Asia
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(IV, p. 839; App. I, p. 170; II, i, p. 274; III, i, p. 150; IV, i, p. 166; V, i, p. 247)
Evoluzione del quadro politico
All'inizio degli anni Novanta il tramonto del sistema bipolare mondiale dovuto alla crisi e quindi al crollo del regime comunista di Mosca ha causato non pochi contraccolpi anche in A., aprendo la strada a un processo distensivo ma, al tempo stesso, lasciando spazio ad alcuni focolai di tensione derivanti dal riassestamento delle forze negli scacchieri regionali.
Le ripercussioni più significative dei nuovi equilibri mondiali si sono avvertite nel Vicino e Medio Oriente. Il nuovo atteggiamento di Mosca ha agevolato l'intervento del corpo di spedizione internazionale per contrastare l'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq avvenuta nell'agosto 1990. L'operazione 'Tempesta nel deserto', largamente imperniata sulle truppe e sulle tecnologie statunitensi, ha rapidamente condotto - nel gennaio-febbraio del 1991 - alla sconfitta dell'esercito invasore, comportando un grave bilancio di vite umane e di distruzioni materiali in Iraq. Quest'ultimo, governato da Ṣ. Ḥusayn, ha inoltre subito pesanti sanzioni commerciali che hanno reso problematica la ricostruzione, e ha dovuto limitare l'azione repressiva nei confronti della minoranza curda (v. ´irāq; turchia, in questa Appendice). Successivamente alla guerra del Golfo, il crescente impegno delle potenze occidentali nella zona ha contribuito all'avvio di un processo negoziale sul fronte arabo-israeliano. In particolare, dando seguito a intese preliminari siglate a Oslo tra il governo israeliano e l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), è stata sottoscritta a Washington nel settembre 1993 una dichiarazione di principi che ha consentito il ritiro parziale delle truppe di Israele dalle principali città della Cisgiordania e da Gaza e l'insediamento di un'Autorità palestinese sugli spazi liberati. Questo processo di pace, che ha comportato il riconoscimento di Israele da parte dell'OLP, si è in parte arrestato dopo l'assassinio del leader israeliano Y. Rabin per mano di un estremista ebreo, nel novembre del 1995, e la vittoria della destra nelle successive elezioni israeliane, cui seguì il rilancio degli insediamenti ebraici nei territori occupati, in particolare nell'area metropolitana di Gerusalemme. A rendere ancor più precaria la pace nell'area congiurano: il permanere di forti tensioni fra Israele e Siria circa l'occupazione israeliana delle alture del Golan; lo stato di 'sovranità relativa' del Libano, dove sono ancora presenti truppe siriane, e, nella fascia meridionale, sia l'esercito di Tel Aviv sia milizie filoisraeliane; infine le ondate terroristiche scatenate da movimenti integralisti arabi.
Regioni in cui si avverte ancor più direttamente l'effetto della caduta del comunismo sovietico sono quella caucasica e l'A. centrale. Qui lo sfaldamento dell'URSS ha generato una serie di stati indipendenti, che hanno ristabilito gli antichi confini ma non hanno tardato a manifestare tensioni al loro interno: in particolare, ha assunto gravi proporzioni il conflitto che ha contrapposto Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabah, enclave armena in territorio azero. Tutti questi nuovi stati, comunque, hanno aderito nel 1991 alla Comunità degli Stati indipendenti (CSI), con la sola eccezione della Georgia, che si è aggiunta due anni dopo. Lo spazio siberiano e le altre sezioni asiatiche già sovietiche restano inclusi nella nuova struttura federativa che si è data la Russia. Nell'A. centrale, comunque, il declino del potere sovietico ha aperto un pericoloso periodo di destabilizzazione legato a potenziali mire egemoniche dell'Iran e della Turchia, da un versante, e della Cina dall'altro. Sintomo evidente di questa situazione è stata la prolungata guerra civile in Afghānistān, che si protrae anche dopo la presa del potere - nel settembre 1996 - da parte dei Ṭālibān, esponenti di un movimento fondamentalista sunnita di etnia Pathan. In questa regione continua pure la tensione tra India e Pakistan - punteggiata di episodi di guerriglia e di atti terroristici - per il controllo del Kaśmir; di tale tensione sono testimonianza gli esperimenti nucleari che ambedue gli Stati hanno effettuato nella primavera del 1998, provocando condanne e sanzioni da parte della comunità internazionale. Altro elemento di forte instabilità politica è la guerriglia che oppone i Tamil al governo singalese; mentre in Birmania le rivendicazioni delle minoranze hanno portato al cambiamento di nome del paese, divenuto Myanmar dal 1989, per eliminare il riferimento esclusivo all'etnia birmana dominante.
Nell'Asia di Sud-Est permangono focolai di tensione alimentati dalla guerriglia che, dopo la caduta del regime dei Khmer rossi in Cambogia, coinvolge ancora varie fazioni interne al paese e i territori confinanti. Dopo la fine del regime coloniale portoghese, la sezione orientale dell'isola di Timor è teatro della lotta contro l'occupazione indonesiana. Una delle più significative novità nella regione viene dall'adesione del Vietnam all'ASEAN (Association of South East Asian Nations), alla quale hanno chiesto di accedere anche il Laos e la Cambogia, aprendo buone prospettive di pacificazione complessiva di questo delicato e dinamico scacchiere.
Le più cospicue trasformazioni del quadro politico sul fronte estremo-orientale riguardano la Cina. Questa occupa ancora il Tibet (v. in questa Appendice) e nel 1997 si è vista restituire dalla corona britannica la colonia di Hong Kong, piazza nevralgica dell'economia asiatica, cui è stato accordato fino al 2047 un particolare statuto compatibile con i caratteri della sua struttura economica e finanziaria; nel 1999 è prevista anche la riconsegna di Macao da parte del governo portoghese. Ma le trasformazioni più importanti investono la convivenza di una crescente imprenditorialità privata con un sistema politico ancora saldamente diretto dal partito comunista: anche dopo la morte di Deng Xiaoping, nel 1997, il nuovo leader Jiang Zemin ha continuato sulla strada dell'economia di mercato allacciando anche rapporti commerciali con i paesi occidentali.
La fine del 20° secolo, oltre a portare prospettive di pace nel Vicino e Medio Oriente e nel Sud-Est e aprire interrogativi sulla tenuta del quadro di relazioni nell'A. centrale, segna la definitiva sanzione dell'ascesa anche politica del Giappone, giunto a candidarsi per un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Assetti demografici e sociali
Benché l'accrescimento medio della popolazione sia assai più contenuto che nel passato, collocandosi ora intorno al 15% annuo, secondo le stime delle Nazioni Unite nel 1998 il numero degli abitanti dell'A. era di oltre 3.633.000.000; la sua incidenza sul totale della popolazione mondiale superava il 61%.
Al sensibile incremento demografico contribuisce soprattutto l'A. sud-occidentale, la cui popolazione si accresce con ritmi molto veloci (addirittura di oltre il 50‰ annuo negli Emirati Arabi Uniti dove all'alto tasso di natalità si somma un cospicuo flusso immigratorio indotto dall'economia petrolifera). In questa porzione dell'A. la natalità si mantiene a livelli elevatissimi, superiori al 30‰ in Siria, in Giordania e in Arabia Saudita e addirittura al 40‰ nello Yemen e nell'Oman; alquanto più contenuto è il tasso di natalità negli Emirati Arabi Uniti, in Turchia, in Israele e, soprattutto, a Cipro, dove si avvicina a valori europei. L'alto numero delle nascite si lega in particolare alla condizione femminile nella cultura di questi paesi, dove la fecondità supera le 7 gravidanze per donna (Yemen, Oman) o si aggira intorno alle 6 (Siria, Giordania); la diffusione dei modelli di vita di tipo occidentale contribuisce, invece, a ridurre la fecondità a 2-3 gravidanze in Israele, in Turchia, a Cipro.
Grazie ai rilevanti progressi in campo medico, la mortalità infantile ha subito un netto regresso e non agisce più da fattore di contenimento dell'espansione demografica: solo nello Yemen essa resta vicina ai 100 morti ogni 1000 nati vivi e in Turchia supera i 40, ma altrove è scesa a valori prossimi al 30‰ e addirittura si è già attestata sotto il 10‰ in Israele. L'alta percentuale di popolazione giovane e il complessivo miglioramento delle condizioni di vita hanno inciso sui livelli di mortalità, che non superano il 5÷6‰ nell'intera Penisola Arabica e nei territori limitrofi. Questa parte dell'A. ha fatto, perciò, segnare nel corso dell'ultimo quarto di secolo un prolungamento della speranza di vita valutabile in circa dieci anni: anche se nello Yemen si è soltanto da pochi anni varcato il limite di 50 anni, in quasi tutti gli altri paesi si superano i 65÷68 anni, con una punta di 77 anni per lo Stato di Israele.
Una situazione per molti aspetti in linea con i valori di queste regioni si registra nei territori prossimi dell'Iran e dell'Afghānistān e un modello demografico analogo si presenta anche più a nord, nelle repubbliche centro-asiatiche nate dal crollo dell'Unione Sovietica: in queste ultime, però, l'efficacia del prolungato impegno statale in campo demografico ha generato ritmi di accrescimento più contenuti (prossimi in media al 20‰), derivati da valori di natalità che si aggirano sul 30‰, da una mortalità infantile che arriva anche al 40‰ e da quozienti generali di mortalità calati al 7÷8‰. Di questi territori a lungo governati dal socialismo il Kazakistan è quello che si differenzia per una maggiore prossimità ai comportamenti europei, mentre il Tagikistan, dove si registrano ancora oltre 4 gravidanze per donna, si avvicina di più agli standard dell'A. occidentale. Nel complesso, la speranza di vita si è portata oltre i 65 anni; ma questa sezione dell'A. comprende anche l'Afghānistān, paese in cui il protrarsi degli eventi bellici e le generali condizioni di arretratezza concorrono a contenere la durata media della vita addirittura non oltre i 45 anni.
Nel gigantesco agglomerato umano del subcontinente indiano e degli spazi che lo circondano si registrano comportamenti demografici assai differenti. Mentre le ripetute campagne antinataliste dell'Unione Indiana hanno sortito un relativo successo portando i tassi di natalità sotto il 30‰ e la più decisa modernizzazione li ha già portati al 20‰ nello Srī Laṅkā, nelle sezioni islamiche del subcontinente il calo è assai più contenuto, e il Pakistan fa segnare ancora quasi 40 nati per 1000 abitanti. Similmente alta resta la natalità dei piccoli poverissimi regni dell'area himalaiana, dove peraltro le dure condizioni di vita giustificano la permanenza dei tassi di mortalità più alti dell'Asia. In ogni caso, nell'India e nel Pakistan gli enormi sforzi compiuti in campo igienico e sanitario hanno consentito di dimezzare i livelli di mortalità in un quarto di secolo, portandoli ora a circa il 10‰, mentre lo Srī Laṅkā è sceso di parecchio sotto i livelli dell'Occidente. Solo in quest'ultimo paese, però, si può dire ormai vinta la lotta contro la mortalità infantile, calata sotto il 20‰, mentre l'India denuncia ancora valori maggiori di 60, Bangla Desh e Pakistan restano prossimi o superiori a 90, e addirittura 129 morti ogni 1000 nati si contano ancora nel Bhutan. Benché, dunque, anche gli abitanti di questa parte dell'A. vivano ormai in media un decennio in più rispetto agli anni Settanta, permangono forti contrasti: la speranza di vita è di poco superiore ai 50 anni nel Bhutan e ai 55 nel Nepal e nel Bangla Desh, si attesta poco sopra ai 60 in India e Pakistan, supera i 70 nello Srī Laṅkā.
Anche l'A. sud-orientale presenta assetti e tendenze demografiche piuttosto diversificati, ma in generale si può notare come la contrazione dei ritmi di accrescimento della popolazione è stata piuttosto consistente. I livelli di natalità variano ora tra il 16‰ di Singapore e il 30 delle Filippine, mentre la mortalità oscilla intorno al 6÷7‰ e i decessi nel primo anno di vita, che restano intorno al 50‰ in Indonesia e si sono più incisivamente ridotti nelle Filippine (37‰), toccano ormai la soglia minima del 4‰ a Singapore, grazie a un alto reddito pro capite e a un'organizzazione sanitaria assai evoluta. Nella piccola città-stato le condizioni sociali sono tali da consentire una speranza di vita alla nascita superiore ai 74 anni per gli uomini e ai 79 per le donne, ma anche nell'intera A. sud-orientale ormai questo valore si è elevato oltre i 70 anni, almeno relativamente alla componente femminile.
Un discorso a parte merita il Giappone, cui si assimila per vari aspetti la Corea del Sud. Nell'arcipelago nipponico l'ampia diffusione di pratiche abortive e gli alti costi per gli studi della prole hanno contribuito a un'ulteriore forte riduzione delle gravidanze (ormai meno di 1,5 per donna feconda; mentre 1,8 è il livello denunciato dalla Repubblica di Corea), e il forte livello di inquinamento ambientale ha impedito alla mortalità di scendere sotto il 7‰. In questa parte dell'A. la piramide delle età si mostra fortemente squilibrata verso le età senili, anche in ragione di una speranza media di vita che è arrivata al limite di 77 anni per gli uomini, mentre oltrepassa abbondantemente il limite degli 80 anni per le donne.
Più articolata è la situazione cinese, a causa della notevole diversità dei quadri territoriali e demici. La politica di contenimento delle nascite, pur attenuata con l'introduzione di alcuni elementi di capitalismo, ha avuto come esito un calo della natalità sotto il livello del 19‰, mentre i progressi sanitari hanno portato il tasso di mortalità all'8‰ e, soprattutto, nell'arco di vent'anni hanno dimezzato la mortalità infantile, scesa intorno al 30‰. Anche in Cina l'attesa di sopravvivenza si aggira ormai intorno ai 70 anni.
Nell'ultimo scorcio di secolo le popolazioni asiatiche non hanno più conosciuto gli esodi conseguenti a carestie o a sanguinosi conflitti (ultimi in questo campo quelli del Vietnam verso gli Stati Uniti alla fine degli anni Settanta), ove si escludano alcuni flussi in uscita dal Tibet (a causa dell'occupazione cinese) e da paesi teatro di operazioni belliche, come l'Afghānistān, la Cambogia e le repubbliche caucasiche. In corrispondenza con la spedizione militare del 1991 contro l'Iraq, le tensioni politiche ed economiche hanno indotto alcune centinaia di migliaia di tecnici e operai palestinesi e giordani ad abbandonare il Kuwait e gli altri paesi petroliferi del Golfo. Sempre all'inizio degli anni Novanta si è accentuato l'esodo di manodopera, per lo più destinata al settore dei lavori domestici, diretta dalle Filippine verso il Giappone e i paesi ricchi dell'Occidente; in questo particolare movimento migratorio, che ha investito anche vari contingenti dallo Srī Laṅkā, ha acquisito un ruolo di sbocco non secondario anche l'Italia. Al nostro paese, sia pure di passaggio, si sono rivolti anche gruppi di Curdi, desiderosi di sfuggire alle discriminazioni cui la loro etnia è soggetta soprattutto in Turchia e in Iraq e di approdare nella grande comunità curda insediatasi a partire dagli anni Ottanta nelle aree industriali della Germania, tra le pieghe della massiccia emigrazione di manodopera dalla Turchia. Un polo d'immigrazione del tutto particolare è invece rappresentato da Israele, che - soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino - ha aperto le sue frontiere a notevoli contingenti di ebrei provenienti dai paesi ex sovietici (e che, in precedenza, aveva accolto anche gruppi di falascià, ebrei provenienti dall'Etiopia).
In alcune regioni dell'A. più vicine agli standard di vita e ai modelli organizzativi occidentali, massicci investimenti nel campo dell'istruzione hanno drasticamente ridotto l'incidenza dell'analfabetismo: sotto la soglia del 10% sono ormai scesi il Libano, Israele, le Filippine e lo Srī Laṅkā, mentre il fenomeno è praticamente scomparso nel Giappone e nella Corea del Sud; questi ultimi due paesi contano un'altissima percentuale di giovani che completano il ciclo di studi fino al conseguimento della laurea. Altrove, pur restando notevoli i progressi, l'alta quota di popolazione giovane, i modesti livelli di vita e i notevoli ostacoli organizzativi hanno mantenuto bassi i livelli d'istruzione, in particolare nell'universo femminile, che conta tassi di analfabetismo mediamente più alti di almeno 10 punti rispetto a quelli dei coetanei maschi. Una quota compresa tra il 15 e il 20% della popolazione adulta maschile è ancora analfabeta in grandi Stati come l'Indonesia, la Turchia, l'Iran; ancora peggiore è la situazione pure in un paese ricco come l'Arabia Saudita, mentre in tempi recenti è scesa sotto la metà la quota di analfabeti tra gli abitanti maschi dell'India. Addirittura superiori al 60% della popolazione restano le schiere prive di qualsiasi istruzione nelle contrade più povere dell'A., come il Nepal, il Bhutan, il Bangla Desh e il Pakistan.
A dispetto delle diffuse capacità di attrazione esibite dalle aree urbane, la percentuale di abitanti che risiedono ancora nelle campagne appare nell'insieme dell'A. assai alta. Essa è, in particolare, dominante nei due paesi più popolosi, Cina e India, dove, pur in presenza di numerose metropoli antiche e moderne, la popolazione urbana permane prossima al 30%. Poco sotto questi livelli di urbanizzazione si presentano in genere i paesi indocinesi e lo Srī Laṅkā, mentre annoverano già oltre un terzo degli abitanti in aree urbane l'Indonesia e più della metà il Pakistan e le Filippine. Benché abbiano subito un'impennata nell'ultimo quarto di secolo, restano invece assai poco significativi (sotto il 12%) i livelli di urbanizzazione negli impervi ambienti montani del Nepal e del Bhutan. All'opposto, il fenomeno urbano incide in modo assai rilevante nei quadri di vita del Vicino e Medio Oriente, dove gli abitanti delle città superano il 50% della popolazione in Siria e in Iran, l'80% in Arabia Saudita, in Iraq, e negli Emirati Arabi Uniti, e addirittura rappresentano oltre il 90% della popolazione complessiva in Israele. E modelli d'insediamento ormai dominati dal fenomeno urbano sono quelli delle Coree e dell'arcipelago nipponico, dove ai centri classificati come rurali - talora già inglobati dentro ampi perimetri metropolitani - è imputato appena un quinto della popolazione. Il fatto che l'incidenza del fenomeno urbano resti percentualmente contenuta in gran parte dell'A. non impedisce a questo continente di presentarsi alla soglia del nuovo millennio contando ben 13 dei 21 agglomerati mondiali con oltre 10 milioni di abitanti: il primato di Tokyo (19 milioni di ab.) è incalzato da vicino dalla rapida ascesa di Shanghai; tra le grandi metropoli si annoverano altre due città cinesi (Pechino e Tianjin), tre indiane (Calcutta, Bombay, Delhi), e poi Djakarta, Sŏul, la Grande Manila, Karachi, Bangkok; persino a Dhaka, nel poverissimo Bangla Desh, i residenti in città si valutano in oltre 12 milioni. Oltre a questi agglomerati ve ne sono almeno un'altra decina che hanno già varcato la soglia dei 5 milioni di abitanti.
Attività economiche
Il notevole impegno nell'ammodernamento del settore agricolo ha conseguito buoni risultati soprattutto in India e in Cina, le cui produzioni cerealicole sono aumentate, riuscendo a far fronte all'accresciuto fabbisogno. Tuttavia, tranne che in Giappone e in Israele, dove la ricerca scientifica e l'organizzazione del lavoro hanno diffuso significative innovazioni nell'agricoltura, i paesi asiatici presentano ancora ampie potenzialità di miglioramento nelle rese colturali come nella conservazione e nel trattamento dei prodotti alimentari. Il contributo dell'agricoltura al prodotto interno lordo appare particolarmente rilevante (prossimo al 30%) nelle grandi distese rurali della Cina e del subcontinente indiano, mentre tende ad attenuarsi in una parte dell'Asia di sud-est (nelle Filippine e in Indonesia non tocca il 20%), e si è fatto ormai modestissimo in paesi economicamente avanzati come il Giappone e la Corea del Sud. Basso è anche l'apporto delle produzioni agricole nelle regioni desertiche e subdesertiche dell'A. di sud-ovest, dove il fabbisogno di derrate alimentari resta in genere molto inferiore alle disponibilità, con gravi conseguenze sull'autosufficienza di molti paesi. Sul versante più occidentale dell'A., peraltro, la Turchia va accrescendo il proprio ruolo di esportatore in campo agricolo, grazie anche all'intensa valorizzazione del potenziale irriguo di cui dispone in corrispondenza dei bacini del Tigri e dell'Eufrate. Proprio l'espansione dello sfruttamento turco delle acque di questi fiumi, i cui bacini medi e inferiori interessano anche la Siria e l'Iraq, è motivo di pericolose tensioni nel Vicino Oriente; questa rimane nel complesso una regione assai carente di risorse idriche, e in essa stentano ancora a emergere soluzioni soddisfacenti all'annosa vertenza tra Israele e i suoi vicini giordani e palestinesi circa l'accesso alle acque del Giordano e dei suoi affluenti.
Se alle soglie del Duemila l'acqua si annuncia come la risorsa strategica capace di condizionare in modo significativo il processo di pace nello scacchiere vicino-orientale, il petrolio non vi ha affatto perso la sua rilevanza. Anche se dopo la crisi del 1973 i paesi occidentali hanno cercato di contenere la loro dipendenza dai rifornimenti di idrocarburi dei paesi arabi, la regione del Golfo Arabico resta il principale serbatoio mondiale di petrolio: l'Arabia Saudita in primo luogo, poi gli Emirati Arabi Uniti, l'Iran e il Kuwait figurano sempre ai primi posti tra i paesi produttori ed esportatori; l'Iraq invece, dopo i danni e l'embargo collegati alla spedizione punitiva del 1991, ha solo lentamente ripreso le attività estrattive nella seconda metà del decennio. Al novero dei grandi produttori, insieme con la Cina, si è ormai stabilmente aggiunta l'Indonesia, che con la Malaysia e il piccolo Brunei rappresenta un altro importante nodo dello scacchiere petrolifero asiatico di fine secolo. Non meno significativa è l'attività estrattiva di petrolio e gas nell'area del Caucaso e in alcune repubbliche già sovietiche dell'A. centrale (Kazakistan e Uzbekistan): di qui si stanno moltiplicando oleodotti e gasdotti destinati ad alimentare l'Europa dai terminali del Mar Nero e del Mediterraneo.
Benché alcuni paesi asiatici restino ai vertici della produzione mondiale di varie materie prime (come il cotone, il caucciù, il carbon fossile o lo stagno), nella maggior parte del continente le strutture economiche hanno mostrato decisi segni di differenziazione. Gli anni Ottanta hanno, in particolare, rappresentato l'affermarsi sulla scena economica mondiale di alcuni Stati asiatici (definiti ora 'tigri' ora 'dragoni') che, grazie al basso costo della manodopera e a efficaci sistemi di organizzazione, hanno conosciuto un decollo consistente soprattutto di alcuni comparti industriali (in primo luogo l'abbigliamento e l'elettronica di consumo). Questo slancio ha coinvolto in un primo tempo Taiwan, Singapore, Hong Kong, la Malaysia e la Corea del Sud; ma anche la Thailandia, le Filippine, l'Indonesia e, più tardi, il Vietnam sono stati toccati dall'espansione industriale, superando il 35% di apporto del comparto industriale alla formazione del reddito. Lo sviluppo economico è stato spesso innescato dai processi di delocalizzazione produttiva effettuati dai paesi più industrializzati e da un cospicuo flusso di capitali giapponesi; ma ha talora assunto caratteri di spontaneità e di originalità, soprattutto nell'estendersi a Stati con un apparato economico più vasto e articolato, come alcune dinamiche regioni dell'India e della Cina. In alcuni paesi, come la Corea del Sud, l'ascesa industriale ha investito anche comparti di base (siderurgia) o evoluti (industria cantieristica e automobilistica) e ha tratto impulso da notevoli investimenti nella ricerca scientifica e nei servizi.
La transizione dell'A. orientale e sud-orientale verso un'economia industriale ha dato vita a una fitta rete di relazioni economiche e scambi, articolata lungo le rive del Pacifico e completata dai cospicui apparati produttivi dell'Australia e della costa occidentale degli USA. Un fulcro fondamentale di questo sistema è rappresentato dal Giappone, come testimonia l'ascesa vertiginosa del movimento dei porti nipponici, una mezza dozzina dei quali tratta oltre 100 milioni di t di merce l'anno. Ma la partecipazione crescente della Cina è attestata dai porti di Shanghai e Hong Kong, che vantano ciascuno un traffico prossimo ai 150 milioni di t; mentre un ruolo chiave nella rete di scambi compete a Singapore che, nel 1995, con oltre 305 milioni di t di movimento, ha superato lo scalo di Rotterdam e conquistato così il primato mondiale.
L'impetuoso ritmo di crescita di questa parte dell'A. non ha mancato di suscitare, soprattutto dalla fine degli anni Ottanta, tensioni legate in particolare alla compressione dei diritti sindacali, alla precarietà delle garanzie sociali e, in alcune zone, al largo impiego di lavoro nero e minorile, fattori che hanno reso possibile un regime di bassi costi della manodopera. Altri scompensi si sono determinati alla metà degli anni Novanta, in alcuni casi per l'eccessiva dilatazione delle operazioni finanziarie in rapporto all'economia reale, in altri per l'eccessiva espansione del debito estero: il Fondo monetario internazionale è stato obbligato a interventi d'urgenza a sostegno di economie come quella nord-coreana o indonesiana, mentre alcuni paesi sono stati costretti a pesanti svalutazioni. Ma se, nel complesso, i tassi di crescita del prodotto interno lordo si sono fatti più contenuti, non risultano diminuiti il dinamismo e la vitalità di gran parte dell'economia asiatica. Oltre che dalle crisi finanziarie e dalle esigenze di assestamento nel rapporto tra produzione e garanzie sociali e politiche, un limite non secondario all'ascesa economica può tuttavia derivare dalle conseguenze ecologiche dell'intenso sfruttamento delle risorse. Ai cospicui inquinamenti che hanno aggredito la fauna ittica del Lago Bajkal o che hanno alterato diffusamente le condizioni di vita nell'arcipelago nipponico, si aggiungono disastri di proporzioni enormi, come quelli legati al ritiro delle acque del Lago d'Aral e alla desertificazione delle sue sponde, o al gigantesco rogo di ampi spazi forestali nell'A. sud-orientale (in particolare in Indonesia), senza contare i rischi connessi all'indiscriminata espansione delle terre messe a coltura in Cina: la scarsa tutela dell'ambiente è una delle incognite che accompagnano l'A. lungo la strada dello sviluppo.
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