio e col Petrarca, i cui Trionfi esercitarono del resto solo ora il loro pieno influsso), aveva già scoperto la mitologia svolta non più allegoricamente o misticamente, ma letteralmente. Significativo per il persistere di elementi medievali è però il fatto che un mobile così caratteristico del palazzo italiano come il cassone dipinto - in questa forma completamente ignorato nel Nord - fosse illustrato con soggetti antichi concepiti romanticamente, in costume contemporaneo e nello stile dei fabliaux. L'Hypnerotomachia del Colonna con il suo curioso latino e le sue meravigliose xilografie - lo spirito latino si era impadronito completamente della tecnica nordica - è l'espressione di un sogno nostalgico che immagina come una beatitudine primitiva la passata vita nazionale, pur non senza legame con l'allegoria del celebre Roman de la Rose. Altrettanto caratteristico il fatto che furono gli autori scolastici del tardo Medioevo a fornire la materia principale per le rappresentazioni anticheggianti: il mitologo Fulgenzio, Marziano Capella, Ausonio, Lucano, Stazio, e non già Virgilio, pur messo, con la sua Eneide, in prima linea da Dante; sebbene egli poi continuasse a vivere tra il popolino come eroe e mago. Furono le letture delle classi dirigenti della società della Rinascenza che si rifletterono, particolarmente a Venezia, nelle rappresentazioni di novelle, la cui interpretazione era ancora contrastata. D'altro canto s'incominciò anche a copiare l'antico: e principale rappresentante di questo indirizzo fu un artista mantovano, che presentò sé stesso con il nome di Antico. La ricostruzione di antichi dipinti (Plinio e Filostrato, con Vitruvio così a lungo dimenticato, appartengono al numero degli auctores di quest'indirizzo, ormai del tutto laico), condusse alla fabbricazione di veri e proprî falsi - inauditi, quasi insensati nel Nord - non solo nel campo letterario (già con L. B. Alberti) ma specialmente in quello delle arti figurative, benché il Rinascimento, con il suo ingenuo sentimento della discendenza genealogica dall'antichità, fosse tanto lontano dall'idea dell'ingamo quanto da quella del plagio nel senso moderno della parola.
Sorse in quest'epoca e in questo ambiente, enunciato per la prima volta da L. B. Alberti, e, in un certo senso, vive ancora oggi, il concetto della historia, come principale genere (anche e specialmente formale) dell'arte. L'uso di rappresentazioni storico-politiche s'iniziò nel Trecento, riallacciandosi all'idea della gloria municipale, come dimostrano non solo gli affreschi dei palazzi pubblici toscani, ma anche i dipinti del palazzo ducale di Venezia, città celebre per le sue antichissime feste storiche. Specialmente nel Quattrocento toscano le sacre istorie si trasformarono volentieri in figurazione del presente borghese: lo si nota nelle decorazioni pittoriche e plastiche delle pubbliche istituzioni di beneficenza, caratteristiche dell'Italia, in cui si afferma la vita immediatamente vissuta (come, p. es., nelle decorazioni di ospedali) di fronte alle immagini storiche allegoriche della Giustizia, che persistono così lungamente, ad esempio, nei Rathäuser del Nord. Tolto proprio dalla vita delle infime classi popolari, senza quel senso caricaturale, cavalleresco o borghese che si ha nel Settentrione, fu il singolare episodio artistico dei bronzi di Padova - una vera "arte di ritocchi" - che maturato solo nel sec. XIX, fu iniziato dal giovane Riccio sulle orme di Donatello. Sottolineano ancora l'antitesi col Nord le colonne commemorative municipali, che non sono leggendarî Orlandi, ma simboli della democrazia, ispirati anche al Vecchio Testamento con le statue di Giuditta e di David, oppure all'allegoria ufficiale romana con la Dovizia e l'Abbondanza.
Il nuovo oggettivismo del Quattrocento italiano sembra in un primo tempo procedere insieme con quello del rimanente Occidente. Ma mentre in quest'Occidente, nonostante l'empirismo della nuova posizione spirituale, agì sempre una legge interna e subiettiva, originata in un modo o nell'altro dal senso lineare gotico, in Italia vediamo all'opera un ben altro spirito. In questo paese, le cui doti matematiche si manifestarono così presto e con un certo esclusivismo, si volle cercare il fondamento scientifico obiettivo del mondo reale riflesso dallo spirito dell'artista, e lo si statuì con l'ingenuità palese del positivismo (Leonardo, libero da qualsiasi speculazione, anzi quasi chiuso ad essa, da vero antiplatonico oppose i sensi alla fallace "ragione" della scolastica gotica). Si trattava della (supposta) obiettiva "giustezza" e "bellezza" le cui leggi (per la prima volta si manifestò così la fatale trasposizione di questo concetto dalla sua originaria sfera giuridica, fosse essa d'origine divina o umana) dovevano venir trovate e fondate su basi matematiche e scientifiche. Da un lato ciò avvenne per la dottrina della prospettiva. La venerata antichità non poteva fornire nessun contributo (del resto anche il suo orientamento era fondamentalmente diverso da quello esposto dalla nuova teoria del guardare in modo rigidamente fisso con un sol occhio) a questo problema assolutamente nuovo; si trattava di trasferire nel campo dell'arte figurativa i risultati dell'ottica puramente scientifica, fondata dai Greci, continuata dagli Arabi (che avevan già fatto esperimenti con la camera oscura, ricomparsa poi nel cenacolo di Brunellesco) e tramandata al Medioevo: alla perspectiva communis si sostituiva la perspectiva artificialis. Si trattava, inoltre, dello studio dell'organismo fisico, dell'anatomia, precorso anch' esso dagli scrittori arabi. Dall'altro lato, infine, si cercavano le leggi di una nuova "bellezza", da definirsi anch'essa matematicamente, la teoria delle proporzioni del corpo umano, in base a principî naturali e non già a formule puramente intellettuali, come nel Medioevo. S'iniziava contemporaneamente una nuova concezione speculativa dell'arte: l'estetica, che sorse sul terreno della vecchia retorica, come la teoria delle proporzioni nacque specialmente dalla teoria vitruviana dei canoni. È notevole che, dovunque, regole empiriche d'artisti e di botteghe furono elevate all'onore di leggi. Operava quel vivo, e già più volte accennato, intellettualismo italiano: l'arte doveva divenire scienza, come spesso si rileva; e anche l'arte figurativa doveva essere assunta nella cerchia delle scolastiche Arti liberali, in cui stava pure, uguale tra uguali, la "sorella della pittura" (come Leonardo chiamava la musica), che già da tempo era stata fondata su basi teoretico-matematiche. Venne così effettuata una netta scissione dalle vedute altamente idealistiche del Medioevo: ora, scientia - e si può aggiungere ars - est de singularibus, non de universalibus; la nuova scienza naturale sperimentale andò di pari passo con la nuova arte e la sola teoria, spesso unite in una persona, come in Piero della Francesca, che per primo ridusse la prospettiva a formule rigidamente matematiche, e soprattutto nell'inquieto spirito di Leonardo, nel quale convissero scienziato e artista, ma spesso in tragico conflitto; teorie che erano in perfetta antitesi al libro di teoria artistica (rimasto frammentario, e a modo suo, però, anch'esso geometrizzante) del rigido gotico Villard. Questo nuovo momento intellettualistico si manifestò chiaro nella notevole, multiforme figura del primo letterato e artista dilettante, L. B. Alberti; egli fu, con i suoi libri sulle tre arti, il primo formulatore di teorie artistiche, il primo che abbia compendiato le leggi estetiche e naturali dell'opera d'arte, che abbia infranto il concetto medievale dell'unità del prodotto complessivo delle varie arti, e formulato la fatale teoria dei limiti e delle specie dell'arte, enunciando infine la dottrina dell'architettura "secondo regole", che precedette il poema epico e il dramma "secondo le regole". In tutto ciò è evidente l'infiltrazione letteraria e lo diventerà ancor più nelle future accademie d'arte. Contemporaneamente, e in intima unione con questo spirito teorico, s'iniziò per la prima volta, dall'antichità in poi, e in opposizione al Medioevo intimamente e necessariamente antistorico, l'indagine storica intorno a ciò che di fatto fosse accaduto nel campo artistico. Fondatore ne fu un vero artista, Lorenzo Ghiberti, che pure si affaticò a rintracciare la via che conduceva all'antichità. Le prime basi per la teoria e per la storiografia dell'arte furono così poste, per tutta l'Europa, nella vecchia terra toscana. Insieme quest'età fu chiaramente e profondamente cosciente del contrasto dell'arte nuova con l'arte degli avi, e specialmente con quella di tutto il resto dell'Europa, compreso l'Oriente: sorse allora la teoria della rinascita della vera arte, cioè dell'arte dell'antichità (nazionale, specie romana) che aveva subito un'interruzione a causa della non arte dei barbari e dei neogreci (parallelo tra romanici e romaici!): era già nato il concetto del gotico, se non ancora il suo nome dispregiativo.
Per la prima volta nel corso della storia si presentò, accanto alla prassi, una sua teoria perfettamente elaborata in ogni sua parte. Come si comportarono in realtà l'una rispetto all'altra? A più di un pensoso osservatore è potuto sembrare che tante nuove conquiste siano state congiunte a considerevoli perdite: il progresso, immanente, di un'età è pur sempre riallacciato ad una, altrettanto immanente, decadenza. La "naturalezza", il "realismo" dell'epoca, si presentava come cosa moderna di fronte al gotico, nelle nuove composizioni la cui cornice non era più un riquadro decorativo ma doveva sembrare - e già il Trecento era entrato in questo concetto - una finestra aperta. In questo fu preceduto dal gotico fiammingo-francese; la sua nuova conquista fu il legame fra le varie parti ottenuto con "misure" (per usare nuovamente un'espressione del Ghiberti), la nuova teoria, per così dire, del "basso fondamentale". Il nudo che tanto in Italia quanto nel Settentrione entrava nella vita (si pensi solo al celebre modello dell'altare di Gand: Adamo ed Eva) era animato in Italia da una ben diversa conoscenza interiore e teoretica della costruzione organica, mentre oltralpe si riallacciava allo pseudorealismo dell'arte gotica. Al Settentrione mancava appunto la grande scuola formale degli antichi, quella palestra nazionale in cui il senso della struttura organica veniva educato alla ponderazione e al movimento, e, insieme, ai canoni delle proporzioni: tutte cose che in un primo tempo dovevano rimanere estranee al Nord e con le quali i primi visitatori d'Italia, agl'inizî del sec. XVI, primo fra tutti il Dürer, faticosamente lottarono, essendo ancora intimamente legati alle norme formali gotiche. Non già, dunque, nell'imitazione esteriore dell'antico (come così a lungo si è creduto) la quale, al caso, non era rimasta ignota neppure al Nord, bensì nella sua intima vicenda risiede il vero significato di questo secondo rinascimento, che fu possibile solo su quest'angolo della terra; e che compì quanto era stato negato al rinascimento romaico, fermatosi sulla soglia della realizzazione. Non fu cercata né trovata dapprima, come nel classicismo del '500, neppure la serena grandezza antica, ma la vita immediata e movimentata. Questo conferisce tanta importanza a quell'arte minore, anzitutto alla tecnica del bronzo, essenzialmente nazionale e veramente meridionale, poiché, come in uno studio preliminare, furono posti e risoluti entro i suoi limiti i problemi che poteva proporsi solo in un periodo successivo la grande arte, ancora imbrigliata da troppi legami. Eppure anche il Quattrocento, e non poteva essere diversamente, fu figlio di quel gotico così enfaticamente rinnegato e spregiato che in Italia si chiamò Trecento, non tanto per particolari discendenze del suo periodo primitivo, quanto per il sentimento cristianeggiante, che già s'era imposto nei soggetti tradizionali. L'allontanarsi deciso e cosciente da questo che si osservava nell'arte profana e pagana delle botteghe, rimase quasi un fenomeno secondario. Le due grandi perduranti antitesi di naturalismo e idealismo - per adoperare una volta tanto questi due pericolosi termini - poggiavano anche qui su basi gotiche, come si nota subito nell'arte di Donatello e del Ghiberti, due artisti che stanno agli antipodi. Donatello, le cui tendenze naturalistiche furono tuttavia spinte, con risultati spiccatamente moderni, fino alle estreme conseguenze del caratteristico e dell'orrido fisico nelle opere giovanili del Riccio (poi classicheggiante), si può dire abbia risuscitato l'uso del calco delle cerae tradizionali sul suolo toscano; ché se pure esse erano conosciute nel Settentrione, e specialmente negli usi funerarî francesi, non avevano scopo artistico, ma semplicemente pratico. Si noti che proprio le teste di carattere delle figure donatelliane, intese assai presto secondo il nuovo spirito ritrattistico, ebbero subito in Italia nomi di personaggi viventi: il Settentrione, amante dei tipi generali, non arrivò quasi mai a tanto. Cominciò ad assumere una parte importante il modello vivo, il naturale; gli schizzi dal vivo preparati negli studî a poco a poco sostituirono i vecchi motivi e il simile-esempio medievale (la parola esemplare continua del resto a vivere ancor oggi nella lingua italiana).
Il Ghiberti, invece, partito dallo stile trecentesco, giunse nella seconda metà della sua vita, il cui significato è stato così spesso misconosciuto, ad uno stile ideale assolutamente nuovo, che preludeva già alla grande machine del Cinquecento. Vi tendevano tanto lui quanto il suo contemporaneo Alberti, con le sue teorie ed il suo stile alla romana, fondamentalmente diverso dalla vera nobile armonia toscana di un Brunelleschi: sennonché, mentre l'Alberti rientra tutto nella sola storia del linguaggio artistico, il Ghiberti appartiene alla vera storia dell'arte. Il rilievo pittorico a cui giunse infine il Ghiberti, sfatando apertamente la teoria classica dell'Alberti dei limiti delle arti, indica la via che condusse a ben più lontani orizzonti, al primo barocco; come, parimenti, l'influsso delle sue porte del Paradiso si protrasse sino all'epoca presente, nonostante tutto il purismo stilistico, tipo Hildebrand, che si fa sentire ancor oggi. Per l'ambiente tosco-romano il rilievo rimase tuttavia, col disegno, il più importante problema artistico, in contrasto anche teoretico con l'arte coloristica, specialmente dei Veneziani. Il modellare alla luce e all'aria, così meridionale rispetto alla luce interna degli studî fiamminghi, rimase il grande problema, che, iniziato dal padre Giotto con la sua statuaria, attraverso quella sua nuova incarnazione che fu Masaccio, venne tramandato, come a nipote, a quel Piero della Francesca, che il moderno impressionismo ha voluto rivendicare interamente a sé. Ma Leonardo, che riconobbe e studiò gli effetti della luce libera come avrebbe potuto farlo solo un moderno, li prese in considerazione dal solo punto di vista dell'osservatore della natura, e li respinse invece come teorico dell'arte, appunto perché distruggevano il rilievo.
Una nuova visione del mondo, nuova anche rispetto al Settentrione, era entrata così nell'arte. L'individualismo di questa terra meridionale, già da tempo affermato, si fece ora particolarmente sentire; si pensi che il Brunelleschi non fu solo il creatore di uno stile architettonico assolutamente individuale, primo e unico della sua specie, in quanto nel compiere la cupola del duomo fiorentino si riallacciò non solo alla presupposta antichità del patrio proto-rinascimento, ma anche al gotico indigeno; fu pure un precursore nel campo delle altre arti figurative, perché egli - non già il letterato Alberti che ne ha solo ridotto a sistema le norme - fu indubbiamente il fondatore della nuova prospettiva e della teoria delle proporzioni. Si ebbe così la più definitiva rottura con il collettivismo medievale. La seconda e la terza generazione artistica, per quanto abbiano alcuni aspetti distinti e attraenti, sono già assai piccole di fronte a questa grande generazione di creatori, e finiscono poi nel manierismo e in un realismo piccolo-borghese. Colpisce, in questo periodo (sulla fine del quale i Veneziani, pittori ad ogni costo, calcano per primi le nuove vie dell'avvenire), la molteplicità delle scuole provinciali, o per meglio dire municipali; si può nuovamente parlare, a proposito di queste, come già dello stile romanico, di dialetti. Si fusero, infine, in un unico linguaggio: dapprima "nel grande stile" del Cinquecento, più tardi, divenute internazionali, nel barocco. Il centro artistico non fu più la vecchia città di Firenze, che aveva così a lungo imposto la sua egemonia e che si andava provincializzando sempre più nel piccolo stato dei nuovi Medici (precisamente come l'Etruria antica); fu nuovamente, come un tempo, Roma, che, in sé stessa artisticamente povera, attirò a sé le migliori forze della penisola, e presto anche quelle d'Europa.
Riforma e Controriforma. Arte barocca nordica e meridionale. - Prescindendo dai consueti ritardatarî, si può far coincidere l'inizio del nuovo indirizzo artistico quasi esattamente con l'anno 1550. Esso fu visibile anzitutto nelle grandi composizioni parietali, i cui più celebri esemplari sono le Stanze vaticane. È un fatto sempre istruttivo osservare come tanto la Scuola d'Atene, quanto il Parnaso e la Disputa di Raffaello traessero il loro contenuto da così vecchia materia quali erano, tra l'altro, le sette arti liberali. Ma solo ora la antichità diventa "classica"; se ne fece divulgatore, nel cenacolo dell'"archeologo" Raffaello, il settentrionale Marcantonio, che trasformò l'incisione, venuta d'oltralpe, in un mezzo di riproduzione di opere classiche. Come tutto il resto, anche l'antica mitologia ricevette allora la sua solenne impronta letteraria proprio nella grande scuola raffaellesca. Appariva ormai superata l'ingenua gioia narrativa della "romantica" antichità del Quattrocento, volentieri vestita nel costume dell'epoca. Anche le figure del mondo religioso seguono la tendenza alla grandiosità della rappresentazione: prima la Madonna sul trono, più solenne e ieratica che nel Nord, non fosse altro per la sua origine bizantina. Già il Quattrocento, di spirito tanto più terreno, aveva allontanato la Madonna dalla sua corte, facendola sedere sull'alto trono; ora essa apparve, celestiale visione, tra le nubi, e non solo quando si trattava della grande festa nazionale di Venezia, la Sensa. Il solitario pittore nella piccola Parma aprì completamente le porte del cielo, e portò la Gloria nella sua grande cupola: avvenimento di capitale importanza per l'Italia settentrionale, destinato ad avere larga ripercussione ed espansione, sebbene gl'inizî - borghesi e terreni - ne risalgano al Quattrocento.
Con l'inizio del Cinquecento il mondo classico, nella sua nuova forma, penetrò sempre più largamente nel Nord. Ma non fu lì, come in Italia, un prodotto nazionale, bensì un'importazione straniera; assunse perciò un aspetto di pedanteria erudita, a cui si mischiarono, in modo strano, avanzi di allegorie gotiche. I "geroglifici" provenienti dall'Italia trovarono un'accoglienza particolarmente benevola presso l'umanismo tedesco, il cui spirito aveva una speciale disposizione all'astruso. Poi entrò in scena la Riforma, e il mondo per la seconda o per la terza volta visse (nella crociata contro gli Albigesi) un'esplosione di mistica iconoclastica e un secondo scisma. Anche l'Occidente si divise, mentre l'abisso che lo separava dall'Oriente veniva ingrandito dall'offensiva, sempre più minacciosa e crescente, dell'islamismo, anch'esso nemico delle immagini, e che già da tempo aveva conquistato le regioni orientali del vecchio impero. Conseguenza dello scisma nel campo iconografico fu la rinascita, specialmente nelle regioni riformate, del Vecchio Testamento, prima assai negletto, ed ora richiamato in onore per sostituire il vasto olimpo cristiano, dalla Madonna ai santi e alle loro feste sontuose. Questa rinascita fu particolarmente notevole nel mondo calvinista puritano dei Paesi Bassi olandesi, liberatisi dopo dura lotta dalla signoria del Mezzogiorno. Il vecchio Libro dei libri vi assunse un carattere iconografico assolutamente nuovo; apparve in una luce volutamente storica ed arcaica, non più esperienza presente, come un tempo nell'ambiente francescano, e neppure in un paesaggio animato da antiche rovine, come nelle visioni della precedente generazione, ma, precorrendo il Romanticismo, proiettato nel lontano Oriente. Le parabole del Nuovo Testamento furono pure molto ricercate, ché più di un filo le legava ai "proverbî" la cui illustrazione era ivi uso indigeno costante.
Sotto infausti auspici Roma assunse per la seconda volta la sua funzione mondiale; alla Riforma seguì la Controriforma. Questa, essenzialmente sostenuta dalla strategia della bellicosa Compagnia di Gesù, trionfò specialmente nelle vecchie provincie dell'impero romano, cementando in una nuova unità i paesi romanici. Certo ciò non avvenne senza gravi rinunzie: fu decisa dal concilio tridentino la soppressione degli ultimi avanzi gotici, cioè popolari, ancora conservati quasi intatti dall'ingenuo Quattrocento. La nuova tensione spirituale di questa tragica "età del Tasso" si espresse nei soggetti assolutamente nuovi trattati dal '600 in poi, se pur preparati già in parte nel secolo d'oro, e rese possibile la nuova unità, mediante un accordo col gotico settentrionale, paragonabile a un vero e proprio ricorso. Il quadro religioso assunse spesso un'intonazione violentemente estatica e visionaria, che si nota sin nei Paesi Bassi fiamminghi e nella loro colonia artistica, la penisola iberica; il cielo irruppe in forma di Glorie verso la terra e l'attirò a sé, e la Madre divina si librò in esso, specialmente nella Concepción spagnuola. La rappresentazione della Passione, quasi evitata fino ad allora in Italia, assunse nuovo contenuto e significato, specie il martirio: vi si compì, in modo particolarmente visibile, l'accordo col Settentrione. Il sostrato tenebroso e ardente della nuova fede si rivelò nello zelo che spinse alla conquista del lontano mondo ancor pagano e alle guerre di religione. Nella patria di S. Teresa il cattolicesimo raggiunse quella severa e profondamente convinta grandiosità, che si distingue così nettamente dallo spirito più tollerante e umano dell'Italia e anche, se pure in misura minore, da quello dei paesi tedeschi. Vi si sente meno che altrove quella teatralità, che raggiunse un dominio mondiale, non tanto nelle sacre rappresentazioni dei gesuiti (altro ricorso!) quanto nella forma nata a Napoli, che fa dell'opera un prodotto di tutte le arti, assolutamente nuovo, ove si fusero musica e poesia; costruzione veramente barocca (e sentita come tale), termine conclusivo di sviluppo della ben diversa aspirazione dei Fiorentini, propria del Rinascimento, di raggiungere il dramma antico in musica. Un nuovo contenuto sentimentale, dovuto all'intima scissione spirituale assolutamente ignorata (sotto questa forma) da precedenti età, si presenta: il sentimentalismo, che, accordandosi benissimo con una sensualità tutt'altro che ingenua, conferì a tutto il barocchismo un'impronta di decadenza. Nell'Europa divenuta completamente (salvo alcune piccole regioni, soprattutto l'Olanda) monarchica e assolutista, la massima devozione si unì a una mondanità sfrenata. I nuovi sontuosi palazzi, non solo dei principi secolari, ma anche dei dignitarî ecclesiastici, loro concorrenti, si riempirono senz'altro di vaste istorie mitologiche, costruite su programmi eruditi, dove in una ben calcolata e meditata nudità, la carne peccatrice celebrò il suo trionfo. La religiosità si accordò benissimo con un altro tipo di sensualità, prima ignota, la pruderie; e la famigerata foglia di fico (che non ha niente a che vedere con la ingenua nappetta del Medioevo) trovò qui la sua origine, se non formale, almeno virtuale. L'eroica, indifferente nudità di un Michelangelo, che aveva le sue origini nell'epoca repubblicana, non aveva niente di comune con questa, e lo si comprese bene quando si cercò di rivestirla alla meglio. Le nuove mitologie illustrate, che andavano in mano di tutti, come quelle di V. Cartari oppure di N. Conti (sec. XVI), sebbene in fondo rinnovassero la Genealogia del Boccaccio, mostrarono un indirizzo puramente letterario, caratteristico di quest'età accademica, in cui nacque (già nel circolo di Rubens) una compilazione quale la Pictura veterum di F. Junius. Anche il vecchio programma figurativo subì una trasformazione in senso antiquario-umanistico. Ogni connessione con lo spirito popolare fu quasi del tutto abolita; così la gonfia allegoria dotta si sciolse, dandosi all'arbitrio più individuale, dalla vecchia scolastica degli ultimi tempi, e lo stesso fece l'affine emblemologia, per cui correvano già manuali, come quello, spesso ristampato, dell'Alciato (Lione 1545). Ma penetrare il senso di queste rappresentazioni è possibile solo quando artista o committente - e non è raro - abbiano esposto per iscritto le loro intenzioni.
Lo spirito profano si rivelò pienamente nel nuovo quadro storico, che L. B. Alberti per primo aveva sottoposto a norme; eternava le grandi gesta dello stato e del suo capo, specialmente nelle monarchie assolute, nello stile del grand siècle di Luigi XIV, modello imitato da tutta Europa, anche dalle corti in diciottesimo. Questo genere venne sostituito dall'allegoria, di cui i quadri del Rubens per il palazzo del Lussemburgo furono il primo grandioso esempio. In questo ambiente il ritratto, che si prefisse di raggiungere dignità e bellezza, assunse un valore nuovo, quasi, si direbbe, di maschera. Non per caso la statua equestre del '400, trascinata anch'essa nel nuovo movimento, traversò ora, come perfetto specchio della dignità principesca, tutt'Europa, dalla Spagna all'estremo Nord. Contrastava fortemente con questo indirizzo persino nel formato, divergendo dalla pur consanguinea pittura fiamminga, la "pittura da camera" dell'unica isola demo-borghese, i Paesi Bassi protestanti, che era destinata alla casa e all'amatore. Nacquero così i varî generi di pittura, assolutamente illetterati, lontani da ogni dogmatismo di una dotta estetica legiferante, che si forma in grembo all'indirizzo classicista, e da essa poco pregiati: i paesaggi, le vedute architettoniche, le marine, le rappresentazioni di costumi e di ambienti, le composizioni con animali e fiori, le nature morte e via dicendo. Questi generi (la cui distinzione ha un valore meramente pratico, che solo più tardi è stato gonfiato a stilistico), erano basati su divisione del lavoro puramente artistica, non su aridi schemi concettuali, sebbene l'Olanda fosse un paese assai dotto. Lo stesso rapporto, mai interrotto in Olanda, con la vita popolare, si rivelò nel ritratto puro (anch'esso considerato come esteticamente ambiguo dagli "arbitri dell'arte"), sia che si trattasse della rappresentazione ufficiale delle "gilde" e delle "milizie", sia di quella puramente casalinga di gruppi o d'individui vi si nota una penetrazione psicologica dell'individuo che giunse nei quadri del vecchio Rembrandt a un grado altissimo, quasi trascendentale, di esplicazione artistica. In questo ambiente d'intonazione borghese si diffuse pure la storia biblica e l'antica mitologia, in diretta reazione al classicismo italiano e francese, benché i naturalisti di Spagna e d'Italia seguissero vie analoghe, sempre però con fare esternamente o internamente più monumentale.
Il "grande stile" del Cinquecento consiste innanzi tutto nella soppressione di tutti i piccoli particolari realistici, visti da vicino, proprî alla vita stessa. Già l'acuto Pietro Aretino lo notò nella trasformazione subita dalle vesti, che dalla grazia un po' stentata del '400 erano passate al solenne drappeggio dalle pesanti pieghe. Le grandi composizioni, preannunziate nella pratica artistica dal Ghiberti della seconda porta, e da L. B. Alberti nella teoria e nella sua stessa architettura umanistica, diventarono realtà; la loro azione storica s'iniziò effettivamente soltanto ora.
Venne in primo piano il valore e la dignità della storia; la figura del pittore storico, divenuta ormai quasi comica, apparve la più alta espressìone dell'arte. Comparve la scena con i suoi cori, anch'essa già preparata dal Ghiberti; tutto fu intonato al ritmo spaziale delle potenti costruzioni monumentali della vecchia Roma, alla quale si era ispirata anche la nuova architettura iniziata dal Bramante; la larga cadenza musicale, piena di risalto, dominò anche queste forme, e questa evoluzione portò infine allo scenario da opera, negli affreschi grandiosi dell'ultimo Veneziano, il Tiepolo. L'innato amore per il grande formato, che gl'Italiani portavano nel sangue sin dal '200, si sviluppava ora negli affreschi nazionali e nei colossi della statuaria, che sin dalla fine del Trecento apparvero con questo antico nome, in evidente antitesi col Settentrione, il quale, come già spesso si è detto, nonostante le sue tendenze al verticalismo, dalle pitture vetrarie gotiche minutamente suddivise fin giù al suo Rinascimento, rimase fedele al piccolo formato, dal carattere intimo. Sulla soglia del secolo sta il David di Michelangelo, che, come il maestro che lo creò, segna il passaggio tra il '400 e il '500. L'antichità, già divenuta classica e come tale esposta nel cortile del Belvedere, apparve sotto altri aspetti; l'antichità patetica del barocco ellenistico occupò ora il primo posto. Appunto perché aderiva perfettamente allo spirito dell'epoca, destò tanta risonanza il ritrovamento del Laocoonte (1506), assurto a modello scolastico, e ancor maggiore il ritrovamento delle Niobidi (1583). Si trovò nel primo - il restauro dell'epoca di Michelangelo ne accentuò in modo caratteristico la linea diagonale - quella severa composizione formale, schiusasi allo spirito matematico degl'Italiani sin dall'arte gotica e che condusse proprio in quest'epoca alle forme tipo piramide e timpano dei nuovi gruppi. Di fronte alle composizioni trascurate e slegate della generazione precedente, in cui si continuava il vecchio stile espositivo, che allineava i precedenti e i conseguenti dell'azione, si sentì la necessità di una severa unità di luogo e di azione: necessità espressa già dall'Alberti, a cui va pure attribuita, nel suo germe, la famigerata teoria delle tre unità del dramma, poi sviluppata e perfezionata in terra francese. Siamo già all'epoca e sotto l'influsso del concilio tridentino, quando la musica italiana, reagendo al contrappunto goticamente confuso e polifonicamente esasperato dei Paesi Bassi, raggiunse la classica armonia dello stile "vocale" che porta il nome del Palestrina; e una tale denominazione non è casuale: è sintomatica. Il grande solitario artista che J. Burckhardt ha definito il "fato" della nuova arte - Michelangelo - espresse effettivamente l'individualismo monumentale degl'italiani. Ne è prova eloquente il monumento letterario elevato a lui ancora vivente dal Vasari a metà del secolo: primo monumento elevato ad un artista, contro ogni antica tradizione, indistruttibile più che se fosse fuso nel bronzo o scolpito nella pietra; che si erge nelle Vite al sommo della piramide formata dall'evoluzione dell'arte, conclusione insuperata ed insuperabile per tutti i tempi. Poco importa se il barocco, di cui già si udivano i primi vagiti, innalzò a suo idolo letterario - similmente e pur diversamente - un altro maestro, il grande compositore di Urbino; la rottura, assolutamente individuale, col passato artistico, compiuta in sé stesso dall'ultimo grande Fiorentino, rientra tuttavia soltanto nella storia del linguaggio artistico.
A metà del '500, si andava formando in Italia un nuovo linguaggio artistico, destinato ad avere un influsso internazionale. Si riallacciò al grande stile della precedente generazione, e preparò la sintesi di quanto avevano posto in opera i genî rappresentativi delle singole regioni d'Italia: Correggio e i grandi Veneziani, sino al Tintoretto, Raffaello e soprattutto il divino Michelangelo. Erano gli ultimi anni in cui la vecchia Firenze manteneva l'egemonia artistica, vera sede di quel tardo Rinascimento, com'è chiamato, chiuso dal Giambologna, il Fiammingo immigrato, la cui officina ormai industrializzata forniva di bronzi tutt'Europa. Da questa uscirono i tipi delle nuove fontane, prodotto eminentemente meridionale, e i modelli del nuovo monumento equestre principesco; il nuovo pathos conferito al destriero scalpitante rispondeva completamente a questa età così ricca d'interna tensione; esigenza già presentita da Leonardo, soddisfatta soltanto ora dalla raffinatezza tecnica del vecchio centro di fonditori. Derivava da Michelangelo la celebre linea serpentinata accennata già da Donatello, il movimento avvolgente a mo' di fiamma, che afferra la figura, accentuandone i contrasti. Lo sviluppo organico delle figure dovette sottostare nuovamente piuttosto alle interne esigenze dello stile, che non alle leggi anatomiche faticosamente stabilite: alla "maniera" di questa epoca di manieristi. Sembrerebbe quasi che si verificasse, su di un piano superiore, un ricorso del gotico, messo al bando, come fu più volte rilevato, nel periodo che a questo seguì. Cominciò l'età dei virtuosi, dei capaci di tutto, la cui tecnica credeva di poter tutto superare, ma che conferiva invece a tutto un carattere di piatta esteriorità. Stava loro a cuore la novità a tutti i costi, la "invenzione bizzarra e capricciosa", con le sue allegorie emblematiche e coi suoi "geroglifici", di conio affatto letterario. Il vecchio innato intellettualismo crebbe effettivamente sino a giungere al tracollo: gli artisti, nei cui circoli già da tempo erano sorte teorie estetiche e indagini storiche e scientifiche, si unirono anch'essi, sull'esempio dei letterati, in cenacoli. Cominciò così la fatale istituzione, ancor oggi sopravvissuta, delle accademie artistiche, con le loro cicalate d'arte (tra cui, in primo luogo, i vecchi paragoni delle arti); cominciò, insieme, l'elevazione sociale dell'artista, che uscì dalle corporazioni, e la fatale separazione dell'arte dall'artigianato, e con ciò dal popolo; si creò la leggenda che l'arte si può imparare seguendo determinate norme. Di questo fatto, che ha anche esso una certa corrispondenza nel campo letterario, la manifestazione più impressionante è data dai grandi trattati d'architettura - prodotto quasi esclusivo dell'Italia settentrionale - destinati ai dilettanti. La figura a tutto tondo, abbandonate le severe norme classiche che impongono il solo aspetto frontale e laterale, venne travolta da un movimento rotatorio; il vecchio rilievo, sotto i colpi del Tintoretto, si perdette nello scintillìo dell'aria e della luce; i contrasti tra luce e ombra furono esagerati sino alla dissonanza, dissonanza che si affermò sempre più anche nella musica, in contrasto col severo stile classico del Palestrina (e dell'età sua). Vi si riflette quella tensione intima propria all'età del Tasso; e sembra fatale che allora la Niobe, dagli occhi rivolti in alto - come già nella tarda antichità costantiniana - entrasse fra le opere classiche.
Bologna, posta esattamente sul limite che divide l'Italia del Nord da quella del Sud, e rimasta sinora pressoché estranea al movimento artistico, iniziò l'azione di sintesi, con la sua disposizione accademico-letteraria, e con l'inclinazione caratteristica per la forma legata, che rese così caro ai Bolognesi anche il tardo classicismo. Ma Roma era divenuta il vero e proprio centro animatore che, dopo la vittoria della Controriforma, non soltanto attirava le forze indigene nel nuovo consolidato impero romano dei papi, ma si faceva internazionale; basta a dimostrarlo uno sguardo alla grande storia degli artisti dell'abate Bellori, redatta con concetto assolutamente diverso da quello dell'epoca del Vasari. Il Bellori rappresentò soprattutto il classicismo nazionale di stretto rigore romano; prese posizione contro lo spirito del barocco, che minacciava dalla spagnola Napoli e tuttavia andava prendendo radici (ed è caratteristico che non provenisse invece da Firenze, divenuta ormai una capitale di provincia). Solo il successivo classicismo, suo nemico giurato, affibbiò a questa età il soprannome ingiurioso di barocco da porsi a lato di quello, che nello stesso tempo andava prendendo voga, di gotico; ed effettivamente l'espressione non fu soltanto presa a prestito dal nome di un'astrusa formula scolastica, bensì veniva in tal modo già data forma alla sensazione che esistesse una certa affinità fra i due indirizzi: sensazione, a cui oggi si torna a dare alto valore; noi stessi abbiamo parlato di un ricorso nel senso vichiano. Negli ultimi tempi si è parlato molto, ed a vuoto, su questa denominazione e su questo concetto, specie in Germania, da quando gli studiosi di grammatica storica, con onesta e giustificata indagine, hanno tentato di considerare la posizione storico-linguistica del nuovo "stile" (poniamo volutamente tra virgolette il nome di questa categoria puramente grammaticale) liberandola da valutazioni di carattere normativo. La parola barocco è divenuta poi un'espressione elegante e di moda, usata per indicare ogni sorta di cose, sicché ha finito per perdere ogni chiaro contenuto concettuale, e per cader nel ridicolo. Non sarebbe pericoloso farne (come si fa, usandolo con la parola gotico) una pura e semplice etichetta per l'arte europea dal 1600 al 1750 circa, se non si trattasse di un fenomeno decisamente decadente - come fu esattamente percepito dal classicismo - che, preparato in parte dal tardo Rinascimento, fu limitato a determinati paesi cattolici (Spagna, Italia, Germania inferiore, nazioni veramente decadenti nonostante lo splendore esterno), anzi ad alcune loro regioni. Ovunque gli sbarrò la via il classicismo, la cui espansione, fin verso il lontano Nord, venne ora diretta dalla Francia: e parlare di un barocco francese sarebbe ridicolo. Solo da poco il miglior conoscitore di questa materia, B. Croce, nel suo profondo e chiaro libro sull'età barocca, ne ha dato una rappresentazione oggettiva e metodicamente sgombra da ogni confusione concettuale.
Nonostante la grande linea di demarcazione tirata dalla Riforma, nel 1600 l'Europa parlò nuovamente un unico linguaggio, che si estese sino all'Oriente cristiano (dove frattanto la Russia era divenuta l'erede dell'egemonia bizantina), e ciò dopo che la divergenza fra l'Italia e gli altri paesi d'oltralpe si era acuita, dal sec. XIV al XV in poi, fino a un grado non mai ancora raggiunto. Tale conguagliamento è constatabile già nella scelta dei soggetti trattati, e fu esso a render possibile la fusione finale. Nel barocco (usando con ogni precauzione quest'espressione) si verificò in un certo senso, come si è già detto, una qualche assimilazione col vecchio gotico, che rese possibile questo conguagliamento: all'inizio della nuova era il gotico, quasi come prima ondata del romanticismo, riapparve effettivamente nel Settentrione. Roma era tornata la capitale del mondo; la sua egemonia (certo da considerare piuttosto nel senso esteriore) si rivelò anche dal fatto che le accademie straniere vi ebbero la loro sede, prima fra tutte la francese. E il più rappresentativo artista della Francia, il grande Poussin, passò quasi tutta la vita a Roma. Rubens e Velázquez si sentirono piuttosto attratti dalla vecchia Italia continentale, specialmente da Venezia, benché questa fosse diventata ormai come un feudo dell'impero romano. Tutte le stirpi d'Italia portarono il loro contributo a questo nuovo linguaggio comune, e Roma in fondo (come nell'antichità) non fu altro che il bacino in cui si raccolsero le acque, scaturite dalle varie sorgenti; per quanto sia stata profondamente romana l'organizzazione delle varie forze e resistenze: le classicistiche e le naturalistiche, le manieristiche e le impressionistiche, forze che composero il vero e proprio barocchismo. Nonostante ciò, questa egemonia fu in sostanza un gran simbolo. Fino a Napoleone, l'ultimo imperatore "romano" anche nel senso nazionale, ma che governò dalla "Gallia", l'Europa fu inondata sino nell'estremo Settentrione da artisti e virtuosi di ogni genere, di conio romano; ma essi rispondevano, più che altro, alla momentanea moda imperante. Assai caratteristico fu che il Bernini, sebbene grandi onori gli fossero tributati, naufragò nel grand siècle di Luigi XIV. Benché contasse tanti brillanti temperamenti artistici, l'Italia perdette senza dubbio con questo neoellenismo la sua vecchia posizione di originalità, per immergersi a poco a poco in quel sopore d'esaurimento, che l'oppresse per tutto il corso del sec. XIX, per ciò che concerne le cosiddette arti figurative (mentre, quanto alla poesia e alla musica, le cose stavano assai diversamente). Canova fu l'ultimo suo virtuoso mondiale. Si verificò quasi lo stesso fenomeno dell'epoca imperiale romana: le forze creatrici sviluppate su basi nazionali vennero fornite dalle provincie nel loro latino volgare, si chiamasse esso spagnolo, gallico, germanico; e la città, a cui spettò la funzione direttiva, principalmente politico-sociale, fu la vecchia metropoli del Medioevo gotico, dalla quale germinò anche la grande crisi rivoluzionaria della nuova era: Parigi. È qui che il classicismo romano giunse a quella forma acuta ed esatta, propria dello spirito francese: e l'idealismo germanico del Winckelmann lo sviluppò poi in modo assolutamente diverso, conferendogli, con un'impronta internazionale, una forma intima molto lontana dalla romanità originaria.
Questo nuovo linguaggio comune (che nessuno ha descritto più brillantemente, nonostante le sue intime prevenzioni di "purista" di Iacopo Burckhardt nelle immortali pagine del suo Cicerone, e nessuno ha esposto nella sua costruzione "grammaticale" più magistralmente del suo allievo, H. Wölfflin) ha naturalmente delle caratteristiche generali, nonostante tutte le tendenze divergenti (Michelangelo contro Raffaello e Correggio contro Tiziano: la sintesi, è noto, ne fu tentata, almeno teoricamente, dall'accademica Bologna): se così non fosse, non sarebbe una κοινή. Abbiamo già visto come la scelta dei soggetti fosse dettata dal pathos e dall'affetto, che trascinarono nel soffio vorticoso dello scirocco napoletano corpi e vestiti; la stessa architettura, e non solo quella dipinta, ne sembrò scossa. La cornice venne spezzata e sommersa da un nuovo stile "illusionistico". S'iniziò quella tendenza al movimento intorno alla figura libera, quel non so che di cinematografico, che dava ancora tanto ai nervi al moderno classicismo (Hildebrandt). Il particolare venne riassorbito in un organismo artistico complesso, nuovamente diretto dall'accompagnamento polifonico dell'architettura: cosa che non si era più verificata dal tempo del gotico. Il formato crebbe sino a raggiungere il colossale caro alle vecchie forme costruttive romane; ed è caratteristico il fatto che i pittori di Fiandra, zelanti figli della Controriforma, distinguendosi dai loro consanguinei protestanti rimasti fedeli alla vecchia maniera nordica, ingrandirono talora anch'essi il formato degli stessi quadri di genere. Il rilievo, caduto in disuso perfino tra i classicisti sul tipo del Poussin, venne appositamente ottenebrato; al posto della severa struttura dello sfondo e della solenne linea verticale, o della composizione a piramide propria del Cinquecento evoluto, subentrò la diagonale, come al posto del ritmo legato quello libero; e finalmente entrò in uso l'illuminazione artificiale propria della scena del melodramma. Anche questa, con tutti i raffinati suoi mezzi, dalla grande machine ai cori delle comparse, fu un prodotto dello stesso spirito, che non aveva bisogno di agire con semplici influenze esteriori. Si trattava di un nuovo stile del rilievo pittorico, nel senso più lato, che pose sotto un comune denominatore fenomeni così profondamente diversi quali i "tenebrosi" del Sud e i chiaroscuri "psicologici" del Rembrandt. Per questi, la figura umana ed il paesaggio avevano un valore musicale ben diverso che nel Sud: ciò continuava vecchie tendenze, seguendo l'indirizzo musicale che appunto nel Sud si veniva sviluppando in senso non vocale, ma del tutto strumentale: la pausa, il silenzio stesso vibra. Vi si aggiunse il nuovo colore (accolto anche dalla nuova musica strumentale, sulla sua tavolozza, che non ricerca più effetti corali). Esso si sviluppò su basi veneziane, sulla tecnica illusionistica della "visione lontana" del Tintoretto, nell'ebbrezza coloristica del demoniaco e freddo Rubens, e nello stile impressionista - assolutamente individuale - del Velázquez, che cercò di fissare l'attimo fuggente (e che fu definito con spirito e con acutezza da un pittore napoletano, "il teologo della pittura"). Rembrandt non fu mai in Italia; ma il suo sguardo carezzò quanto d'orientale la sua età gli pose vicino, ed è abbastanza strano vedere un Tiepolo, l'ultimo errante virtuoso, appropriarsi questo elemento, per svilupparlo in senso puramente teatrale, ultima testimonianza della concordia discors di questa κοινή.
Classicismo e romanticismo. Il sec. XIX. - A metà del sec. XVIII si va sempre più affermando quella tendenza spirituale, in Italia già da tempo preparata e teoricamente fissata, che raggiunse in Francia il suo apogeo e si esaurì nell'austerità puritana del palladianismo d'Inghilterra e d'Olanda. I soggetti classici cominciarono ad assumere un nuovo colorito, essenzialmente letterario, si direbbe quasi filologico, si ricorse persino, cosa prima insolita, ad Omero e ad Esiodo. La vecchia Ellade sostituì Roma, idolo nazionale della stirpe italiana; il grande romano-germanico Winckelmann, nella sua storia dell'arte, vera costruzione dottrinale, riuscì, con geniale intuizione, a far intravvedere l'arte greca attraverso il materiale romano, a rendere internazionale il classicismo tedesco, fondendo con idealistico slancio in una sintesi tedesca la teoria italiana e la concezione storica francese. Nella lontana Spagna il tedesco Mengs succedeva al Tiepolo, ultimo rappresentante di una brillante virtuosità, che ora solo veniva proscritta con il nome infamante di barocco. A Parigi si svolse quel grande duello artistico, in cui il tedesco Gluck fece prevalere, contro l'opera napoletana del Piccinni, il suo melodramma ispirato a concetti classici. Canova, ultimo virtuoso internazionale vecchio stile, nel campo delle arti figurative d'Italia, sorpassato il suo barocco veneziano, divenne un classicista, soffuso di eleganza francese, nel senso dato a questa parola dal grande tedesco e da Napoleone, il cui impero risolve nello splendore scenico, sebbene un po' rigido e che sa di orpello, la commedia della virtù greco-romana, inscenata dalla prima rivoluzione. Già prima di questa, d'altronde, la morale e il sentimentalismo borghese del terzo stato avevano trovato la loro espressione nel Diderot e nel Greuze.
Giunse, infine, dall'ultima Thule un Thorwaldsen, che adempì con freddo e puritano rigore l'ideale del "classico" rilievo, mentre l'inglese Flaxman riallacciava i suoi graffiti all'arte vasaria greca, altro idolo di questa epoca che aveva trovato nel Laocoonte del Lessing (1766) l'espressione più acuta e sottile delle eterne leggi della scultura e della pittura. Il primo proveniva dalla Danimarca, rimasta fedele a questa tradizione sino ad oggi: Teofilo Hansen non soltanto edificò l'università del nuovo regno greco, in Atene, e il parlamento a Vienna, ma si assimilò anche artisticamente il Medioevo greco. Già col 1700 l'Ellade, in virtù dei viaggi dei Settentrionali, entrò nel campo visivo d'Europa; nel 1764 le sepolte città vesuviane risorsero dalla cenere, e finalmente il filellenismio, specchiantesi nella pittura di un Delacroix, passò nel patrimonio del romanticismo storicizzante. La rottura più decisiva col passato fu segnata però dall'avversione sempre più manifesta dell'"età della ragione" per l'iconografia religiosa: a buon diritto si è visto, nell'ultima manifestazione di questo passato, nei Nazzareni tedeschi di Roma, che tanta avversione suscitarono tra i classicisti, quali i Weimarer Kunstfreunde, un caso particolare appunto di esso classicismo, anche se quest'arte "neotedesca" rappresentava con il suo raffaellismo e la sua arte dei cartoni un momento di transizione.
Il movimento rivoluzionario, che, parallelo ai moti politici del terzo e quarto decennio, s'impadronì dell'arte europea nella prima metà dell'800, vien designato, più che altro per amore di una comoda definizione, col nome di romanticismo; prodotto specificamente tedesco, se è vero che anche la filosofia e la musica tedesca raggiunsero appunto tra il sec. XVIII e il XIX la loro posizione d'importanza mondiale. Il termine romanticismo, in realtà, serve d'etichetta a ben diverse manifestazioni, in parte iniziatesi già nel precedente secolo. Classicismo e romanticismo continuarono a convivere ancora a lungo: ad ogni modo si possono scoprire nei due indirizzi dei tratti comuni. Innanzi tutto, essi rappresentarono una rottura, mai vista sino allora, col passato: rottura che contrassegnò la nuova epoca, iniziatasi con la grande rivoluzione francese e giunta soltanto ora al suo pieno sviluppo. Si è già parlato del continuo affievolirsi dell'arte religiosa, a cui la Controriforma aveva infuso una nuova vita: i soggetti profani, che ormai si affermavano con violenza realmente rivoluzionaria, erano così nuovi, così molteplici e in numero così travolgente, che, non fosse altro che per questo, si staccavano dal canone assai ristretto del passato. Riproducevano il romanzesco caos interno, e insieme l'affermarsi di ogni specie di passioni pratiche - appunto così caratteristiche per il romanticismo tedesco. Colpisce particolarmente la forte nota letteraria: si trattava di una pittura illustrativa, ignota prima, e ormai assolutamente internazionale, che sfruttava i testi poetici dal vecchio Omero sino a Dante, Shakespeare e Cervantes, non escludendo neanche la letteratura moderna, e che rispondeva al concetto goethiano della letteratura mondiale. Strettamente connessa a tutto ciò fu l'apparizione del pubblico "monumento" all'artista, nel senso più lato (oggi anche figurativo): manifestazione di illimitata valutazione dell'arte, affatto opposta allo spirito del tempo antico. La biografia presentò, con insistenza, l'artista e l'uomo empirico, non quello ideale: quello che prima era rimasto chiuso nel silenzio della tomba o (come, solo, nella casa Buonarroti) della famiglia. La poesia popolare, sinora disprezzata, fu scoperta, prima nel senso cosmopolita poi in quello nazionale, anche dall'arte figurativa. Ora si manifesta lo storicismo caratteristico dell'epoca; la storia antica, in costumi conformi alle rispettive età, si trova nel nuovo romanzo storico; essa è trattata nella pittura, dapprima, dai Belgi, dove si sentì l'influsso reciproco, anche formale, con la scena. Il Medioevo venne di moda, promosso dal neocattolicesimo nazionale, dalla nebbia scozzese di Ossian e dalle saghe germaniche degli dei e degli eroi, l'avida mente delle giovani generazioni tese all'Oriente, che i Francesi furono i primi a scoprire. Il classicismo, difensore della tradizione, e il nuovo spirito del tempo lottarono a lungo circa la statua drappeggiata secondo l'ideale "classico" oppure secondo quello "contemporaneo"; la ridicola "polemica dei calzoni" fu dibattuta con gravità sin oltre la metà del secolo. Il romanticismo cedette il posto al naturalismo della seconda metà del secolo, col suo positivismo empirico. Per la prima volta si affermò nel campo figurativo la vita, prima solo episodica, del quarto stato, che diventava sempre più potente, e che era ora osservata senza caricatura borghese e senza sentimentalismo.
Se il classicismo aveva esposto la propria teoria nella potente, stringente costruzione dottrinale della sua estetica, il romanticismo giunse col suo storicismo agli estremi più rigorosi, iniziando contemporaneamente una revisione, consona al proprio carattere, di queste dottrine. Il sec. XIX, iniziatosi con l'Impero, che ebbe pur sempre un grande stile individuale e napoleonico, rivisse - fenomeno mai visto - cronologicamente tutti i precedenti stili, cosiddetti obiettivi, sino al barocco, già messo al bando in un passato lontano. Le isole britanniche, come nel primo Medioevo, erano ora in testa.
Già nel sec. XVIII era stata nuovamente scoperta in Scozia l'arte gotica (che certo non vi era mai morta completamente); ed era diventata per il romanticismo di ogni paese, in ultimo anche l'Italia, una questione nazionale. Ma ancora prima dell'ondata gotica passò sull'Europa un'ondata esotica, la chinoiserie, e nello stile rocaille della reggenza francese questo elemento si fuse con lo spirito gallico indigeno, in un connubio artisticamente fecondo. Un'altra ondata esotica, il giapponesismo, si ebbe in epoca post-romantica: esso sembrò venire incontro al dominante impressionismo francese, massima espressione artistica dell'empirismo sostenuto dalla scienza naturale nella seconda metà del sec. XIX.
Qui deve terminare la nostra trattazione, poiché siamo giunti al "linguaggio" parlato dalla nostra epoca, mentre classicismo e romanticismo, e potrebbe già dirsi anche il positivismo naturalistico, è divenuto per noi qualcosa di storico. Abbiamo già vissuto la grande evoluzione avvenuta all'inizio del sec. XX, che, in antitesi con l'accento coscientemente retorico, ancor prima della grande catastrofe mondiale, si era imposta come "espressionismo" - parola in fondo, come tutti sanno, vuota di senso e scelta per sole ragioni polemiche. La distruzione della forma - molto evidente, specialmente se confrontata con l'occidentale "tonalità" della musica già preparata dal romanticismo - lo svuotamento della figura, opera dell'impressionismo, la voluta accentuazione dello spirituale, la tendenza al primitivismo d'ogni specie, dal gotico compreso in modo assai arbitrario sino alla plastica negra: ecco dei sintomi che in modo notevole ricordano l'epoca con la quale abbiamo iniziato la nostra trattazione: la tarda antichità. Vuol quasi sembrare, quindi, che ci troviamo di fronte ad un nuovo ricorso per un ritorno della spirale dell'evoluzione a una "barbarie nuova" quale la intese per primo, due secoli fa, il più profondo pensatore del sec. XVIII, G. B. Vico.
Bibl.: Vedi anzitutto: B. Croce, Problemi di estetica, 2ª ed., Bari 1923 e Nuovi saggi di estetica, 2ª ed., Bari 1926; K. Vossler, Gesammelte Aufsätze zur Sprachphilosophie, Monaco 1923. Il primo che abbia impreso a trattare con piena consapevolezza la questione del "linguaggio" dei monumenti fu il francese (naturalizzato romano) Séroux d'Agincourt con la sua Histoire de l'art par les monumens, Parigi 1811-1923 (trad. ital. di Ticozzi, Prato 1826). Cfr. inoltre: J. Lange, Die menschliche Gestalt in der Geschichte der Kunst, trad. ted., 2 voll., Strasburgo 1899-1903 (e anche Udvalgte Skrifter, Copenaghen 1900); L. Courajod, Leçons professées à l'école du Louvre, edite a Parigi dal 1899 al 1903 in tre volumi di dispense che spesso, però, sono soltanto geniali improvvisazioni. Del Burckhardt, basta ricordare il nome. E al pensiero del Burckhardt, suo grande maestro e compatriota, s'informa, se pure in modo assolutamente personale, H. Wölfflin, nella sua opera Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, Monaco 1915. Poco notato è rimasto il pur pregevole libretto dell'italiano Spinazzola, Origine e cammino dell'arte, Bari 1904. Dei lavori della cosiddetta "scuola viennese" sia menzionato solo il più importante, e cioè gli scritti di F. Wickhoff, per la pubblicazione del manoscritto viennese della Genesi (dapprima in unione con W. v. Hartel, Vienna 1895; poi nelle sue Abhandlungen und Vorträge, ed. L. M. Dvořak, III, Berlino 1913); v. anche A. Riegl, Stilfragen, Berlino 1893, e Spätrömische Kunstindustrie, nuova edizione, Vienna 1927. I saggi e le conferenze lasciati da M. Dvořak sono editi da K. M. Swoboda e J. Wilde sotto il titolo: Kunstgeschichte als Geistesgeschichte, 4 voll., Monaco 1923-1927. Vedi ancora: J. Strzygowski, Orient oder Rom?, Lipsia 1901; E. Panofsky, Die Entwicklung der Proportionslehre, Lipsia 1922; id., Idea, Lipsia 1924; id., Die Perspektive als "symbolische Form", Amburgo 1927 (tre scritti brevi ma densi di contenuto). Cfr. infine, per un tentativo di esposizione della "storia linguistica" dell'arte medievale. J. v. Schlosser, Die Kunst des Mittelalters (Sechs Bücher der Kunst, Berlino 1923).
Il commercio antiquario degli oggetti artistici.
Nei vecchi bazar orientali si commerciano oggetti di pregio, nuovi o usati che siano, e si può credere che sia stato in ogni tempo così, fin dai tempi antichi. Anche tra noi non si riesce spesso a separare nettamente il rigattiere dall'antiquario.
Ma la ricerca e il traffico di opere d'arte, fatti con senso critico per possederle e conservarle a scopo di cultura e di godimento estetico, ebbero inizio soltanto nel mondo classico, quando maturò la coscienza storica della civiltà greca e si venne ordinando metodicamente il pensiero scientifico su quanto l'ingegno aveva prodotto di notevole; i mezzi furono dati dalle monarchie più intelligenti che avevano raccolto immense ricchezze ereditando le provincie dell'impero macedone. Come Alessandria riunì di preferenza e classificò il patrimonio letterario, Pergamo specialmente operò in guisa analoga per le arti plastiche. Da questa tendenza nacque pure il commercio degli esemplari artistici antichi. Non sappiamo chi abbia pagato cento talenti (circa 550.000 lire oro) l'originale del Diadumeno di Policleto, secondo la notizia di Plinio il vecchio (Nat. Hist., XXXIV, 55), ma l'enormità della somma, in rapporto al valore del denaro nell'antichità, fa pensare a un acquisto da parte di qualche re ellenistico. Quando fu messa all'asta la roba predata a Corinto, Attalo II re di Pergamo offrì un alto prezzo per il quadro di Aristide con la figura di Dioniso, ma Mummio non volle cederlo e si portò la pittura a Roma (Plinio, XXXV, 8). Così più tardi la città di Cnido rifiutò l'offerta di un re bitino, Nicomede I o II, che avrebbe pagato tutti i debiti di quella repubblica per avere la famosa Afrodite di Prassitele (ivi, XXXVI, 10). La povertà crescente delle terre elleniche e lo spostarsi della ricchezza verso altri centri favorivano il commercio, com'è avvenuto in tempi vicinissimi al nostro. A Roma, nel sec. I a. C., c'era già un pubblico di conoscitori e di collezionisti appassionati: mercanti e intermediarî dovettero pensare ben presto a spedir la merce dai paesi di civiltà greca. Due carichi di navi naufragate ci dànno un'idea del traffico: a Mahdia (al-Mahdiyyah) sulle coste tunisine, e ad Anticitera, a sud del Peloponneso. Il naufragio africano dovette avvenire sul principio del I sec. a. C., e s'è pensato con ragione che si perdesse così una parte del bottino fatto da Silla in Atene (86 a. C.) nella prima guerra mitridatica: statue, colonne e grandi vasi di marmo, bronzi d'ogni grandezza e parecchi mobili di lusso. Accanto all'erma bronzea con la firma di Boeto da Calcedonia, la figurina, assai più antica, d'un attore della vecchia commedia attica e, con ogni probabilità, una meravigliosa statuetta arcaica di cavallo, comperata pochi anni fa dal museo di New York, dànno a vedere che si raccoglieva con criterio storico simile al nostro. Due decreti attici del sec. IV, compresi con il restante materiale, mostrano che cominciava a sorgere l'interesse anche per il documento scritto di qualche importanza.
La smania per l'arte greca si diffondeva e aumentava: se molti erano disposti a comprare, molti altri predavano, profittando delle magistrature in paesi soggetti per assicurarsi l'impunità. Tipico il caso di Verre, propretore in Sicilia, ma il fatto che tentò di scusarsi nel processo, asserendo d'aver comperato regolarmente, mostra quale importanza avesse preso in quei tempi il commercio. Una operazione commerciale può dirsi anche l'esportazione della famosa pinacoteca che Sicione cedette ai Romani nel 56 a. C., in pagamento dei debiti della città (Plinio, Nat. Hist., XXXV, 40, 3). I grandi signori di Roma spendevano però assai: celebre per questo C. Asinio Pollione, alla cui raccolta si riferisce parecchie volte Plinio quando dà notizia di alcune sculture famose. L'oratore Ortensio pagò una somma corrispondente a 36 mila franchi oro gli Argonauti di Cidia (Plinio, Nat. Hist., XXXV, 40, 5). Né si acquistavano soltanto lavori della grande arte: sappiamo da Strabone (VIII, p. 382) che i coloni mandati da Cesare a ripopolare Corinto guadagnarono assai con i vasi, in massima parte fittili e dipinti, che traevano dalle tombe dell'antica città, denominati per la loro provenienza necrocorinthia. Gli scrittori latini, da Augusto a Traiano, ci dànno parecchie informazioni interessanti sul commercio antiquario. Orazio ricorda le statuette etrusche come un privilegio dei ricconi (Epist., II, 2, 180): segno che il cesello tirrenico era già apprezzato. Fedro parla dei falsarî che mettevano in vendita, come oggi, opere di grandi maestri, aggiungendo anche le firme (V, 1). Petronio fa una meravigliosa caricatura della mania per il bronzo corinzio, nello sproloquio con cui Trimalcione vuole spiegarne la lega ai suoi convitati (Saturae, ed. Bücheler, cap. 50). Plinio il vecchio ricorda parecchi acquisti famosi, Giovenale e Marziale ci parlano delle argenterie d'antico e celebrato lavoro: se ne attribuivano persino a Fidia. Ed ebbero una voga sfrenata, perché davano modo di accoppiare il gusto per l'arte al lusso della mensa. Cosa poteva essere un servizio da tavola per un amatore dell'argentum vetus, si può intendere dal Tesoro di Hildesheim, probabile rapina alemanna in qualche villa romana del Reno: commercio e collezionismo hanno fatto pervenire in Germania veri capolavori della toreutica ellenistica. Marziale, soprattutto, ci ha lasciato un quadretto abbastanza efficace del mercato dove accanto ai letti tricliniari, ed eran famosi quelli con bronzi di Boeto (v.), si vendevano statue e argenterie antiche con merci di lusso d'ogni sorta (lib. IX, epigr. 44).
La crisi che scrollò e imbarbarì l'impero nel sec. III fece declinare senza dubbio la passione per l'arte antica, almeno in Occidente, né sembra che il movimento riprendesse: le fonti scritte non ne parlano più. Nuove preoccupazioni, recate poi dal cristianesimo, distolsero gli animi dal fiore della produzione pagana. Tuttavia qualcosa ne dev'essere perdurato a Bisanzio, dove s'erano raccolte vere gallerie, specialmente spogliando i santuarî dell'antica religione: ci restano collane di epigrammi esegetici che illustrano serie di statue antiche. Là nuovo commercio e nuove frodi sorsero per le reliquie, e l'astuzia levantina accalappiò anche qualche credente o credenzone occidentale d'alto grado. Fu così, nel sec. X, che l'arcivescovo Arnolfo portò a Milano, dopo un'ambasceria matrimoniale, quel serpente di bronzo, conservato sopra una colonna a S. Ambrogio, che l'ottimo prelato si lasciò gabellare come l'esemplare autentico adoperato da Mosè in una contingenza famosa: nella qual faccenda, se i Greci si mostrarono bugiardi e fraudolenti, il Lombardo risultò alquanto distratto, non ricordando come la Sacra Scrittura (II [IV] Re, XVIII, 4) dica esplicitamente che il miracoloso cimelio era stato distrutto dal re Ezechia, il quale ne aveva così poco rispetto da chiamarlo "pezzo di rame".
Nel Medioevo l'ignoranza e la barbarie eran troppo fitte perché si potessero commerciare e raccogliere sistematicamente oggetti antichi. Forse qualcosa se ne fece nel periodo carolingio, almeno per quei pezzi d'arte cristiana dell'ultimo tempo imperiale da cui gli artisti traevano ispirazioni. Sarcofagi e frammenti d'architetture d'età romana furono spesso riadoperati nei secoli di mezzo, e talvolta si saranno pure pagati. Molto anche allora avrà dato la terra, ma senza dubbio molto fu distrutto, sia per ignoranza, sia per la superstizione che facilmente vedeva nelle figurazioni ignote qualcosa di diabolico.
Qualche rarissimo manufatto di tecnica eccezionale fu tenuto in pregio, e ceduto più o meno commercialmente. Un disco di cristallo di rocca intagliato con la storia di Susanna eseguito nel sec. IX per un re Lotario, ci mostra, con le sue vicende, fin dove poteva arrivare in quei tempi una simile operazione d'acquisto: una città messa a soqquadro con assedio d'una canonica.
Col ritorno del mondo classico, nel Rinascimento, si ricominciò a cercare e comprare. Da prima specialmente i testi, poi anche i manufatti d'interesse artistico o storico. Ciriaco de' Pizzicolli d'Ancona (v.), viaggiando nell'Oriente ellenico, si fece imbrogliare dai Levantini, che gli promisero persino sculture di Policleto, ma qualcosa di buono deve aver comperato. Intanto s'eran cominciati a conservare gli oggetti che uscivano dal suolo del nostro paese, e le corti e le case dei signori s'andavano arricchendo di anticaglie.
Benvenuto Cellini ci dà, nella sua biografia, qualche utile accenno per intendere come si trattassero allora le cose che il terreno rendeva continuamente, e alle quali già si attribuiva un valore commerciale. C'erano senza dubbio, intorno a Roma, scavatori di mestiere e intermediarî. Una raccolta come quella di Fulvio Orsini difficilmente si spiega senza il commercio.
Al sopravvenire di quel vergognoso ladroneccio che fu la dominazione spagnola, si determinò la crisi che fece languire anche questo ramo d'attività. La ripresa ci fu nel '700, e specialmente il movimento neoclassico diede impulso grande al commercio, che diffuse in ogni parte d'Europa i monumenti delle civiltà antiche, ricercati e studiati secondo il nuovo metodo instaurato dal Winckelmann. E vi furono negozianti famosi: uno dei primi lo scultore Bartolomeo Cavaceppi (1716-1799), che trattava specialmente marmi, componendo abilmente con frammenti scompagnati statue nuove, delle quali qualcuna fu a gran pena più tardi riconosciuta come non originale; egli lavorava tuttavia in buona fede, perché allora nessuno voleva veder statue mozze.
Gli antiquarî lavorarono in pieno con il nuovo sviluppo che prese l'archeologia dopo la restaurazione, quando si formò l'ambiente da cui nacque l'Istituto di corrispondenza archeologica (1829). Il commercio era specialmente intenso a Napoli e a Roma: là giungevano cose trovate in ogni provincia delle Due Sicilie, qui ciò che il suolo rendeva nel Lazio e nell'Etruria pontificia. Dotti d'ogni paese, stabiliti a Roma, studiavano molto e molto acquistavano, operando come agenti dei grandi musei, che si andavano sviluppando nelle metropoli europee. Tra i grandi clienti, il maggiore era forse Luigi I di Wittelsbach, re di Baviera, e deve pur menzionarsi il duca di Luynes, che regalò le sue raccolte alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Fu quello il periodo aureo per il commercio dei vasi greci dipinti: Depoletti e Candelori sono per es., famosi nomi di negozianti a Roma, che gli studiosi conoscono ancora assai bene, e tra i napoletani non si può dimenticare il Gargiulo, noto anche per le sue pubblicazioni. Avvenne così che i più importanti cimelî della pittura greca si vedono a Parigi, Monaco, Berlino e Londra, mentre nessuna raccolta italiana può competere per grandiosità con le principali dell'estero, tutte formate di pezzi usciti in massima dalla nostra terra.
Vissero allora, come nella Rinascita, antiquarî artisti e artisti antiquarî. L'età neoclassica vide rifiorire l'artigianato nella produzione più raffinata e sapiente, e chi praticava una tecnica, facilmente comprava e vendeva i prodotti antichi di quella. Tommaso Cades, commerciante a Roma di gemme antiche, era egli stesso, benché men famoso del padre, incisore in pietra dura e non dei volgari; lavorava per lo più a riprodurre le migliori opere capitate nelle sue mani: forse qualche copia fu presa come originale. Del suo commercio egli lasciò un vero monumento nelle Impronte di gemme antiche, raccolta impareggiabile, dove lo studioso trova documentati molti pezzi dispersi. Una vera dinastia d'antiquarî artisti fu quella dei Castellani (v.), fornitori specialmente del British Museum e orefici valentissimi: essi riuscirono a introdurre la moda della gioielleria di tipo classico. Fecero pure riproduzioni, che talvolta furono credute cose originali.
In moltissimi studî d'artisti, nella Roma del secolo scorso, c'era un angolo consacrato alle cose vecchie, che dovevano esser belle, e si compravano, ma anche si vendevano, specialmente quando gli affari del maestro non andavano troppo bene. Del soggiorno romano di Thorwaldsen è ricordo perenne il nucleo del museo che porta il suo nome a Copenaghen. Il pittore bustese Giuseppe Bossi, sul principio dell'800, comperò e riunì a Milano tesori d'arte che furono alienati dagli eredi: in massima parte erano quadri, disegni e miniature d'arte italiana.
Le raccolte di quadri si cominciarono a negoziare quando la fioritura del Rinascimento non s'era ancora spenta del tutto: il fondo della pinacoteca Ambrosiana, lasciato dal cardinale Federico Borromeo, ce ne dà un esempio tipico. Ma la ricerca della quadreria prese nel sec. XVIII quello sviluppo che continua tuttora. Intanto si specializzava e aumentava il collezionismo e, con quello, il traffico che ne era la fonte principale: monete e medaglie, libri, armi, tessuti, oreficerie ebbero i loro negozianti, che in parte seguivano, in parte dirigevano e formavano il gusto e la cultura dei clienti. Qualche casa nota cento anni fa è ancora oggi in onore, come i Rollin e Feuardent di Parigi, specialisti di numismatica e glittica.
Il commercio antiquario dipende da complessi fenomeni d'economia sociale, e ha le sue ragioni storiche in ogni periodo. C'è poi un coefficiente imprevedibile, quasi imponderabile, ma decisivo: la moda.
Vedi anche sotto le voci: collezioni; collezionismo; falsificazioni.
La tutela del patrimonio artistico.
L'intervento dello stato nella tutela del patrimonio intellettuale della nazione ha particolare importanza per l'Italia, data l'abbondanza del materiale da tutelare, ma è stato sempre, in maggiore o minore misura, disciplinato da tutti gli stati civili.
Senza risalire alle XII tavole (ne adspectus urbis deformetur), e pur ricordando che il diritto romano era fondato sul concetto dell'assolutezza del dominio privato, non può non rilevarsi che con esso si affermò nell'interesse pubblico la tutela dei monumenti. Cassiodoro chiamò il popolo romano populus abundantissimus statuarum, tanto che per proteggere la ricchezza artistica della città era data una popularis actio. Inoltre il legato per la formazione del monumento pubblico venne considerato come legato ad patriam; e furono imposte limitazioni alle proprietà private rispetto ai monumenti. Giustiniano, nella Prammatica Sanzione, cercò di richiamare in vigore le leggi tutelari dei monumenti, ma sopravvennero le invasioni barbariche, il feudalismo, le lotte intestine: epoche nelle quali non si tenne in gran conto la tutela del patrimonio storico e artistico. Nei tempi moderni è da citarsi la bolla pontificia 5 ottobre 1624, contenente "la proibitione sopra la estrattatione di statue di marmo o di metallo, figure, antichità e simili". Da citare altresì, fra le altre bolle che i pontefici emanarono in Roma, l'editto Pacca 7 aprile I820, che sottoponeva gli scavi a licenza, e il commercio degli oggetti d'arte e il loro ritocco o restauro sottoponeva ad autorizzazione. In Toscana si applicarono varie norme riproducenti antiche consuetudini e leggi, alcune delle quali già in vigore nel sec. XVI; nelle Due Sicilie regi dispacci, muniti di sanzione penale, tutelavano il patrimonio artistico; e parimenti una speciale legislazione vigeva nei Ducati, nel Piemonte, nel LombardoVeneto, ove l'autorità pubblica godeva di un diritto di prelazione sugli oggetti di antichità e d'arte che s'intendeva esportare e poteva imporre ai proprietarî di un monumento opere di manutenzione e talora di restauro. Il luogotenente generale per le provincie napoletane, il 7 dicembre 1860, emanò anche un editto di tutela.
Dopo la costituzione del Regno d'Italia, nella legge 25 giugno 1865 sull'espropriazione per pubblica utilità, furono sancite talune norme circa i monumenti; e altre si trovano nelle leggi del 1866 e del 1873 sulla soppressione delle corporazioni religiose. Inoltre, per l'art. 4 della legge 28 giugno 1871, n. 286, a deroga del codice civile, fu mantenuto il vincolo fidecommissario sulle gallerie e altre collezioni d'arte e antichità: vincolo che importa indivisibilità e inalienabilità. Non mancarono, d'altra parte, progetti allo scopo di disciplinare unitariamente per tutta l'Italia la vasta materia (disegni di legge del Correnti, Bonghi, Coppino, De Sanctis, di nuovo Coppino, Villari Martini, Gallo), ma quanti di essi furono presentati alla discussione parlamentare caddero, ora per un motivo, ora per l'altro.
Il problema della tutela dei monumenti e delle cose d'arte fu affrontato in pieno con la legge 12 giugno 1902, n. 185, che segnò l'inizio di un'era nuova nella tutela monumentale ed artistica. Con essa si raggiunse una grande meta, l'unificazione legislativa, sebbene non si fosse attinta quella perfezione tecnico-giuridica che solo una lunga esperienza amministrativa può dare. Per cui si sentì presto il bisogno di rielaborare la materia e nel 1909 fu promulgata la legge vigente (20 giugno 1909, n. 364). Anche questa ha percorso oramai il suo ciclo vitale, se si parla insistentemente di nuovi progetti di riforma. Il regolamento di esecuzione di essa è quello approvato con r. decr. 30 gennaio 1913, n. 363. Leggine complementari o secondarie di riforma saranno indicate di volta in volta.
La potestà che lo stato esercita in materia si svolge nei riguardi delle cose proprie, mercé il normale suo potere di diritto pubblico o privato: nei riguardi delle cose di proprietà altrui, esso interviene con poteri non diversi da quelli per i quali agisce nell'espropriare o nel contenere e limitare i diritti dominicali dei privati.
A tale potestà lo stato provvede con apposita amministrazione, che, sebbene ancor giovane d'anni, esercita una vasta attività tecnico-scientifica. Istituita da Ruggero Bonghi col r. decr. 28 marzo 1875, n. 2440 (serie 2ª), per coordinare il lavoro decentrato e incontrollato di diversi organi esistenti con vario nome e funzioni nelle provincie, la Direzione generale degli scavi e dei musei fu trasformata in Direzione generale delle antichità e delle belle arti da Guido Baccelli nel 1881. A coadiuvarla sorse la Giunta consultiva di storia, archeologia e paleografia, che, mutata di frequente, è oggi il Consiglio superiore per le antichità e belle arti, disciplinato dal r. decr. 29 novembre 1928, n. 2751. Alla periferia i vecchi Commissariati creati nel 1875, quindi Uffici regionali per la conservazione dei monumenti secondo gl'intendimenti di P. Villari, sono stati sostituiti dalla legge organica 27 giugno 1907, n. 386 con le Soprintendenze ai monumenti, le Soprintendenze agli scavi e ai musei archeologici, le Soprintendenze alle gallerie, ai musei medievali e moderni e agli oggetti d'arte, di competenza generalmente regionale. Materia che ha avuto un'ultima e definitiva riforma, voluta dal ministro Gentile, col r. decr. 31 dicembre 1923, n. 3164, che ha limitato le Soprintendenze da 47 a 25, riducendole da tre tipi a due (Soprintendenze alle antichità e Soprintendenze all'arte medievale e moderna, queste ultime risultate dalla fusione delle Soprintendenze ai monumenti e delle Soprintendenze alle gallerie), e, in qualche regione, dove la materia archeologica o artistica fosse di molto prevalente sull'altra, in un sol tipo (Soprintendenze alle opere di antichità e di arte). È questo l'ordinamento vigente, che può dirsi completo, se si tien conto degli Uffici di esportazione di oggetti di antichità e d'arte, che, nelle sedi delle più importanti Soprintendenze, esercitano il controllo sul commercio antiquario d'importazione ed esportazione; nonché delle Commissioni conservatrici dei monumenti e delle opere d'arte, nelle provincie, e degli Ispettori onorarî dei monumenti e scavi, che, nei principali comuni e senza retribuzione, coadiuvano il soprintendente.
Per un breve esame giuridico di questo ordinamento, è necessario anzitutto stabilire l'ambito della citata legge. Dice l'art. 1 che ad essa sono soggette le cose immobili e mobili, che abbiano interesse storico, archeologico, paletnologico, artistico. Il r. decr. legge 24 novembre 1927, n. 2461 ha aggiunto anche le cose d'interesse paleontologico. Sono esclusi gli edifici e gli oggetti d'arte di autori viventi o la cui esecuzione non risalga a oltre cinquanta anni (ma secondo l'art. 130 regol., occorre il nulla osta per l'esportazione). Tra le cose mobili sono compresi i codici, gli antichi manoscritti, gl'incunabuli, le stampe e le incisioni rare e di pregio e le cose d'interesse numismatico. A spiegazione dell'ultimo alinea dell'art. 1, si legga l'art. 128 regol., ove sono specificati i limiti della tutela in rapporto al patrimonio bibliografico nazionale.
La sfera d'azione dello stato fu allargata anche "alle ville, ai parchi e ai giardini che abbiano interesse storico o artistico" (legge 23 giugno 1912, n. 688) e quindi (legge 11 giugno 1922, n. 778) alle bellezze naturali e agl'immobili di particolare interesse storico (v. sotto).
Per applicare tali leggi occorre fare un'indagine obiettiva, discrezionale e tecnica, sul contenuto della cosa che si ritiene d'interesse storico, archeologico, artistico, ecc., e un'indagine altresì subiettiva circa il detentore della cosa. La dichiarazione e notifica dell'importante interesse è prescritta per le cose detenute dai privati (art. 5); ma non per le cose detenute dagli enti (art. 2), pei quali invece la ricognizione del pregio è contenuta nell'elenco descrittivo (art. 3 legge). L'indagine subiettiva verte sul possessore della cosa di pregio e gli effetti sono diversi in relazione alla qualità della persona. Infatti le cose di cui si occupa la legge possono essere di proprietà dello stato, di enti morali, di singoli individui. Ecco la rispettiva disciplina giuridica.
Esse sono inalienabili quando appartengono allo stato, a comuni, a provincie, a fabbricerie, a confraternite, a enti morali ecclesiastici di qualsiasi natura e ad ogni ente morale riconosciuto. L'inalienabilità però non osta all'uso dei singoli, anzi il "pubblico godimento" (art. 2) è la finalità della legge. Appunto perciò l'art. 28 del regolamento prescrive che nelle chiese, loro dipendenze e altri edifici sacri, le cose d'arte e d'antichità dovranno essere liberamente visibili a tutti, in ore a ciò determinate.
È in massima proibito, ma può essere permesso, di trarre calchi da opere di plastica dello stato (art. 7 reg.); è sottoposta a licenza la copia e fotografia di dipinti, sculture, ecc. (articoli 14, 16 reg.). La riproduzione fotografica all'aperto di cose immobili o mobili esposte alla vista di tutti è libera (art. 16 reg.).
La regola dell'inalienabilità trova un'attenuazione (art. 2 capov.) allorché il Ministero dell'educazione nazionale permette la vendita o la permuta (o altro atto che importi alienazione) delle cose di pregio da uno a un altro degli enti vincolati all'inalienabilità, quando non derivi danno alla loro conservazione e non ne sia menomato il pubblico godimento (v. art. 45 segg. regol.). Il citato r. decr.-legge 24 novembre 1927, n. 2461, ha temperato questa regola, autorizzando con particolari cautele l'alienazione di cose mobili di provincie, comuni, ecc., ad altri enti; e delle cose immobili agli enti e anche ai privati. L'inalienabilità vale anche inamovibilità e divieto di qualsiasi modifica, senza autorizzazione ministeriale (art. 12 legge, articoli 29, 40 segg. regol.). La vigilanza ministeriale si esplica anche circa l'uso (art. 51 regol.).
Non solo l'ente ha il vincolo di inalienabilità: ma altresì l'onere positivo di mantenere la cosa in condizioni d'integrità e di sicurezza. Per garanzia del quale onere il legislatore dà al Ministero dell'educazione nazionale il duplice potere:
a) di rimuovere la cosa di pregio, facendola trasportare in un pubblico istituto;
b) di farla restaurare a spese dell'ente proprietario (se questo è in grado di sostenerle: criterio discrezionale del Ministero e, in sede di gravame, del Consiglio di stato, con giudizio di merito); e, più genericamente, di adottare tutte le provvidenze idonee a impedire il deterioramento della cosa (art. 4 legge, art. 44 regol.).
Quando la cosa sia nella pertinenza di privati, la disciplina giuridica è diversa. Prescrive la legge nell'art. 5 che colui il quale, come proprietario o per semplice titolo di possesso, detenga una delle cose di cui all'art. 1, della quale l'autorità gli abbia notificato l'importante interesse, non può trasmetterne la proprietà o dismetterne il possesso senza farne denuncia al Ministero dell'educazione nazionale. E questo limite di disposizione, cui corrisponde l'obbligo di denuncia, sta in relazione a un diritto di prelazione dello stato (art. 6); il governo ha infatti il diritto di acquistare, entro il termine di due mesi, prorogabile a quattro, la cosa, al medesimo prezzo stabilito nel contratto di alienazione. Durante questo tempo il contratto rimane sottoposto alla condizione risolutiva dell'esercizio del diritto di prelazione e l'alienante non può effettuare la tradizione della cosa. Ulteriore limitazione del diritto di proprietà sta nell'onere che incombe ai privati di evitare il deterioramento delle cose, sotto la sanzione dell'espropriazione in caso d'inadempimento (art. 7). Il diritto di tale espropriazione spetterà, oltre che allo stato, alle provincie e ai comuni, anche agli enti che abbiano personalità giuridica e si propongano la conservazione di tali cose in Italia ai fini della cultura e del godimento pubblico (v. art. 66 segg. regol.). Un altro limite alla potestà dominicale sta nel divieto di rimozione, demolizione, restauro, modifica, senza l'autorizzazione del Ministero dell'educazione nazionale. In base alla legge di cui parliamo (1909), per le cose dei privati il divieto si riferisce solo agl'immobili per natura o per destinazione (art. 13 legge; articoli 74 e 76 regol.). Pei mobili non agisce quest'obbligo di previa autorizzazione ministeriale: il rifiuto della quale, per gl'immobili, darebbe luogo ad azione giudiziaria. È da credere però che queste norme della legge 1909 siano state modificate dalla legge citata 1922, che non solo conferma il divieto dell'indistruttibilità e inalterabilità delle cose notificate e sostituisce la giurisdizione del Consiglio di stato, ma anche per le cose non notificate dà facoltà al Ministero di ordinare la sospensione dei lavori. Nel regolamento (art. 79) è vietata l'intonacatura o tinteggiatura senza autorizzazione ministeriale. Il diritto di vigilanza del Ministero è molto tenue: esso comporta il diritto di accedere alla casa del privato, ma con l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria (art. 82 reg.). Nei fallimenti di commercianti di antichità il cancelliere del tribunale deve darne avviso al Ministero, che riscontrerà se nel patrimonio del fallito esistono cose notificate (art. 62 reg.).
Le norme più interessanti, nei riguardi dei privati, sono quelle che riflettono l'esportazione degli oggetti d'antichità e d'arte. Qui si manifesta più intensa la vigilanza dello stato perché il patrimonio di storia e di arte resti acquisito alla nazione. Il maggior rigore della legge è in ciò: che per l'esportazione delle cose di pregio, anche se non diffidate col procedimento dell'art. 5, occorre la denuncia con l'indicazione del prezzo (v. art. 134 segg. regol.). In funzione di questo prezzo dichiarato si determina (e sono in ragione inversa) la tassa di esportazione (articoli 10 e 11) e la facoltà di prelazione allo stesso prezzo che può esercitare il governo. Per questa ragione di controllo, anche le opere escluse dalla sfera della legge (art. 1) sono soggette a nulla osta (art. 129 segg. regol.). Donde, come abbiamo già accennato parlando dell'interesse archeologico, storico, artistico, ecc., della cosa, agli effetti dell'esportazione la declaratoria dell'importante interesse non è essenziale. Il semplice dubbio importa l'obbligo della denuncia. Il dubbio o la contestazione sul pregio vengono risoluti dal Consiglio superiore delle antichità e belle arti (art. 8, e articoli 53-55 regol.).
La denuncia per l'esportazione dà luogo, come si è detto, al diritto di prelazione da parte dello stato o altri enti indicati, al prezzo dichiarato. Il proprietario di oggetti denunciati per l'esportazione non può opporsi all'esercizio della prelazione deducendo di non aver autorizzato il possessore all'esportazione (v. relazione Avvocatura erariale, 1926): sembra però che la ragione vera sia nel codice civile (art. 707: il possesso ha lo stesso effetto del titolo, salvi i casi di furto o smarrimento, art. 708). In questi ultimi casi, come sarebbe ammissibile la revindica del proprietario verso il ladro o verso l'inventore, sarebbe invalido il tentativo di esportazione e inefficace quindi il diritto di prelazione dello stato. Fermato, dunque, l'obbligo della denuncia per l'esportazione di qualunque cosa di arte o di storia, si deve però ben rilevare che non per ciò è sempre vietato l'espatrio di tali cose di pregio. La legge distingue. L'esportazione delle cose di pregio è vietata se essa importi un danno grave per la storia, l'archeologia o l'arte (v. per esemplificazione art. 131 regol.); è permessa se un danno grave non viene riscontrato. Nell'un caso e nell'altro a giudizio di tre funzionarî; e in caso di dubbio o di contestazione, del Consiglio superiore della pubblica istruzione (art. 8 legge). Se il danno non è grave, il governo può però acquistare la cosa al prezzo dichiarato dall'esportatore (art. 9). Se invece il danno è grave e (così deve intendersi l'art. 9) il governo non intenda pagare la stessa cifra indicata dall'esportatore, bensì una cifra minore, è prescritto che il prezzo sia determinato da una commissione peritale; e se il proprietario non ne accetti la costituzione, o se egli e il governo non ne accettino le conclusioni, o se il governo non voglia acquistare la cosa, questa diventa non esportabile. È indubbiamente più grave la limitazione dominicale che riceve la cosa, in questo caso; perché se, a seguito della denuncia, si stabilisce l'esistenza del danno grave, il governo ha non solo il diritto di prelazione, acquistando la cosa, ma può anche rifiutare di acquistare la cosa, e vietarne l'esportazione.
L'esportazione è punita come contrabbando, con la confisca dell'oggetto e con una multa da stabilirsi dalle competenti autorità finanziarie; inoltre, come si vedrà, è previsto il pagamento di una indennità allo stato, nel caso in cui l'opera d'arte sia definitivamente perduta per il patrimonio artistico nazionale; è anche, se del caso, applicabile la sanzione civile della nullità di pieno diritto dell'alienazione; su di che diremo dopo. Se la cosa era diffidata ai sensi dell'art. 5, l'esportazione senza denuncia, o senza autorizzazione se denunciata, è dolosa. Se l'esportazione senza denuncia è di cosa non diffidata (articoli 5 e 8), ma avente il pregio eccezionale (danno grave per la storia, ecc.), stabilire se esista o meno il dolo, è una quaestio facti. Se l'esportazione riguarda cosa non diffidata (articoli 5 e 8), ma "di non grave danno per la storia, l'archeologia o l'arte", manca sia il dolo sia il danno.
ll tesoro archeologico ha una disciplina molto diversa da quella del codice civile. Non vale la regola dell'art. 711 sull'occupazione e invenzione e neppure l'applicazione dominicale della massima: Dominus soli est dominus coeli et inferorum (art. 714 cod. civ.), ma, al contrario, vigono norme diametralmente opposte. La legge ha cura di distinguere, e diversamente regolare, il diritto del proprietario del fondo nel rinvenimento di cose archeologiche:
a) nello scavo iniziato a cura del governo;
b) nello scavo iniziato a cura di enti o privati e debitamente autorizzato dal governo;
c) nel rinvenimento fortuito.
Prima però di studiare le conseguenze giuridiche del rinvenimento, è da notare che può esservi uno stadio preparatorio: e cioè un diritto dello stato a procedere a scavi nel fondo del privato: dice la legge (art. 15) che il governo può eseguire scavi per intenti archeologici in qualunque punto del territorio dello stato, quando con decreto ministeriale ne sia dichiarata la convenienza. Il proprietario del fondo ove si eseguiscono gli scavi avrà diritto a compenso per il lucro mancato o per il danno che gli fosse derivato. ll decreto ministeriale che dichiara la convenienza di procedere a scavi, equivale all'ordinario provvedimento che autorizza il passaggio e ingresso nelle proprietà private. Vi è dunque una servitù di subire il passaggio e lo scavo nel fondo privato. Il compenso è determinato a norma della legge di espropriazione per pubblica utilità o, a richiesta del proprietario, se il risultato è positivo, con una maggior quota delle cose scoperte.
Occupiamoci dunque della triplice disciplina del rinvenimento del tesoro. Quando lo scavo sia eseguito ad iniziativa e cura del governo su fondo altrui, al proprietario è data la quarta parte delle cose scoperte o il prezzo equivalente, a scelta del Ministero e giusta perizia che è definitiva (art. 86 segg. regol.). Si noti che il governo può preventivamente trovare oneroso questo compenso da darsi al proprietario del fondo; la legge lo autorizza perciò all'espropriazione del fondo (art. 16), con le norme comuni. Allora, dopo l'esproprio, il governo scaverà in fondo proprio, ed è prescritto che nella stima di questo esproprio non sarà tenuto conto del presunto valore archeologico delle cose che si ritenga potersi rinvenire nel fondo espropriando. Ma solo in questo caso.
Gli enti o i privati autorizzati non possono egualmente escavare nel fondo altrui, se non ne diventano proprietarî e se non si provvedono del decreto di espropriazione del fondo per pubblica utilità (come si argomenta non solo negativamente, ma anche per il riflesso dell'art. 17 legge). Se lo scavo sia eseguito a iniziativa di privati o enti che siano stati autorizzati, invece della quarta parte è data la metà, a scelta del Ministero come sopra (art. 17). Questo maggior premio è dato all'iniziativa e quindi all'alea maggiore corsa da chi ha condotto i lavori di scavo. È ovvio che l'esecuzione di scavi da parte del proprietario, o di chi per lui, debba essere autorizzata dal Ministero dell'educazione nazionale e svolgersi sotto la vigilanza e con l'osservanza delle norme che esso imponga (art. 17 legge, art. 100 segg. regol.). L'inosservanza importa la revoca della licenza. Ma il governo può sempre sostituirsi al privato rimborsandolo delle spese fatte e conferendogli la partecipazione ai ritrovamenti già eseguiti (la metà) e a quelli che si faranno (il quarto).
Per l'invenzione fortuita, due prescrizioni sono interessanti: l'una concernente l'obbligo d'immediata denuncia; l'altra, il diritto dello stato alla proprietà delle cose e il diritto del proprietario del fondo a conservare la metà di esse o l'equivalente prezzo (v. art. 18 legge, art. 116 regolamento). Del rinvenimento fortuito spetta l'obbligo di denuncia sia allo "scopritore fortuito" sia al detentore (articolo 18); e anche al mediatore della vendita, depositario della cosa rinvenuta, bastando il fatto della detenzione, con qualsiasi animus (Cassazione penale 20 maggio 1918, relazione Avvocatura erariale 1926, p. 324). Tra le norme circa il rinvenimento di cose d'arte si ricordi l'art. 52 regol.; esso dichiara nullo ogni patto che attribuisca all'imprenditore, che demolisce un edifizio dello stato o degli enti, la cosa d'arte rinvenuta tra i materiali di disfacimento. È da credere che all'imprenditore però spetti il medesimo diritto dell'inventore fortuito. Nel rinvenimento fortuito, il governo conosce solo il proprietario del fondo cui corrisponde il prezzo o la cosa; i rapporti fra proprietario del fondo e ritrovatore sono quelli del codice civile (v. art. 120 regol.). Quando il fondo in cui avvenne la scoperta fortuita appartenga agli enti morali di cui all'art. 2 della legge, il diritto riconosciuto al ritrovatore dal codice civile non potrà esercitarsi se non sul prezzo equivalente alla metà delle cose scoperte, sempre che alla ripartizione di queste non si sia preferita la divisione in natura.
Abbiamo detto, in ordine alla proprietà delle cose fortuitamente rinvenute nello scavo, che esse sono dello stato, il quale a sua scelta compensa il proprietario con la metà delle cose escavate o con il valore corrispondente. Che la proprietà sia sempre dello stato si desume dalla regola generale dell'art. 15: e si è deciso (Cassazione 27 giugno 1918, Giurisprudenza italiana, 728) che il testo dell'art. 15, dettato per lo scavo eseguito direttamente dallo stato, vale anche per l'art. 18, che disciplina il ritrovamento fortuito, rispetto al quale dà l'alternativa (che conferma la proprietà dello stato) di rilasciare metà delle cose scoperte o del prezzo equivalente. Questo va determinato in relazione allo stato e valore commerciale delle cose al tempo del rinvenimento e non al maggior valore ottenuto in seguito al lavoro di ricostruzione e classificazione compiuto dai competenti organi del Ministero. Tesi meritevole di riesame; anche perché la cosa ha un valore intimo suscettibile di maggior pregio, a opera non solo dello stato ma anche del privato.
Le cose non di pregio possono essere soggette a limitazioni nell'uso dominicale rispetto alle cose di pregio. L'art. 14 della legge 20 giugno 1909, n. 364 fu sostituito col seguente, giusta legge 23 giugno 1912, n. 688, art. 3: "Nei luoghi nei quali si trovino monumenti o cose immobili soggetti alle disposizioni della presente legge, nei casi di nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazioni di piani regolatori, possono essere prescritte dall'autorità governativa le distanze, le misure e le altre norme necessarie, affinché le nuove opere non danneggino la prospettiva e la luce richiesta dai monumenti stessi". (V. anche articoli 77 e 82 regol.).
Gli articoli 30 e 37 della legge indicano le penalità. Si è ritenuto che l'alienazione senza denuncia costituisca delitto e non contravvenzione (Cassazione penale 7 aprile 1914, Foro italiano, 484); è delitto in cui il dolo inest in re ipsa, senza che occorra provarlo (Cassazione penale 27 marzo 1922, Giustizia penale, 812); il delitto è perfetto con la semplice alienazione, non essendo estremo necessario la tradizione della cosa (Cassazione penale 12 ottobre 1916. Giustizia penale, 1917, 95); è punibile anche quando le cose alienate non siano iscritte negli appositi elenchi (Cassazione penale 18 dicembre 1915, Giustizia penale, 1918, 530 e 21 marzo 1916, Foro italiano, 345), su di che però è a far riserva, meno per l'esportazione; l'omessa denuncia è reato di natura permanente (Cassazione penale 5 giugno 1914, Giustizia penale, 1127).
La mancata denuncia dell'oggetto trovato in conseguenza di scavi è delitto; l'esecuzione senza autorizzazione di scavi a scopo di ricerche di antichità è contravvenzione (Cassazione 10 febbraio 1904; contra: la nota di S. D'Amelio in La legge, 1904, n. 17). Notevole, oltre alle varie sanzioni penali, anche il precetto di responsabilità civile di cui l'art. 32; senza pregiudizio di quanto si dispone per i casi di cui al successivo articolo (contrabbando), se per effetto della violazione degli articoli 2, 5 e 6 la cosa non si può più rinvenire o è stata esportata dal regno, il trasgressore dovrà pagare una indennità equivalente al valore della cosa. L'indennità nel caso di violazione dell'art. 2 potrà essere devoluta all'ente danneggiato. Notevole pure la sanzione dell'art. 29: le alienazioni fatte contro i divieti contenuti nella legge sono nulle di pieno diritto. Pel r. decr. legge 22 novembre 1925, n. 2192, la nullità è dichiarata dal governo con decreto che ha forza di titolo esecutivo. Nella legge 11 giugno 1922, n. 778, sono stabilite altre penalità; e l'esecuzione di ufficio è decretata dal Ministero dell'educazione nazionale.
Circa la conservazione e contabilità del materiale artistico, archeologico, bibliografico e scientifico dello stato, v. regol. r. decr. 26 agosto 1927, n. 1917.
La legge 1909 ebbe il merito di determinare chiaramente e con sufficiente ampiezza l'oggetto delle proprie disposizioni, estendendo la sanzione giuridica a cose dianzi indifese (confronta la diversa dizione dell'art. 1 con l'art. 1 della legge 1902). Nonostante però i successivi parziali ampliamenti, restavano ancora da disciplinare le bellezze naturali. Si cercò d'introdurre tale materia nella legge, ma senza fortuna, per l'opposizione del senato, che quella riteneva esulare dalla tutela prevista, in quanto debba limitarsi all'opera specifica dell'uomo, del suo genio, della sua storia (arte in senso tecnico). Non mancò, peraltro, il voto che, con nuovo disegno di legge, si provvedesse alla lacuna, così che fossero conservati integri i cipressi piantati da Michelangelo a S. Maria degli Angeli, il roseto francescano della Porziuncola, i cipressi di Bolgheri cantati da G. Carducci, ecc. Venne perciò promulgata la legge 11 giugno 1922, n. 778, che assoggetta a speciale protezione le cose immobili, la cui conservazione presenti un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale o della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria, nonché le bellezze panoramiche vere e proprie. Sono, a questo proposito, da tener presenti la legge 12 luglio 1923, n. 1511, i regi decreti 27 sett. 1923, n. 2124, 31 dicembre 1925, n. 2388 e 6 maggio 1926, n. 832, circa le bellezze naturali e le formazioni geologiche e paleontologiche nel parco nazionale degli Abruzzi. I parchi della rimembranza ai caduti della guerra 1915-18 sono pubblici monumenti (legge 21 marzo 1926, n. 559). Circa la toponomastica conviene tenere presenti le limitazioni imposte con r. decr.-legge 10 maggio 1923, n. 1158 e con la legge 23 giugno 1927, n. 1188.
Per effetto della legge 1922 il notevole interesse pubblico degli immobili di bellezza naturale o in relazione con la storia civile e letteraria, oltre che essere dichiarato dal Ministero dell'educazione nazionale, deve essere iscritto nei registri catastali e trascritto nei registri delle ipoteche, e ha efficacia anche verso i successori e aventi causa comunque. La dichiarazione ministeriale non costituisce provvedimento definitivo ai fini del ricorso giurisdizionale, in quanto l'art. 2 ammette il ricorso al governo del re, che decide, sentita la giunta del Consiglio superiore per le antichità e belle arti.
L'obbligo sancito dall'art. 2 della legge 1922, per cui il proprietario, possessore o detentore di un immobile vincolato per bellezza naturale o paesistica deve presentare ogni progetto relativo all'immobile all'approvazione della Soprintendenza ai monumenti e del Ministero, che provvede sentito il parere dell'organo consultivo centrale, non è diverso come limite alla proprietà privata da consimile disposizione della legge 1909 per gl'immobili d'antichità e d'arte. Peraltro, sotto diversi riguardi, la legge 1922 amplia la sfera della potestà ministeriale, in quanto, anche indipendentemente dalla preventiva dichiarazione di pubblico interesse, il ministero può ordinare la sospensione dei lavori iniziati, salvo procedere entro un mese alla notificazione, ché, ove non lo faccia, l'ordine di sospensione si intende revocato senz'altro.
L'art. 4 poi statuisce anche per le bellezze naturali le facoltà date al Ministero dall'art. 3 della legge 23 giugno 1912, n. 688, "affinché le nuove opere non danneggino l'aspetto e lo stato di pieno godimento delle cose e delle bellezze panoramiche", e ammette che a tal fine possa prescrivere opere di tutela strettamente necessarie (v., in proposito, la specificazione dell'art. 5 sull'abuso delle affissioni o altri mezzi di pubblicità).
L'art. 6, dopo avere stabilito la penalità da lire 300 a 1000 per chi contravvenga alle disposizioni della legge, dà facoltà al Ministero di ordinare la demolizione delle opere abusive, e, nel termine di 15 giorni, in caso di inadempienza, di eseguirla d'ufficio. Anche per la legge 11 giugno 1922, n. 778 sono in istudio, presso la Direzione generale per le antichità e belle arti, progetti di riforma.
Non è molto differente dalla nostra legislazione quella degli altri stati, i quali ad essa spesso attinsero. Nella francese: la legge 20 marzo 1887, il decr. 2 gennaio 1889, la legge 9 dicembre 1905, e la legge 21 aprile 1906 si ispirano a identici principî: pei monumenti (immobili) diritto di espropriazione da parte dello stato; classifica e limiti a carico dei privati, divieto di ogni alienazione e modificazione. Lo stesso sui mobili appartenenti alle amministrazioni. Dei mobili appartenenti a privati la legge non si occupa: in ciò segna un progresso la legge italiana. La cosa rinvenuta nello scavo è di proprietà dello stato solo in Algeria e nei paesi di protettorato. Principî analoghi ai nostri si trovano nella legge prussiana 15 luglio 1907 e nella legge belga 12 agosto 1911. È posto freno alla pubblicità che deturpa il paesaggio nella legge tedesca 2 giugno 1902: e così in taluni cantoni svizzeri, in qualche stato dall'Unione nord-americana, e in Inghilterra da taluni consigli di contea. La legge cretese 18 giugno 1899, n. 24, e la legge greca 24 luglio 1899, n. 2646, sancirono che gli oggetti di antichità sono patrimonio dello stato e gli scavi un pubblico monopolio. La norma, oltre che ad oggetti riflettenti l'antichità classica, si estende anche alle epoche remote del cristianesimo e del Medioevo ellenico.
In Turchia vige l'iradè 9-11 febbraio 1884, disponente che gli oggetti scavati in virtù di una ufficiale autorizzazione appartengono allo stato. Analogamente in Tunisia, decreto beylicale 7 marzo 1886, e in Egitto, decreto 18 dicembre 1881, tutte le cose scoperte sono rivendicabili allo stato o riservate allo stato. Nella Finlandia, legge 10 aprile 1883, le cose trovate devono essere offerte al Tesoro: se lo stato vorrà acquistarle pagherà un terzo in meno del valore venale (S. D'Amelio, Sulla mancata denunzia di monumenti ecc., in Legge, 1904, n. 17). Nella legislazione dell'U.R.S.S. il decreto 19 settembre 1918 vieta l'esportazione degli oggetti d'arte e d'antichità russi, senza autorizzazione. I commercianti di tali oggetti devono essere iscritti in apposito registro. Le pene per le violazioni giungono fino alla confisca dei beni e all'arresto.
Bibl.: A. von Wussow, Riassunto delle disposizioni vigenti negli stati esteri per la tutela dei monumenti, Roma 1892; S. Iannuzzi, Del diritto dello stato sugli oggetti di belle arti, Napoli 1889; L. Di Franco, Mon. e scavi, in Dig. it., XV, II, pp. 821, 848; N. A. Falcone, Il codice delle belle arti, Firenze 1913; F. Mariotti, Legislazione di belle arti, Roma 1892; L. Tetreau, Législation relative aux monuments et objets d'art, Parigi 1896; S. Romano, Principii di diritto amministrativo, Milano 1906, p. 513; A. Brunialti, Diritto amministrativo, Torino 1914, II, p. 550; R. Saleilles, La législation italienne relative à la conservation des monuments et objets d'art, Digione 1884; S. Sant'Angelo, Opere d'arte, in Dig. it., XVII, p. 453; M. D'Amelio, La difesa giuridica del paesaggio, in Conferenze e prolusioni, V, n. 11; R. Labry, Une législation communiste, Parigi 1920, p. 403; L. Parpagliolo, Codice delle antichità e degli oggetti d'arte, Roma 1913; voll. 2; id., La difesa delle bellezze naturali d'Italia, Roma 1923. Per uno studio approfondito sulla storia delle leggi romane e posteriori, v. le relazioni parlamentari al progetto Martini 24 giugno 1893 del Miraglia al Senato, del Morelli Gualtierotti alla Camera.