Arte
di Giulio Carlo Argan
Arte
sommario: 1. L'arte nel XX secolo. 2. I movimenti artistici. 3. I ‛beni culturali'. 4. Il rapporto con le ideologie politiche. 5. I movimenti americani. 6. Il rapporto con la scienza, la letteratura, il teatro, il cinema. 7. L'arte e la storia. 8. La crisi delle tecniche artistiche. 9. La crisi della rappresentazione. 10. Oggettualità e concettualità. □ Bibliografia.
1. L'arte nel XX secolo
Più che in qualsiasi altra epoca della storia, nel nostro secolo il mondo si occupa dell'arte; sono tuttavia diffuse la consapevolezza e la preoccupazione di una profonda, irreversibile crisi. L'arte non adempirebbe più ad una funzione concreta, non comunicherebbe più nulla che la società possa recepire e utilizzare; più ancora, sarebbe in contraddizione con tutto il sistema delle attività culturali e produttive della società contemporanea. Si prospetta l'ipotesi che la civiltà del futuro sia per essere una civiltà priva di arte, e se ne prevedono le conseguenze negative: poiché, in tutta la storia dell'umanità, l'arte è stata l'espressione di una volontà o aspirazione creativa, si guarda con motivata angoscia ad una società priva d'impulsi creativi, incapace di dare un senso non soltanto contingente e utilitario al lavoro, di costruire l'ambiente della vita in forme che rispecchino una positiva concezione del mondo.
La crisi non colpisce soltanto l'arte contemporanea, la produzione di nuove opere d'arte; se l'arte non continuerà, tutto quello che rimane dell'arte del passato e che costituisce tuttora una parte notevole dell'ambiente materiale della vita, perderà ogni valore e finirà per essere abbandonato o addirittura distrutto. La dispersione, la degradazione, la distruzione del patrimonio monumentale e artistico sono purtroppo in atto; e molti le deplorano, ma pochi sembrano volere o potere fermarle. Rinunciando a quel patrimonio la società non rinuncia soltanto all'arte, ma alla propria storia, di cui i monumenti e le opere d'arte sono i documenti: il processo dialettico della storia appare infatti in netta contraddizione con la continuità e l'automatismo del progresso tecnologico, con cui la società tende sempre più a identificare il proprio sviluppo.
L'arte costituisce dunque un problema, uno dei grandi problemi del secolo. Forma l'oggetto di ricerche filosofiche, storiche, scientifiche, operative, sperimentali; determina tutto un insieme di attività collaterali, anche sul piano economico e politico, miranti a proteggerla e promuoverla; è argomento di dibattiti dottrinali, di formulazioni teoriche, di programmi di azione, di animate polemiche. A cominciare dall'Estetica di Benedetto Croce (1902), quasi tutti i sistemi filosofici comprendono una filosofia dell'arte, che si propone di stabilire che cosa propriamente essa sia, quali i suoi procedimenti e i suoi fini, quale il suo posto tra le attività dello spirito. La psicologia studia l'arte come suprema espressione dell'esperienza estetica, intesa come primo e diretto affronto della realtà; la pedagogia come fattore insostituibile nella formazione dell'individuo; la sociologia la considera nel suo rapporto con i poteri politici e religiosi, con l'economia, con le credenze religiose, le ideologie politiche, le tradizioni, i costumi.
La storiografia dell'arte, nel secolo scorso e nel nostro, ha superato i limiti della memorialistica e della biografia costituendosi come disciplina storica autonoma, dotata di proprie metodologie e di propri apparati di ricerca; i suoi interessi si estendono a tutti i settori della produzione artistica, a tutte le aree e le epoche della cultura, fino alle più recenti. In relazione con la ricerca storica, ma con altri metodi e finalità, opera la critica d'arte detta militante, che segue momento per momento gli avvenimenti artistici, proponendosi di valutarne la portata e di spiegarne il significato, agendo così come mediazione tra l'arte e il pubblico: di fatto, poiché la crisi si manifesta come difficoltà di comunicazione tra arte e società, la critica fa opera di mediazione orientando gli interessi e le scelte del pubblico, spesso sostenendo questa o quella corrente e intervenendo nel loro contrasto dialettico in modo che già Baudelaire chiamava ‟politico" (v. critica d'arte).
L'informazione del pubblico relativamente ai fatti dell'arte antica e moderna è andata sempre più estendendosi grazie ai mezzi di riproduzione meccanica, all'abbondanza delle pubblicazioni illustrate con carattere divulgativo, agli apparati dell'informazione di massa. I musei si sono moltiplicati e non si presentano più come semplici luoghi di raccolta di opere d'arte, ma come organismi scientifici e didattici, dotati di speciali attrezzature per la ricognizione, l'analisi, la classificazione, la conservazione e la presentazione critica di manufatti artistici d'ogni genere. Appositi musei sono destinati all'arte contemporanea, concepiti come strumenti di ricerca e d'informazione, senza limiti di regione o nazione. Museografia, restauro, catalogazione sono ormai discipline scientifiche, con precise metodologie operative, accessorie e integrative rispetto a quelle della storiografia dell'arte. In molti paesi sono state promulgate leggi e organizzati servizi per la protezione dei patrimoni artistici e degli ambienti storici e naturali, nonché per la promozione dell'arte contemporanea. Sono ovunque frequenti le mostre d'arte antica, che rappresentano uno sviluppo prospettivo del museo perché riuniscono e presentano in modo organico, secondo chiare angolazioni critiche, materiali che altrimenti non potrebbero essere studiati attraverso confronti diretti. Per l'arte contemporanea si organizzano, per lo più a cura di enti pubblici, grandi rassegne periodiche nazionali e internazionali (Biennale di Venezia, di Parigi, di San Paolo; Documenta di Kassel, ecc.), che talvolta comportano l'assegnazione di premi; e mostre minori, storiche e retrospettive, di gruppo e individuali, vengono continuamente allestite da gallerie pubbliche e private. Gran parte dell'informazione è promossa o sostenuta dal mercato per le proprie finalità, ciò che ne spiega il limite: se dell'informazione fruisce un vasto ambito sociale, essa è di fatto indirizzata ad una cerchia sociale assai più ristretta, dei possibili acquirenti. In pratica, nella società contemporanea v'è un piccolo settore abilitato all'acquisto e al possesso di beni artistici, un altro più vasto che si interessa all'arte sotto l'aspetto puramente culturale, un terzo ancora più esteso che rimane di fatto escluso da ogni informazione efficace.
Il mercato artistico internazionale, il cui centro si è spostato dopo la seconda guerra mondiale da Parigi a New York, ma la cui rete si dirama ormai in tutti i paesi culturalmente avanzati, ha avuto un'importanza determinante non soltanto per lo sviluppo delle relazioni culturali internazionali e intercontinentali, ma per il disimpegno dalle scuole e tradizioni nazionali. Si deve principalmente al mercato, interessato al lancio di nuovi valori, la fine del vecchio contrasto tra il tradizionalismo accademico, che ancora nel secolo scorso deteneva il potere con l'appoggio dei governi e della cultura ufficiale, e l'agitata minoranza degli artisti avanzati o innovatori: questi ultimi sono ormai i soli a tenere il campo, mentre i mercanti gareggiano nella scoperta e nel lancio di giovani talenti, di cui spesso soltanto in un secondo tempo la critica riconosce la validità. E fenomeno tipico del nostro tempo è il nuovo rapporto che il mercante, quasi esercitando un mandato affidatogli dalla sua clientela, istituisce con gli artisti, cercando di assicurarsi l'esclusività della loro opera e impegnandoli per contratto a cedergli tutta la loro produzione: ciò che inevitabilmente influisce sulla loro attività di ricerca almeno nei limiti in cui la richiesta influisce sull'offerta. L'incalzante succedersi delle correnti con un ritmo sempre più accelerato, che caratterizza la situazione artistica contemporanea, è almeno in parte determinato dalla necessità commerciale di un frequente ricambio dei valori: di qui il rapido successo e declino di ‛mode', che non riflettono affatto una acquiescenza degli artisti agli interessi del mercato e ai gusti del pubblico, ma piuttosto il bisogno di stimolarli e provocarli adeguando il ritmo delle attività artistiche a quello di una società il cui comportamento è ormai uniformato alle leggi economiche della produzione e del consumo. Né alla necessità di questo adeguamento sfugge la critica, talvolta direttamente condizionata dal mercato, ma in ogni caso rivolta a sollecitare il superamento delle posizioni raggiunte e ad interessare il pubblico ai fatti nuovi e cioè ad affrettare il processo di obsolescenza degli stessi prodotti di cui aveva, prima, annunciato il successo.
Ovviamente connesso con il mercato è il collezionismo che, praticato per lo più da esponenti della borghesia industriale e commerciale, ha preso il posto dell'antico mecenatismo e che costituisce l'aspetto moderno della ‛committenza'. Questa viene ora esercitata attraverso il sistema del mercato e con la garanzia della critica, dato che il collezionista borghese non è più un disinteressato amatore, ma un operatore economico che vede nell'arte l'occasione di investimenti vantaggiosi o soltanto di prestigio. Non di rado, specialmente negli Stati Uniti, le collezioni private finiscono per diventare pubbliche, trasformandosi in musei della cui gestione i grandi collezionisti direttamente partecipano, rendendo così normative o orientative le loro scelte di valori.
Lo strapotere del mercato, come strumento della direzione culturale da parte della borghesia industriale e commerciale, ha dato luogo a reazioni rivolte a togliere alla classe dirigente l'esclusiva del godimento dei prodotti artistici e a instaurare altri tramiti, mediante i quali la produzione di valori estetici fosse fruibile da parte di tutta la società. Tali tramiti sono stati individuati, in un primo tempo, nell'apparato tecnologico dell'industria e nell'universale diffusione dei suoi prodotti, poi nel sistema dell'informazione di massa. Le due grandi tendenze che si contrappongono nel corso del nostro secolo riflettono appunto l'alternativa tra una concezione dell'arte come bene economico privilegiato destinato ad un mercato di élite e una concezione dell'arte come fattore educativo di cui l'intera società dovrebbe potere fruire attraverso apparati funzionali e didattici, come il museo e la scuola.
2. I movimenti artistici
Fin dal principio del secolo si susseguono movimenti o correnti, tutti miranti a precisare quali possano o debbano essere, nella società contemporanea, le specifiche funzioni dell'arte. Tali funzioni, infatti, non sono più, come nel passato, stabilite dalla società in rapporto a proprie esigenze, ma proposte dagli artisti nella loro qualità di intellettuali indipendenti e responsabili. Di fatto, fin dalla metà del secolo scorso, gli artisti ricusano gli apparati predisposti dalla società per la loro formazione: da un secolo ormai si formano al di fuori dell'insegnamento scolastico (le vecchie accademie) o in aperta contraddizione con esso. È stata bensì tentata la trasformazione dell'apparato didattico sostituendo o almeno affiancando alle accademie nuovi tipi di scuole professionali miranti a mettere in rapporto le attività artistiche con le attività produttive; ma si è presto constatato che la società è interessata a tale rapporto solo nella misura in cui le prime vengono interamente subordinate alle seconde. L'artista, almeno in quanto conservi e intenda conservare questa qualifica, è un autodidatta: il suo isolamento dipende in primo luogo dal suo rifiuto di essere debitore alla società della propria formazione. Questa separazione dalla società attiva viene in qualche modo compensata con altri tipi di associazione e anzitutto con il formarsi di gruppi di artisti di tendenza affine: gruppi che spesso si danno un nome e un programma, esercitano un'azione preordinata, conducono una loro ‛politica'. Carattere comune a tutte le tendenze è dunque una manifesta intenzionalità, il cui fine ultimo può anche essere al di là dell'arte, ma deve essere conseguito ‛mediante' l'arte; il primo obiettivo è dunque quello di fare arte, affinché l'arte, come tale, si inserisca e funzioni nel sistema culturale in atto. L'intenzionalità artistica si precisa nel concetto di ‛poetica' che, benché distinto dal concetto di arte, finisce con l'intrecciarsi e perfino identificarsi con esso. La poetica (dal greco ποιεῖν, fare) comprende tutti i fattori che concorrono nella concreta operazione artistica, rendendola non solo possibile, ma necessaria: le esperienze e le scelte culturali che l'artista compie, l'idea dell'arte che intende realizzare nell'opera a cui attende o, in generale, nella sua opera artistica. Come cultura intenzionata al fine dell'arte, anzi precisamente al fare artistico, la poetica ha un aspetto critico ed un aspetto programmatico: sono questi i due momenti caratterizzanti dell'arte del XX secolo, che infatti implica sempre una critica del passato ed una prospettiva sul futuro. Poiché il problema centrale è la divergenza e, al limite, l'incompatibilità tra il modo operativo proprio dell'arte e quello proprio dell'industria, che tende a identificarsi con il comportamento globale della società, la sola esistenza e presenza dell'arte nel contesto sociale ne realizza la funzione sociale, che consiste appunto nell'impedire il generalizzarsi di un comportamento meccanicistico e alienante.
Se l'arte del primo decennio del secolo ha un orientamento genericamente ‛modernistico' in quanto mira a rispecchiare ed esaltare la nuova concezione del lavoro e del progresso, dal 1910 circa si determinano in vari paesi europei in fase di industrializzazione movimenti detti di ‛avanguardia', che vogliono fare dell'arte un incentivo alla trasformazione radicale della cultura e del costume sociale: l'arte di avanguardia si propone di anticipare, con la trasformazione delle proprie strutture, la trasformazione della società. Più precisamente, si propone di adeguare la sensibilità della società al ritmo del lavoro industriale insegnandole a scorgere il lato estetico o creativo della cosiddetta ‛civiltà delle macchine'. Alle correnti di avanguardia si contrappongono tuttavia correnti di segno opposto, per le quali nessun rapporto è possibile tra la sfera della ‛creazione' artistica e quella della ‛produzione' industriale: l'arte, in sostanza, rimane la sola attività individuale in una cultura di massa o, addirittura, si auto-nega e sopprime piuttosto che partecipare di una situazione culturale considerata negativa. Si delinea così una prima distinzione tra due gruppi di correnti: nel primo rientrano, oltre al cubismo e alle avanguardie ‛storiche', l'architettura ‛razionale', il disegno industriale, il movimento olandese De Stijl, tutti i movimenti ‛costruttivisti' fino alle recenti ricerche programmate, cinetiche e visuali; nel secondo, la pittura metafisica, il dadaismo, il surrealismo e le loro derivazioni. Vi sono inoltre numerose personalità di artisti che, pur muovendosi su posizioni avanzate, non rientrano in alcuna corrente o passano dall'una all'altra: tipica, in questo senso, la cosiddetta école de Paris, che, tra il 1910 e il 1940, è stata il punto d'incontro degli artisti ‛indipendenti' di tutto il mondo.
Le correnti del primo gruppo, che implicano un giudizio sostanzialmente positivo sulla presente condizione del mondo, tendono a ricollegare l'arte alla società non più attraverso il mercato, ma attraverso l'apparato produttivo dell'industria, coordinando i procedimenti dell'ideazione formale con quelli della progettazione industriale. L'artista ricusa il mito dell'arte ‛pura', del mestiere ‛sacro' o ‛ispirato', rinuncia al rango di intellettuale, si trasforma in tecnico-progettista, utilizza la tecnologia industriale per produrre oggetti d'uso corrente, perfettamente funzionali ed aventi una loro qualità estetica. Questa non è più un valore aggiunto (decorazione, ornato), ma integrato alla funzionalità, che viene definita nella sua logica linearità fin dallo stadio del progetto. Non più palazzi, edifici rappresentativi, statue, quadri, oggetti rari e preziosi, necessariamente riservati ai ceti più ricchi; ma case d'abitazione, fabbriche, scuole, ospedali, stadi, teatri, oggetti standardizzati e fabbricati in serie, destinati a tutti i ceti sociali. L'oggetto estetico non è più un oggetto di lusso, ma, per la sua nuda funzionalità, l'oggetto più economico: come tale è rappresentativo di una società che riconosce come primaria ed egemone la funzione economica. L'insieme delle cose prodotte dall'industria in serie costituirà l'ambiente materiale dell'esistenza sociale: questo ambiente sarà negativo, alienante, cagione di nevrosi individuali e collettive nella misura in cui sarà determinato da una produzione manovrata al fine del profitto, del potere, dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo; sarà invece positivo e liberatorio, nonalienante, aperto all'integrazione dell'individuo e del gruppo nel contesto, se sarà determinato dalla società stessa. Il processo d'integrazione è un processo dinamico, si attua attraverso la funzione: l'oggetto estetico, che riflette nella sua forma un progetto di funzione, non sarà fruito mediante una passiva contemplazione (come avviene per il monumento, il quadro, la statua, l'oggetto prezioso), ma mediante l'impiego, la funzione. Ne consegue che l'oggetto estetico non è un valore dato, ma una virtualità: l'atto estetico non si conclude con la creazione dell'oggetto da parte dell'artista, ma con la fruizione da parte dell'individuo e della società, allo stesso modo che l'atto economico non è soltanto produzione, ma anche consumo. Con la funzione del consumo non soltanto si fruisce, ma si rinnova continuamente l'ambiente della vita; mutando le condizioni oggettive dell'esistenza la società evolve verso una sempre più profonda integrazione e verso una funzionalità circolare e continua, che logicamente esclude ogni inerte conservazione, a cominciare dalla gerarchia delle classi e dei privilegi.
È prevista la possibilità che una trasformazione così radicale dello statuto sociale dell'operatore, nonché dei procedimenti e della finalità dell'operazione artistica conduca a risultati che non potranno più dirsi artistici, ma si ammette che, se l'arte può realizzarsi soltanto in una società del privilegio, non può che scomparire con essa. Il problema non concerne tanto l'arte, come sistema di tecniche per la produzione di valori estetici, quanto il valore estetico, che si vuole fruibile da parte della società intera; ed è la società stessa che lo determina interpretando esteticamente, e cioè in modo attivo o creativo, il proprio ambiente. La stessa percezione della realtà non deve più essere un semplice recepire, è anch'essa una funzione attiva: si spiega così il rapporto tra le correnti costruttiviste e le ricerche della psicologia della forma che pongono la percezione come stato ed atto della coscienza. Non vi sono forme date a priori come significanti, ma solo processi di formazione; non v'è una categoria di oggetti privilegiati o estetici distinta da quella degli oggetti utilitari, non-estetici: ciò che si chiama estetico è sempre qualcosa di non-estetico che diventa estetico, come si vede nell'architettura e nel disegno industriale, che individuano il momento estetico delle funzioni della vita quotidiana e della relativa strumentazione. L'oggetto estetico prodotto in serie dall'industria non è un valore in sé che possa essere, come l'opera d'arte, tesaurizzato o capitalizzato o scambiato; è uno stimolo al consumo e al ricambio, dunque al continuo divenire ed evolvere della società.
Le correnti del secondo gruppo implicano un giudizio negativo sulla situazione attuale della società e sul suo comportamento condizionato dal sistema industriale. Il dissenso tra arte e borghesia affaristica risale al secolo scorso: Delacroix è un tipico intellettuale antiborghese che detesta la ‛volgarità' della pratica, Daumier e Courbet combattono le istituzioni, gli impressionisti propugnano un'arte che nessun potere politico o religioso può utilizzare per i propri fini, Cézanne si segrega ad Aix-en-Provence, Gauguin fugge nelle isole del Pacifico, la disperazione esistenziale spinge van Gogh al suicidio, il ‛doganiere' Rousseau instaura contro il progresso un nuovo primitivismo, Munch e gli espressionisti protestano, i simbolisti contrappongono lo spiritualismo dell'arte al positivismo della borghesia. Sono i primi sintomi di una volontaria dissociazione dell'arte dalle attività ‛normali' della società. Non si crede ad una possibilità di riforma: se i modi operativi dell'arte non possono assolutamente conciliarsi con quelli della società, non v'è ragione di mutarli. Al tentativo progressista delle avanguardie, e specialmente del futurismo, si contrappongono subito movimenti contrari, come in Italia la pittura metafisica: all'arte che vuole essere del proprio tempo si oppone un'arte senza tempo, all'arte che vuol essere partecipazione ed azione si oppone un'arte priva di ogni rapporto con la realtà, indifferente ed immobile, irreale e lucida come i sogni. È la premessa di quella che sarà poi, nel 1924, la poetica del surrealismo, per cui la sfera propria dell'arte non è più quella della coscienza (come per Cézanne e i cubisti), ma quella del sogno o dell'inconscio: si afferma così, contro le istanze collettivistiche del costruttivismo, il carattere individuale dell'arte, ma l'individuo è dato come non avente coscienza di sé, indistinto (v. futurismo; v. surrealismo).
Più drastica è la posizione assunta, durante la prima guerra mondiale, dal dadaismo, poiché v'è contraddizione tra le tecniche dell'arte e le tecniche industriali, e queste ultime sono ormai dominanti, l'arte non può essere altro che un'operazione atecnica, senza un progetto e senza un fine. Quando Duchamp, nel 1916, espone, firmandolo con un nome qualsiasi, un orinatoio, non intende certamente presentarlo come un valore estetico, ma come un'opera d'arte, sia pure dissacrata: di fatto, si è limitato a prendere un qualsiasi oggetto, a isolarlo dal suo contesto abituale, a sottrarlo alla sua funzione pratica. Poiché considera la società come fondamentalmente inestetica e interessata soltanto alla pratica utilitaria, un comportamento diverso dal comportamento inestetico diventa, automaticamente, un comportamento estetico. Si delinea fin da quel momento la tendenza, che si svilupperà soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, a disgiungere l'artisticità, come tipo di comportamento, dall'oggetto artistico: in una società il cui comportamento è antiartistico e tecnicistico, un comportamento atecnico è dato a priori come un comportamento artistico. All'opposto del costruttivismo, che tende a correggere il comportamento sociale, il dadaismo tende ad affermare un tipo di comportamento opposto a quello della società: se dunque l'atteggiamento delle correnti costruttiviste è critico, quello del dadaismo e delle sue derivazioni è di netta contestazione. Questa investe, logicamente, anche l'arte che la società riconosce come valore: quando Duchamp disegna un paio di baffi su una riproduzione della Gioconda di Leonardo non si propone certamente di deturpare un capolavoro, ma di contestare la convinzione acritica che sia un capolavoro, di demistificare un pregiudizio radicato (v. dada; v. costruttivismo).
3. I ‛beni culturali'
L'ipotesi che la società del nostro tempo, nonostante il suo appariscente e fittizio interesse per l'arte, sia intrinsecamente incapace di sviluppare attività artistiche o creative trova una chiara verifica nell'uso che si fa dell'arte del passato: una società che devalorizza e disperde il proprio patrimonio di valori artistici non può veramente desiderare di accrescerlo. Benché in nessun'altra epoca siano state emanate leggi così severe né organizzati servizi così competenti e attrezzati per la conservazione dell'ambiente storico e naturale e del patrimonio artistico, mai come nel nostro secolo le manomissioni intenzionali e le perdite dovute all'incuria sono state tali da giustificare il sospetto di un'inconscia (né sempre inconscia) volontà distruttiva. Nel corso delle due guerre mondiali, specialmente della seconda, molte città europee, la cui figura era caratterizzata da monumenti famosi e talvolta dalla sopravvivenza di antichi complessi ambientali, sono state in gran parte distrutte da bombardamenti aerei indiscriminati; e molte opere d'arte sono state trafugate o sono andate distrutte. In tempo di pace, a dispetto delle leggi restrittive impunemente violate, la speculazione immobiliare ha sfruttato senza discernimento o ritegno il suolo delle città, dilatando smisuratamente i perimetri, operando sventramenti vandalici e in definitiva inutili, accumulando giganteschi e malsani blocchi edilizi, allontanando dai centri storici, per serbarli agli affari, i quartieri d'abitazione, distruggendo insomma la figura storica non meno che il contenuto sociale degli aggregati urbani. I monumenti, quando pure sono stati risparmiati, sono stati isolati dal loro contesto storico stoltamente distrutto; l'edilizia antica, che pure formava ancora il tessuto vivente delle città, è stata rasa al suolo per consentire un più intenso sfruttamento del terreno. Le zone libere, i giardini, gli spazi aperti alla vita della comunità sono stati brutalmente occupati. La città come residenza di una comunità è scomparsa; e poiché, in tutta la sua storia, l'arte è il prodotto di tecniche urbane per la costruzione dell'ambiente della vita sociale, o della città, non può sorprendere che la fine dell'arte consegua alla fine della città.
Una sorte non meno infausta è toccata alla campagna, che della città costituiva il complemento naturale essendo complementari, nella cultura del passato, i concetti di storia e di natura. La lebbra della speculazione immobiliare, dell'edilizia intensiva, degli impianti industriali si è estesa a tutto il territorio, non risparmiando neppure i luoghi più celebrati per la bellezza della natura; l'industrializzazione del territorio e delle stesse culture agricole ha imposto nuove reti di comunicazioni e nuovi sistemi di attrezzature che hanno sconvolto ovunque, ma specialmente in Italia, l'orografia e l'idrografia di intere regioni. Vincoli, divieti, interventi moderatori non servono: sembra che un'incompatibilità insanabile si sia instaurata tra la società e l'ambiente storico e naturale dell'esistenza. L'angoscioso problema di Venezia, a cui si vuol dare uno sviluppo industriale che segnerà la fine sicura della città storica, è il caso-limite di una crisi che non minaccia soltanto la figura storica delle città, ma l'istituto urbano, la città come sede e centro di civiltà, la stessa concezione dello spazio come dimensione della vita. Quanto poi alle condizioni oggettive dell'esistenza, i recenti studi ecologici hanno dimostrato che lo sviluppo tecnologico industriale determina ovunque, nelle città come nel territorio, condizioni avverse alla vita biologica; né si può chiedere che una società crei o riformi il proprio ambiente quando la sua esistenza è minacciata dall'ambiente che è costretta ad accettare.
Quanto al patrimonio di cose mobili, si tratti di opere d'arte o di manufatti dell'antico artigianato (il cui livello non è sempre inferiore a quello delle opere d'arte propriamente dette), fenomeni tipici del nostro secolo sono la dispersione delle vecchie raccolte, la spoliazione di chiese e monasteri, la crescente frequenza dei furti, la degradazione dei monumenti a causa dell'inquinamento atmosferico.
In una società essenzialmente economica, in cui non si concepisce il valore se non in termini di costi e di prezzi, anche i beni culturali e le opere d'arte, antiche o moderne, vengono considerati alla stregua di merci pregiate; e il conseguente traffico determina, nel migliore dei casi, il loro allontanamento dai luoghi d'origine. Si è avuto così, fin dagli ultimi decenni del secolo scorso, un massiccio trasferimento di opere d'arte dai paesi economicamente più deboli ai più forti, e specialmente dall'Europa e dall'Oriente asiatico agli Stati Uniti d'America, dove una parte notevole dei redditi industriali è stata impiegata a formare collezioni private e pubblici musei, che talvolta comprendono interi complessi monumentali smontati e rimontati.
In senso più lato, la cosiddetta ‛rivoluzione industriale' ha determinato la crisi delle tecniche artigianali, dei mestieri tradizionali, dell'economia fondata sul lavoro individuale. Le attività artistiche superiori si sono così trovate isolate da tutto l'insieme di attività pratiche a cui, nel passato, erano collegate. Nella nuova configurazione della società, e in quella della città, che la riflette, l'arte non ha più una collocazione né una funzione sociale; la sua tradizione si esaurisce e arresta riducendosi alla velleitaria e impotente conservazione di forme scadute, di cui non s'intende o si fraintende il significato storico.
4. Il rapporto con le ideologie politiche
Mirando a reinserirsi nel processo storico, a ricollegarsi con le attività sociali, a concorrere alla formazione delle nuove strutture, tutta l'arte del sec. XX è in rapporto, diretto o indiretto, con le situazioni politiche. Il distacco da ogni tradizionalismo e la scelta di procedimenti sperimentali orientano l'arte moderna verso le ideologie progressive, più o meno dichiaratamente socialiste. In quanto poi il tradizionalismo si concretava nel prolungamento di tradizioni figurative nazionali, fin dal principio del secolo le correnti artistiche avanzate mirano alla costituzione di una cultura artistica soprannazionale, europea: lo stesso contrasto dialettico tra una tendenza di origine impressionista, francese, e una tendenza espressionista, tedesca, rivela, nei primi decenni del Novecento, l'aspirazione di riunire le due grandi componenti, classica e romantica, della cultura europea. Esplicitamente socialista e vagamente mirante a fondare l'internazionale dell'arte sull'internazionale dei lavoratori è, sullo scorcio del sec. XIX, la polemica di Morris, da cui discende e si diffonde in tutta l'Europa il progressismo umanitario dell'art nouveau.
A svincolare l'arte dalle tradizioni nazionali ormai sfigurate e scadute hanno fortemente contribuito le correnti che, dall'impressionismo in poi, fanno dipendere l'espressione artistica dalla sensazione visiva immediata, immune da ogni pregiudiziale culturale: verso il 1910 i cubisti cercano di determinare una struttura ‛obiettiva' della forma artistica, al di sopra di tutti i linguaggi artistici nazionali. Il cubismo rimane infatti la base di quasi tutto l'‛europeismo' artistico della prima metà del secolo (v. cubismo).
Una più marcata qualificazione ideologica hanno i movimenti di avanguardia che, richiamandosi più o meno direttamente al cubismo, si sviluppano a partire dal 1910 nei paesi in fase di sviluppo industriale, specialmente in Italia e in Russia. L'ideologia futurista è assai confusa: auspica una rivoluzione, ma mescola all'ideologia socialista un esasperato nazionalismo ed una prefascistica esaltazione della potenza, della violenza, della guerra. L'avanguardia russa è il solo movimento d'avanguardia che si sia trovato coinvolto in un concreto processo rivoluzionario: non soltanto le opere e gli scritti di Tatun, Malevič, Rodčenko, El Lissitzky hanno una forte carica ideologica, ma le trasformazioni della struttura e della finalità dell'operazione artistica teorizzate ed attuate dal costruttivismo sovietico costituiscono il solo fatto veramente rivoluzionario nella storia dell'arte contemporanea.
I movimenti costruttivisti tedeschi (Bauhaus) e olandesi (De Stijl), pur collegati con il costruttivismo russo, hanno un carattere prevalentemente riformistico, socialdemocratico. La loro ideologia prevede una società senza classi, ma esclude la lotta di classe; propone il livellamento del modo di vita attraverso l'impiego generalizzato di prodotti di serie, ma riconosce all'artista-progettista una posizione di privilegio e una funzione di guida: il suo scopo, infine, è di correggere il sistema industriale-capitalistico, di persuadere la borghesia tecnica a esercitare una direzione sociale nell'interesse di tutti, rinunciando all'esclusività del profitto e alle mire di potere. Il vago europeismo delle correnti moderniste del principio del secolo si precisa tuttavia in internazionalismo dialettico: l'assoluta razionalità della forma è il superamento di tutte le tradizioni. L'architettura ‛razionale' viene anche chiamata ‛internazionale' e ‛democratica': ed è considerata lo strumento più appropriato per conseguire il livellamento delle classi sociali. La cosiddetta école de Paris è un assieme quanto mai eterogeneo e fluttuante di artisti provenienti da tutti i paesi del mondo, specialmente nell'intervallo tra le due guerre, alla ricerca di una consacrazione che solo la ‛capitale' dell'arte (e del mercato artistico) poteva dare. Gli artisti che si sono stabiliti o hanno soggiornato a Parigi per lunghi periodi sono in realtà molto più numerosi di quelli che di solito si elencano tra gli adepti della fantomatica école, e cioè l'italiano Modigliani, il polacco Kisling, il bulgaro Pascin, i russi Chagall e Soutine. Il fatto che questi artisti fossero ebrei ha indotto qualche critico a cercare nella loro opera un fondo comune: in realtà non v'è motivo di separare quegli artisti dai molti altri (per far solo qualche esempio: gli italiani Severini e Magnelli, il rumeno Brâncuşi, i russi Archipenko e Lipschitz, il giapponese Foujita, lo spagnolo Gris, ecc.) che si sono stabiliti o hanno lungamente dimorato a Parigi, la città dove tutte le tendenze parevano convergere e incontrarsi. A Parigi o, comunque, in Francia v'erano inoltre quelli che tutti ormai riconoscevano come i grandi maestri dell'arte moderna: Picasso, Matisse, Braque. Naturalmente quell'eterogeneo ambiente di artisti non poteva avere un indirizzo ideologico: negli stessi anni in cui le correnti costruttiviste mirano a un organico internazionalismo, la cosiddetta école de Paris è un tipico caso di cosmopolitismo artistico. Il solo ideale comune è quello dell'assoluta libertà dell'arte: da ogni forma di pressione od oppressione politica e da ogni limite moralistico, ma anche dai programmi, dalla disciplina dei gruppi, da quelli che si chiamavano gli ‛ismi' dell'arte contemporanea.
Il surrealismo, ponendo l'arte come il rilevamento e l'espressione degli impulsi inconsci, non poteva evidentemente accettare le tesi razionaliste dei costruttivisti né la loro ricerca di un raccordo operativo con la società; identifica perciò l'impulso dell'inconscio con l'impulso rivoluzionario e assume una posizione di estremismo ideologico di sinistra, per altro non condivisa da tutti gli aderenti al movimento, alcuni dei quali ripiegano su posizioni opposte, reazionarie (per es. Dali).
Le implicazioni politiche dell'arte moderna hanno determinato, da parte del potere politico, reazioni che sono andate molto al di là della tradizionale avversione delle sfere ufficiali verso ogni tentativo di innovazione. I regimi totalitari, indipendentemente dai loro contenuti ideologici, hanno contrastato e, spesso, proibito e perseguitato tutte le ricerche avanzate cercando di sopraffarle con un'arte ‛di stato': ed è significativo che gli stessi movimenti siano stati condannati dal fascismo e dal nazismo come ‛sovversivi e bolscevichi' e dallo stalinismo come ‛borghesi'. Se in Italia la persecuzione non è andata al di là delle polemiche, delle minacce, del boicottaggio nelle pubbliche manifestazioni, in Germania si è giunti a gravi misure poliziesche e alla distruzione materiale delle opere dei maggiori artisti moderni e, in Russia, alla proibizione di ogni attività artistica che non rientrasse nelle direttive del Partito. Naturalmente la cosiddetta ‛arte di stato', generalmente praticata da mediocri mestieranti, non ha prodotto una sola opera d'arte; tuttavia la persecuzione politica contro l'arte moderna ha avuto conseguenze notevoli in quanto ha determinato l'esodo di molti artisti verso i paesi democratici, prima dalla Russia verso la Germania, l'Olanda, l'Inghilterra, poi dalla Germania verso gli Stati Uniti, infine dalla Francia occupata dai nazisti verso l'America.
Sull'indirizzo e l'impegno politico dell'arte contemporanea hanno influito, affrettando e poi precipitando la crisi, le due guerre mondiali. L'avversione contro la borghesia, che caratterizza le correnti artistiche avanzate dal romanticismo in poi, si precisa dopo la prima guerra mondiale in una critica o addirittura in una recisa condanna del sistema. Che la guerra fosse una conseguenza disastrosa dell'economia industriale-capitalistica era evidente: ma si trattava di stabilire se l'errore fosse ‛nel' sistema o ‛del' sistema. Per gli architetti razionalisti e le correnti costruttiviste l'errore era ‛nel' sistema, e si poteva correggere: Le Corbusier si accontenta di pregare gli industriali di fabbricare case invece che cannoni, Gropius propone di togliere ai capitalisti e affidare ai tecnici l'iniziativa e la direzione della produzione industriale. Il sistema tecnologico dell'industria ne viene però coinvolto nella responsabilità del disastro: è e rimane una meravigliosa conquista dell'umanità che la classe dirigente ha gestito male facendone uno strumento di distruzione, ma che, diretto dai tecnici a fini sociali, è il solo strumento di una sicura ricostruzione ed anzi di una ri-creazione della civiltà europea. Per i dadaisti l'errore era ‛del' sistema, che doveva dunque rifiutarsi in blocco: non solo, ma se la guerra era la conseguenza logica del sistema, per opporsi al sistema l'arte doveva essere l'opposto della logica, puro arbitrio.
Indipendentemente da ogni preciso assunto ideologico, il sistema politico-economico viene da altri condannato per la sua fondamentale immoralità. La corrente della Neue Sachlichkeit (nuova oggettività), che si forma in Germania subito dopo la prima guerra, ha le sue radici nella protesta sociale dell'espressionismo, ma duramente constata e denuncia la specifica condizione di marasma provocata da una sconfitta di cui i veri responsabili, militari e industriali, cercavano di addossare la colpa alle vittime, soldati e operai. La nuova oggettività (che si sviluppa contemporaneamente nell'arte figurativa, nella narrativa, nel cinema) prescinde da ogni sistema convenzionale di rappresentazione per mettere a fuoco, nel modo più crudo, la realtà della situazione; e poiché la situazione è assurda rispetto ad ogni legge morale, la deformazione delle figure corrisponde alla realtà di una deformità psicologica e morale. I disegni di Grosz non sono soltanto aspramente satirici: sono vere e proprie ‛radiografie' che rivelano i moventi profondi e inconfessabili della volontà di potere della classe dirigente; ed è significativo che Grosz si valga dei più moderni sistemi di rappresentazione (espressionismo, cubismo, futurismo) per scomporre, vivisezionare, rivelare nel modo più spietatamente veridico il vizio del potere borghese ed i suoi moventi. Meno impegnato in quotidiane battaglie politiche (i disegni di Grosz erano destinati alla stampa), Dix insiste sulla correlazione tra degenerazione della morale borghese e distruttiva volontà di potere; Beckmann raffigura il potere come l'insorgere di una mitologia ctonia, che sconvolge l'ordine e l'armonia della natura; Kokoschka come il dissolversi del cosmo nel disordine e nella confusione del caos (v. espressionismo).
Tra le due guerre, l'impegno delle correnti costruttiviste rivolto a fare della ricerca estetica un fattore di equilibrio razionale, di cooperazione tra i popoli, di unità culturale europea, di un nuovo ordine sociale non esclude, al contrario, l'affermazione delle grandi personalità. Matisse rimane il grande ‛classico', l'artista che in ogni sua opera manifesta nell'essenzialità del segno, nella sintesi dei colori che racchiudono nei più semplici accordi il massimo di spazio e di luce, una concezione globale dell'universo. Braque, che con Picasso era stato il creatore del cubismo, dimostra che il lavoro artigianale dell'artista può svilupparsi dalle proprie premesse senza trasformarsi nella metodologia del tecnico progettista né sublimarsi nella poeticità letteraria del simbolismo né ridursi all'automatismo surrealista. Picasso rimane il modello del ‛genio creatore', che muta maniera senza smarrire la propria coerenza: come aveva iniziato e lanciato il cubismo così, verso il 1925, si accosta al surrealismo e, poi, sperimenta processi molto vicini a quelli dell'astrazione geometrica, ma sempre e soltanto per dimostrare che, se le correnti ed i movimenti hanno tutti una ragione di essere, pure non costituiscono che l'occasione contingente all'attuarsi di quell'incoercibile creatività che è propria dell'artista: una creatività, tuttavia, che non si manifesta come eternità e universalità (come in Matisse), ma come attualità assoluta. L'artista non è dunque al di sopra della realtà politica: la sua libertà non è affatto immunità, anzi si realizza proprio nella forza e nella chiarezza dei suoi interventi. Quando la situazione politica europea diventa oscura e minacciosa con la conquista del potere da parte del fascismo in Italia, del nazismo in Germania, del falangismo in Spagna, Picasso si mette alla testa della rivolta degli intellettuali europei: dopo avere attaccato duramente il regime spagnolo con le incisioni Sogno e menzogna di Franco (1936), nel 1937 dipinge, per il padiglione del governo repubblicano all'esposizione internazionale di Parigi, il grande quadro Guernica, grandiosa allegoria storica del massacro della città basca da parte dell'aviazione nazista al servizio di Franco.
In Italia, dove il fascismo condannava come antinazionale ogni rapporto con la cultura straniera, assumono carattere di tacita opposizione al regime tutte le attività che non si uniformano alle direttive del regime: l'architettura e l'urbanistica ‛razionali' che ricusano la falsa ‛monumentalità imperiale'; la scultura che rifiuta di celebrare i fasti del regime; la pittura che si pone come pura ricerca, negandosi alla propaganda e all'illustrazione. Se non pochi artisti proseguono isolati le loro ricerche, giungendo ad alti livelli qualitativi (valga per tutti l'esempio ammirevole di Morandi), già verso il 1930 appaiono i segni di una velata e poi sempre più esplicita e coraggiosa protesta ‛espressionista' (Scipione, Mafai, i giovani del gruppo Corrente, Guttuso, Birolli), che si farà più aspra con lo scoppio della guerra e l'occupazione tedesca. L'arte della resistenza non ha avuto una linea programmatica; ha rispecchiato uno stato d'animo di rivolta morale e civile, la disperazione di una condizione umana che faceva di ogni individuo un ostaggio e una vittima.
Dopo la guerra si è posto, in Europa, il problema di una seconda ricostruzione culturale attraverso il riesame critico non solo dell'arte, ma di tutto il movimento culturale europeo che, pur proponendosi finalità politiche, non aveva saputo contrastare l'ascesa dei regimi totalitari e la distruzione della libertà. Si riconosce la necessità dell'impegno politico come condizione dell'esistenza stessa dell'arte e si ravvisa in Picasso (che assume una precisa posizione politica aderendo al Partito Comunista) l'esempio dell'artista politicamente impegnato. L'illusione che alla tragica esperienza della guerra seguisse un profondo processo rivoluzionario, in cui all'arte sarebbe toccato il ruolo di nuova avanguardia, doveva avere una breve durata: da un lato i partiti comunisti occidentali, guardando al modello russo e all'antiformalismo dello Ždanov, cercano di dar vita ad un ‛realismo socialista' ostile ad ogni ricerca formale e rivolto alla mera illustrazione di contenuti politici; dall'altro si riafferma la tesi delle avanguardie storiche, per cui soltanto trasformando le proprie strutture l'arte può concorrere alla trasformazione delle strutture sociali. Tra 1950 e 1960 si diffonde in tutto il mondo una tendenza nuova, che va sotto il nome generico di informalismo (v. informale) e che muove, almeno in Europa, dalla cosiddetta ‛filosofia della crisi', cioè dal pensiero esistenzialistico. Anche se all'origine è ancora il tema dell'angoscia e della disperazione esistenziali, che aveva trovato un'atroce verifica nella condizione umana determinata dall'oppressione politica, le correnti informali non hanno una direzione politica: di fatto non si presentano neppure come un insieme di correnti, ma come una crisi finale che colpisce ugualmente tutte le tradizioni dell'arte moderna. Hanno bensì un carattere di protesta che talvolta si precisa in esplicita rivolta contro l'arbitrio del potere politico (Corea, Ungheria, Vietnam ecc., come nel caso di Vedova); ma in realtà la protesta ha un obiettivo più vasto, la condizione di non-libertà o di alienazione, in cui il sistema neocapitalista pone l'individuo e la società.
5. I movimenti americani
Il fatto saliente nella storia dell'arte del sec. XX è il passaggio dall'Europa all'America del centro della cultura artistica mondiale. Fino a tutto il XIX secolo l'arte americana è praticamente tributaria dell'europea, ‛coloniale'. Soltanto nell'architettura i modelli europei vengono variati in rapporto alla diversa organizzazione sociale, al diverso modo di vita, alla disponibilità di materiali diversi. È una scoperta americana, nella prima metà del sec. XIX, la balloon frame, struttura lignea leggera ed elastica, che già presuppone l'impiego di elementi prefabbricati dall'industria. Nella seconda metà del secolo, Richardson è il primo architetto-artista che non si ponga soltanto problemi pratici, tecnici e d'ornato, ma affronti il problema di una forma plastica unitaria, di una complessa articolazione di masse, precedendo di quasi vent'anni l'indirizzo neoromanico dell'olandese Berlage. Negli ultimi decenni del secolo si forma a Chicago una vera e propria scuola architettonica, che ha il suo massimo esponente in L. H. Sullivan, ‛il profeta dell'architettura moderna': ‟promulgò l'architettura organica perché era convinto che un edificio, incorporando la vita, dovesse venir concepito come un essere vivente", e se sostenne che ‟la forma segue la funzione [...] per funzione non intese mai fenomeni meramente meccanici e utilitari, sibbene il risultato di tutte le realtà intellettuali, spirituali e pratiche, la espressione cioè dell'interna vita che si svolge in un edificio" (v. Zevi, 1950, pp. 394-395).
Il tipo edilizio caratterizzante del paesaggio urbano americano, il grattacielo, che fino a quel momento era solo uno sviluppo quantitativo o dimensionale della tipologia edilizia europea, acquista una nuova struttura, relativa appunto alla sua verticalità, e si trasforma così in un nuovo tipo formale, qualitativo. Si forma con Sullivan, F. L. Wright, forse il maggiore architetto del nostro secolo, il creatore di quella che si chiama l'architettura ‛organica' in contrasto con il razionalismo europeo. Se già Sullivan pensava l'artista come profondamente integrato nella società, interprete del suo ‛spazio vitale', Wright si sente predestinato non soltanto ad interpretare, ma a liberare e potenziare le forze creative che la società attinge dal suo profondo, vitale contatto con la realtà. Egli osserva che un'architettura organica implica una società organica; mentre là dove non esiste per l'uomo un equo sistema di vita, consono al suo sviluppo e atto a renderlo migliore, non vi sono speranze per una buona architettura. Afferma che l'architettura organica è intrinsecamente democratica, e tutta la sua opera si fonda sul principio della fondamentale organicità-democraticità della società americana: non v'è dunque motivo di lotta, né ragione di impegnare l'architettura, o l'arte, in azioni riformistiche o rivoluzionarie. La straordinaria novità formale dell'architettura di Wright nasce appunto dalla vocazione, che è propria dell'artista, di mettere in diretto rapporto la civiltà e la natura: la plastica delle sue forme riprende e sviluppa i motivi formali del luogo, gli stessi materiali sono quelli che il luogo fornisce. Il progetto non deve nascere da una astratta teoria dello spazio, come poi nel razionalismo europeo, ma dalla realtà fisica del sito. La concezione dello spazio di Wright non è geometrica, ma ecologica: quando affronta il problema urbanistico non cerca, come gli urbanisti razionalisti, di suddividere equamente lo spazio secondo le necessità oggettive della comunità, ma si preoccupa di assicurare a tutti gli abitanti della sua città ideale (Broadacre city) il personale, vivificante contatto con la natura, la terra. Nonostante il suo immenso prestigio, tuttavia rimane il grande artista di cui la società americana si vanta più che non si valga.
Nell'arte figurativa solo alla fine del XIX e al principio del XX secolo si manifesta una corrente tipicamente americana, realistica (Homer, Henry, Eakins, Sloan), indipendente dagli esempi storici europei, rivolta a cogliere con esasperata obiettività gli aspetti della vita. Già nel primo decennio del secolo il fotografo Stieglitz allestisce nella propria galleria mostre di arte moderna europea; poco più tardi, nel 1913, la famosa Armory show fa conoscere al gran pubblico americano gli impressionisti, Cézanne, van Gogh, i nabis, i fauves, i cubisti, Duchamp, Picabia. Da questa mostra, che fece scandalo, comincia la grande avventura dell'arte americana. Nascono frattanto le prime collezioni d'arte contemporanea: i nuovi collezionisti non sono più i magnati dell'industria che avevano trasportato in America i tesori dell'arte antica europea e orientale, ma intellettuali inquieti che vanno a Parigi per frequentare gli artisti e assicurarsi le primizie del loro lavoro. Duchamp è il primo artista europeo d'avanguardia che si stabilisce a New York: con Stieglitz, Picabia, Man Ray dà vita a un movimento d'indirizzo dadaista, che si ricongiungerà poi con il dadaismo europeo. Si formano le prime tendenze avanzate collegate con i movimenti europei e, naturalmente, in contrasto sia con l'arte ufficiale sia con i pittori realisti della ‛scena americana'. La prima rappresentava la destra conservatrice, la seconda la sinistra decisa a fare dell'arte uno strumento di denuncia e di lotta sociale e politica. La guerra, in cui l'America combatte a fianco delle democrazie europee; rinsalda i rapporti: molti artisti europei vanno a lavorare, per periodi più o meno lunghi, negli Stati Uniti; più tardi, con la persecuzione nazista, emigrano in America molti artisti tedeschi, tra cui Gropius e quasi tutti i docenti del Bauhaus. Una seconda ondata migratoria, dalla Francia, si ebbe durante la seconda guerra: si deve indubbiamente all'influenza del surrealismo il distacco degli artisti americani dall'astrattismo geometrico e dalle ricerche costruttiviste. ‟Fino al 1947 almeno, la maggior parte degli artisti americani protagonisti dell'espressionismo astratto attinsero alle fonti defigurate del surrealismo europeo, da Mirò a Masson, a Klee, alle manifestazioni più violente della distruzione dell'immagine del Picasso dei mostri e di Guernica, e a tutte quelle poetiche che rimandavano all'arte primitiva come manifestazione dell'inconscio collettivo" (v. Volpi, 1969, p. 33).
La figura-chiave di questo delicato momento di raccordo tra la vecchia cultura figurativa e la nascente arte americana è quella di Gorky che, possedendo un'esperienza profonda dei ‛linguaggi' formali europei, compie una duplice operazione di de-semantizzazione e di ri-semantizzazione: in altri termini, svuota i segni dell'arte europea del loro riferimento ad un sistema ‛storico' di significati e li rianima come significanti di una condizione esistenziale originaria e insopprimibile, in cui la realtà psichica si confonde con la realtà biologica. La ‛scuola di New York', detta anche dell'espressionismo astratto o della action painting per l'innovazione tecnica del dripping introdotta da Pollock nel 1946, vuole essere appunto la manifestazione immediata di una vitalità profonda che, liberata da ogni condizionamento repressivo, recupera nel ritmo istintivo del gesto pittorico il dinamismo di moventi oscuri, di mitologie remote, primitive. Quel gesto che rivela o realizza l'angoscia di una vitalità repressa implica tuttavia, al di là di ogni interesse sociale e politico diretto, una volontà di rivolta contro l'agente della repressione e cioè contro il sistema tecnologico, economico, sociale americano: all'ideologia del benessere si contrappone la disperante angoscia dell'individuo, alla regolarità del comportamento tecnologico la gestualità istintiva, non-progettabile, dell'artista. ‟L'artista francese considera se stesso come il campo di battaglia della storia, da noi invece ciascuno si sente immerso nella propria notte fonda" (v. Rosenberg, 1961; tr. it., p. 19).
Così la action painting americana come l'informalismo europeo non oppongono l'anti-tecnica di un'arte gestuale e materica alla tecnologia industriale come una possibile alternativa, ma oppongono il comportamento individuale e incondizionato dell'artista al comportamento collettivo condizionato dalla tecnologia industriale. La rivolta dell'artista non ha programmi né prospettive di successo: poiché il sistema non minaccia soltanto la libertà, ma l'esistenza stessa dell'individuo, l'arte è l'ultimo segno dell'esistenza, la sua fine. Si chiude così il periodo che ha veduto l'arte impegnata nella problematica sociale e politica: dopo il problema non concerne più le scelte ideologiche e la formulazione di programmi d'azione, ma la possibilità o la non-possibilità di sopravvivenza dell'arte nel quadro di una società dei consumi e di una cultura di massa.
6. Il rapporto con la scienza, la letteratura, il teatro, il cinema
L'arte contemporanea non è tale soltanto perché ‛è' l'arte del nostro tempo, ma perché ‛vuole' essere del proprio tempo: contemporanea e partecipe, in senso positivo o negativo, della situazione non soltanto politica ma culturale. Col declinare della tradizionale professionalità dell'arte e col disgregarsi del relativo sistema tecnico, emerge la necessità di mettere le attività artistiche in relazione con gli altri rami della cultura: le scienze, la filosofia, la poesia, il teatro, ecc. Gli impressionisti distruggono tutte le convenzioni rappresentative proprie del ‛mestiere' pittorico (prospettiva, chiaroscuro, soggetto, composizione, ecc.) e pongono l'arte come visività pura, resa immediata delle sensazioni visive nella loro impregiudicata autenticità: ma qual è il valore ‛culturale', e non soltanto sperimentale, della nuova esperienza? Sono gli anni in cui si perfeziona e divulga un mezzo ‛scientifico', la fotografia, per la ripresa oggettiva del vero: che cosa distinguerà la pittura dalla fotografia? Gli impressionisti accentuano ciò che la fotografia non può, per il momento, cogliere, il colore; Monet, nell'ultima fase, dissolve addirittura l'immagine nella materia cromatica. I simbolisti, accostandosi alla poetica di Mallarmé, sconfinano nel vasto dominio delle immagini non-percettive, mnemoniche, oniriche, eidetiche: l'arte non è un modo di percepire, ma di far percepire ciò che non è percepibile. Seurat, Signac e i neoimpressionisti assumono la sensazione visiva come dato da analizzare con metodi propri della scienza ottica: scompongono la luce nelle sue componenti cromatiche. Van Gogh contesta la possibilità di una percezione oggettiva: la percezione della realtà è intensificata e deformata dalla condizione interiore dell'artista. Il principio della pura visività, per cui le forme artistiche sono portatrici di un proprio significato o contenuto conoscitivo indipendente dal soggetto dell'opera, è teorizzato dal Marées, dallo Hildebrand e specialmente dal Fiedler e dal Wölfflin; la storia dell'arte diventa così la storia delle forme, la ricerca verte sulla struttura dei puri dati visivi. Per i pittori nabis, al principio del secolo, un quadro non è che una superficie colorata; ma proprio questa riduzione dell'arte a pura immagine visiva la pone in parallelo alla poesia, il cui valore non è più nei concetti, ma nelle immagini verbali, nel significato dei suoni. Di qui la collaborazione tra artisti e letterati, che si attua nella ‟Revue blanche" (1891-1903): gli artisti sono Toulouse-Lautrec, Sérusier, Bonnard, Vuillard, Denis; i letterati i fratelli Natanson, Mirbeau, Jarry, Fénéon.
Soltanto nel 1906, anno della sua morte, gli artisti moderni possono valutare l'enorme importanza di Cézanne, che da decenni lavorava isolato ad Aix-en-Provence. Da questa rivelazione quasi improvvisa dipende lo sviluppo della pittura contemporanea fino al cubismo ed oltre. Anche Cézanne si era reso conto che la pittura non poteva fermarsi alla resa genuina della sensazione visiva, come volevano gli impressionisti con i quali aveva lavorato ed esposto nella famosa mostra presso il fotografo Nadar (1874) e poi ancora nel 1877: tutta la sua ricerca è rivolta a costruire sulle sensazioni visive uno stato della coscienza che non può altrimenti conseguirsi che nell'impegno dell'operazione pittorica.
Per Degas e per Toulouse la fotografia è uno strumento necessario dell'arte: coglie infatti una quantità di figure e movimenti che l'occhio non afferra perché non arriva a separarli dai precedenti e dai successivi. Non si tratta soltanto di utilizzare un mezzo meccanico che permette una percezione più rapida, istantanea: grazie alla fotografia si può passare da un impressionismo puramente visivo ad un impressionismo psichico, che apre la possibilità di nuovi campi di esperienza e risponde al dinamismo di una mentalità veramente moderna. Con la produzione industriale degli apparecchi la fotografia è ormai alla portata di tutti, le sue immagini istantanee appartengono all'esperienza visiva della collettività: è un fatto di cui gli artisti debbono tener conto se vogliono mantenere il contatto con la sensibilità del pubblico. Ben presto la fotografia stroboscopica e poi il cinematografo permettono la resa del movimento attraverso una successione d'immagini: il quadro (e in genere l'opera d'arte), fissando l'immagine mutevole in un oggetto immutabile, rischia di diventare qualcosa di anacronistico che la psicologia del pubblico finirà per rigettare. Per Degas e Toulouse la rapida annotazione grafica degli aspetti non solo visivamente ma psicologicamente più interessanti diventa il procedimento essenziale dell'arte: il quadro non è che la somma e l'interrelazione di appunti, ciascuno dei quali deve conservare, per l'intrinseca vitalità dei segni, l'immediatezza originaria. Gli stessi scultori (Rodin, Rosso) sensibilizzano la forma plastica ad una variabilità di effetti, che non soltanto discende dalla luce e dal colore degli impressionisti, ma dalla ripresa istantanea della fotografia. L'arte può anche lasciare alla fotografia il primato della rappresentazione, ma rivendica il primato della comunicazione emotiva. Toulouse (presto seguito da Forain, da Steilein, da Bonnard) è il primo a scorgere nella pubblicità molto più che un'applicazione artistica a finalità pratiche: il cartello pubblicitario, infatti, non interessa per quello che rappresenta e non si offre come immagine da contemplare, ma come stimolo psicologico ad adottare un certo comportamento (acquistare un prodotto, recarsi a uno spettacolo, ecc.).
Se lo scopo non è più la rappresentazione ma la comunicazione stimolante, anche la parola scritta, come componente dell'immagine, entra a parità di diritti tra le componenti del messaggio. Già nella caricatura politica (per es. Daumier) il messaggio figurato era insignificante senza un messaggio scritto, la battuta: nella pubblicità le scritte diventano figure e come le figure vengono stilizzate, ridotte a sigle. Nasce così ed avrà sviluppi lontani uno ‛stile' pubblicitario (Cappiello, Dudovich, Cassandre, ecc.) che isola e potenzia i fattori informativi ed emotivi col fine di indurre i destinatari del messaggio a un certo comportamento, che è anche esso uno ‛stile', anzi uno ‛stile di vita'.
La riduzione dell'arte da rappresentazione a comunicazione, tema dominante dell'art nouveau, rientra nel tema dell'identificazione di arte e vita: estensione ultima del pensiero di Ruskin e di Morris, per i quali l'avvento dell'industria privava la società di quello che aveva di più vitale e creativo. Non più delimitata dalla professionalità delle varie arti, l'arte figurativa si associa e talvolta si confonde con la poesia, la musica, il teatro. Mallarmé è il primo a connettere il contesto fonetico della poesia con il contesto dei segni scritti sulla pagina; dopo di lui un altro poeta, Apollinaire, oltre ad essere il critico-partecipe dei fauves e dei cubisti, si associa alla loro ricerca, sperimenta nella poesia i procedimenti di scomposizione formale del cubismo, tenta una sintesi di poesia e immagine visiva (ideogrammi e calligrammi). Lettere e numeri entrano nei quadri dei cubisti e dei futuristi; i titoli diventano parte integrante del messaggio visivo della pittura.
L'espressionismo tedesco è il primo movimento che coinvolge nella medesima azione architettura (Bartning, Mendelsohn), scultura (Barlach), pittura (Kirchner, Heckel, Nolde, Kokoschka), letteratura, musica, teatro, cinematografo. Riprendendo su un altro piano l'ideale wagneriano dell'opera d'arte totale, si vede nel teatro il luogo dell'incontro e della somma di tutte le arti: poiché la società industriale è esteticamente inerte, l'esperienza estetica deve essere traumatizzante, sì da costringere gli spettatori ad uscire da un'attitudine di passività ricettiva trasformandosi in coro partecipe dell'azione scenica. In Francia i balletti russi di Djagilev realizzano un integrazione totale di fattori pittorici, plastici, poetici, musicali. Già nella prima fase (1909-1917), in cui scene e costumi sono di Bakst e di Benois, si connette ai moti ritmici della coreografia, scanditi dalla musica, la dinamica delle immagini visive; e poiché il rapporto è affidato al movimento dei danzatori, gli spettatori assistono al farsi dell'opera d'arte. Nella seconda fase (1917-1929) collaborano ai balletti musicisti come Satie, Stravinskij, Hindemith, Prokof'ev e pittori come Picasso, Matisse, Braque, Utrillo, Ernst, Mirò, Gris, Larionov, Gončarova. I balletti svedesi, l'Opera de Paris seguono l'esempio dei balletti russi. I movimenti di avanguardia, a cominciare dal futurismo (Marchi, Prampolini) vedono nel teatro il mezzo di una comunicazione diretta col pubblico; in Russia, specialmente con Mejerchol'd, un mezzo per l'educazione rivoluzionaria delle masse. Gli stessi apparati meccanici di ripresa vengono considerati strumenti al servizio dell'immaginazione e l'immaginazione come il primo impulso verso un'ideologia rivoluzionaria. La novità delle tecniche meccaniche dell'immagine concorre infine a intensificare il carattere sperimentale delle attività artistiche d'avanguardia, il cui scopo era di immettere una corrente di volontà creativa nelle tecniche ormai possedute e praticate dalla società. Anche le correnti costruttiviste, del resto collegate con il costruttivismo russo, annettono al teatro e al cinematografo una funzione formativa essenziale: per mezzo dello spettacolo la società esaurita dal meccanicismo ripetitivo del lavoro industriale si ricarica di energie creative. Schlemmer, pittore e insegnante di scenografia nel Bauhaus, teorizza l'integrazione totale delle arti nel teatro e ne fornisce il modello col Triadische Ballet (1924): lo scopo non è di compensare la società industriale con un'esperienza di altro tipo, ma di insegnarle a trovare un valore estetico nella prassi del suo lavoro quotidiano. Nell'urbanistica di Gropius il teatro ha una funzione decisiva nella compagine sociale: nel 1927 progetta per Piscator il Teatro totale, che elimina praticamente la distinzione tra scena e platea, attori e spettatori.
L'interrelazione e, in alcuni casi, la sintesi delle arti visive, della letteratura e della musica non elimina il problema, già posto con chiarezza dal neoimpressionismo, del rapporto di arte e scienza. La necessità di tale rapporto si precisa anzitutto per l'architettura: già nella seconda metà del secolo scorso la disponibilità di materiali come il cemento e il ferro modifica radicalmente il sistema tradizionale delle costruzioni, fondato sull'equilibrio statico di pesi e spinte. Il computo delle tensioni e delle resistenze implica una nuova scienza delle costruzioni, che determina con precisione non soltanto la massa, ma la sezione e la modulazione plastica degli elementi costruttivi; inoltre permette di concepire la costruzione non più come un volume chiuso in uno spazio dato, ma come una struttura lineare che si sviluppa nello spazio infinito al di là di ogni tradizionale legge proporzionale. È facile constatare la fondamentale affinità tra questa concezione dello spazio come luce e atmosfera senza soluzione di continuità tra interno ed esterno e la concezione spaziale degli impressionisti. Al principio del sec. XX l'architetto austriaco Loos pone in rapporto le nuove tecniche costruttive e la nuova morfologia architettonica con le condizioni economiche della costruzione: l'impostazione scientifica non è soltanto la più giusta esteticamente, ma anche economicamente e socialmente.
Nel 1908 il cubismo opera una trasformazione radicale nei procedimenti e nelle finalità dell'arte: fonda cioè una scienza dell'arte assolutamente autonoma rispetto alla comune nozione di scienza, ma ugualmente fondata su processi d'analisi e di sperimentazione. Anche se i riferimenti a talune contemporanee conquiste della scienza, come la teoria della relatività di Einstein, sono soltanto significative coincidenze, è indubbio che il cubismo realizza una concezione dello spazio e della visione affini a quelle che, negli stessi anni, vengono formulate dalla scienza e formano oggetto di speculazione filosofica. Le correnti d'avanguardia, benché generalmente ricusino il rigore analitico del primo cubismo, affermano il carattere sperimentale della ricerca artistica, che dunque procede per ipotesi e verifiche, analogamente alla ricerca scientifica. Tipica, in questo senso, l'opera futurista di Balla: muovendo dallo scientismo dei divisionisti, parallelo a quello del neoimpressionismo francese, intraprende una ricerca abbastanza rigorosa sulla struttura e il dinamismo interno dei fenomeni luminosi. È allora che si precisa il carattere nettamente sperimentale, che rimarrà proprio di quasi tutta la ricerca artistica contemporanea.
Sperimentalismo è anzitutto, ma non soltanto, distacco radicale da qualsiasi tradizione, rifiuto categorico di tutto il passato, apertura prospettica verso il futuro; ma così si revoca la fiducia per tutto ciò che nel mondo è stato fatto e accettato come arte e, poiché l'arte è sempre stata posta come valore, per tutto ciò che è stato dato e accettato come valore. Il procedimento artistico sperimentale non deve dunque muovere da un'idea dell'arte perché è questa che si deve verificare e, se si muovesse dall'idea dell'arte, la verifica sarebbe soltanto una tautologia. Lo sperimentalismo artistico, infine, opera nei confronti del concetto di arte una vera e propria sospensione del giudizio, una epoché husserliana: e non è certo un caso che le correnti costruttiviste, che vedono nella sperimentazione la metodologia propria della progettazione artistica, si siano sviluppate negli stessi anni in cui si sviluppava, in Germania, il pensiero fenomenologico. Quando gli architetti razionalisti determinano, come condizioni esclusive della progettazione, un insieme di dati relativi alla finalità sociale dell'opera, alla funzionalità pratica e tecnica, alla condizione urbanistica, alla qualità e al costo dei materiali e della mano d'opera, non si propongono di fare arte né rinunciano di proposito a farne: essi semplicemente ricusano di muovere da un concetto o da una nozione di arte, allo stesso modo che Husserl, per fare della filosofia rigorosamente ‛scientifica', ricusa di partire da una nozione data di natura o da un concetto dato di logica. Analogamente, quando Mondrian dipinge un quadro stabilendo una ‛griglia' di linee ortogonali e riempiendo di colori piatti i riquadri così ottenuti, non muove da una nozione data di spazio né meno che mai da un'idea dell'arte o soltanto della pittura, ma formula un'ipotesi di spazio (ed anche dell'arte e della pittura) che troverà, o non troverà, la sua verifica nella concreta realtà dell'opera, nel Dasein o nell'‛esserci' del quadro, come entità spaziale e come pittura. Evidentemente questa istanza di rigore implica la coscienza che ogni valore accreditato dalla tradizione, compreso quello dell'arte, è scaduto o quanto meno inagibile nel sistema della cultura contemporanea, sicché può ben dirsi che la crisi dell'arte contemporanea rientri nell'ambito più vasto di quella che Husserl chiama la ‛crisi delle scienze europee. Si spiega così il fatto che le rigorose ricerche sperimentali (e la sperimentazione mira sempre a verificare l'esistenza, l'‛esserci' dell'arte) non siano affatto antitetiche, ma dialetticamente collegate con le correnti che affermano la negatività, il non-esserci dell'arte e, per conseguenza, l'arbitrarietà e perfino la contraddittorietà dell'operazione artistica, il cui fine non è l'arte ma il non-arte, essendo questo il non-valore che la società industriale sostituisce al valore-arte. Nonostante l'apparente antitesi, i movimenti De Stijl e dada, oltre che contemporanei, sono in stretto rapporto: alla loro base è il pensiero comune che l'arte ‛non c'è', e che, dunque, non si può fare altro che ricercare a quali condizioni ‛possa esserci'. Per De Stijl e le altre correnti costruttiviste la condizione prima è la trasformazione della figura tradizionale dell'artista in quella del progettista (infatti, se l'arte ‛non c'è', tutto quello che si può fare è progettarla); per i dadaisti anche i concetti di progettazione e di società (come destinataria della progettazione) sono mere petizioni di principio, l'arte è un evento che può accadere o non accadere e che, comunque, non ha alcun particolare valore, come nessun atto umano ha un particolare valore. Si può dunque dire che il dadaismo porta all'estremo l'impostazione fenomenologica del costruttivismo, anticipando le deduzioni esistenzialistiche che influenzeranno così profondamente, attraverso il pensiero di Heidegger e di Sartre, l'arte del secondo dopoguerra.
Nell'area culturale francese, specialmente dopo l'identificazione di arte e coscienza emergente dall'opera altissima di Cézanne, si va sempre più chiaramente delineando la netta distinzione dell'arte dalla scienza: non già perché l'arte sia sentimento o fantasia o intuizione, laddove la scienza è ragione, ma perché l'arte è una scienza diversa dalle scienze esatte, benché altrettanto rigorosa nei suoi procedimenti. Il punto di riferimento è, indubbiamente, il pensiero di Bergson, che non soltanto ha avuto una vasta influenza sulle poetiche letterarie (per es. Proust), ma nel suo sviluppo riflette una conoscenza meditata e partecipe dell'arte contemporanea. La distinzione bergsoniana tra ‛il modo di essere della vita interiore' e delle relative nozioni di spazio e di tempo dagli oggetti specifici della conoscenza scientifica ha certamente influito sulla proposizione cubista di una ‛scienza' dell'arte, fondata appunto su quelle che Bergson aveva chiamato ‟les données immédiates de la conscience". Al di fuori del cubismo e della sua interpretazione in certo senso bergsoniana dell'arte di Cézanne, che fin dai primi anni del secolo era al centro del problema, è appunto sui ‛dati immediati della coscienza che Matisse costruisce la sua visione universale, fondamentalmente classica, della realtà; né potrebbe spiegarsi, se non con la concezione bergsoniana del tempo come tempo vissuto o durata, la pittura di Bonnard o di Vuillard, in cui la sensazione visiva non è percezione immediata, ma impronta indelebile che, attraverso la memoria, diventa costitutiva della coscienza. L'influenza diretta o indiretta del pensiero di Bergson, e specialmente della concezione della materia espressa in Matière et mémoire, persiste nell'arte francese almeno fino al 1960 c., sia pure combinandosi con quella dell'esistenzialismo di Sartre: e lo si vede chiaramente nelle ricerche materiche di Fautrier e Dubuffet, nonché nella corrente detta dell'‛astrazione lirica' o tachisme.
Nell'area medioeuropea un fattore comune della ricerca estetica e della ricerca letteraria è stato certamente il pensiero di Nietzsche; né va dimenticata l'importanza di quel grande poeta che fu Rilke nell'intreccio di rapporti tra cultura figurativa tedesca e francese e nell'interpretazione problematica della pittura di Cézanne. Lo stesso richiamo degli espressionisti della Brücke all'antica arte tedesca, e specialmente all'incisione, non si configura come rivendicazione nazionalistica, ma come fatalità dell'‛eterno ritorno', cioè nel quadro della concezione della storia di Nietzsche. ‛Eterno ritorno' è anche il lungo viaggio di Klee nella dimensione della memoria inconscia o dell'infanzia, alla ricerca di una ‛preistoria' in cui l'individuo è ancora indistinto dal cosmo, inconsciamente partecipe del suo divenire o della sua eterna Gestaltung. Dal pensiero di Nietzsche, dalla sua ‛gaia scienza' muove anche Ernst, che diverrà uno dei maggiori esponenti del surrealismo: e per questa via risale al pensiero schilleriano dell'arte-gioco, da cui indirettamente dipendono (e valga l'esempio della scultura ‛mobile' di Calder o, in altro senso, della pittura di Mirò) le tendenze ludiche dell'arte contemporanea.
Come il dadaismo, a cui è storicamente collegato, anche il surrealismo è un movimento non soltanto artistico, ma letterario, con ampie diramazioni nel campo dello spettacolo (specialmente nel cinematografo) e con l'assunto di influire profondamente sulla vita individuale e sociale. Il programma della pittura surrealista (il nome del movimento risale, avanti lettera, ad Apollinaire) è stato tracciato da letterati come Breton e Aragon (La peinture au défi); di pittura si sono occupati poeti e letterati come Soupault, Laforgue, Cocteau. De Chirico ha scritto un romanzo surrealista, Ebdomeros; Ernst ha composto vari romans-collages consistenti in montaggi apparentemente arbitrari di illustrazioni tratte da vecchi giornali. La base scientifico-filosofica del surrealismo è la psicanalisi di Freud, con cui Breton, medico-psichiatra, è stato in rapporto diretto; ma, indirettamente, anche il surrealismo si riconnette al bergsonismo dominante non foss'altro perché circoscrive l'attività artistica alla sfera psicologica, escludendo ogni rapporto (che invece i costruttivisti cercano) con le scienze positive. L'antitesi tra surrealismo e costruttivismo è evidente nel campo delle tecniche: i costruttivisti vogliono servirsi delle tecniche ‛sociali', fondate sulle scienze esatte, e cioè della tecnologia industriale; i surrealisti, al contrario, esigono tecniche automatiche, spontanee, non progettate, tali da valere come puri mezzi di rilevamento delle immagini dell'inconscio. Nonostante i programmi antitetici, le due grandi correnti si presentano come soluzioni diverse degli stessi problemi e riflettono la stessa situazione culturale. Comune è infatti il proposito di ristabilire un rapporto vitale tra le attività artistiche e le attività sociali: ma il costruttivismo considera l'arte come qualcosa che si fa ‛per' la società, il surrealismo come qualcosa che si fa ‛nella' società. Comune è altresì il principio che l'opera d'arte non sia un oggetto privilegiato, un modello di valore, di cui si fruisce senza consumarlo, mediante un puro atto di contemplazione. L'oggetto prodotto secondo le metodologie progettuali del disegno industriale è qualificato dalla propria funzione, di cui la forma è l'espressione esemplare; ma è sedia, lampada, veicolo, strumento di lavoro, e la sua prerogativa, semmai, è di essere più economico degli oggetti dello stesso tipo prodotti secondo metodologie meno rigorose. Al contrario, gli oggetti surrealisti non valgono per ciò che manifestano, ma per ciò che implicano o nascondono: non una razionalità, che si giudica astratta, ma le motivazioni occulte dei sogni, le inconfessate implicazioni erotiche, le segrete affinità elettive per cui si associano ad altri oggetti contro ogni ragionevole attesa, l'intenzione inconscia di deludere, demistificare, deridere tutto ciò che ha un senso o una funzione nella vita cosciente. Poiché la funzionalità dell'oggetto razionalmente progettato è il simbolo dell'efficienza operativa della società industriale, si può dire che esso è un simbolo a funzionamento oggettuale (per es. il ferro da stiro irto di chiodi, la tazza da tè foderata di pelliccia); e poiché l'oggetto surrealista è evocatore della realtà profonda dell'irrazionale e dell'inconscio, si può dire che esso è (come infatti è stato definito) un oggetto a funzionamento simbolico. In sostanza, l'immagine surrealista è sempre un lapsus, nel senso freudiano del termine; e non di rado l'equivoco rivelatore è proprio tra la figura dell'oggetto e la parola che lo designa.
L'antitesi non è dunque così radicale da impedire ogni correlazione tra le due posizioni. Uno degli artisti più significativi, anche per la complessità della sua cultura, Klee, si muove infatti tra i poli opposti del costruttivismo e del surrealismo. Insegna per molti anni nel Bauhaus di Weimar e di Dessau, costruisce una ‛teoria della forma e della figurazione', imposta una rigorosa metodologia didattica, e tuttavia la sua opera, in gran parte formata da fogli disegnati e colorati, è una meticolosa esplorazione dell'inconscio, un'accurata descrizione della vita interiore nel suo svolgersi nel tempo. La sua opera, però, ha avuto un'importanza decisiva nell'orientamento della scuola, che poteva considerarsi il centro di ricerca operativa del costruttivismo. Una delle innovazioni che, studiate nel Bauhaus, ha avuto un maggior successo, ed è stata prontamente recepita dalla grande industria, i mobili in tubo metallico ideati da Breuer a partire dal 1926, ha all'origine il disegno filiforme, la trama grafica, l'inconsistenza fisica, la vitalità segnica delle immagini di Klee. Il pensiero da cui muove quell'innovazione destinata ad entrare profondamente nel costume sociale è che l'esistenza umana non sia affatto un razionale succedersi di atti, come logici effetti di altrettante cause; ma sia piuttosto l'estrinsecarsi di motivazioni inconscie, di inconsapevoli impulsi. Né questi moventi sono da ritenersi a priori negativi: in una società e in una cultura che, per la loro stessa esatta funzionalità, si vogliono laiche, il demoniaco non ha maggior corso del sacro e l'inconscio è esistenza non meno del conscio. Il mondo d'immagine di Ernst, come quello di Klee, non ha nulla di apocalittico e di ossessivo; è liberatorio, e la liberazione avviene attraverso la nuda oggettualità del quadro, come se proprio il materializzarsi nell'oggetto svuotasse le immagini di ogni simbolismo oscuro e repressivo: il quadro, insomma, ha una funzionalità psicologica come l'oggetto progettato dal designer ha una funzionalità sociale.
Tutt'altro è il significato del surrealismo in Francia, in Italia, in Spagna. In De Chirico, che già nella fase ‛metafisica' anticipa le tematiche oniriche del surrealismo, prevale il senso della fondamentale ambiguità dell'immagine, della sua incontestabile presenza e, insieme, della sua estraneità rispetto allo spazio e al tempo. Nello spagnolo Dall (come, in altro modo, nel belga Delvaux) la non rimossa pregiudiziale cattolica porta all'identificazione dell'inconscio col peccato, alla ricerca di una sublimazione che inevitabilmente si traduce (e specialmente nei quadri ‛sacri') in una sorta di ritualità demoniaca, da messa nera. Un altro belga, Magritte, muove dagli accostamenti incongrui con cui De Chirico otteneva inquietanti effetti di estraniamento o di ‛spaesamento', per fissare lo sguardo sulla realtà degli oggetti e individuare in ciascuno di essi una duplicità, una pluralità, perfino un'intercambiabilità di significati.
A fare del surrealismo il fatto saliente non soltanto dell'arte, ma della cultura del nostro secolo ha contribuito in modo determinante l'adesione, benché non formale, di Picasso (1925), il creatore del cubismo e, indubbiamente, la figura di maggior rilievo nella storia dell'arte del XX secolo. Il senso del surrealismo picassiano è stato chiarito da Jung, il teorico dell'inconscio collettivo, nel saggio dedicato all'artista. Il cubismo, per Picasso, non era una maniera o uno stile, ma un modo di essere, di affrontare la realtà: questo modo lo aveva portato a una nuova idea della storia e infatti, tra il 1920 e il 1925, le composizioni cubiste si alternano ai nudi di donna monumentali e, in certo senso, classici. Come si vede nelle ‛bagnanti' del periodo di Dinard, Picasso surrealista si pone problemi di fondo: l'origine e la fine dell'umano nel contesto perenne della natura. Si avvicina il tempo della ‛bellezza convulsa', delle deformazioni mostruose e rivelatrici del vero stato dell'essere, delle metamorfosi, delle grandi mitologie intese come gli autentici moventi inconsci della storia: l'erotismo, la maternità, la violenza, il terrore. Giustamente i surrealisti ‛osservanti' della cerchia di Breton obiettavano che Picasso rimaneva cubista nel surrealismo: di fatto trasponeva la scomposizione cubista, come processo rivelatore di una verità nascosta sotto le apparenze, dal piano della visione a quello ben più vasto dell'esistenza, dalla dimensione dello spazio a quella del tempo. È la strada che lo condurrà a interpretare, con Guernica, la rivolta morale del mondo civile contro il crimine storico del nazismo. Partendo da Picasso uno scultore inglese, Moore, risale alla preistoria, alle forze mitiche che legano l'umano al naturale e al sacro, all'eterno prevalere delle energie vitali sulle tendenze letali, distruttive.
Nell'ambito delle correnti costruttiviste, l'insuccesso del tentato coordinamento della progettazione formale con l'economia e la tecnologia industriali ha determinato l'avvicinamento della ricerca estetica alla ricerca scientifica pura. Lo stesso Kandinskij, che aveva avviato la ricerca non-figurativa nel senso di un'interpretazione del divenire cosmico nella immediata spontaneità dei segni, si orienta verso una riduzione del repertorio segnico alle forme della geometria. Pevsner e il fratello Gabo, che si erano formati in Russia negli anni eroici della rivoluzione e dell'avanguardia, sviluppano una ricerca plastica rigorosamente geometrica: Pevsner, in particolare, non si limita a riprendere nelle sue sculture modelli geometrici, ma si propone la verifica fenomenica di ipotesi geometriche o, più precisamente, topologiche. L'ungherese Moholy-Nagy, che ha insegnato nel Bauhaus di Dessau, intraprende una ricerca metodica sui processi della visione, utilizzando una strumentazione scientifica e verificando sperimentalmente le proposizioni della psicologia della forma (Gestaltpsychologie). È il principio delle ricerche che si svilupperanno, specialmente dopo la seconda guerra mondiale, nel campo delle strutture della percezione e dell'associazione e combinazione d'immagini. Per questi ricercatori l'arte non è più un processo produttore di oggetti, ma un'emittente di immagini secondo determinati ritmi seriali opportunamente programmati: la sua funzione è dunque strettamente educativa in quanto individua e suggerisce ordinate successioni d'immagini a una società minacciata dalla paurosa inflazione d'immagini continuamente emesse dagli apparati dell'informazione di massa. L'assunto fondamentale, anch'esso in rapporto con la psicologia della forma e con il pensiero fenomenologico, è l'identificazione di percezione e immaginazione e, quindi, il riconoscimento della percezione come uno stato e non come semplice premessa della coscienza.
Nel secondo dopoguerra le attività artistiche, come tutte le attività culturali, sono state profondamente influenzate dalla filosofia detta ‛della crisi', l'esistenzialismo. La guerra e l'occupazione tedesca di molti paesi europei hanno precipitato la degradazione della ‛condizione umana', distrutto ogni illusione nell'irreversibile processo storico della civiltà; inoltre non ha risolto le contraddizioni di fondo che l'avevano provocata e ha aperto la prospettiva di crisi anche più gravi. D'altra parte l'economia e la tecnologia industriali hanno compiuto un salto qualitativo e si identificano ormai con il potere politico: a questo livello nessun rapporto collaborativo è più possibile tra la ricerca estetica e l'apparato di produzione e di consumo. Questo apparato ha bensì assorbito, in una certa misura, le metodologie progettuali del disegno industriale; ma poiché l'obiettivo è il consumo di massa, la qualità estetica del prodotto non deve avere altro scopo che quello di incrementare il consumo e affrettare il ricambio dei tipi. Poiché il consumo di massa non deve trovare un limite nei bisogni reali dei consumatori, la qualità estetica del prodotto deve suscitare bisogni fittizi, ma non perciò meno impellenti, e sostituire motivazioni e spinte inconscie alle scelte giustificate da bisogni reali e da giudizi di valore. Ne consegue la degenerazione del design in styling, che si nota specialmente nella produzione americana: lo styling, che consiste nel dare al prodotto le connotazioni formali che lo rendono più appetibile, fa leva sui bisogni e sui desideri inconsci dei consumatori (e principalmente sull'aspirazione a un convenzionale prestigio sociale e all'affermazione della propria potenza) e si traduce così nell'espressione visibile dei peggiori istinti dell'individuo, al quale, del resto, non è lasciata altra possibilità di affermazione. Lo styling riproduce così macroscopicamente, in uno stadio di industrialismo avanzato e di supercapitalismo, il ‛cattivo gusto', lo scadimento estetico del Kitsch dello stadio paleoindustriale (v. kitsch).
L'informalismo, che verso il 1950 si sviluppa in tutti i paesi industrialmente avanzati, riflette appunto l'impossibilità d'intesa tra gli artisti e la società attraverso gli apparati della produzione industriale; ed è comprensibile che il fenomeno abbia raggiunto le sue punte più alte nel paese più industrializzato, gli Stati Uniti. L'informalismo non è una corrente con un proprio programma: è una crisi che colpisce simultaneamente tutte le culture figurative dimostrando l'impossibilità di un loro ulteriore sviluppo storico. Si manifesta in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone; mette in causa e in crisi il filone culturale dell'impressionismo come quello dell'espressionismo; rappresenta l'ultima e disperata rivolta degli artisti, come intellettuali, contro un sistema che emargina artisti e intellettuali che non accettino di ‛integrarsi' e di servire ai fini di potere del supercapitalismo. I temi fondamentali dell'informalismo sono la materia, il gesto, il segno. La materia può essere quella propria della pittura o della scultura (colore, pietra, metallo) o altra: in ogni caso non elaborata in vista della sua riduzione a oggetto (procedimento che sarebbe analogo a quello della produzione industriale), ma semplicemente manipolata, senz'altro fine che di realizzare una condizione di coesistenza o immedesimazione dell'individuo, ormai privato della propria integrità umana, con un frammento di realtà. Il gesto o l'atto, quali ne siano le motivazioni, è comunque istintivo o impulsivo, non-progettato: modo di essere palesemente antitetico a quello imposto dalla ‛regolarità' programmata del lavoro industriale. Il segno è sempre e soltanto il segno dell'essere o dell'esistere, indipendentemente da ogni volontà di significazione. In breve, l'artista si limita a dare segni di esistenza in un mondo che nega il valore e, alla fine, fisicamente distrugge l'esistenza. Ovviamente l'informalismo è ‛astratto' perché la realtà, intesa come pura esistenza, non è ancora figura; è non-geometrico perché nella sua condizione di pura esistenzialità l'individuo non possiede idee o schemi formali; non è oggettuale perché l'opera non si pone come oggetto artistico, ma come mero momento dell'esistenza; non è linguaggio perché non comunica, si dà come puro ‛essente'. Come tale, anche, ricusa ogni giudizio di valore, se ne può soltanto prendere atto: l'indagine critica può soltanto ricercare le motivazioni profonde: La ricerca è possibile perché l'affermazione dell'esistenza ‛autentica' è la negazione dell'esistenza ‛inautentica': la materia è negazione di spazio, il gesto negazione del tempo, il segno negazione della forma. Ponendosi come negazione di ogni valore che non sia quello dell'esistenza in sé, l'informalismo esclude ogni rapporto di valori: come non ha relazione con il mondo della produzione, così ricusa ogni rapporto con la scienza, che agisce ormai in funzione della produzione, e con la storia, che con la sua visione retrospettiva e prospettiva, contraddice lo hic et nunc, il puro presente della condizione esistenziale. Fenomeni di informalismo si hanno anche nella poesia e nella musica, e dipendono dal fatto che, crollati ormai tutti i sistemi tecnici delle arti, cadono per conseguenza le distinzioni di categorie.
Benché l'informalismo si presenti come l'ultima riduzione fenomenologica dell'arte, non si tarda a scoprire che esso lascia ancora larghi margini alla pregiudiziale estetica. Anzitutto, e sia pure per via di successive negazioni, si ammette ancora l'esteticità fondamentale della materia, del gesto, del segno. La materia pittorica di un Fautrier o di un Dubuffet o quella non-pittorica di un Burri o di un Tapies sono pur sempre il risultato di scelte, che le propongono come dotate di un'esteticità intrinseca, che non si dà nelle materie e nei prodotti dell'industria: gli stessi tentativi di degradarle, presentandole allo stato di relitto o di rifiuto, si conclude in un accrescimento della loro ‛bellezza'. Il quadro o l'oggetto plastico rimangono pur sempre oggetti privilegiati, portatori di una carica esistenziale che sono i soli a possedere: e sembra provarlo l'enorme, incredibile successo che hanno avuto sul mercato. L'assenza deliberata della figurazione è anch'essa una pregiudiziale: se la figura non ha più alcun valore ed è data come mera materia, nulla può più distinguerla dalla materia, escluderla a priori significa rivalorizzarla. Il gesto è pur sempre un gesto privilegiato, che si vuole eccezionalmente significativo: lo si vede dal modo con cui il gesto di un Hartung o di un Fontana trasformano in entità spaziale la materia aspaziale, quello di Pollock traduce un impetuoso sentimento della natura, quello di un Vedova un furor morale e addirittura politico. Il segno di un Kline, di un Tobey, di un Capogrossi è carico di significati, ha la pregnanza del simbolo anche se non sia e non voglia essere simbolo. Il relitto o il rifiuto riflette bensì la condizione esistenziale dell'individuo che la società abbandona o rigetta, ma la sua stessa degradazione contiene tutta una storia, anzi è la degradazione di una storia.
Il superamento dell'informalismo, che avviene in più direzioni, non è affatto un superamento, ma un approfondimento della crisi: in ogni caso, mira a una ulteriore riduzione fenomenologica. La cosiddetta ‛nuova figurazione' non implica affatto una recuperata fiducia nel valore o nel significato delle forme; implica invece il pensiero che l'esclusione delle nozioni abituali delle cose presupponga una critica di quelle nozioni e l'ipotesi ch'esse abbiano un significato che non si vuole accettare e che, in realtà, non hanno. Se De Kooning recupera figure umane entro il magma della materia coloristica, non perciò le privilegia. L'inglese Bacon, in cui si è voluto vedere l'antesignano della cosiddetta ‛nuova figurazione', è e rimane di fatto un pittore informale, che tratta e manipola la figura umana come se fosse materia, anzi materia corrotta e repellente. La cosiddetta ‛nuova figurazione', che costituisce l'ala sinistra dello schieramento artistico contemporaneo, interpreta la pittura di Bacon come aspra critica sociale e quindi come punto di partenza di un nuovo realismo, molto diverso dalla banalità del ‛realismo socialista' zdanoviano; ne è di fatto l'antitesi perché capovolge l'ottimismo obbligatorio del realismo sovietico in pessimismo coatto. Servendosi largamente di immagini fotografiche, spesso ricavate dal reportage giornalistico, la ‛nuova figurazione' dimostra di valersi della figura come mero materiale d'immagine, la cui diversa manipolazione, tuttavia, mira a conseguire effetti opposti a quelli degli apparati d'informazione.
Un altro processo di superamento dell'informalismo è quello detto della minimal art o delle strutture primarie. Constatando come le correnti informali convogliassero nella materia, nel gesto e nel segno una somma di fattori emozionali, presupponendo così uno status dell'esistenza precedente all'operazione artistica, si procede all'individuazione di elementi formali ‛primari' che, per se stessi insignificanti, ricevono tuttavia un significato quando vengono inseriti nel contesto urbano o naturale, a cui la loro presenza conferisce ordine, evidenza, struttura di spazio. L'opera d'arte o, più precisamente, l'operazione artistica si qualifica così come un intervento diretto nella realtà, col proposito di fornire la chiave, il modulo formale, per la sua interpretazione o fruizione estetica. Già con l'opera di Rothko e di Newman il quadro si riduce a campiture coloristiche pressoché uniformi, che tendono a influire sullo spazio circostante, a costituire il fattore qualificante di un ambiente; in altri casi il quadro stesso si scompone in piani (per es. i ‛plurimi' di Vedova) costituendosi in proprio come ambiente denso di sollecitazioni emotive, luogo magico in cui sembrano precipitare e coagularsi in segni espressivi gli eventi del mondo.
Le ricerche visuali di origine costruttivista, specialmente di Moholy-Nagy, mirano anch'esse a sostituire con immagini ambientali le immagini originariamente spaziali: si riconosce cioè che il concetto di spazio, troppo limitativo, è ormai scaduto, oltre che dalla scienza, dall'esperienza comune. Lo spazio non può più essere pensato come entità geometrica chiusa, ma come dimensione della vita, che i moderni sistemi di comunicazione estendono illimitatamente. Così le ricerche visuali diventano ‛cinetiche', sia suggerendo e quasi imponendo al fruitore una serie di movimenti che determinano programmate associazioni e successioni di immagini, sia provocando mediante apparati motori movimenti e successioni d'immagini, per lo più luminose. Le forme geometriche colorate, a cui generalmente si ricorre (tipico il caso di Vasarely), non valgono più come simboli spaziali, ma come schemi abituali con i quali le sensazioni vengono precisate come certezze razionali: non soltanto si identificano così percezione e immaginazione, ma si afferma e dimostra il carattere costruttivo, programmabile, dell'immaginazione. È ancora un assunto educativo, didattico: la quantità di immagini che, emesse dagli apparati dell'informazione, l'individuo è costretto a recepire e consumare finirebbero per paralizzare la sua capacità immaginativa; bisogna dunque educare la sua percezione-immaginazione a un ordine costruttivo, a una fruizione controllata e cosciente, e quindi correttiva di un ambiente disordinato e incoerente, alienante.
È ormai chiaro che l'operazione artistica non mira più a produrre oggetti né modelli di valore: gli artisti non vogliono più produrre per il mercato né concorrere all'accumulo di ricchezza da parte di ceti privilegiati, ma fornire alla società modelli di comportamento estetico, in netto contrasto con quelli di comportamento inestetico forniti e imposti dai poteri che controllano l'apparato dell'informazione e della comunicazione. Di fatto, il comportamento estetico non è tale se non proprio in quanto antitetico a un altro tipo di comportamento: in pratica, l'antitesi è tra comportamento libero e comportamento coatto. Al limite l'artista stesso si propone come modello di comportamento, ricusa ogni altro mezzo espressivo che non sia il proprio gesto: di qui la pubblica ostentazione dell'operazione artistica (Mathieu, Klein) e l'improvvisazione di eventi spettacolari (happening).
La corrente della pop art, sviluppatasi in America dal 1960 circa, può considerarsi come una reazione alla action painting, in cui si vede l'ultima, parossistica esaltazione del ‛mestiere ispirato' dell'artista. Il trapasso all'oggettualità pop si nota chiaramente in Rauschenberg e in Johns: la pittura ‛d'azione' non può contenersi nello spazio preordinato del quadro, tende a espandersi nello spazio implicando nella propria dimensione immaginaria alcuni degli oggetti che occasionalmente vi si trovano. Le origini di questo processo di integrazione di componenti oggettuali nel contesto dell'opera d'arte sono evidentemente il collage cubista e la poetica dadaista dell'‛oggetto trovato' di Schwitters; ma è nuovo, e tipico dell'arte pop (da popular), il processo di appropriazione di oggetti non soltanto appartenenti al contesto della vita quotidiana, ma investiti di significati simbolici o emblematici della mentalità ‛media': per esempio la bandiera americana, la lattina di birra, la bottiglia della Coca-Cola, la zuppa in scatola (v. pop art). Oldenburg riproduce in grandi dimensioni, in gesso o in cartapesta violentemente colorati, bistecche, uova al tegame, torte, tubi di dentifricio, ecc.: i cibi sono i simboli materializzati del consumo, l'ingrandimento allude al modo tipico della ‛società dei consumi' che quantifica e dequalifica, l'esagerazione dimensionale e coloristica (non meno che l'evidenza di una materia incommestibile, anzi repellente) alla tendenza della ‛società dei consumi' a consumare ‛in effigie' e cioè la parvenza delle cose più che le cose stesse. Poiché, per questa tendenza, l'industria integra o addirittura sostituisce al prodotto la pubblicità del prodotto, la pubblicità è una delle grandi sorgenti di materiali-immagini dell'arte pop (Rosenquist, Wesselmann): attingendo a quel repertorio, l'artista non si propone di creare, ma soltanto di combinare diversamente, sia pure per metterne in evidenza l'assurdità, le immagini che formano il contesto della mentalità ‛media' o, piuttosto, dell'inconscio collettivo della ‛società dei consumi'. Warhol, per esempio, lavora su immagini che la stampa o la televisione hanno talmente diffuse da renderle simboliche di miti e tabù inconsci: la sedia elettrica, l'incidente stradale, Marilyn Monroe, Jacqueline Kennedy, Che Guevara. Lichtenstein riprende, analizzandone la struttura, le immagini dei ‛fumetti' o quelle, altrettanto stereotipe, della pubblicità turistica: l'analisi strutturale lo porta a identificare la struttura di quelle immagini nei processi di riproduzione tipografica, perché per l'uomo medio americano che crede nell'assoluta bontà del sistema, il Partenone o il chiaro di luna esistono soltanto nella versione del volantino o del manifesto pubblicitario. Non diversamente per Wesselmann l'oggetto erotico per eccellenza è la donna che, nei cartelli pubblicitari, reclamizza un cosmetico o un olio solare. Con più esplicita ed amara allusione, Segal circonda di oggetti ‛veri' (per es. una stanza da bagno con tutti i suoi accessori) figure umane, che sono soltanto pupazzi di gesso bianco: nella società dei consumi, autentici sono soltanto i prodotti, le persone sono fantocci.
Nella corrente francese del nouveau réalisme, teorizzata e promossa dal critico Restany, il paesaggio della vita moderna, costituito dai prodotti industriali e concepito dunque come un prodotto, è posto come una ‛nuova natura': non fornisce modelli formali, ma cose concrete che vengono dall'artista prelevate e combinate secondo processi che sono ancora i processi abituali di una ‛società dei consumi': l'accumulazione (Arman), la compressione o l'espansione (César), l'imballaggio (Christo).
Al punto culminante della crisi, l'arte non è più riconoscibile né per la peculiarità delle sue materie e dei suoi processi né per una sua tradizione culturale né per la sua relazione con altre attività intellettuali né per una sua posizione privilegiata nel sistema delle attività umane superiori: essa si configura perciò come attività ‛povera', sprovveduta cioè di un proprio apparato, o ‛concettuale', cioè ridotta a un atto di pensiero, a una reale o ipotetica attribuzione di significato alle componenti sempre meno caratterizzate e significanti dell'ambiente della vita. Al di là delle tecniche specifiche della produzione, che appaiono ormai invecchiate e superate come un tempo le tecniche artigianali, la sola possibilità di un raccordo dell'arte con il sistema della cultura sembra essere il suo inserimento nel sistema dell'informazione e della comunicazione di massa, ormai identificato come struttura dinamica dell'ambiente materiale dell'esistenza. Da ciò dipende tutta la serie di problemi, di cui si avverte più o meno chiaramente la presenza nei movimenti artistici più recenti: 1) se il possesso personale dell'oggetto e la sua tesaurizzazione non sono più le condizioni della fruizione estetica, la funzione dell'arte non può più essere di produrre oggetti, ma di emettere informazioni stimolanti al consumo; 2) se, parallelamente a quanto accade nella sfera economica (che, nella presente condizione, si identifica con la sfera sociale), anche nella sfera estetica la funzione del consumo prevale sulla funzione della produzione, protagonista dell'esperienza estetica non è più l'artista, ma la collettività dei consumatori; 3) poiché in un sistema d'informazione di massa non può esistere il livello privilegiato dell'informazione estetica, l'esteticità non è nell'informazione, ma nel modo con cui viene recepita; 4) è dubbio se i processi destinati a portare a livello estetico l'informazione di massa possano ancora considerarsi processi artistici; in ogni caso, non potranno più attuarsi mediante tecniche artistiche tradizionali, ma solo mediante le tecniche proprie dell'informazione e comunicazione di massa.
7. L'arte e la storia
La riduzione fenomenologica, o il riporto dell'arte al punto zero, si manifesta come crisi della storicità e come dissolvimento del sistema tecnico delle arti. La questione della storicità dà luogo a tre ipotesi: 1) l'arte si sviluppa secondo una propria storia, la storia dell'arte, relativamente alla quale, soltanto, è possibile valutare i singoli fatti e la loro successione; 2) l'arte si sviluppa secondo la storia della società, di cui costituisce un aspetto o soltanto un riflesso; 3) l'arte, come puro atto creativo, non è riducibile alla storia. Secondo la prima ipotesi l'arte è una struttura autonoma benché correlata alle altre attività culturali e alla loro storia: è la tesi dello storicismo idealistico. Secondo la seconda, l'arte è una sovrastruttura, che segue nel suo processo gli eventi che si producono a livello di struttura, e cioè i fatti economici: è la tesi marxiana. Secondo la terza è indipendente da ogni struttura economica e sociale, è un modo di esperire la realtà: è la tesi del pragmatismo americano.
Alla metà del secolo scorso Courbet chiude la disputa di classico e romantico indicando la via dell'arte moderna: il realismo. Realismo non significa imitazione più attenta e impregiudicata della natura, ma affronto diretto della realtà indipendentemente da ogni schema preordinato e idealizzante, a cominciare dal ‛sentimento della natura'. Per Manet realismo non è distacco da ogni esperienza storica, ma scelta di nuovi riferimenti più adatti a mettere l'artista in condizione di cogliere l'essenzialità della visione: Velazquez e Frans Hals invece di Michelangelo e Rubens. Gli impressionisti che si presentano in gruppo alla mostra del 1874 presso il fotografo Nadar hanno un programma: eliminare tutti i processi tradizionali della resa pittorica della realtà, rendere con la tecnica più rapida ed efficace le sensazioni visive nella loro autenticità (in breve: fissare l'‛impressione' della macchia verde di un albero prima di identificarla con la nozione di albero). Gli stessi impressionisti si rendono conto che, dopo avere fissati i dati immediati della visione, bisogna spiegare quale tipo o modo di coscienza si costruisca con essi: Monet (come osserverà Cézanne) ‟non è che occhio", ma presto Renoir sentirà il bisogno di dare alle sensazioni una consistenza plastica e di organizzarle in una composizione magari ricorrendo all'esempio storico di Raffaello; e Degas cercherà di precisare la struttura della sensazione rinunciando magari agli effetti sensori del colore e della luce e ricorrendo al disegno. Poco dopo Toulouse scoprirà che il disegno impressionista non è affatto un mezzo di resa immediata, ma uno strumento di analisi che permette di indagare e rilevare i caratteri anche psicologici della società contemporanea. Il problema di ricostruire alle spalle dell'impressionismo una ragione storica che elimini la provvisorietà cronistica della sensazione fresca è sentito profondamente da Cézanne; quando è a Parigi passa ore e giornate al Louvre verificando la propria ricerca sulle opere dei maestri del passato; le copia per rivivere nella prassi del dipingere l'interna problematica della loro pittura. Il suo proposito è di ‟refaire Poussin sur nature", di ‟faire de l'impressionnisme quelque chose de durable comme l'art des musées". Lo studio dei maestri del passato non è un riconoscimento della loro autorità, non costituisce un'esperienza formativa, non determina fasi differenziate nello sviluppo stilistico della pittura di Cézanne: è una verifica necessaria dell'operazione pittorica nel corso dell'operazione stessa o, in senso più latò, nella costruzione globale della sua opera d'artista. Il riferimento ai maestri si tratti di Caravaggio o di Daumier, del Greco o di Delacroix - è sempre in rapporto ai problemi specifici del fare pittorico, la pittura essendo concepita da Cézanne come un problema o un insieme di problemi da risolvere operativamente nel cospetto della realtà, da un lato, e del quadro che sta facendo, dall'altro.
Il pensiero cezanniano della storia come problema aperto e inevitabilmente correlato con la problematica del fare pittorico contraddice l'interpretazione della storia delle correnti ‛moderniste' o dell'art nouveau: proponendosi di essere assolutamente aderente allo spirito del proprio tempo, il ‛modernismo' recide bensì tutti i legami con le tradizioni, ma rivaluta ed esalta il ‛culto del bello' che ravvisa in tutta l'arte del passato, sia pure espresso in modi stilistici sempre diversi (ars una, species mille). Il procedimento storico proprio del ‛modernismo' è dunque il revival, che ovviamente esclude ogni ritorno all'antico, ma afferma che l'antico rinasce e si fa attuale nel moderno. Il revival (dei ‛primitivi' o dell'arte bizantina, barbarica, gotica, ma anche dell'arte islamica e giapponese) è la controparte dell'utopismo modernista: implica infatti l'idea che il culto della bellezza, dell'armonia, della grazia, come non si è mai spento nel passato, così non possa spegnersi nel presente, anzi non possa che essere esaltato dalla ‛primavera' che sembra fiorire nel mondo con le infinite, meravigliose possibilità dell'ingegno e del lavoro umani. La stessa pittura di uno dei più grandi maestri del nostro secolo, Matisse, muove dal pensiero di un grandioso revival classico, ma non certo dei canoni formali del classicismo, bensì di un'eterna universale classicità, che poi non è altro se non la capacità dell'artista di comprendere nel percorso di una linea o nel rapporto tra zone di colore il senso del mondo, al di là di ogni limite di spazio e di tempo. Né quel valore eterno e universale sarebbe veramente tale se non si esprimesse attraverso una sensibilità e un linguaggio moderni.
Sempre nel primo decennio del secolo gli espressionisti tedeschi della Brücke si richiamano, anche nell'impiego frequente delle tecniche incisorie, a una cultura figurativa germanica, di cui implicitamente rivendicano la parità rispetto alle grandi culture figurative ‛classiche e mediterranee'; ma il movente è soprattutto morale e lo scopo è di ricondurre l'artista, come interprete di un ethos popolare, alla serietà e all'onestà di un lavoro manuale, da artigiano. Nello stesso periodo (1908) uno storico dell'arte, Worringer, pubblica Abstraktion und Einfühlung, a cui fa seguire, nel 1912, Formprobleme der Gotik: l'arte come rappresentazione, nella sua tesi, è propria delle culture ‟classiche e mediterranee", cioè dei popoli che vivono in un ambiente naturale mite, aperto, propizio; mentre i popoli nordici, il cui ambiente è aspro e ostile, rifuggono dall'esprimere la loro esperienza sensoria, e delle proprie ‟labili percezioni" si valgono per formare ‟immagini concettuali, che gli servano di guida per trovare una sua strada nel mondo dei fenomeni". Al mondo della chiarezza formale mediterranea si contrappone perciò l'arte piuttosto di segni che di forme dei popoli nordici, i cui prodotti artistici, di un'assoluta ‛astrazione' formale (le oreficerie sarmatiche, le miniature irlandesi, l'architettura lignea del nord europeo), venivano allora studiati e fatti conoscere da Strzygowski. La distinzione dei due tipi psicologici o delle due grandi componenti etniche si ricollegava in qualche modo alla tesi del Kunstwollen di Riegl, per cui le forme artistiche (e specialmente le forme ‛astratte' dell'ornato) sono portatrici delle nozioni fondamentali di spazio e di tempo che formano l'esperienza comune di un determinato gruppo etnico: tesi che discendeva dalla Volkspsychologie del Wundt e che, per altri aspetti, si ricollegava al populismo e alla rivalutazione romantica dell'arte e della letteratura popolari. La pittura di Kandinskij che, tra il 1911 e il 1915, segna la svolta decisiva dal ‛figurativo' all'‛astratto', corrisponde singolarmente alle tesi di Worringer; e lo stesso Kandinskij, nel periodo della sua prima formazione in Russia, si era interessato all'arte popolare ucraina e specialmente ai ricami, nei cui segni ‛astratti' vedeva riflesso non soltanto un ethos, ma una vera e propria concezione del mondo. D'altra parte, anche indipendentemente dalle ricerche degli storici e dei teorici, il tema populista dell'autenticità e della pregnanza di significato dell'arte popolare ricorre in quasi tutti i maggiori artisti dell'Europa orientale: in Malevič, che fu con Kandinskij il maggior responsabile della svolta ‛astratta' ed il cui ‛suprematismo' evoca motivi iconici dell'antica arte russa; nel romeno Brâncuşi, che si ricollega all'ornato popolare e alle semplici tecniche dell'artigianato del legno; nel russo Chagall, la cui tematica riprende le saghe religiose e la ritualità delle comunità ebraiche russe. La scoperta di questo grande filone di cultura artistica nordica, così diversa dalla cultura formale classica, ha avuto una grande importanza in un momento in cui il ‛modernismo' ovunque diffuso mirava a un'unificazione della cultura artistica europea: essa non poteva più consistere nell'estensione di quello ‛spirito classico' che aveva la sua espressione più moderna in Matisse, ma doveva risultare dalla dialettica di almeno due culture in contrasto tra loro.
D'altra parte, se questo nuovo apporto a una storia universale dell'arte ampliava l'area dei possibili riferimenti storici, concorreva altresì a destoricizzare la ricerca artistica: la classicità astorica di Matisse realizza l'idea del Worringer (che però Matisse non conobbe) della piena ‛empatia' (Einfühlung) tra l'individuo e il mondo con la stessa chiarezza con cui l'animazione segnica delle Improvisations di Kandinskij realizza l'idea dell'‛astrazione' dalla realtà.
Nel 1906-1907 Picasso, quasi replicando alla Joie de vivre di Matisse (1905), dipinge Les demoiselles d'Avignon, in cui apertamente ricorre a modi di strutturazione plastica ripresi dalla scultura negra. Non si tratta più di primitivismo né di esotismo alla Gauguin: la scultura negra è assunta nella sua nuda realtà formale, indipendentemente da ogni evocazione di mitologie remote e da ogni riferimento alla società che l'ha prodotta. L'arte non è dunque il prodotto di alcune culture progredite (l'Europa, l'Oriente asiatico), ma di tutte le culture; poco più tardi, quando si comincerà a valutare sotto l'aspetto estetico e non soltanto etnologico i reperti figurativi delle grotte paleolitiche, si prospetterà addirittura l'ipotesi ch'essa sia un'attività assolutamente primaria, pre-culturale e pre-storica, dello spirito umano.
Ponendosi come trasformazione strutturale dell'arte il cubismo non ha né può avere precedenti storici: riconosce bensì il suo rapporto con Cézanne, ma non si tratta di continuazione o sviluppo perché la visione cezanniana è assunta come puro oggetto di analisi. Sotto l'aspetto linguistico, poi, il cubismo si pone come linguaggio formale soprannazionale, immune da ogni tradizione: è il superamento di ogni storia dell'arte nazionale, ma è anche la proposta di giustificare l'arte moderna in rapporto a una storia universale dell'arte o, piuttosto, a quella che appare ormai la sterminata fenomenologia dell'arte. Se il cubismo ricusa ogni ascendenza storica, si propone però come strumento di una nuova e più veridica interpretazione dei fatti storici: non soltanto interi periodi della storia dell'arte sono stati letti o riletti secondo gli schemi formali del cubismo, ma l'esperienza del cubismo ha influenzato tutta la critica e la storiografia dell'arte di tipo formalistico.
Picasso, certo il più spregiudicato ‛inventore di forme' in tutta la storia dell'arte, non dissimula affatto le proprie frequenti incursioni nell'arte del passato, ed è facilissimo individuare nelle sue opere i riferimenti più disparati: all'arte preistorica o greca arcaica, alla scultura negra e a quella azteca e maya, al romanico o al barocco, ecc. Ma egli stesso dichiara che quei riferimenti, talvolta puntuali, non contrassegnano diverse fasi del suo sviluppo, diverse esperienze culturali, così come l'impiego di diversi stili o maniere non corrisponde a diverse fasi della sua opera. Spesso rifà opere famose: di Velazquez, di Poussin, di Courbet, di Manet. Le traduce dallo stile di quei maestri al proprio, senza minimamente proporsi di interpretarle, allo stesso modo che, quando si pone davanti al modello, non si propone di copiarlo. Evidentemente pensa che ogni opera d'arte ha in sé un nucleo vitale (l'arte, appunto) che, una volta fissato, non può mutare, anche se mutino le maniere o il linguaggio con cui è espresso; paradossalmente può dirsi che non è l'opera di Velazquez che condiziona l'opera di Picasso, ma l'inverso, perché è Picasso che sottrae l'opera di Velazquez all'immobile so-sein del passato e la presenta in una versione attuale, che comprova la sua inestinta vitalità. Né questa concezione della storia è soltanto di quel ‛capo' dell'arte moderna che è stato, per la straordinaria mobilità e per l'infallibile giustezza delle sue posizioni, Picasso: la si ritrova specialmente negli scultori che, per la minore possibihtà di adattamento delle loro tecniche, sono più sensibili al problema della storia. Non è certo per una scelta di gusto a priori, ma per la necessità di un recupero storico che sottragga l'opera alla contingenza temporale, che Moore si collega all'arte azteca o a quella romanica, Martini alla ritrattistica romana o alla scultura barocca, Marini alla statuaria funeraria etrusca, Manzù a Donatello e a Rosso. Ed anche in questi casi è evidente che si vuol separare la storia dell'arte, come trasmissione e ripresa di certi temi formali, dalla storia sociale, che può bensì spiegare gli stili o le maniere, ma non la fondamentale artisticità dell'arte. Non diversamente, in architettura (le cui tecniche, all'opposto delle tecniche della scultura, sono sempre aggiornate ai progressi della tecnologia industriale), nei primi decenni del secolo Perret è stato uno dei grandi pionieri della costruzione in cemento, ma ha sempre affermato che le innovazioni tecnologiche non potevano mutare il corso della storia dell'architettura, che avrebbe seguitato a sviluppare i propri temi, pure utilizzando i mezzi messi a disposizione dell'architetto dalla società del suo tempo. Non sostanzialmente diversa è stata, sotto questo aspetto, la posizione di Wright o, dopo di lui, di Kahn per i quali la ricerca artistica non può essere influenzata né dalla tecnologia né dalla situazione sociale e politica, essendo la storia dell'arte, non diversamente dalla storia della matematica o della scienza, lo sviluppo di una attività da premesse e secondo procedimenti che le sono propri, anche se di volta in volta applicati a risolvere i problemi che la società le pone.
L'altra ipotesi, sulla quale si fondano specialmente le correnti costruttiviste, è che l'arte sia un'attività sociale, che la società demanda ad alcuni specialisti, gli artisti: a differenza della matematica e della scienza, che hanno una loro storia, non esisterebbe una storia dell'arte, ma solo una storia ‛sociale' dell'arte (Hauser) o, più precisamente, una storia della società che l'arte riflette o documenta. L'architettura razionale e il disegno industriale presuppongono un'analisi critica e un giudizio storico della situazione oggettiva della società contemporanea, del suo sistema di valori, dei suoi modi di vita, della sua condizione economica, delle sue disponibilità tecnologiche, delle sue possibilità di sviluppo. La stessa volontà di fare aderire strettamente la forma alla funzione implica la consapevolezza di operare per una società che privilegia l'efficienza funzionale su ogni altro tipo di valore, così come l'impiego di forme geometriche implica la consapevolezza della superiorità che quella società riconosce alle forme simboliche della razionalità. Si riconosce bensì che la ‛rivoluzione industriale' ha mutato radicalmente i sistemi dei valori e i modi operativi e di vita della società, ma si afferma che in tutte le epoche e le culture l'arte ha risposto a esigenze vitali anche pratiche e che, in ogni caso, a una giusta funzione ha corrisposto una buona forma: si citano come esempi, risalendo spesso alla più remota antichità e alle civiltà più lontane, le forme dell'architettura rurale, delle suppellettili, degli strumenti di lavoro, delle navi, dei veicoli, ecc. Si constata che proprio nelle ‛forme utili' si è più chiaramente espressa la concezione del mondo e della vita delle classi lavoratrici, del popolo; e che, al di là delle morfologie particolari, è possibile ritrovare le costanti leggi proporzionali che riflettono una intuizione profonda dell'universo, tanto più significativa in quanto legata, attraverso le forme degli oggetti utili, agli atti della vita quotidiana. Le Corbusier, il maggior teorico dell'esatta corrispondenza della forma alla funzione, è anche il teorico della ‛sezione aurea' e di una purezza formale che potrebbe dirsi neoellenica. Le stesse concezioni urbanistiche in cui si inquadrano l'architettura razionale e il disegno industriale riflettono l'esperienza storica dell'utopismo illuministico e delle ‛città ideali' dell'antichità e del Rinascimento: lo spazio urbanistico è indubbiamente una ideologia dello spazio, ma l'arte, appunto, viene considerata come un tramite tra realtà di fatto e ideologia.
L'arbitrio del potere dei regimi totalitari e la tragedia della seconda guerra mondiale, distruggendo l'idea della storia come faticoso ma costante progresso dell'umanità verso la libertà e la concordia, cancellano anche l'illusione di una funzione sociale dell'arte: all'artista non rimane altra scelta (e Picasso è il primo ad accorgersene) che la lotta politica o l'evasione. Così le correnti informali europee, legate al pensiero esistenzialista, come le americane, influenzate dal pragmatismo di Dewey, nell'atto stesso in cui si pongono come arte ‛della crisi' respingono ogni impegnativo legame con la storia: se storia è violenza e terrore, l'arte non può essere arte se non ponendosi fuori della storia. Da questo momento in poi il problema del rapporto dell'arte con la storia dell'arte e con la storia in generale rientra nella crisi di fondo dello storicismo, come struttura fondamentale e unitaria della cultura, e cioè nel cosiddetto conflitto delle due culture, umanistica e tecno-scientifica. Il dilemma è dunque tra una concezione dell'arte come valore, che può essere riconosciuto e acquisito come tale al patrimonio culturale dell'umanità solo attraverso l'interpretazione e il giudizio, e una concezione dell'arte come mero fenomeno, che può dar luogo soltanto a una ‛descrizione' scientifica. Il giudizio storico sull'arte si giustifica in quanto l'arte venga considerata come azione intenzionata e finalizzata, di cui occorre stabilire se abbia o non abbia conseguito il fine; l'arte non può invece essere giudicata e storicizzata se la si consideri un fenomeno nella serie dei fenomeni, privo di ogni contrassegno di valore. Le più recenti correnti americane, l'arte ‛concettuale' e l'‛iperrealismo', segnano il punto-limite della riduzione dell'arte alla pura fenomenicità. La prima corrente mira in sostanza a isolare il ‛concetto' di arte da ogni procedura operativa finalizzata alla determinazione di valori: si ammette bensì che il concetto di arte è inseparabile dall'idea del ‛fare', ma il fare si riduce al rilevamento del concetto, come nelle piatte stesure coloristiche di Reinhardt o nei grafismi deliberatamente non-significanti di Sol Lewitt. Ciò vuol dire che, nella presente condizione della cultura, l'arte sussiste soltanto come concetto, allo stesso modo che sussistono i concetti di alchimia o di magia anche se l'alchimia e la magia non siano più praticate. All'opposto l'‛iperrealismo' e un operazione tecnica ostentatamente inconcludente, che consiste per lo più nel riprodurre con la pittura una fotografia: il rallentamento operativo dovrebbe permettere di rilevare ciò che normalmente non si vede (ma c'è) nella fotografia. Viene così sancito il divieto di prendere direttamente contatto con la realtà: la sola realtà che è lecito esperire è quella condizionata dallo strumento industriale della macchina fotografica e dal sistema dell'informazione che divulga la ‛versione ufficiale' della realtà. Se, insomma, il ‛concettualismo' è la teoria senza prassi, l'‛iperrealismo' è prassi senza teoria: espressione il primo di un'utopistica evasione ed il secondo di una conformistica soggezione al sistema del potere.
8. La crisi delle tecniche artistiche
La crisi della storicità intrinseca dell'arte si manifesta chiaramente nella crisi delle tecniche artistiche a cui, nel passato, era affidata la specificità delle arti e quindi della loro storia. Già nelle correnti moderniste del principio del secolo l'affievolirsi della separazione tra arti maggiori e minori porta a un primo livellamento tra tecniche specificamente artistiche e tecniche non specificamente artistiche. I progressi della fotografia e della riproduzione meccanica delle opere d'arte ne distruggono l'unicità: al limite, l'opera d'arte non è più che il prototipo delle proprie riproduzioni.
Si profilano allora due ipotesi: 1) l'arte è il prodotto di una tecnica sui generis, diversa secondo le diverse arti ma costante nella struttura e nella finalità; la tecnica artistica è la sola che produca il ‛valore' estetico (la qualità) realizzandolo nel processo irripetibile e continuamente ri-inventato dell'operazione artistica; 2) non possono esserci tecniche speciali, esclusive dell'artista, perché il solo sistema tecnico legittimo è quello che la società di volta in volta organizza e mette in opera per le necessità della vita; se l'arte è una necessità della vita, l'artista deve valersi delle tecniche ‛sociali' così come di esse la società deve valersi per rendere utilizzabili, da parte della comunità, i valori prodotti dall'artista. Il dilemma non sussisteva nel passato, quando l'arte si realizzava mediante tecniche che non soltanto erano strutturalmente simili a quelle della produzione economico-sociale dell'artigianato, ma ne costituivano il modello ideale; si pone ora, perché la tecnica della produzione economico-sociale non è più quella dell'artigianato ma quella, meccanica e ripetitiva, dell'industria. Ma allora la tecnica sui generis dell'arte non è una tecnica diversa, bensì una tecnica in ritardo: un residuo, in epoca industriale, del sistema tecnologico di un'epoca precedente e superata. D'altra parte è facile constatare (come già, alla metà del secolo scorso, Ruskin) che l'industria non produce nulla di artisticamente valido: proponendosi di rispondere non solo alle necessità pratiche, ma a tutte le necessità, anche psicologiche e spirituali, della vita, produce oggetti che vorrebbero essere artistici, ma che si rivelano scadenti, ‛di cattivo gusto'. Il Kitsch non è anti-arte, è l'arte industriale: infatti il fenomeno del Kitsch, mutando le forme col mutar delle mode, accompagna in tutto il suo sviluppo, fino a oggi, la produzione industriale. Dalle due ipotesi discende la conseguenza che, in ogni caso, è necessario un mutamento radicale: delle tecniche specifiche dell'arte affinché non siano più ritardatarie o anacronistiche, delle tecniche industriali affinché siano aperte agli impulsi creativi dell'arte e non li mortifichino nella banalità del Kitsch.
Nell'ambito delle tecniche speciali il primo, grande rinnovamento è quello operato dal cubismo e, subito dopo, dalle avanguardie storiche. Il cubismo muta lo status dell'opera d'arte: il quadro non è più rappresentazione, ma realtà in sé, che l'artista fa e colloca nel mondo. L'immagine non è più proiettata sullo schermo neutro del quadro, fa corpo con esso, con la tela, il telaio, la cornice. Lo spazio reale e concreto del quadro entra in rapporto con lo spazio dell'esistenza: il fine dell'operazione artistica è appunto di determinare questa possibilità di relazione per cui il quadro cessa di essere rappresentazione della realtà e diventa realtà esistente. Ciò che il quadro visualizza o manifesta è proprio quel processo di attivazione, e quindi, la propria genesi come oggetto pittorico, cioè la pittura: infatti, come nel quadro rimangono visibili la tela bianca e il disegno a matita o a carbone, così il piano del quadro acquista, come entità plastica, la forza di attrarre e integrarsi frammenti della realtà esterna, per esempio pezzi di giornale, di cartone, di legno. La tecnica del collage, che vuol dimostrare come l'opera d'arte viva di un'esistenza propria e non più riflessa, dimostra anche che lo spazio non è più concepito come un'entità omogenea e unitaria, ma come una dimensione indefinita, che può essere afferrata soltanto per frammenti, la cui estensione e la cui figura è determinata di volta in volta da ciò che è o si fa nello spazio: concezione che, mentre da un lato si accorda con la nozione di spazio della scienza moderna, dall'altro riflette l'esperienza della visione frammentaria, per singole situazioni, divulgata dalla fotografia e dal cinematografo. Come nuova struttura dell'operazione artistica, che sostituisce gradualmente la stesura coloristica della pittura e la modellazione della scultura, il collage rimane una delle tecniche fondamentali dell'arte moderna, anche dopo il cubismo e indipendentemente da esso: perfino Matisse, il grande assertore della irrinunciabile ‛essenza' classica dell'arte, finirà per servirsi di una tecnica affine a quella del collage, fissando su un fondo grandi sagome ritagliate nella carta colorata. Il dadaismo e il surrealismo ricorreranno alla tecnica del collage per combinare nel quadro oggetti incongrui, creando così associazioni tanto più significative quanto più arbitrarie. Dal collage deriva la tecnica del Merzbild o Merzbau di Schwitters, che consiste nell'aggregare sul piano pittorico o intorno a un nucleo plastico oggetti ‛trovati' la cui forzata coesistenza nell'opera definisce un tempo vissuto, una situazione dell'esistenza. Discende direttamente dal collage anche il processo del fotomontaggio, consistente nel combinare ritagli di fotografie in modo da ottenere un'immagine che sia, a un tempo, assurda e assolutamente credibile: un trompe-l'oeil che si trasforma in un trompe-l'esprit. Nei romans-collages di Ernst, invece che fotografie, vengono ritagliate e ricomposte figure dei romanzi d'appendice della fine del secolo scorso, col proposito di invertirne il significato e di scoprire il sottofondo inconscio e vizioso dei racconti ‛edificanti' cari alla borghesia del tempo. La tecnica del montaggio fotografico ha avuto larghi sviluppi anche fuori del campo artistico, per esempio nella pubblicità; e rimane tuttora una delle tecniche di base della ricerca figurativa collegata al sistema dell'informazione di massa.
Il surrealismo ammette qualsiasi tecnica purché ‛automatica' e quindi antitetica alla tecnica progettata dall'industria. Sono accettate anche le tecniche convenzionali (per es. Dali, De Chirico, Magritte, Ernst) proprio in quanto, essendo ormai una routine, non fanno problema e possono essere praticate senza alcun controllo mentale sui movimenti della mano, che debbono tradurre gli impulsi inconsci. Tecniche tipicamente surrealiste sono quelle, introdotte da Ernst, del frottage e del grattage. La prima consiste nello strofinare la matita o il carboncino sulla carta sovrapposta ad una superficie ruvida in modo da rilevarne le asperità, ottenendo così un'immagine, che viene poi interpretata e precisata, così come si precisano con l'immaginazione le figure confuse delle macchie sui muri; il grattage consiste invece nell'abrasione di una superficie dipinta, rivelando così gli strati sottostanti e la fibra della materia. Si tratta, nell'un caso e nell'altro, di tecniche o, piuttosto, di comportamenti infantili, istintivi, il cui scopo non è tanto di rivelare uno stato profondo dell'essere, quanto di stimolare il moto dell'immaginazione: l'occupazione delle mani nell'operazione meccanica istintiva blocca ogni interesse di conoscenza nei confronti della realtà su cui si opera, dà via libera all'immaginazione, il cui moto però ritorna alla mano e finisce per tradursi alla materia. Si connettono alle tecniche surrealiste, anche indipendentemente dalle finalità prime, le tecniche rivolte a scoprire nella materia segni che si assumono come significativi di una condizione umana o, con processo solo apparentemente inverso, a imprimere segni o impronte nella materia sensibilizzata. La pittura di Masson supera l'ambiguità dei contenuti propria del surrealismo e, fin dai primi anni del movimento, ricerca e sviluppa le possibilità di un linguaggio segnico surrealista.
Nella scultura, le cui tecniche tradizionali hanno avuto processi evolutivi assai lenti, fin dagli ultimi decenni del secolo scorso si avvertano tentativi di rinnovamento. Rodin e Rosso, proponendosi di adeguare l'immagine plastica alla vitalità coloristica e luminosa della pittura impressionista, hanno spinto fino all'estremo le possibilità di reazione luminosa della forma, predisponendola a trattenere o a accelerare la corsa della luce; più tardi, le sculture futuriste di Boccioni si presentano come strutture dinamiche il cui movimento è rivelato dal vario scorrimento della luce sui piani plastici.
La crisi delle tecniche tradizionali della scultura è stata in gran parte determinata dall'influenza della scultura negra, e precisamente dall'integrità della sua plastica, che ottiene la forma scavando la materia invece che riportando in profondità, come nella scultura classica, i successivi profili o i diversi piani della figura. Le operazioni della scultura vengono così riportate, come si vede nell'opera di Moore, ai gesti originari della modellazione e dell'intaglio e, per la qualificazione della superficie, del levigare, dell'intaccare, del graffiare. Anche altri scultori, come Gonzales o Smith o Colla, più che un vero e proprio rinnovamento, propongono un ritorno alle tecniche primitive, originarie: nel caso del metallo, al lavoro diretto con la fiamma e col martello sulla materia. In questa ripresa artigianale è chiara l'intenzione polemica nei confronti della tecnologia industriale, ma anche il desiderio di ricollegarla in qualche modo ai procedimenti magici e rituali della metallurgia primitiva. Le correnti d'indirizzo costruttivista partono dalla premessa che il sistema tecnologico è uno ed è l'apparato pragmatico creato dalla società per utilizzare al fine del benessere di tutti i risultati della ricerca, sia essa scientifica o estetica. Gli artisti non costituiscono un corpo separato, non possono avere tecniche proprie: agiscono per mandato della società con l'intero sistema di mezzi operativi di cui la società dispone. Poiché il sistema tecnologico industriale esclude ogni intervento operativo personale nel corso del processo esecutivo, l'artista può determinare l'esteticità del prodotto soltanto in fase di progettazione. Il vero ‛fare' artistico è dunque il progettare; ma poiché il progetto rimane un'ipotesi astratta, o un'utopia, se non venga compiuto tenendo conto delle possibilità concrete, economiche e tecnologiche, della realizzazione, l'artista-progettista deve progettare in funzione dell'apparato tecnologico esistente. In quanto conosce quell'apparato e ne dispone, l'artista è a priori integrato nel ciclo delle attività produttive e, quindi, nel corpo sociale; ma è anche autorizzato, anzi richiesto, di proporre varianti al meccanicismo del sistema per abilitarlo a produrre quei valori di cui, come artista, è responsabile. Tipico, in questo senso, il caso di Breuer che applica al mobilio le strutture in tubo metallico e il sistema di sospensione della bicicletta. Si spiega così l'assunzione, a livello di progettazione artistica, di materiali prelavorati dall'industria: lastre, tubi, laminati e profilati metallici, vetro, materie plastiche sintetiche, lampade, ecc.
Trasposta dall'esecuzione raffinata alla progettazione rigorosa, l'attività artistica si qualifica come metodologia progettuale. La differenza tra le forme architettoniche di un Le Corbusier, di un Gropius, di un Mies van der Rohe, di un Wright, di un Aalto è soprattutto una differenza di metodi di progettazione, cioè diversa individuazione e correlazione dei fattori problematici di cui il progetto dovrà offrire una soluzione. Per esempio, il modulor di Le Corbusier non è un modulo formale, ma una scala dimensionale che, applicata alla progettazione, assicura a priori la corrispondenza dell'edificio alla misura umana; il ‛minimo d'esistenza' di Gropius non è un criterio di economia, ma implica il principio della giusta proporzione tra funzioni private e funzioni pubbliche nella pianificazione urbanistica; in Wright e in Aalto l'analisi della condizione ‛organica' del terreno è un atto preliminare che definisce il rapporto tra uomo e natura con lo stesso rigore con cui, muovendo da altre premesse, Le Corbusier stabilisce un rapporto fisso tra figura umana e forma architettonica o Gropius la proporzione tra gli spazi della vita individuale e spazi della vita sociale. La varietà dei problemi a cui deve rispondere unitariamente il progetto rende necessaria la ricerca interdisciplinare: d'altra parte, ogni progetto avendo una finalità sociale, anzi potendosi a rigore considerare un progetto di società, è chiaro ch'esso stesso deve essere il prodotto di un'attività sociale, e cioè di un lavoro di gruppo. La forma ideale dell'équipe progettuale è quella della scuola, dacché, se il progetto deve avere una funzione educativa in quanto insegna alla società a progettare la propria esistenza, non può nascere che da un organismo intrinsecamente educativo, didattico. Il Bauhaus, nell'altro dopoguerra, è stato anzitutto una scuola di progettazione, in cui gli studenti avevano una parte attiva e necessaria: infatti, se ogni progetto è fatto per il futuro, è giusto che concorrano a elaborarlo le generazioni che dovranno fruirne. Lo stesso Gropius, in America, ha praticamente trasformato la sua scuola di progettazione dell'Università di Harvard in un gruppo di professionisti altamente specializzati (The Architects Collaborative, 1945); il principio della collaborazione e del lavoro di gruppo è stato largamente applicato nell'ora soppressa Hochschule für Gestaltung, creata a Ulm dopo la seconda guerra mondiale con la speranza di dar vita a un secondo Bauhaus. Anche nel campo delle pure ricerche visuali e cinetiche, che si sono sviluppate parallelamente e in antitesi alle correnti informali in Italia (Gruppo dell'arte programmata; Gruppo N; Gruppo Uno), in Germania (Gruppo O a Düsseldorf), in Francia (Groupe de recherche d'art visuel), in Spagna (Equipo 47), si afferma e si pratica il principio che la ricerca estetica, essendo una ricerca progettuale, non può non essere ricerca di gruppo.
Le tecniche dell'informalismo vogliono essere tecniche spontanee, deliberatamente non-programmate e non-progettate: differiscono però dall'automatismo surrealista perché non mirano a trascrivere e visualizzare l'inconscio, ma a realizzare visivamente e tattilmente il dinamismo profondo dell'esistenza. Quando si adopera il colore, si evita per lo più il processo tipico della pittura, la stesura del colore col pennello: si impiegano colori puri, per lo più vernici prodotte dall'industria (ma già Picasso aveva usato vernici a smalto), lasciando che formino coaguli, colate, spruzzi; spesso si mescolano alle tinte materie che formano spessori, grumi, croste (gesso, sabbia, ecc.). Nel 1946 Pollock adotta la tecnica del dripping consistente nel far sgocciolare dall'alto, sulla tela distesa sul pavimento, colori più liquidi o più densi, che formano filamenti, chiazze, spruzzi: l'immagine che ne risulta, apparentemente casuale, realizza sulla superficie il movimento dell'artista che si muove intorno ad essa con un ritmo che si traduce nelle variazioni dei segni colorati. Gli stessi materiali tradizionali dell'arte vengono chiamati in causa e contestati come gli agenti di un processo di idealizzazione che si dichiara mistificante: si utilizzano perciò le materie più diverse: tele di balla, legni bruciati, vecchie lamiere (Burri), cemento, catrame, assi di legno, stoffa (Tapies). Tali materie sono o appaiono inelaborate: i segni, le abrasioni, le bruciature, le corrosioni, le lacerazioni, le ammaccature e le impronte vogliono significare il logorio, la consunzione di un'esistenza vissuta, con cui si identifica o immedesima l'esistenza stessa dell'artista, come uomo di questo tempo storico, in cui la logica astratta e inflessibile del sistema fa dell'individuo null'altro che un frammento di materia umiliata e offesa.
Le correnti che vengono dopo l'informalismo, travalicando quella che pur sembrava l'ultima frontiera dell'arte, non pongono alcuna questione tecnica: l'arte è ormai una attività separata e respinta, che si giustifica solo in quanto si eccepisce dal sistema e lo contraddice. La confusa congerie d'immagini che vengono incessantemente immesse al consumo (e a un consumo coatto) attraverso i molteplici canali dell'informazione di massa paralizzano l'immaginazione della gente, costringendola a una logorante passività; le immagini-notizie della pubblicità colpiscono i consumatori sotto il livello della coscienza, agiscono sull'inconscio individuale e collettivo come impulsi che spingono a un consumo irriflessivo e indiscriminato, che non corrisponde alla necessità oggettiva delle cose ma al bisogno morboso di consumare. Nello spazio gremito d'immagini insignificanti ed effimere l'artista non può far altro che prelevarne alcune, isolarle e fissarle, presentandole come simboliche della società dei consumi, anche se in una tale società non possano esservi simboli ma soltanto campioni. D'altra parte, avendo ormai rinunciato anche alla condizione d'immunità e di privilegio dell'intellettuale, l'artista non vuole che il proprio comportamento sia diverso da quello della collettività ‛alienata': infatti il suo non può essere un modello né un tipo, ma solo un campione di comportamento. I suoi gesti sono i gesti irriflessivi del consumo indiscriminato: l'appropriazione, l'accumulo, eventualmente la distruzione cieca. L'oggettualità dell'arte pop non consiste nella produzione progettata di oggetti, ma nel consumo ostentatamente irriflessivo e gratuito delle cose-notizie prodotte a getto continuo dall'apparato, cioè da una tecnologia che non è più la tecnologia del produrre, ma del consumare e, per conseguenza, non più rivolta al valore ma al non-valore. Il francese Arman raccoglie e classifica nei suoi assemblages, come nel magazzino di un rigattiere, rubinetti, rotelle e ingranaggi, chiavi, statuette di ghisa sezionate, strumenti musicali a pezzi: il tutto sotto vetro o ‛congelato' entro lastre e blocchi di plexiglas. L'italiano Rotella e il francese Hains praticano la tecnica antitecnica del décollage: lacerano e staccano affissi murali, scoprendo frammenti d'immagini degli altri affissi sui quali sono stati applicati; ed è palese l'allusione al volto effimero della città moderna, ridotta a una rete di canali d'informazione. Lo scultore americano Chamberlain presenta grovigli di lamiere colorate e frammenti di motore di automobili sinistrate, cogliendo al vivo l'immagine dell'incidente, evento essenziale nel ciclo del consumo delle automobili. Altri scultori, come l'americano Smith e l'italiano Colla raccolgono negli ammassi dei rifiuti, alla periferia delle città, pezzi di macchine-utensili e li ricompongono in impeccabili simulacri statuari: alla poetica dadaista dell'oggetto trovato succede così la poetica del relitto. Lo scultore francese César presenta blocchi di rottami schiacciati sotto le presse, pronti per la fonderia; lo svizzero Tinguely, invece, ricostruisce coi rottami macchine impossibili, che mette in funzione con un insopportabile fragore di ferraglie e che, per lo più, finiscono per sconquassarsi e auto-distruggersi. Lo svizzero Spoerri, seguitando e portando all'estremo il Merz di Schwitters, si limita a fissare le cose che, col tempo, si accumulano casualmente sulle tavole o negli angoli dello studio.
Questi e altri analoghi processi, che agli occhi di un pubblico assuefatto all'impeccabile precisione della tecnologia industriale, appaiono scandalosamente anti-tecnici, rientrano di fatto in un diverso tipo di tecnica: la cosiddetta tecnica del bricolage, che l'antropologo Lévi-Strauss indica come propria dei ‛primitivi raccoglitori' e contrappone alle tecniche sociali, progettate, dei popoli progrediti. Il primitivo bricoleur è un essere pre-sociale, che prende dall'ambiente naturale ciò che gli serve per vivere, accumula senza discernimento, così come senza discernimento distrugge: praticando la tecnica del bricoleur, antitetica a quella dell'ingegnere, gli artisti vogliono significare che la ‛società dei consumi', benché dotata di tecniche perfezionate, pone i consumatori nella condizione pre-sociale o pre-storica dell'uomo delle caverne e delle foreste, determinando così un estremo di barbarie da quello che dovrebbe essere l'estremo di civiltà. D'altra parte, però, l'artista che rinuncia al privilegio di una posizione appartata e critica per confondersi con la massa dei consumatori ‛alienati' non si eccepisce più dalla collettività, ma soltanto dall'élite dei produttori e cioè dai gruppi di potere che controllano il sistema del consumo attraverso il sistema dell'informazione. L'opposizione non ha ragioni ideologiche, non mira a gestire diversamente il sistema, ma a incepparlo, a creare difficoltà al consumo. Quando Lichtenstein analizza la struttura dell'immagine del ‛fumetto' compie indubbiamente un'operazione filologica o linguistica, ma la sua analisi impedisce la consumazione normale del prodotto ‛fumetto', proponendo un consumo a livello intellettuale, che risulta ovviamente impossibile. Non diversamente, quando Warhol analizza attraverso una successione di immagini il processo di assimilazione di una ‛notizia' da parte dell'inconscio collettivo, dimostra come quella immagine-notizia sia scadente, avariata, corrotta, inquinante. La cosiddetta ‛arte povera' (il termine ripete una definizione di Artaud del teatro contemporaneo), che ricusa categoricamente le tecniche ‛ricche' della società odierna consiste sostanzialmente in un atto, che può essere anche soltanto mentale, con cui si determina nella società dei consumi una situazione di non-consumo. Nel momento attuale la condizione dell'artista si presenta dunque estremamente contraddittoria e oggettivamente insostenibile: l'artista, infatti, si integra nella società in quanto ne accetta la condizione di alienazione, ma l'accetta con la riserva mentale del possibile riscatto, all'interno del sistema, di un'autonomia di comportamento individuale, che in realtà è soltanto un comportamento abnorme.
Il problema che già si era posto al principio del secolo si ripropone, nella condizione presente, nei termini di un dilemma.: o l'arte è un'attività costitutiva e un'esigenza insopprimibile e insostituibile dello spirito umano o è una attività ‛storica inerente a determinate e non necessariamente permanenti strutture della cultura o della civiltà. Se è vera la seconda ipotesi, nel corso di questo secolo sono andate perdendosi tutte le connotazioni che nel passato caratterizzavano come tali le attività artistiche: la ricerca di valori inerenti a specifici oggetti (le opere d'arte) assunti come modelli diretti o indiretti delle attività produttive della società; la continuità storica di una cultura artistica; l'impiego di tecniche comunque correlate con le tecniche della produzione. Si deve quindi concludere che l'arte, come modo esemplare del lavoro umano, ha cessato di esistere quando il sistema tecnologico dell'industria, che ripete i suoi modelli dalla scienza, è succeduto al sistema tecnologico dell'artigianato, ché aveva nell'arte i suoi modelli. Il tipo di attività che si è chiamata artistica ha dunque chiuso il proprio ciclo storico, anche se non può escludersi l'ipotesi che il tipo di esperienza mediato dall'arte possa essere, in un diverso sistema culturale, mediato da altre attività.
La prima ipotesi, della non-storicità o dell'incondizionata creatività dell'arte, è contraddetta dal fatto che la nozione di progresso tecnologico ha messo in crisi il concetto stesso di creatività; che la nozione di invenzione, già propria ed esclusiva dell'arte, è stata assunta e monopolizzata dalla tecnologia industriale; che lo stesso concetto di valore, inseparabile da quello di creazione, è in contraddizione con una società che, essendo una società dei consumi, non può essere una civiltà dei valori. La prova dell'insostenibilità dell'ipotesi, accreditata specialmente dalla cultura americana, della non-storicità o della pura creatività dell'arte, appare del resto contraddetta, nella stessa area culturale, dalla recentissima corrente dell'iperrealismo: la quale indubbiamente rivaluta, anzi dà come immune da scadenza storica, la tecnica tradizionale della pittura, ponendola tuttavia come tecnica repressiva di ogni impulso espressivo individuale e assumendola perciò come mezzo di pressione politica in tutto simile a quello del cosiddetto ‛realismo socialista'.
9. La crisi della rappresentazione
Il fatto che separa nettamente, con un vero e proprio salto qualitativo, l'arte del nostro secolo da tutta l'arte del passato, almeno nell'area della cultura occidentale, è il passaggio dalla figuratività alla non-figuratività o, come comunemente si dice, all'‛astrazione'. La svolta viene variamente interpretata come l'indizio più significativo della crisi o, all'opposto, come l'instaurazione di sistemi segnici non più dedotti dal modello della morfologia naturale e come liberazione della creatività umana da ogni condizionante principio d'autorità. Si imputa a questi sistemi segnici non naturalistici la cosiddetta incomunicabilità dell'arte contemporanea e il suo distacco dalle esperienze e dagli interessi della società; il distacco dipende invece dal fatto che, per un pregiudizio inveterato, molti seguitano a volersi servire, per decifrare i messaggi artistici, del codice della morfologia naturale, di cui nessuno pensa più di servirsi per altri tipi di comunicazione, per esempio quelle della scienza. Altro pregiudizio è che la svolta concerna soltanto le arti della figurazione e non l'architettura, che si ritiene esente dall'obbligo di imitare la natura. Di fatto, se soltanto si sostituisce il termine di rappresentazione a quello di figurazione, è facile constatare che, nel passato, l'architettura non è meno rappresentativa che la pittura o la scultura. Le proporzioni e le forme dell'architettura di tradizione classica rappresentano l'equilibrio dei pesi e delle spinte, la conformità dell'edificio alla legge di gravità e all'ordine dello spazio naturale; in quanto poi l'edificio è rappresentativo di certi valori ritenuti costitutivi della società (come la religione, lo Stato, ecc.), questi vengono dati come stabili proprio perché la forma che li rappresenta riflette l'immutabilità e la provvidenzialità delle leggi naturali. L'architettura moderna ricusa anch'essa l'autorità del modello naturale come uno schema ormai sorpassato; realizza mediante nuovi materiali e nuove tecniche un'immagine spaziale che non corrisponde a quella delle cosiddette leggi di natura; risponde a esigenze concrete della vita e del lavoro; disdegna di rappresentare l'autorità che regge la società e rappresenta, semmai, il dinamismo delle sue funzioni.
Il momento del passaggio decisivo dal figurativo al non-figurativo viene generalmente fissato al 1910-1911, quando Kandinskij dipinge il primo acquerello astratto, scrive Über das Geistige in der Kunst (pubblicato nel 1912) e dà vita a Monaco, insieme a Klee, Marc e Macke, al movimento Blaue Reiter: Kandinskij afferma che non la sensazione visiva ricevuta dal mondo esterno, ma ‟la volontà interiore del soggetto" determina la forma artistica; che tra la sfera della natura e la sfera dell'arte non esiste comunicazione; che la presenza o la riconoscibilità dell'oggetto nuocciono all'arte. La spiritualità dell'arte consiste nell'affinità profonda che unisce l'artista direttamente alle forze invisibili del cosmo, passando al di sopra di un mondo sensibile, che appare ormai limitato. I segni, che non debbono più manifestare l'esperienza ma l'intuizione dell'universo, non hanno un significato simbolico, che sarebbe ancora rappresentativo: poiché debbono significare il continuo divenire del cosmo nel suo processo di creazione continua, non possono appartenere ad alcuna preesistente categoria segnica né corrispondere ad alcuna morfologia data. Significando il trapasso dall'energia alla materia e il conseguente ritorno dalla materia all'energia, appaiono sulla tela bianca (campo delle virtualità infinite) come embrioni vitali, filamenti animati, condensazioni o dissolvenze di colore: una realtà continuamente ‛nascente' non può darsi che in segni nascenti, simili agli scarabocchi con i quali i bambini formulano la loro prima, albeggiante intuizione del reale (di qui il titolo di Improvisations).
Un primo passo verso la defigurazione si era già avuto con i simbolisti che, sviluppando il tema delle correspondences di Mallarmé, avevano cercato di tradurre in simboli grafici e coloristici stati emotivi indipendenti dalle sensazioni visive, per esempio armonie musicali e ritmi poetici, ‛momenti' o tensioni spirituali: Redon aveva opposto alla pura, esclusiva visività degli impressionisti un minimo di evidenza con un massimo di allusione; il movimento spiritualista di Sar Peladan (Rosa Croce) aveva anteposto l'espressività intrinseca del segno all'allusività dell'immagine. Il problema, tuttavia, va molto al di là del contrasto (che è anche relazione dialettica) tra positivismo e spiritualismo. Il punto di frattura, rispetto alla tradizione, va riportato più indietro, verso il 1870, quando gli impressionisti si erano proposti di ridurre l'arte alla resa immediata della sensazione visiva. La loro mira non era certamente il ricalco meccanico, l'inutile gara tra l'occhio e l'obiettivo fotografico: ciò che essi volevano accertare e rivelare era la reazione impregiudicata, incondizionata, autentica del soggetto al contatto diretto con la realtà, l'oggetto. Con l'eccezione della verifica scientifica della sensazione tentata da Seurat e dai neoimpressionisti, l'impressionismo si è sviluppato nel senso di un approfondimento dell'analisi del soggetto: nelle opere tarde, Monet segue il percorso interiore della sensazione visiva, il suo evolvere e mutare in stati d'animo complessi e ramificati, nel sovrapporsi e associarsi di diversi momenti del sentimento e della memoria, sicché il dipingere non consiste più nel rendere la sensazione, ma nel sensibilizzare dall'interno la materia pittorica; Cézanne imposta sulla sensazione una ricerca che può ben dirsi ontologica; van Gogh esaspera la sensazione visiva con l'aggressione deformante della ‛passione' interiore.
Il cubismo opera ad un tempo una rivoluzione e una restaurazione. È rivoluzione perché ricusa la tradizionale concezione della forma che supera l'occasionalità e la provvisorietà della sensazione e, ricollegandosi a Cézanne, esige che la forma includa, organizzi, costruisca le sensazioni: è restaurazione (e lo dimostra la dissidenza di Delaunay, di Duchamp, dei futuristi) in quanto mira a risolvere con un nuovo sistema di rappresentazione formale la crisi dell'idea di forma che l'impressionismo aveva aperta. Perciò, appunto, il cosiddetto rappel a l'ordre, il movimento di restaurazione dei grandi valori dell'arte, a cominciare dalla figurazione, che ha avuto luogo dopo la prima guerra mondiale, ha potuto richiamarsi al cubismo per combattere le avanguardie che il cubismo stesso aveva, dieci anni prima, suscitate. Ora, la grande novità di Kandinskij e del Blaue Reiter non è stata la rinuncia alla figurazione, ma la rinuncia alla rappresentazione come processo intellettivo proprio dell'arte: in altri termini, la sostituzione del segno alla forma. Sul piano storico l'istanza del Blaue Reiter significa certamente la legittimazione e l'inserimento nella cultura europea della componente nordica già individuata dal Worringer, e quindi l'estensione della nozione di Europa, ormai risultante dalla tensione dialettica tra una cultura della rappresentazione o della forma e una cultura dell'intuizione o del segno; ma si deve appunto a Kandinskij e al Blaue Reiter se quella tensione dialettica va al di là dell' ormai scontata contrapposizione di classico e romantico. Non soltanto Kandinskij ricusa il generico spiritualismo simbolistico ma, per evitare ogni ambiguità tra segno e simbolo, cerca di instaurare una ‛scienza' dei segni, partendo da una analisi degli ‛elementari' del punto, della linea, della superficie: alle teorie della forma si sostituisce così una teoria dei segni.
Il contrasto, e la ricerca di un accordo, tra forma e segno si sviluppano con diverse vicende nell'intervallo tra le due guerre, e si concludono con l'abbandono finale della rappresentazione. Di fatto, l'idea di rappresentazione implicava la certezza che le stesse forme della natura fossero rappresentative di contenuti o significati universali: essendo la natura stessa una rappresentazione in forme finite e visibili di una realtà infinita e trascendente, l'arte non poteva essere che la rappresentazione di una rappresentazione (di qui il principio classico della mimesis). Ponendo la natura come altro da sé, oggetto, l'artista prendeva coscienza del proprio essere come soggetto: la rappresentazione garantiva appunto l'equilibrio, il parallelismo di oggetto e soggetto. La rappresentazione aveva anche un'implicazione religiosa, dacché l'essenza o il contenuto del creato non poteva essere che il creatore. La rinuncia all'idea di rappresentazione concludeva dunque il processo di secolarizzazione che anche per l'arte, come tutte le discipline, aveva avuto principio con la cultura dell'illuminismo: ciò che spiega perché la fine della rappresentazione segni anche la fine dell'arte sacra o religiosa e l'inizio di un'arte che, negandosi ogni esito di trascendenza, mira a realizzarsi interamente nell'orizzonte mondano e a porsi concrete finalità sociali. L'architettura razionale, il design, le correnti costruttiviste, che si propongono precise, ‛realistiche' funzioni sociali muovono infatti dal rifiuto della contemplatività della rappresentazione; e, più che determinare le forme, determinano i segni delle funzioni, limitandosi in sostanza a fornire stimoli e indicazioni a quello che sarà il giusto comportamento dei fruitori.
Che il problema di rappresentazione e non-rappresentazione non si restringa a quello della figurazione e non-figurazione è dimostrato dal fatto che, nell'arte del nostro secolo, si possono indicare casi di rappresentazioni non-figurative come di figurazioni non-rappresentative. La pittura di Mondrian, che costituisce la deduzione logica dal cubismo, mira indubbiamente a una rappresentazione rigorosa dello spazio, in cui la terza dimensione, che potrebbe darsi soltanto in modo illusorio, viene scartata come non accertabile e ridotta alle altre due e cioè implicata nel rapporto delle coordinate verticali e orizzontali sul piano. È dunque rappresentativa ma non-figurativa perché risulta dalla sistematica eliminazione di ogni oggetto riconoscibile e quindi di ogni sensazione localizzata. All'opposto, la pittura surrealista (per es. di Magritte o di Dali) è manifestamente figurativa, tanto da giungere talvolta all'inganno ottico; ma non è rappresentativa perché le immagini, mere proiezioni dell'inconscio, non hanno la struttura né il contenuto ontologico della forma. È figurativo e non-rappresentativo Chagall, che si aggira in una dimensione fantastica in cui le immagini si fanno e disfanno come nubi nel cielo, ma non si pone in nessun modo il problema della definizione formale dell'esperienza della realtà; e sono figurative e non-rappresentative tutte le tendenze dell'arte ‛fantastica' anche quando le immagini abbiano figure mai viste o impossibili (per es. Hundertwasser). Sono invece rappresentativi e non-figurativi artisti come Brâncuşi, Mirò, Arp che cercano forme-chiave, esplicative della realtà universale, sia che il ‛seme' della forma sia geometrico oppure biomorfico od organico. In breve, la forma rappresentativa implica l'idea di un valore insito nella realtà, che l'artista può soltanto individuare e rivelare; se si neghi l'esistenza di quel valore, anche la più fedele, minuziosa descrizione della sembianza è soltanto un segno o un indizio che rimanda a una ulteriore, e virtuale, determinazione di valore.
Si vede dunque quanto sia errato scambiare come ritorno alla rappresentazione talune recenti riprese di figurazione: prima fra tutte quella dell'inglese Bacon, che non rivaluta, ma ulteriormente svalorizza la figura col manifesto proposito di mostrare che, nella presente condizione del mondo, la persona umana non può assurgere a chiarezza e dignità di forma rappresentativa, ma soltanto degradarsi a livello di segno o indizio di una situazione. A maggior ragione non può considerarsi rappresentazione la cosiddetta ‛nuova figurazione', in gran parte discendente da Bacon, in quanto, appunto, esclude ogni possibilità di sviluppo dalla sembianza o dalla figura alla chiarezza della forma (o della coscienza) e constata invece l'inevitabile degradazione della figura a immagine, la sua discesa a livello dell'inconscio, e il suo successivo ridursi a segno dell'indistinto, a sintomo dell'immutabilità della condizione umana che, nella presente condizione del mondo, ha raggiunto il limite nec ultra dell'inerzia e dell'avvilimento. Non per nulla la recuperata figura non viene neppure immaginata, ma per lo più raccolta tra i detriti delle immagini ‛consumate', tra le scorie dell'informazione di massa. Al di sopra, ma non per questo estranea al sempre più aspro contrasto di rappresentazione e non-rappresentazione, è la personalità dominante di Picasso, il ‛genio' del secolo. La sua opera immensa di pittore, scultore, grafico, ceramista riflette, anche nel continuo mutare delle maniere e delle tecniche (due termini tra cui non può più esservi differenza) lo sforzo veramente titanico di congiungere e fondere il momento della contemplazione e quello dell'azione, istantaneamente ribaltando la visione della realtà in un'aggressione che la sconvolge e trasforma. Esclusa ogni nozione preconcetta del mondo, immedesima la realtà con i miti che di volta in volta la configurano, identifica l'universo con la storia che lo investe in tutta la sua estensione senza lasciare margini di evasione. La storia, per Picasso, non è che un perenne insorgere e distruggersi di miti, un seguito di catastrofi, un succedersi di gesti spettacolari e, nello stesso tempo, contraddittori, insensati, impotenti. La funzione o, piuttosto, la missione storica dell'artista consiste allora in un eroico prodigarsi a riunire i frammenti di un mondo che frana, ma anche nel mostrare come in ciascuno di quei disgregati frammenti si conservi, inestinguibile, la vita: e la vita, in termini di storia, non è altro che l'arte. Ma se l'arte è, in toto, la vita non può avere due contrapposti versanti, del rappresentare e dell'agire, né distinte categorie, come quelle della forma, dell'immagine, del segno.
Anche Klee, che può considerarsi la personalità parallela e antagonista di Picasso, ha capito che il contrasto di rappresentazione e non-rappresentazione comprometteva l'unità del concetto di arte e ne accelerava la crisi. Legato a Kandinskij nel gruppo Blaue Reiter e poi nel Bauhaus, in tutta la sua opera di pittore e di grafico muove dall'atto iniziale e quasi involontario del segno per ricostruire con la trama sottile dei segni il tessuto già vitale dell'immagine, e poi risalire da esso a una delicata, capillare strutturazione della forma, che dunque non viene mai data come compiuta rappresentazione, ma come processo aggregativo, formazione in atto (Gestaltung).
Il distacco dal modello naturale orienta la ricerca artistica verso la determinazione, non più di categorie formali, ma di campi semantici: e sono dapprima quello dei segni geometrici e quello dei segni organici o biomorfici. Lo stesso Kandinskij, dopo aver cercato di fissare il segno nel momento della sua genesi, dopo avere intensamente vissuta l'esperienza della Rivoluzione sovietica, intraprende una ricerca strutturale, ‛architettonica', uniformando il segno alle forme essenziali della geometria: punti, linee rette e a zig-zag, quadrati, triangoli, cerchi. È chiaro l'intento, che si consolida negli anni dell'insegnamento nel Bauhaus, di identificare segno e idea i segni geometrici non sono più forme rappresentative dello spazio, ma costituiscono tuttavia un codice comune, il tramite di una comunicazione a livello intellettuale. Hanno dunque una funzione strumentale, il loro significato, che non è dato a priori, si precisa nel contesto. Nell'impaginazione del quadro, nella variazione della grandezza, della situazione, del colore, i segni interagiscono come altrettanti indici (e non simboli) di forze in un campo magnetico: la superficie del quadro viene interamente coinvolta, dinamizzata. I segni intellettivi della razionalità geometrica assumono così una vitalità esistenziale, significando che la ragione non è una ‛astrazione' al di là della vita, ma la sua concreta sostanza.
Un processo non dissimile si nota in Mondrian: anche se è possibile seguire (come nella famosa serie dell'Albero) le successive fasi dell'astrazione dall'oggetto, e della sua progressiva assimilazione ad una pura, geometrica spazialità, con un passaggio che potrebbe dirsi dal fenomeno al noumeno, v'è poi un iter inverso, per cui si ritorna dal noumeno al fenomeno, e cioè dalla realtà percettiva ed emozionale alla realtà plastico-visiva del quadro, a una realtà-pittura, che dunque non è più ‛astratta', ma, come lo stesso Mondrian precisa, ‛concreta'. Il quadro, insomma, non è più che uno schema, un pattern per una percezione non più emozionale, ma intellettuale della realtà; ed è proprio con questa lezione di chiarezza a un tempo intellettuale e visiva che Mondrian si propone di ‟eliminare il tragico della vita quotidiana". Nella medesima linea di pensiero Moholy-Nagy vede nell'‛astrazione' il superamento del limite che un'accettata immagine del mondo pone all'immaginazione, il cui processo non contraddice, ma si identifica con quello della ragione; e Albers lavora per tutta la vita sul tema del quadrato, come formula spaziale che regola bensì anche la modulazione tonale e cromatica, ma non ne limita l'infinita possibilità di variare i rapporti.
Altro codice segnico è l'‛organico' il cui archetipo è biologico: la cellula vitale, il principio unitario della conformazione degli organismi viventi. Organico è anche il processo di aggregazione, inteso come crescita da un nucleo e quindi come progressiva espansione nello spazio. Se la morfologia geometrica tende a precisarsi sul piano, come ipotesi spaziale a priori, la morfologia organica si realizza piuttosto nella plastica (Arp, Moore). Si delinea così una nuova dimensione spaziale, quella dello spazio ‛interno' dell'organismo vivente, lo spazio delle ossa e dei visceri, della diramazione dei nervi, della circolazione del sangue, e del suo rapporto di tensione con lo spazio ‛esterno', della vita sociale, della città, del paesaggio. Poiché della spazialità interna del proprio organismo, dell'interiorità psicofisica del proprio essere, l'individuo non ha che un'intuizione oscura, attraverso moti incontrollabili di tensione e rilassamento, di piacere e dolore, questa spazialità tende a confondersi con quella dell'inconscio: la grafica e la pittura di Wols, la plastica di Schultze, tra il 1940 e il 1950, manifestano appunto, nell'irritazione del segno e della materia, l'angoscia dell'individuo per la condizione del proprio essere, per la ‛malattia mortale' che lo insidia e che, infine, non è che il riflesso dello stato di profondo e inguaribile malessere, o di nevrosi collettiva, dell'umanità irrimediabilmente ‛alienata'. Così la morfologia geometrica (linee rette, piani, volumi) come la morfologia organica (linee curve, spirali, masse tondeggianti) si manifestano nell'architettura non meno che nella pittura e nella scultura. La prima costituisce il codice dell'architettura razionale, la seconda dell'architettura organica (Wright, Aalto): la prima uniforma l'immagine architettonica a uno spazio pensato come entità geometrica divisibile secondo proporzioni aritmetiche, la seconda alla realtà empirica dello spazio naturale e sociale. Non meno che nell'architettura, nel disegno industriale le due morfologie tendono a combinarsi: all'idea della forma regolare, intesa come sottomultiplo della forma geometrica dello spazio, si accompagna o addirittura succede l'idea di una forma corrispondente non più soltanto alle funzioni sociali, ma alla realtà fisica della persona: sedie modellate sul corpo umano, maniglie di porta modellate sull'impronta della mano, ecc.
Conseguenza diretta del distacco dal modello naturale è l'estensione illimitata del campo semantico dell'arte. Fin dal 1922, nel periodo aureo dell'‛astrazione' geometrica, Hartung comincia a ricercare in un'altra direzione, né geometrica né organica, l'origine del segno. Esso non nasce più da un'intuizione del cosmo né della vita organica, ma da una precisa volontà d'azione, da un impulso etico. Come l'etica fenomenologica di Scheler, così quella di Hartung non conosce leggi o modelli, ma si verifica nella qualità intrinseca, nel modo dell'atto. Il segno che lo visualizza non è progettato, né istintivo, né arbitrario: la velocità, la giustezza, l'efficacia, la portata dell'atto che traduce dipendono da una sorta di allenamento, di esercizio a rispondere con una mossa risolutiva a una situazione di fatto. La pittura di Hartung, insomma, è una lotta ogni volta impegnata con quel campo di virtualità che è la tela bianca: determinazione contro indeterminatezza, azione contro inerzia. Il gesto di Hartung si qualifica subito come gesto di negazione o cancellazione: è l'atto di una scelta che elimina tutte le altre possibilità. La negatività fondamentale del gesto pittorico o plastico diverrà poi caratteristica di una gran parte dell'arte materica e di gesto del secondo dopoguerra: in De Kooning, in Kline, in Vedova, in Soulages. Nell'opera pittorico-plastica (due termini ormai indifferenziati) di Fontana il gesto-segno si concreta nell'atto del perforare o del fendere: la superficie non è più un campo aperto a tutte le virtualità, ma una parete che limita e divide lo spazio, determinando nel soggetto un'intollerabile condizione di blocco, da cui si libera con un gesto di rottura, col colpo di punta o di taglio che rompe quella superficie e ristabilisce una comunicazione tra il ‛di qua' e il ‛di là'.
Il collegamento tra gesto e segno implica ancora un impulso individuale, istintivo o emotivo o volitivo che sia, e quindi una presenza attiva, una reazione del soggetto: Mathieu o, nelle impronte colorate di figure nude, Klein compiono il gesto artistico in pubblico, vogliono che l'atto abbia la sua unica spiegazione nell'agente. Poiché tuttavia alla crisi dell'oggetto corrisponde inevitabilmente la crisi del soggetto, altri artisti si propongono di spersonalizzare il gesto, la cui traccia visibile si riduce a macchia o impronta apparentemente casuale, ma tale da definire comunque una situazione spazio-temporale: come nelle opere di Clifford Still, di Guston, di Sam Francis, di Motherwell.
Altre volte il segno, che si vuole indipendente dal gesto e dalle sue motivazioni, viene ricondotto alla sua essenza primaria di fatto grafico, come nel caso di Tobey e di Bissier, che si richiamano a modelli estremo-orientali, specialmente alla cultura Zen: ciò che stabilisce un nuovo raccordo con l'estetica e l'arte giapponese, tanto più importante in quanto nei moderni pittori giapponesi (Imai, Domoto, Sugai, ecc.) riaffiorano temi e motivi grafici e materici della loro antica tradizione. In Twombly, in Michaux, in Novelli il segno diventa puro grafismo, ‛grado zero' della scrittura, mezzo comunicativo che precede ogni determinazione figurale o letterale e che trasmette perciò, più ancora che uno status inconscio o preconscio, una condizione di disponibilità, di attesa esistenziale. In Dubuffet il segno ritrova spesso un'apparente determinazione figurativa, riprendendo i graffiti e le scritte sui muri o sviluppandosi direttamente dal tessuto materico: si tratta, in questo caso, di un'operazione linguistica, rivolta a cercare nello sgorbio o nello scarabocchio una sorgente pre-letteraria del linguaggio, con processo non dissimile da quello della narrativa di Queneau, alla quale infatti è direttamente collegato.
Al minimo spaziale del segno corrisponde il massimo spaziale del ‛continuo', della successione e variazione illimitate del segno nella dimensione illimitata dello spazio- tempo: di qui, per esempio nella scultura di A. Pomodoro, lo sviluppo di serie segniche, quasi per cicli di mutazioni, in forme ‛continue' come quelle del cilindro e della sfera.
Il punto di maggior consapevolezza della ricerca segnica è quello raggiunto dalla pittura e dalla grafica di Capogrossi, in cui il segno-base ha bensì un suo schema strutturale costante, ma allo stato potenziale, sicché viene declinato sempre e soltanto nelle infinite varianti che dipendono dall'interrelazione e interazione dei segni tra loro e con la superficie del quadro, ormai intesa come ‛campo' o luogo di situazioni.
Ciò che viene chiamato in causa, in quasi tutte le correnti che vengono dopo l'informalismo, è dunque il ‛quadro' (o la scultura) nella sua pura realtà oggettuale, nel suo essere pur sempre un ‛luogo' privilegiato che determina il contesto segnico e ne è, a sua volta, determinato. Il problema dell'essenza e del significato del ‛quadro', come fenomeno nell'universo dei fenomeni, già intuito da Cézanne e poi dai cubisti, tocca finalmente il suo limite: la tendenza dello hard edge, che fa capo a Newman, non si limita a sostenere la solidarietà sostanziale della pittura con il suo supporto materiale, ma fa del quadro un oggettto-segno. In definitiva, distruggendosi alla radice ogni implicazione simbolica, l'arte non è neppur più un'operazione semantica, ma soltanto segnaletica : il segno non deve essere interpretato o spiegato, ma orientare il comportamento pratico, allo stesso modo che la segnaletica stradale orienta il comportamento dell'automobilista.
È connessa con queste tendenze fortemente riduttive, che restringono sempre più il campo operativo dell'arte, la proposta di uno svincolo finale dall'obbligatoria localizzazione dell'arte nell'opera d'arte. La corrente della minimal art o delle ‛strutture primarie' punta decisamente all'eliminazione di ogni significato implicito e all'individuazione di elementi strutturali elementari destinati ad essere inseriti nello spazio fenomenico, in situazioni concrete, di cui forniscono uno schema d'interpretazione o di fruizione in senso estetico o costruttivo. ‟In questo senso l'arte degli anni sessanta rappresenta il grado zero dell'arte. Un'arte del grado zero che demistifica i temi dell'inconscio, la partecipazione ai ritmi cosmici, le difese degli assiomi della pittura, le soluzioni utilitaristiche-antropocentriche, e produce un atteggiamento di analisi contraria alla tradizione dell'agire ‛umano'. Grado zero significa così operare in una zona in cui non è ancora intervenuta l'opera falsificante e mistificante della formalizzazione e in un momento in cui sulle strutture non è stata ancora condotta un'operazione espressiva." (v. Celant, 1969, p. 215).
In architettura, il punto-limite della riduzione è segnato da Kahn che, ricollegandosi a distanza di quasi due secoli agli assunti teorici di Boullée, nega la legittimità di progettare a partire da ogni idea o schema a priori come lo spazio o la società o la stessa storia dell'architettura. Muove invece da una ‛idea-forma' primaria, e cioè da un atto puramente artistico, individuando poi all'interno di quella forma la logica sui generis dell'iter progettuale. Ma, se bisogna partire dall'arte per arrivare all'arte, l'arte è un ciclo chiuso, né altro può fare l'artista che realizzare il concetto dell'arte, dando tuttavia per scontato che tale concetto non esiste in sé, ma soltanto nell'opera che lo realizza. Ciò che equivale a dire che, nella presente condizione storica, l'arte non esiste come funzione necessaria ma come eventuale presenza; e sempre soltanto nei limiti di un puro concetto.
10. Oggettualità e concettualità
Al di là di questa riduzione ai minimi termini, nessuna ulteriore riduzione appare più possibile: esclusa l'arte come operazione e posta come puro concetto, la situazione di fatto dovrebbe essere quella prevista da Hegel, quando ha annunciato come inevitabile la morte dell'arte e la sua assunzione al livello della scienza e della filosofia, dello spirito assoluto. Non si è avuta infatti un'ulteriore riduzione, ma un ribaltamento: l'obiettivo dell'attività artistica non è più l'arte, ma l'opposto dell'arte, l'anti-arte. È qualcosa di più e qualcosa di meno della morte dell'arte: qualcosa di più perché non è soltanto un'assenza, ma una presenza contraria, qualcosa di meno perché implica pur sempre un'attività artistica, benché di segno contrario. Il paradosso è evidente: se il fare anti-arte è il solo modo di fare arte, l'arte distrugge se stessa nell'atto del proprio farsi.
L'ipotesi assurda può essere interpretata come il programma di una nuova e più radicale avanguardia o la ripresa ingrandita del drastico proposito futurista: l'arte del presente non può avere alcun rapporto con tutto ciò che fino a questo momento è stato considerato come arte. Si ammette cioè che la società odierna, integralmente condizionata dall'economia e dalla tecnologia dell'industria, conserva tuttavia, nel proprio sistema di valori, il valore-arte; ma è in mala fede perché non soltanto esclude dalle proprie modalità operative quella dell'arte, ma lo stesso valore dell'arte riduce al proprio sistema di valori, considerandola come merce pregiata e oggetto di possesso. La sola arte ‛pura' sarebbe dunque un'arte completamente diversa da quella che la società considera arte. L'assunto moralistico non tarda a scoprire il proprio limite: fare un'arte diversa da tutto ciò che è considerato e valutato come arte significa fare un'arte disgiunta dalla sua storia, non storicizzabile. In altre parole, significa dire che la storia dell'arte non continua, è chiusa. In questo senso dovrebbe giudicarsi di avanguardia l'arte americana, che nell'ambito di quella cultura si presenta come un fatto nuovo, senza precedenti storici: mentre l'arte ‛storica', che forma una ‛storia dell'arte', non sarebbe che un caso particolare nella sterminata fenomenica dell'arte, e precisamente l'arte europea, anzi di quella specifica fase della cultura europea, l'umanesimo, che comincia al principio del XV secolo e si conclude nel XVIII con la ‛rivoluzione industriale'.
Sta di fatto, però, che l'arte americana non si è sviluppata dalle premesse ideologiche delle avanguardie europee, ma dal paradosso dadaista e surrealista dell'arte come antiarte. La condanna dell'arte; pronunciata per la poesia da Lautréamont e da Rimbaud, concerne il ‛poema' come oggetto poetico, considerato limitativo di un'esperienza poetica che si vuole immedesimata con l'esistenza stessa del poeta: l'opera d'arte, nella sua finitezza, è limite all'artisticità come il creato è limite alla creazione. Anti-arte significa insomma arte senza opera d'arte. Tutta l'arte di questo secolo vive la crisi dell'oggetto artistico; e poiché in tutta la storia della civiltà, l'oggetto artistico è stato l'oggetto per antonomasia, il modello ideale dell'oggetto, la crisi dell'oggetto artistico rientra nella più vasta crisi dell'idea di oggetto. Le correnti più recenti ripudiano l'oggetto artistico sia perché non ha più valore di modello, sia perché, in una società di mercato come l'attuale, viene immediatamente coinvolto nella meccanica del possesso e del consumo, ‛mercificato'. L'arte detta ‛di comportamento' sostituisce l'artista all'oggetto artistico; ma, come accade per l'attore di teatro, la stessa persona dell'artista viene immediatamente ‛mercificata'. Dopo tanti tentativi rivolti a inserire l'arte nella società, non rimane che il tentativo opposto, di sottrarla al potere mistificante di una società mistificata.
L'estremo dell'ambiguità è raggiunto dalla pop art americana, che si presenta come contestazione del sistema, di cui è invece strumento. Non si accontenta del non-oggetto, inventa l'anti-oggetto, che deriva ma si differenzia profondamente dall'oggetto a funzionamento invertito del dadaismo e del surrealismo. Il ready made di Duchamp mutava lo statuto dell'oggetto estraniandolo dal suo contesto abituale e dal suo ciclo funzionale, ma nello stesso tempo riqualificandolo come oggetto artistico, sia pure privato di ogni connotazione di valore. L'arte pop non opera sull'oggetto ma sulla sua sembianza, muovendo dalla constatazione che la società industriale ha sostituito alla nozione di oggetto quella di prodotto e che il prodotto, non possedendo l'individualità dell'oggetto, è soltanto ripetuta sembianza, ristampa da un tipo, unità di una serie. È vero che la sembianza viene pesantemente reificata, ma attraverso un processo che non è più quello, progettato e costruttivo, della produzione, bensì quello, disgregativo e di mera manipolazione, del consumo. La cosiddetta oggettualità pop è, infatti, antiprogettualità: nell'arco dell'esistenza del prodotto non interessa la curva ascendente, della formazione, ma quella discendente, del consumo o dello spreco. La tecnica pop è una tecnica peggiorativa e devalorizzante, opposta a quella dell'arte, tradizionalmente attributiva e accrescitiva del valore. Ciò che si vuole contestare e rimuovere è l'idea di valore, che fonda il binomio di soggetto e oggetto: all'entità puramente quantitativa della cosa, come unità nella serie, corrisponde l'entità puramente quantitativa dell'individuo, unità nella massa.
La cattiva coscienza e la demagogia della pop art sono state presto smascherate da altre correnti, anch'esse aliene da ogni presupposto ideologico, ma comunque rivolte a riscattare, sia pure in uno spazio operativo sempre più ristretto, l'autenticità dell'atto artistico: la minimal art, la funk art, la land art, l'arte ‛povera', l'arte ‛concettuale'. L'operazione artistica è ormai un'operazione solitaria, che non si pone più come opera né come spettacolo; non sopporta il riconoscimento del valore, o il giudizio critico, perché non determina valori; non ha rapporti con le comuni procedure operative, né propone un proprio modo operativo; non ha relazioni con la società opulenta perché è assolutamente povera. L'artista ‟abbandona la mediazione linguistica dell'immagine per vivere d'azzardo in uno spazio aleatorio. Trova insopportabile considerare l'arte come apportatrice di valori anticipatori [...] Rifiuta la parte del ‛vate' perché diffida del padrone culturale (artista, intellettuale, ecc.) che suggerisce al servo (spettatore, pubblico, ecc.) un modello di valore. Esce dagli spazi chiusi delle gallerie e dei musei [...], scende nelle piazze, attraversa foreste, deserti, campi di neve, per stimolare un interesse partecipativo. Distrugge la sua funzione sociale perché non crede più nei beni culturali. Nega la fallacia moralistica del prodotto artistico, artefice della dimensione illusionistica della vita e del reale. Crede solo nella propria esperienza personale, mentre il suo rapporto col mondo non avviene più attraverso le immagini analizzate e manipolate (fumetto, cinema, fotografia, ecc.) e le cose strumentalizzate a discorso (materia ‛per', gesto ‛per', azione ‛per'), ma con le immagini e con le cose; si immedesima in esse, sino a renderle parte di se stesso, sue propaggini biologiche" (v. Celant, 1969, p. 226). L'arte sarebbe insomma un esperire in proprio l'esistente senza limitazioni di campi, pregiudiziali, censure, in un mondo che il potere tecnologico dà come preventivamente manipolato, condizionato, censurato: non di rado l'atto artistico ‛povero' non è altro che la rimozione di una censura, di un'inibizione. Si rifiuta anche un'idea a priori dell'esistenza, che pregiudicherebbe l'autenticità della partecipazione flagrante con l'esistente; e si rinuncia anche a ogni giudizio, allo stesso ricordo dell'atto, perché nulla deve sopravvivere a quella flagranza. Ma come potrebbe distinguersi questa esperienza artistica dalla non-artistica, se non si avesse un'idea a priori dell'artistico?
Una riduzione più rigorosa e che, allo stato dei fatti, può considerarsi veramente finale è quella proposta dall'arte concettuale, che si è sviluppata negli Stati Uniti a partire dal 1960 c., rimanendo tuttavia al di fuori o ai margini di quell'ufficialità, che oggi è rappresentata dal successo di mercato. I primi enunciati risalgono a Reinhardt, un pittore per il quale ‟l'arte pura si può solo definire come esclusiva, negativa, assoluta, eterna [...] Ha il proprio pensiero, la propria storia e tradizione, la propria ragione, la propria disciplina. Possiede anche la propria ‛integrità', che non è l'‛integrazione' di qualcun altro in qualche altra cosa" (A. Reinhardt, Dodici regole per una nuova accademia, in ‟Flash art", 1972, 32-34, p. 38). Si oppone all'espressionismo astratto o action painting, che presuppone comunque uno stato di turbolenza esistenziale, un partito preso di fronte al mondo, un primum vivere: a rigore, l'artista non è un vivente prima di essere un artista. Si oppone alle correnti oggettuali, che rappresentano l'estremo della ‛demagogia', l'accettazione supina di un mondo che all'artista non interessa. Diverge dalle correnti della minimal art, che presuppongono un'idea del mondo e della forma. L'arte, più precisamente la pittura, comincia e finisce col quadro: ‟una ‛pittura nera' (di Reinhardt) non suggerisce altro che una definizione estrema del quadro" (C. Millet, Ad Reinhardt, in ‟Flash art", 1972, 32-34, p. 36). Lo sviluppo del concettualismo porta, con Lewitt, ad un massimo di sollecitazione mentale con un minimo di sollecitazione visiva: l'arte non è altro che il concetto di arte. E questo concetto si separa da ogni esperienza della realtà, da ogni finalità sociale o ideologica, da ogni nozione storica dell'arte, da ogni teoria dell'arte o estetica. La stessa operazione artistica, ridotta all'estrema elementarità del tratto grafico o della stesura di un colore (a rigore neppur necessari) non fenomenizza il concetto di arte, ma semplicemente lo formula e nello stesso tempo lo cancella, gli impedisce di fissarsi, di avere un qualsiasi accesso nel mondo. È come il concetto del nulla, già contraddetto e soppresso nell'istante in cui lo si pensa; o come quello della morte che, per assurdo, può pensarsi solo come non-pensato. La sola deduzione possibile è quella del non-esserci dell'arte. Incorporando il concetto di arte, e quindi esaurendo nell'atto del fare ogni possibile giudizio del fatto, il concettualismo pone decisamente l'arte fuori dello spazio e fuori del tempo, la esclude, forse per sempre, dal mondo dell'esistente.
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