Basilicata
Difficile da definire nella sua consistenza geografica per la fluidità dei suoi confini specialmente per quanto riguarda l'area occidentale dell'antica Lucania, la Basilicata federiciana assume precise connotazioni entro due coordinate: a sud verso lo Jonio e a nord verso il Vulture. Nel testamento di Federico II raccolto dal notaio "magister Nicolaus de Brundusio" il 10 dicembre 1250, riferendosi alla concessione e alla conferma del principato di Taranto al figlio Manfredi, venivano chiaramente indicati i confini nella parte jonica di questo grande e singolare feudo e delle contee che insistevano ‒ Monte Scaglioso, Tricarico e Gravina ‒ "a porta Roseti [in Calabria] usque ad ortum fluminis Brandani [alle pendici dell'Appennino vicino ad Acerenza]" (Historia diplomatica, VI, 2, p. 806). Sempre nello stesso testamento la preoccupazione di garantire la transitabilità del fiume Ofanto che delimitava l'area del Vulture aveva spinto Federico ad assegnare per la riparazione del ponte i proventi della masseria di S. Nicola di Melfi ubicata vicino al corso dell'Ofanto (ibid., p. 807).
I primi contatti di Federico con la Basilicata erano avvenuti nel luglio del 1227: a Melfi, dove era giunto da Gravina di Puglia, tra luglio e agosto di quell'anno, Federico emanava tre documenti di interesse generale relativi a questioni interne alla sede episcopale di Ratisbona, alla protezione concessa a quattro monasteri cistercensi austriaci, al rinnovo del patto federativo con Luigi re di Francia (ibid., III, pp. 11-16).
Vi ritornava nel maggio 1231 proveniente da Lucera e rimaneva a Melfi e nei dintorni sino a settembre quando dall'antica capitale normanna emanava le Constitutiones regni Siciliae: in quei mesi nella sua cancelleria venivano redatti sette documenti destinati al monastero del Ss. Salvatore di Monte Amiata, ai comuni della Tuscia, a Venceslao re di Boemia, a Gerardo vescovo di Brema, a Sergio abate del monastero di S. Maria e dei martiri Trifone e Biagio di Ravello, a Ermanno Gran Maestro dell'Ordine dei Cavalieri teutonici (ibid., pp. 283-286, 293-295, 296-297, 300-302, 302-304; IV, 1, p. 261).
Un terzo soggiorno a Melfi è documentato nell'agosto-settembre 1231 e un quarto tra il 18 luglio, proveniente da Spinazzola, e il mese di settembre 1232: durante quest'ultimo periodo, tra gli altri, vanno segnalati due documenti di grande interesse: uno destinato al monastero dei SS. Elia e Anastasio di Carbone nella diocesi di Anglona con il quale l'imperatore accoglieva il glorioso cenobio sotto la sua protezione (ibid., IV, 1, pp. 368-390) e l'altro relativo alla nomina di Riccardo di Brindisi ad arciprete della chiesa di Altamura eretta e fondata dallo stesso Federico che la esentava da qualsiasi giurisdizione episcopale (ibid., pp. 389-390).
Ma ciò che più conta è che da Melfi incaricava il 9 agosto 1236 il magister Enrico di Colonia di trascrivere il suo esemplare delle Abbreviationes di Avicenna e del De animalibus tradotti da Michele Scoto (ibid., pp. 381-383); con un'altra lettera, indirizzata ai "Magistri in philosophia docentibus", inviava la traduzione in latino da lui stesso fatta curare dal greco e dall'arabo di alcuni trattati di Aristotele e di altri filosofi (ibid., pp. 383-385).
Nell'ultimo periodo della vita del sovrano svevo viene registrato un soggiorno a Melfi nell'agosto 1249 quando confermava al comune di Macerata una concessione effettuata da suo figlio Enrico VII (ibid., VI, 2, pp. 750-751).
I documenti dianzi citati rappresentano certamente una spia significativa dei rapporti tra Federico II e la Basilicata, ma non costituiscono una testimonianza esaustiva per individuare le presenze dell'imperatore svevo nei territori lucani se si considerano le altre attività esercitate dal sovrano non riportate nelle testimonianze narrative e documentarie, specialmente per quanto riguarda l'esercizio della caccia, la costruzione dei castelli e il controllo delle masserie che richiedevano una infrastruttura viaria adeguata ed efficiente. Dall'altra parte è altrettanto noto come le strutture viarie della Basilicata risultano estremamente esigue, sì da richiedere la creazione di una rete di adduzioni indispensabile per collegare l'unica arteria esistente di ascendenza classica collocata tra la Via Appia e la Via Popilia, la Herculia appunto, alle distese boschive, al sistema castellare, alla rete delle masserie sparse su tutto il territorio della regione.
La Via Herculia tagliava trasversalmente la regione collegandola con la Puglia e la Calabria e seguiva l'itinerario che da Candela e da Accadia portava a Venosa (Venusium civitas), a Rionero in Vulture (Ad pinum), a sud di Lagopesole (Ad fl. Bradani), a Potenza (Potentia), a Satriano o Brienza (Acidios), a Grumento vecchio (Grumentum), a Calvera o Teana (Semucla), a Rotonda (Nerula): era, questo, lo snodo per immettersi sulla Popilia.
Da questa importante strategica infrastruttura viaria si sviluppavano le varie diramazioni per raggiungere a nord le masserie di S. Gervasio, Monteserico, Gaudiano, Lavello e S. Nicola de Aufido e poi tutto il sistema difensivo che da nord a sud costellava l'intera superficie regionale non senza fare riferimento al "parco delle uccellagioni" che, a quanto scrive Giovanni Villani, Federico realizzò "presso a Gravina e a Melfi, alla montagna: e il verno stava a Foggia a uccellare, la state alla Montagna a cacciare a suo diletto" (Giovanni Villani, 1844, p. 156). Del resto di questa alternanza tra il palazzo imperiale di Foggia e le distese boschive della Basilicata costituiscono un'eloquente riprova i documenti già citati che riferiscono sui suoi soggiorni in Basilicata.
Comunque questa viabilità minore è variamente attestata: basti pensare alla Via Appia per Silvum che portava al castello di Spinazzola e alla domus di Gravina, alla Via Venusina che conduceva al castello di Monteserico, al tratto interno da Butunto (Bitonto) a Pissandas (Lagopesole) che consentiva di raggiungere il castello di Acerenza.
Il "parco delle uccellagioni" istituito da Federico II interessò i territori di Melfi e di Lagopesole: si tratta di zone accuratamente prescelte sia per le particolari bellezze naturali sia per la spiccata vocazione venatoria.
All'interno di queste zone l'imperatore fece costruire o riadattò preesistenti fabbriche per far fronte alle esigenze legate alla sua permanenza e a quella del suo seguito.
Di queste domus solaciorum è ricca la Basilicata e risultano collocate nel nord della regione in contiguità con la Capitanata verso la quale Federico esprimeva una particolare predilezione: "Cum solatiis nostris Capitanatae provinciam", scriverà Federico, "frequentius visitemus et magis quam in aliis regni moram sepius trahimus ibidem" (Historia diplomatica, V, p. 943).
Le domus solaciorium deputatae della Basilicata sono nove: Torre di Cisterna, S. Nicola de Aufido, Gaudiano, Lavello, Boreano, Monteserico, Agromonte, Montemarcone, Lagopesole. Una particolare attenzione dell'imperatore meritava certamente Lagopesole per il suo ambiente ricco di acqua, di boschi e di selvaggina tale da proporsi come un bacino ideale entro il quale era possibile verificare quell'ampio spettro di osservazioni di cui è ricco il trattato sulla falconeria, il De arte venandi cum avibus.
In prossimità delle domus solaciorum dell'area del Vulture-Melfese si incontrano le masserie regie o demaniali verso le quali Federico sviluppò una politica particolarmente mirata in quanto, insieme con i castelli e con i porti, esse furono considerate cardini importanti dell'intera organizzazione territoriale attraverso i quali era possibile sviluppare le iniziative del potere centrale nella commercializzazione del prodotto agricolo.
Le masserie regie di età federiciana sul territorio della Basilicata sono quelle di Gaudiano, Lagopesole, Lavello, Monteserico, S. Gervasio, S. Nicola d'Ofanto presso Melfi, Spinazzola; se si eccettua quest'ultima, tutte le altre insistono intorno a una domus solaciorum: riprova evidente di quel rapporto strettissimo, anzi della coincidenza, tra queste e il territorio circostante tale da riproporre quel modello sistemico di insediamento di cui si faceva cenno prima.
Si trattava di un complesso agro-pastorale di notevoli dimensioni che richiedeva un impegno organizzativo adeguato da parte della Corona. A tale proposito Federico II con la Constitutio sive encyclica super massariis Curiae procurande et provide regendis (ibid., IV, 1, pp. 214-215) istituiva i provisores massariarum con lo scopo di compilare gli inventari "mense octobris annuatim", di indagare sul regolare funzionamento delle fattorie constatando "si diminutionem inveneris in eisdem" se i danni fossero stati prodotti da calamità naturali o da negligenze dei massari: in quest'ultimo caso l'inchiesta avrebbe richiesto la presenza dei massari delle aziende vicine, del giudice del luogo in cui era ubicata la masseria, di boni homines in veste di testimoni e del mastro procuratore della provincia. Norme specifiche erano destinate alla raccolta e alla conservazione dei prodotti, al governo degli animali, ai famuli che eseguivano i lavori, alla segnalazione di terreni fertili, allo stato di conservazione delle case e agli eventuali lavori di riparazione o restauro.
L'altro cardine, oltre quello massariale, di controllo e governo del territorio era costituito dal sistema castellare, cioè dalla "rete demaniale di fortezze" con le quali lo Svevo aveva inteso recingere l'intero territorio del Regno: "regni nostri pomerium omni vallari munimine" affermerà lo stesso Federico (Kehr, 1905). E la Basilicata costituisce una eloquente riprova di questa politica di incastellamento del territorio a cominciare dal Vulture-Melfese con il castello di Melfi per continuare nell'alto Bradano con il castello di Acerenza e verso ovest con i castelli di Pescopagano, S. Fele e Muro Lucano; scendendo verso il Basento si incontra il castello di Brindisi di Montagna, mentre sul torrente Melandro quello di Brienza e poi ancora i castelli di Abriola, Anzi, Calvello, Gorgoglione, Petra di Acino; verso la costa jonica sono ubicati i castelli di Montalbano, Castrum Petrulle, Policoro, Torremare, mentre verso quella tirrenica i castelli di Lagonegro e Maratea; infine nell'area interna si trovano i castelli di Montescaglioso e Matera.
Con l'ingresso dei castelli nella struttura amministrativa del Regno matura, tra gli altri, la consapevolezza della conservazione e della manutenzione delle fabbriche castellari, tenuto conto che sul loro stato i provisores castrorum (v.) dovevano inoltrare una dettagliata relazione alla Curia regis.
E qui va fatto un riferimento a una fonte preziosa che per quanto attiene il nostro specifico problema merita la più ampia considerazione: si tratta dello Statutum de reparatione castrorum (v.) attribuito agli anni tra il 1239 e il 1246 e della istituzione dei provisores castrorum effettuata il 5 ottobre 1239 (Historia diplomatica, V, 1, pp. 412-413). Sta di fatto che dal 1239 in avanti compaiono numerosi documenti emanati dalla cancelleria relativi ai problemi della riparazione e manutenzione dei castelli.
Prendiamo, ad esempio, il castello di Policoro: l'intervento regio fu tempestivo e determinato l'8 aprile 1240; il castrum Policorii minacciava di andare in rovina ("domus dicti castri minantur ruinam") per cui era stato indispensabile effettuare le riparazioni ricorrendo all'intervento finanziario della Curia ("de pecunia nostre curie reparari") fino a quando non venne accertato quali fossero i soggetti che erano tenuti alla riparazione ("requirens prius justitiarium regionis ut inquiri faciat diligenter si per homines loci vel proximos castrum ipsum consuevit et debeat reparari") (ibid., V, 2, pp. 885-887).
L'indagine venne prontamente effettuata dal giustiziere se nello Statutum risultano come contribuenti per la riparazione di questo castello dell'area jonica gli abitanti di Policoro, Scanzano, Colobraro, Rotondella, Bollita, Trisaia, S. Arcangelo.
Le località che erano tenute ad assicurare il restauro e la manutenzione dei castra e delle domus del demanio regio sono minutamente elencate.
Si tratta di ben duecentocinquanta strutture castellari di cui ventinove ricadenti nella Basilicata: i diciannove castra già ricordati di Montescaglioso, Petrullo (presso Pisticci), Torremare (presso Metaponto), Policoro, Gorgoglione, Petra di Acino (tra Cirigliano e Aliano superiore), Melfi, Pietrapagana, S. Fele, Muro Lucano, Acerenza, Brindisi di Montagna, Abriola, Anzi, Calvello, Lagonegro, Maratea, Spinazzola e Rocca Imperiale; inoltre le dieci domus di Montalbano, Gaudiano, S. Nicola d'Ofanto, Cisterna, Lavello, Boreano, Lagopesole, Montemarcone, Monteserico, Agromonte.
Nei rapporti tra Federico II e la Basilicata merita anche particolare attenzione l'infrastruttura portuale: basti pensare all'ordinatio del 5 ottobre 1239 con la quale lo Svevo creava nel Regno undici nuovi porti di cui uno sulla costa jonica, Torremare (presso Metaponto). Ad esso preponeva due custodi, "Henricus de Tenardo de Brundusio" e il notarius "Prudentius de Hostuno" (ibid., V, 1, p. 419).
Torre di Mare, il cui porto originario era molto verosimilmente collocato alla foce del Basento, acquistava una rinnovata importanza per il novus portus che si inseriva nell'habitat in stretta continuità con il castrum fatto costruire dallo stesso Federico II. Alla manutenzione del Castrum Turris Maris dovevano contribuire, oltre gli abitanti del luogo, quelli di Pisticci, Casale Pisticci, Craco, Avinella e Camarda.
Non si dimentichi che tra agosto e settembre 1231 Federico promulgava in un solenne concistoro tenuto tra le mura del castello le Costitutiones regni Siciliae, ma ciò che va evidenziato con particolare vigore è il contenuto della lettera inviata da Melfi il 9 agosto 1232 da Federico al magister Ermanno di Colonia con la quale gli intimava di trascrivere il suo esemplare delle Abbreviationes di Avicenna e del De animalibus di Aristotele tradotti da Michele Scoto (ibid., IV, pp. 381-383).
Fortunatamente l'esemplare preparato per Federico II si è conservato nel ms. Chigi E. VIII 251 della Biblioteca Apostolica Vaticana. La concezione organica del volume è espressa chiaramente alla c. IV: "In volumine isto sunt duo libri. Primus est liber Ar[istotelis] de animalibus: Secundus est abreviatio Avicenne super eundem librum de animalibus Ar[istotelis]". La dedica dell'opera vergata con inchiostro rosso in una gotica italiana del primo Duecento arricchita di elementi cancellereschi recita: "Frederice Romanorum Imperator domine mundi. Suscipe devote hunc laborem Michallis Scoti ut sit gratia capiti tuo et torques collo tuo".
È tra le mura del castello melfitano che si intrecciano i dialoghi tra Federico e lo Scozzese sulla validità di tutte le scienze, sul loro essere "strumento di potere di un imperatore animato da un'ansia di sapere intimamente legata alla realizzazione della sua volontà politica" (Morpurgo, 1995, p. 157), sul progetto di dominio sulla natura e sul cosmo da parte dell'uomo.
fonti e bibliografia
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