Vedi Australia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Le mosse che l’Australia adotta sullo scacchiere internazionale sono direttamente influenzate dalla sua peculiare posizione geografica. Collocata nel cuore dell’Oce;ano Pacifico, al centro tra Sud-Est asiatico e continente americano, l’Australia ha imparato a cogliere i vantaggi della sua vicinanza alle due principali potenze mondiali, Stati Uniti e Cina, e orienta in tal senso le sue scelte di politica estera nello scenario regionale e mondiale. Canberra quindi si impegna a mantenere saldo l’importante legame strategico-militare con gli Stati Uniti, principale alleato sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, mentre rafforza le sue relazioni economiche con la Cina. Quest’ultima, nel 2009, è diventata il primo partner commerciale dell’Australia e le sue importazioni hanno permesso a Canberra di evitare la recessione. Un primo chiaro segnale di avvicinamento alla potenza cinese si era avuto già nel 2007, quando Kevin Rudd, allora primo ministro, stabilì il ritiro dell’Australia dall’Iniziativa quadrilaterale condivisa con Giappone, India e Stati Uniti, e fortemente avversata da Pechino. Tale iniziativa, avviata pochi mesi prima, mirava a rifondare il sistema di alleanze nella regione, incentrando sui legami bilaterali tra gli stati membri dell’Iniziativa una più ampia rete di alleanze implicitamente anticinese. L’ex primo ministro, Julia Gillard, ha firmato inoltre uno storico accordo con il governo di Pechino nel mese di aprile 2013, in virtù del quale i due paesi si impegnano a tenere una riunione annuale tra ministri di alto livello, garantendo così all’Australia un prezioso accesso alla nuova leadership cinese. Nel 2015, inoltre, l’Australia è entrata a far parte come membro fondatore della Asian Infrastructure Investment Bank, a guida di Pechino e diventandone la sesta azionista, ed ha firmato con la Cina un trattato commerciale.
L’apertura alla Cina non si è però tradotta in un raffreddamento dei rapporti con gli Stati Uniti, maggiori investitori nel paese e principali fornitori militari: dalla metà degli anni Duemila, questi forniscono quasi due terzi degli armamenti acquistati da Canberra.
Sul piano regionale, lo stato che storicamente riveste un’importanza cruciale per l’Australia è l’Indonesia. Le relazioni tra i due paesi sono oggi caratterizzati da alti e bassi. Da un lato, infatti, nonostante alcuni recenti incidenti diplomatici, Giacarta e Canberra continuano a cooperare strettamente nell’ambito del Trattato di Lombok del 2006 per quanto concerne difesa, intelligence e anti-terrorismo. In un’ottica prettamente geopolitica, l’Indonesia costituisce una barriera difensiva naturale per l’Australia, nello spazio aereo e, soprattutto, in quello marittimo, dove transitano molti migranti che cercano rifugio nel paese. D’altro lato, il rapporto con l’Indonesia non può che essere condizionato dalla restrittiva politica australiana di respingimento dei richiedenti asilo verso le coste indonesiane, che ha recentemente provocato tensioni nelle relazioni tra i due paesi, già precedentemente destabilizzate dalle accuse di spionaggio ai danni di esponenti politici indonesiani rivolte all’Australia. L’intesa politico-strategica sarà comunque consolidata anche dai sempre più intensi rapporti commerciali, soprattutto in vista del prossimo avvio dell’Indonesia-Australia Closer Economic Partnership Agreement (Cepa), i cui negoziati sono tutt’oggi in corso.
Sono diversi gli accordi di libero scambio formulati dall’Australia in questi anni: nel 2013 e nel 2014 ne sono stati firmati rispettivamente con Corea del Sud e Giappone, e sono in corso nuove trattative anche con l’India. Nel giugno 2015 Canberra e Pechino hanno siglato un importante accordo economico per cui l’Australia si è impegnata ad aprire illimitatamente il mercato nazionale dei servizi agli investimenti cinesi in cambio dell’abbattimento totale delle tariffe doganali sulle esportazioni del 95% dei prodotti australiani in Cina. Inoltre, nell’ottica di restare fedele al tradizionale alleato statunitense, nell’ottobre 2015 il governo di Canberra è stato anche uno dei paesi firmatari della Trans-Pacific Partnership (Tpp), lo storico accordo di libero scambio promosso proprio da Washington in funzione anti-cinese. La close relationship con la Nuova Zelanda appare stabile in ogni settore e anche i rapporti con il Giappone – in passato minati da diverse tensioni – si stanno espandendo ad ambiti diversi da quelli prettamente economici, riguardando anche la cultura, il turismo, la difesa e la cooperazione scientifica.
L’Australia è una monarchia costituzionale di tipo federale: accanto al governo centrale, le istituzioni australiane affiancano un elemento federale che trae origine dal patto stipulato tra le sei colonie britanniche australiane al momento della creazione del Commonwealth di Australia, nel 1901, questo divenuto indipendente in ambito legislativo con lo Statuto di Westminster del 1931 (adottato da Canberra nel 1942). Oggi le sei colonie australiane dell’Impero sono diventate altrettanti stati federali, ognuno guidato da un governatore. Al vertice dell’esecutivo si trova la Corona d’Inghilterra: la regina Elisabetta II è anche regina d’Australia ed è formalmente il capo dello stato. La Costituzione prevede che la regina nomini un governatore generale il quale, agendo come rappresentante vicario della casa reale, è a capo delle forze armate, nomina ambasciatori, ministri, giudici ed esercita un potere di veto attenuato. Nello svolgimento della vita politica ordinaria, tuttavia, il governatore riveste un ruolo sostanzialmente cerimoniale, simile a quello esercitato dalla Corona nella monarchia parlamentare inglese. Subordinati al governatore e detentori di fatto del potere esecutivo, il primo ministro e il governo si reggono sulla fiducia dal Parlamento. Quest’ultimo si divide in due rami: una camera composta da 150 deputati dalla durata triennale e un Senato di 76 membri, in carica per sei anni. Il sistema partitico si è evoluto, sin dal 1949, secondo un modello prevalentemente bipolare. A lungo la coalizione originata dall’alleanza tra il Liberal Party of Australia e il National Party of Australia è stata nettamente predominante e i governi laburisti hanno da sempre dovuto lottare aspramente per vincere le elezioni.
Nel 2007 l’Australian Labor Party ha guadagnato la maggioranza parlamentare ed è riuscito a mantenerla per due mandati, subendo però un serio ridimensionamento alle votazioni del 2010. Le ultime elezioni federali si sono tenute il 7 settembre 2013 e le prossime sono previste nel 2016. Dopo due legislature in cui le forze di governo laburiste avevano dovuto ripetutamente fronteggiare crisi di premiership e mancanza di supporto all’interno dello stesso partito – comportando l’alternanza dei leader Kevin Rudd e Julia Gillard alle cariche di primo ministro –, la coalizione tra National e Liberal Party ha avuto di nuovo la meglio, aggiudicandosi una sicura maggioranza di 90 seggi alla Camera dei rappresentanti. Nonostante il vantaggioso risultato elettorale, il governo guidato da Tony Abbott ha dovuto fronteggiare un calo d’approvazione popolare, dovuto soprattutto all’austera politica di spesa pubblica intrapresa. Anche a causa di ciò, nel settembre 2015 Malcolm Turnbull, già ministro delle comunicazioni, è riuscito a vincere una disputa interna al partito liberale con 54 voti a favore e 44 contrari deponendo così Abbott dalla carica di leader e, subito dopo, da quella di primo ministro.
L’Australia è tra i paesi con la più bassa densità di popolazione al mondo, con tre abitanti circa per km2. La distribuzione sul territorio è fortemente concentrata nelle città, dove risiede l’89,3% degli australiani: nella regione, l’Australia è seconda solo a Singapore (stato totalmente urbanizzato) e al Giappone quanto a tasso di urbanizzazione. Negli ultimi anni la crescita demografica si è assestata sull’1,6%, un livello alto, trattandosi di un paese industrializzato. Le cause sono due: da un lato, l’assistenza pubblica alle famiglie ha favorito un incremento delle nascite; dall’altra, sono cresciuti i flussi migratori. Secondo uno studio sociologico del 2014, l’Australia, nonostante alcune recenti polemiche, rappresenta insieme al Canada una delle nazioni occidentali più ricettive nei confronti degli immigrati. In quest’ambito il governo australiano adotta un approccio pragmatico, valutando di anno in anno quanti immigrati accettare in base ai trend economici. Negli anni precedenti, il boom nel settore delle risorse aveva spinto il governo a incrementare la quota dei visti concessi per soddisfare la crescente domanda di lavoratori qualificati non reperibili all’interno del paese. Nell’autunno 2010 è stata varata una riforma per favorire la selezione degli immigrati più qualificati e con i più alti livelli di istruzione, in modo che potessero contribuire allo sviluppo economico australiano di lungo periodo. Questi erano giunti così a costituire il 68% dell’immigrazione totale verso l’Australia. Contestualmente alla crisi economica internazionale, nel triennio 2009-11 il governo ha però ridotto i visti permanenti da 171.000 a 168.000, ma con la ripresa il dato è tornato a crescere: dai 168.000 del 2011 ai 190.000 visti per l’anno 2014. Un approccio altrettanto pragmatico, ma di contestata eticità, è quello adottato rispetto ai rifugiati. In particolare, quello del riconoscimento del diritto di asilo per gli immigrati irregolari è un tema alquanto controverso nella politica australiana, rispetto alla quale entrambi gli schieramenti politici rispondono con austerità riconducendo la questione ad un problema di sicurezza. Nonostante negli ultimi tempi si sia registrato un significativo aumento nel numero di individui in cerca di protezione in Australia, la quota delle domande di asilo esaudita dal paese rappresenta ancora una frazione molto piccola del totale mondiale (circa il 2%). Nel dicembre 2014, il parlamento ha approvato con una stretta maggioranza la riforma che concede ai rifugiati provenienti in larga parte da Afghanistan, Iraq, Iran e Sri Lanka di vivere nel paese per un periodo massimo tra i 3 e i 5 anni. Una volta terminato questo periodo, il governo può procedere con l’espulsione.
Decenni di immigrazione hanno contribuito in modo significativo a modellare la diversità culturale e linguistica della popolazione residente in Australia. Stando alle stime ufficiali dell’ultimo censimento, oltre un quarto (26%) della popolazione residente in Australia è, infatti, nato all’estero (ovvero circa 6 milioni di persone). Di questo 26%, i britannici, seppure in diminuzione rispetto al passato, continuano ad essere il più grande gruppo di residenti, pari al 21%, seguiti da quelli nati in Nuova Zelanda (9%), in Cina (6%), in India (5,6%) e, a pari livello, in Italia e in Vietnam (3,5%). Gli aborigeni e gli isolani dello Stretto di Torres costituiscono complessivamente circa l’1,5% della popolazione: molti di essi vivono in condizioni di povertà, spesso nelle grandi metropoli.
L’Australia è il secondo paese al mondo nella graduatoria dell’indice di sviluppo umano, dietro alla Norvegia. Con un’aspettativa di vita tra le più alte al mondo, pari a 82,1 anni, un pil pro capite superiore a 47.300 dollari e uno dei sistemi scolastici più avanzati, il paese presenta caratteristiche di primo piano anche nel panorama degli stati sviluppati. L’Australia eccelle, per esempio, in relazione alla parità tra i generi: è la seconda nazione al mondo, sempre dietro alla Norvegia, secondo il Gender Inequality Index (Gii), che prende in considerazione l’equilibrio tra i sessi in termini di aspettativa di vita, istruzione, standard economici e partecipazione politica. La spesa sanitaria è in linea con la media dei paesi appartenenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Oecd), sia per quanto concerne il valore in percentuale sul pil (6,3%) sia per spesa pro capite. Le politiche intraprese nell’ultimo decennio contro il fumo (riconosciuto in Australia come la principale causa prevenibile di morte) hanno contribuito a ridurre significativamente la percentuale di fumatori, scesa dal 27% del 2001 al 18% nel 2011-12 per gli uomini e dal 21% al 14% per le donne. Valori ben al di sotto della media mondiale, pari a poco meno del 40%, così come di quella dei paesi Oecd, che si attesta intorno al 33%. Un elemento di criticità è rappresentato invece dall’incremento dell’obesità, che riguarda circa 14 milioni di australiani. L’Australia è tra i paesi al mondo preferiti per frequentare l’università: negli ultimi anni il numero delle iscrizioni totali è diminuito (scoraggiato dalle alte rette universitarie), ma tradizionalmente l’Australia ospita un altissimo numero di studenti universitari stranieri.
Nel 2014, secondo le stime del Fondo monetario internazionale, l’Australia è stato il diciannovesimo paese al mondo per dimensioni dell’economia; sulla base degli obiettivi del Libro bianco del 2012, aspira a entrare tra i primi dieci entro il 2025. In termini di pil, l’Australia è il primo paese in Oceania e il secondo nel Sud-Est asiatico, dietro l’Indonesia, mentre, se il confronto è esteso a tutta l’Asia, l’Australia slitta al sesto posto, dietro a Cina, Giappone, India, Indonesia e Corea del Sud. In misura analoga ad altri paesi a economia avanzata, più del 70% del pil australiano è generato dal settore terziario, in particolare dai servizi finanziari, dal settore immobiliare e dai servizi all’impresa.
Sebbene abbia risentito degli effetti della crisi economica e finanziaria mondiale, e nonostante gli ingenti danni provocati all’economia nazionale dalle disastrose alluvioni che si sono periodicamente registrate negli ultimi quattro anni, il paese non è mai entrato in recessione. Dopo un parziale rallentamento della crescita annua nel 2011, il pil australiano è tornato sopra la soglia del 3,5% nel 2012 per poi assestarsi, anche nelle previsioni, intorno al 2,5%. Tuttavia, nonostante le misure di austerità intraprese dal governo Abbott, il debito pubblico è cresciuto dal 20,4% del pil nel 2007 a quasi il doppio (36%) nell’arco di sette anni.
L’aumento della disoccupazione, che anche in tempi di crisi non ha raggiunto livelli molto preoccupanti (5,7% nel 2013), ha però colpito soprattutto i giovani (12,2%), molti dei quali sono costretti a vivere più a lungo del previsto con i genitori o a rinunciare all’idea di comprare casa, scoraggiati dai prezzi elevati. Il Fmi ha classificato l’Australia come uno dei paesi più cari al mondo per costo delle abitazioni: i prezzi medi delle case a Sidney, ad esempio, sono aumentati nel solo 2014 di oltre il 12%; a Melbourne la crescita è stata pari al 4,5%. In Australia resta tra l’altro elevato il timore dell’esplosione di una bolla immobiliare simile a quella che nel 2007 precedette e innescò la crisi statunitense. La politica economica dei governi australiani degli ultimi vent’anni si è articolata attorno all’obiettivo di liberalizzare e deregolamentare i mercati e l’attività d’impresa: questo principio è stato sottoscritto dai governi che si sono susseguiti al potere, ma non tutte le promesse sono state realizzate. Le riforme economiche hanno comunque permesso al bilancio dello stato di registrare una serie di surplus tra il 1997 e il 2008. Anche il forte deficit originato dal rallentamento dell’economia dopo il 2009 è oggi in via di riassorbimento, ma è improbabile che si registri un nuovo surplus di bilancio prima del 2020. Canberra ha inoltre ridotto di 8,5 miliardi di dollari americani i flussi di aiuti esteri per i prossimi quattro anni, erodendo di riflesso parte della propria influenza economica nella regione.
L’Australia possiede significative riserve di minerali ed energetiche di alto valore commerciale. Dispone delle più vaste riserve di piombo, ferro e zinco al mondo, e riserve di bauxite seconde su scala mondiale alla sola Guinea. L’intenzione dell’attuale governo federale è rendere l’Australia una ‘superpotenza dell’energia’ e approntare un piano per incrementare gli scambi. L’Australia esporta oggi i tre quinti dell’energia che produce e, secondo recenti stime, la quota di esportazioni di minerali ed energia aumenterà del 60% nei prossimi cinque anni, generando circa 290 miliardi di dollari australiani all’anno. In generale, il volume delle esportazioni energetiche sta complessivamente crescendo, anche se l’introito non sta aumentando di pari passo a causa dei bassi prezzi del carbone e del ferro.
Nel 2014 il valore dell’export ha superato la ragguardevole cifra di 240 miliardi di dollari. Per quanto riguarda il commercio internazionale, dal 2009 la Cina ha sorpassato il Giappone anche come mercato di destinazione delle merci australiane e oggi la differenza tra i due stati è di più del 17%. Il paese destina comunque la maggior parte del suo commercio estero ai suoi vicini regionali della costa pacifica, in primis Cina e Usa. Anche per questo motivo l’Australia punta a giocare un ruolo rilevante nelle principali organizzazioni regionali dell’area.
Prima tra queste è la Conferenza economica Asia-Pacifico (Apec), l’organismo che raggruppa la maggior parte dei paesi e delle isole dell’Oceano Pacifico. L’Australia ne è un membro fondatore e, in considerazione della sua crescente rilevanza assunta come foro di coordinamento e dialogo tra Stati Uniti e Cina, Canberra gli riserva particolari attenzioni.
Pur non facendo parte dell’Asean (l’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico), l’Australia partecipa al forum regionale tenuto annualmente dall’organizzazione quale primo partner di dialogo e nel 2009 ha stipulato con essa e la Nuova Zelanda un accordo di libero scambio (AanZfta). Il paese è poi il principale attore del Forum delle Isole del Pacifico (Pif), organizzazione intergovernativa che, oltre all’Australia, include la maggior parte delle isole del Pacifico ed è finalizzata, per statuto, al miglioramento delle condizioni economiche e sociali delle popolazioni dei paesi aderenti. Da non dimenticare, infine, che Canberra è membro del Commowealth, l’organizzazione che raccoglie gran parte delle ex colonie dell’Impero britannico.
Nel sottosuolo australiano si conserva circa l’8,6% delle riserve mondiali di carbone trovate alla fine del 2011 – livello inferiore solo a quello di Stati Uniti, Federazione Russa e Cina. Il limitato consumo interno della risorsa (43,8 Mtep nel 2014) rispetto alla produzione (280,8 Mtep) rende l’Australia tra i principali esportatori di carbone su scala mondiale. Il carbone non è tuttavia una risorsa energetica altamente strategica, poiché la maggior parte dei paesi del mondo soddisfa la domanda di questa materia prima con la produzione interna.
Lo stesso fa Canberra: potendo contare su una vasta disponibilità di giacimenti di carbone, produce energia utilizzando un terzo del suo mix energetico. Dal momento che la combustione del carbone libera molta anidride carbonica per unità di energia prodotta, l’Australia è tra i paesi industrializzati con la più alta produzione pro capite di Co2. Scarsamente efficace – sebbene politicamente molto controversa – era stata l’introduzione, nel luglio 2012, di una tassa sulle emissioni di anidride carbonica che avrebbe dovuto riportare le emissioni entro il 2020 quasi al livello di quelle del 2000. Un obiettivo che si è rivelato ambizioso. Nell’agosto 2015 il governo, più pragmaticamente, ha così annunciato, sulla base dei valori registrati nel 2005, un taglio delle emissioni di Co2 pari al 25% da realizzarsi entro il 2030. Da segnalare che il nuovo primo ministro, Turnbull, si presenta come un forte sostenitore dell’azione contro il cambiamento climatico.
Sebbene nella regione Indonesia e Malaysia esportino una maggiore quantità di gas, l’Australia è il primo fornitore di gas naturale liquefatto della Cina (e il secondo in senso assoluto dietro il Turkmenistan). In base ai pronostici di una crescita delle esportazioni pari al 360%, il paese si candida a diventare il primo esportatore al mondo. Tali pronostici potrebbero essere ancor più realistici qualora cominciasse lo sfruttamento di altri giacimenti di gas trovati al largo delle coste australiane e per i quali è in corso una disputa con Timor Est.
Le floride potenzialità energetiche dell’Australia spingono alcuni analisti a ritenere persino che il paese si stia trasformando nel ‘Qatar del Pacifico’. L’Australia dispone anche delle più vaste riserve di uranio su scala globale – pari al 31% del totale. Nel 2013 era il terzo produttore mondiale di questa materia prima (oltre 6000 tonnellate), dopo il Kazakistan (22.450) e il Canada (9300). Non possedendo centrali nucleari, l’intera produzione australiana è destinata ai mercati internazionali. Poiché il commercio dell’uranio è una questione politicamente sensibile, le esportazioni sono legate a contratti ben definiti e il paese sceglie i propri partner commerciali sulla base di valutazioni di opportunità politica.
Il peso notevole del carbone nel mix energetico nazionale e i costi ambientali connessi al suo utilizzo hanno aperto nel paese un dibattito sull’utilizzo dell’energia nucleare, fermamente contrastato dall’opinione pubblica, soprattutto dopo l’incidente di Fukushima del marzo 2011. Nel 2014 la quota di energia prodotta attraverso fonti rinnovabili si è assestata al 2,5%.
La dottrina strategica dell’Australia è una conseguenza della sua collocazione geopolitica. Includendo il Territorio Antartico Australiano e il mare adiacente, l’Australia è il più esteso stato al mondo con una superficie di circa 27,2 milioni di chilometri quadrati. L’organizzazione militare responsabile della difesa è l’Australian Defence Force (Adf), composta dalla Marina e dall’Aeronautica militari reali e dall’esercito, oltre che da un certo numero di unità tri-service. La Marina ha, naturalmente, primaria importanza, tanto che l’Australia sta considerando una cooperazione militare marittima con India e Indonesia. Le politiche di difesa del governo australiano sono guidate dal Libro bianco per la Difesa del 2009 (Defending Australia in the Asia Pacific Century: Force 2030), un documento programmatico orientato alle sfide con cui l’Australia è destinata a confrontarsi per il cambiamento del suo ambiente strategico e le mutevoli relazioni tra le nazioni della regione pacifico-asiatica. Il Libro stabilisce un aumento delle capacità dell’Adf fino al 2030, con una crescita quantitativa della Marina, il potenziamento qualitativo dell’Esercito e la modernizzazione dei settori dell’Aeronautica e dell’intelligence. Più in generale, l’interesse australiano coincide con la stabilità, la coesione e la sicurezza dell’intera regione limitrofa, che comprende stati come Papua Nuova Guinea, Timor Est, Isole Salomone e Vanuatu - ritenuti tra i più deboli al mondo -, e di tutto il Mar cinese meridionale, sul quale sono in corso diverse dispute la cui risoluzione richiede una più stretta collaborazione con l’Asean. Per finanziare un programma così ambizioso il governo aveva stimato di investire per la difesa almeno il 3% del pil fino al 2017, per poi ridurre i costi nel decennio successivo. Tuttavia, nel 2014, tale percentuale si è fermata all’1,8.
L’alleato principale dell’Australia restano gli Stati Uniti, che nel 1989 hanno inserito il paese nella lista dei maggiori alleati non-Nato. Oltre a rappresentare i principali fornitori di armamenti e assistenza militare all’Australia, gli Stati Uniti sono presenti fisicamente attraverso lo Us Pacific Command. Inoltre, in occasione della visita condotta in Australia dal presidente statunitense Barack Obama nel 2011, i due partner hanno annunciato un accordo per l’approfondimento della cooperazione alla sicurezza, incentrato sulla collaborazione tra la Royal Australian Air Force e l’aviazione statunitense e sull’addestramento in territorio australiano di marines statunitensi, nella prospettiva di consolidare la Marine Air-Ground Task-Force americana entro il 2016. Il rafforzamento della partnership strategica con gli Stati Uniti – cementatasi sin dalla Seconda guerra mondiale attraverso la cooperazione nei conflitti in Corea, Vietnam e Iraq – si colloca oggi nel quadro della nuova dottrina di difesa annunciata da Obama ed espressamente rivolta all’intensificazione della presenza statunitense nell’area dell’Asia pacifica. A partire dal settembre 2014, poi, le forze armate australiane fanno parte della coalizione anti-Is a guida Usa che opera in Iraq; Canberra ha messo a disposizione velivoli per raid aerei e oltre trecento unità per addestrare truppe locali.
A dimostrazione dell’importanza rivestita per Canberra dalla cooperazione con l’Alleanza Atlantica, la missione all’estero nella quale l’Australia ha impegnato più energie e capitali è quella a guida Nato in Afghanistan, Isaf, nella quale sono stati impiegati più di 25.000 militari australiani e spesi più di 7,5 miliardi dollari. In linea con il progressivo ritiro delle forze Nato, nel corso del 2013 si è proceduto con il rimpatrio della maggior parte del contingente australiano. Con l’avvio della missione Nato Resolute Support, che è seguita ad Isaf, l’Australia ha mantenuto sul terreno 400 soldati con compiti di addestramento delle forze armate afghane.
Canberra è presente con uomini sul terreno in Sud Sudan, dove partecipa con un piccolo contingente (18 truppe) alla missione di peacekeeping delle Nazioni Unite. Nel Sinai si trovano invece 25 soldati inseriti nella missione Multinational Force & Observers (Mfo).
L’Australia riconosce il diritto di asilo ed è firmataria della Convenzione sullo status dei rifugiati. L’attuale politica di governo rivela tuttavia un notevole divario tra gli obblighi cui il paese sarebbe chiamato a rispondere in materia di diritti umani e il trattamento riservato a richiedenti asilo e rifugiati. Canberra ha adottato infatti uno dei sistemi di detenzione per immigrati più restrittivi al mondo, esteso obbligatoriamente a chiunque entri nel paese senza un visto valido e dalla durata indefinita. A tale pratica si aggiunge quella del respingimento, quasi sempre verso le coste indonesiane, delle imbarcazioni che trasportano i rifugiati richiedenti protezione all’Australia. Ciò ha causato forti proteste da parte di associazioni a difesa dei diritti umani, ma ha generalmente trovato consenso tra l’elettorato australiano.
Attualmente più di 3000 persone (di cui un quinto composto da bambini) sono trattenute nelle strutture di detenzione per immigrati situate nelle isole di Nauru, Manus e Christmas. Il caso di quest’ultima isola è particolarmente significativo in quanto, con i suoi soli 135 chilometri quadrati di estensione, è il lembo di terra sotto giurisdizione australiana più vicino all’Indonesia e quindi la prima meta di speranza per i migranti, provenienti soprattutto da Afghanistan, Iran, Sri Lanka, Indonesia e Pakistan. Christmas Island, rispetto ai suoi circa 2000 abitanti, è arrivata ad ospitare nei suoi cinque centri oltre 3000 immigrati nei periodi di maggiore afflusso, superando di gran lunga la capacità di accoglienza delle strutture.
Facendo appello a ragioni di sicurezza e di protezione dei confini, l’amministrazione attuale si è impegnata fermamente a impedire l’approdo di barche di migranti sulle coste australiane, stringendo anche patti con i paesi circostanti. Nel 2013 Tony Abbott ha sottoscritto un accordo col premier della Papua Nuova Guinea, Peter O’Neill, per stabilire che i richiedenti asilo non vengano più accolti sul territorio australiano. L’intesa bilaterale – della quale è prevista una revisione annuale – prevede che il governo papuano accetti automaticamente qualsiasi immigrato sbarcato sulla Christmas Island; dal canto suo, Canberra si incarica di sostenere i costi di questa accoglienza forzata, che garantirà agli immigrati lo status di rifugiato, ma non l’asilo politico. Nel 2015, la Cambogia ha accettato di accogliere decine di immigrati detenuti presso l’isola di Nauru.
Attualmente in Australia si contano più di 35.500 rifugiati e in centinaia sono morti annegati in questi anni nel vano tentativo di raggiungere le coste australiane.
Nell’anno accademico 2014-15 le università australiane hanno aperto le loro porte a più di 328.659 studenti stranieri (un quarto del totale) e fino al 2020 il governo prospetta un tasso di crescita annuale delle iscrizioni del 5%. L’attrazione di studenti provenienti dall’estero – pari a circa un quarto dell’intera popolazione universitaria – offre all’Australia notevoli vantaggi economici e costituisce una vera fabbrica per l’esportazione nonché una notevole fonte di crescita interna. Le attività di formazione internazionale generano più di 15 miliardi di dollari di reddito annuo e alimentano almeno 100.000 posti di lavoro. Le tasse degli studenti internazionali, assai più elevate della cifra necessaria per coprire i costi di studio, rappresentano circa il 16% del fatturato totale dell’istruzione superiore e l’intero giro di affari a esse collegato contribuisce al pil nazionale per l’1%. La formazione a carattere internazionale non rappresenta tuttavia solo un’opportunità di business per l’Australia. Campus offshore, gemellaggi e collaborazioni di ricerca internazionali rientrano nel programma australiano di aiuti verso i paesi in via di sviluppo e, attraverso la formazione del capitale umano, puntano al miglioramento della governance, alla costruzione di istituzioni civiche stabili e alla realizzazione di uno sviluppo sostenibile. Sostenendo di fatto un’attività di cultural diplomacy, l’Australia ha messo a punto una strategia per garantirsi buoni rapporti, investimenti continui e intensi scambi commerciali con i suoi partner più importanti. Considerati i più recenti orientamenti politico-strategici dell’Australia, non è un caso quindi che più della metà degli studenti internazionali provenga dall’Asia.
Nel 1974, un anno prima che l’Indonesia invadesse la parte orientale di Timor, nella striscia di mare compresa tra l’isola e l’Australia furono scoperti giacimenti di gas per l’attribuzione dei quali una controversia è tuttora in atto. Si chiamano Alba e Troubadour (la zona in cui si trovano ha il nome di Timor Gap); si stima che contengano 145 miliardi di metri cubi di gas: una risorsa unica per Timor Est, un’opportunità di esportazione in più e di ulteriore tutela della propria sovranità per l’Australia. La disputa tra i due paesi riguarda i metodi di determinazione delle acque territoriali: Timor sostiene il principio dei confini tracciati sulla base della linea dei punti equidistanti dalle coste, l’Australia afferma il diritto sulla sua piattaforma continentale. Nel tentativo di risolvere la controversia su Timor Gap, tra il 2003 e il 2007 sono stati stipulati tre diversi trattati, da considerare unitamente. Il Certain Maritime Arrangements in the Timor Sea (Cmats), in particolare, ha aperto una finestra di dialogo fino al 2015. In base al Cmats, i due stati si erano imposti uno stop alla discussione sui confini marittimi e avevano accettato di dividere equamente gli introiti fiscali dovuti dalle compagnie petrolifere sugli idrocarburi eventualmente prodotti. Il destino del Cmats, però, era stato subito messo in dubbio dalle accuse mosse da Timor Est all’Australia, la quale avrebbe effettuato attività di spionaggio allo scopo di trarre vantaggi al tavolo delle trattative. Nel settembre 2015 Timor Est ha deciso infine di aprire una procedura di arbitrato presso la Corte Permanente d’Arbitrato dell’Aia, sostenendo l’incapacità delle due parti di giungere ad accordo soddisfacente e dunque la necessità di rivolgersi ad un organo imparziale.
Il commercio dell’uranio è un’attività che trascende le questioni attinenti alla politica commerciale e di sicurezza energetica di un paese per trasformarsi in un problema di sicurezza nazionale. L’uranio può essere destinato, infatti, a un duplice utilizzo nelle centrali nucleari: l’uno civile e pacifico (produzione di energia elettrica), l’altro militare (fabbricazione di testate atomiche). L’Australia è membro del Gruppo dei paesi fornitori di materiale nucleare (Ngs) e tradizionalmente rifiuta di rifornire i paesi che non hanno aderito al Trattato di non proliferazione nucleare (Nnpt). I maggiori acquirenti del materiale fissile australiano sono, attualmente, gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Giappone, la Corea del Sud e il Canada ma, a seguito di un trattato siglato nel 2006, dal 2008 Canberra ha cominciato a esportare uranio anche verso la Cina. Per quanto riguarda l’India, stato non membro del Nnpt e possessore di testate nucleari, durante l’amministrazione Howard l’Australia si è dimostrata disponibile a discutere di una vendita di uranio, che però non si è concretizzata. Il paese è così tornato, con i successivi governi laburisti, ad una posizione più accorta. Con il ritorno al potere dei liberali, pare essersi profilato all’orizzonte un accordo di massima con Nuova Delhi: la vendita sarà possibile a patto che vengano rispettate determinate clausole di sicurezza.