Gregorio X, beato
Tedaldo nacque a Piacenza e appartenne alla nobile famiglia cittadina dei Visconti, non imparentata in alcun modo con l'omonima casata milanese.
Poco sappiamo dei suoi genitori, anche se si ritiene che il padre sia stato il podestà Oberto Visconti, legato da vincoli di sangue ai Contardo e ai Pelavicino di Pellegrino. Guglielmo Visconti, nipote di Tedaldo, fu rettore del Ducato di Spoleto e appartenente alla stessa famiglia fu quell'Enrico Visconti, in favore del quale Carlo I d'Angiò fece versare la somma di 480 libbre, 5 soldi e 10 tornesi, allorché Tedaldo divenne pontefice.
Quasi nulla conosciamo dell'infanzia e della giovinezza di Tedaldo di cui le fonti, unanimi, evidenziarono l'atteggiamento mite e sereno che, unito alla grande fede, costituì la peculiarità della sua indole. Poco sappiamo altresì della sua formazione culturale; senza dubbio divenne presto chierico e poi diacono e con molta probabilità godette di una prebenda canonicale presso la basilica piacentina di S. Antonino. Secondo una radicata tradizione basata sul fatto che egli compare con il titolo di "magister" e che il suo nome è presente in antiche matricole del collegio dei dottori e giudici di Piacenza, si è pensato che completasse la sua prima formazione culturale nella città natale. P.M. Campi ritenne poi che egli fosse stato allievo del teologo aretino Antonio Boncompagni, ed è probabile che avesse seguito i corsi del "trivio" e del "quadrivio" presso la cattedrale di S. Donnino a Piacenza. Intorno al 1236 entrò in contatto con il cardinale vescovo di Palestrina, Jacopo da Pecorara, anch'egli piacentino, che probabilmente conobbe allorché questi fu inviato quale legato in Piacenza per risolvere una vertenza connessa alla successione vescovile fra il Capitolo della cattedrale e quello di S. Antonino. Così qualche anno dopo, prima comunque del 1240, Tedaldo, modificando radicalmente il corso della sua vita, entrò al servizio di Pecorara. Quando poi, dopo la scomunica lanciata da Gregorio IX contro Federico II nel 1239, il cardinale fu inviato dal pontefice in Francia quale legato della Sede apostolica, con l'intento di trovare un successore a Federico II, alla missione partecipò anche Tedaldo. Questi nel settembre del 1239 era ancora in Piacenza e, una volta raggiunto colà da Pecorara, lasciò in gran fretta la città in quel momento minacciata dall'imperatore. I due dovettero porsi in cammino travestiti da pellegrini e in tal foggia proseguirono fino a Genova. L'ambasceria durò poco, dalla fine del 1239 ai primi mesi del 1240, e fu tutt'altro che risolutiva, pur contribuendo a dare un orientamento preciso e deciso alla vita di Tedaldo. Infatti Jacopo da Pecorara gli fece concedere un canonicato in Lione e un arcidiaconato nella diocesi di Liegi.
Nella stessa occasione Pecorara organizzò un concilio a Senlis cui partecipò anche il neoarcidiacono per ottenere a favore della Sede apostolica l'approvazione della "ventesima" sulle rendite del clero della provincia di Reims. Il cardinale prese quindi la via del ritorno, onde assistere al concilio generale indetto per l'aprile 1240 in Roma da Gregorio IX, intenzionato ad assumere in quella sede rigorosi provvedimenti contro l'imperatore. E fu allora che la nave, mentre solcava il Tirreno alla volta di Civitavecchia per farvi sbarcare con Pecorara anche il cardinale Ottone di S. Nicola in Carcere, legato pontificio in Inghilterra, e numerosi altri prelati, il 3 maggio 1240 fu catturata dalla flotta pisana, alleata di Federico II, presso l'isola del Giglio. I due furono allora tradotti in carcere duro prima in Pisa, poi in San Miniato e fecero parte del numero di quelli che l'imperatore denominò scherzosamente "legati ligati". Anche Tedaldo avrebbe dovuto in realtà subire identica sorte qualora avesse seguito Pecorara, senonché, ammalatosi, dovette fermarsi in Francia.
Ristabilitosi, Tedaldo nel 1241 tornò in Italia e - dice la Vita anonima - si impegnò per ottenere la liberazione di Pecorara. Questi poté essere presente all'elezione di Innocenzo IV nel giugno 1243. Gli restava un anno di vita: nel giugno 1244, stanco e ammalato il vecchio porporato morì in Roma assistito da Tedaldo. Prima di scomparire definitivamente dalla scena politica ed ecclesiastica, il presule propose di elevare il suo fido "famiglio" al vescovato piacentino, ma quest'ultimo rifiutò.
Nella seconda metà del 1244, Tedaldo lasciò l'Italia per recarsi nella sua sede canonicale di Lione, città nella quale fervevano i preparativi del concilio ecumenico convocato da Innocenzo IV, e lì si fermò presso il nuovo vescovo cittadino Filippo di Savoia, cui era stata affidata l'organizzazione dell'assise. Quest'ultimo, incontrato il Visconti, pensò subito di avvalersi dell'esperienza politico-diplomatica da quegli conseguita al seguito del cardinale da Pecorara, e gli chiese così con successo di rimanere al suo fianco per aiutarlo a sbrigare i complessi preparativi.
Il nuovo incarico, oltre a giovare alla sua formazione spirituale e politica, lo mise in buona luce presso il papa, i cardinali, i vescovi e i numerosi diplomatici presenti al concilio. Terminata poi l'assise conclusasi drammaticamente con la scomunica rinnovata e la deposizione di Federico II di Svevia, verso la fine del 1245 Tedaldo lasciò Filippo di Savoia e la diocesi lionese per recarsi presso la sua residenza arcidiaconale di Liegi ove da allora in poi rimase, pur con diverse parentesi, dal 1246 al 1271.
A Liegi il nuovo arcidiacono ebbe modo di esplicare significative mansioni di carattere soprattutto amministrativo ma di valenza del pari politica e giuridica sulle centinaia di parrocchie collocate nell'ampia diocesi liegese, in qualche misura paragonabile a uno Stato indipendente, governato da un potente vescovo conte. Allo stesso modo Tedaldo prese confidenza concretamente con i problemi della riforma dei costumi del clero diocesano e in tal modo cominciò ad approfondire e ad appassionarsi a una questione che costituì uno degli aspetti più significativi della sua futura attività di pontefice, volta sia all'attuazione di grandi progetti ecclesiologici, sia alla riforma e alla rigenerazione del clero regolare e secolare.
Come si è detto Tedaldo lasciò più volte Liegi. Anzitutto negli anni 1248-1252, durante i quali frequentò l'Università di Parigi, press'a poco nello stesso periodo in cui vi si trovarono il grande Matteo Rosso Orsini, fratello del teologo Romano, dottore presso lo stesso "Studium parisiense", s. Tommaso d'Aquino e Guy Foucois - il futuro papa Clemente IV - vicino alla famiglia reale e a Luigi IX che probabilmente Tedaldo conobbe in quel momento. Inoltre nello stesso quinquennio entrò in contatto con Pietro di Tarantasia, destinato a diventare molto più tardi suo immediato successore con il nome di Innocenzo V. Dal 1252-1253, concluso il soggiorno parigino, Tedaldo rientrò a Liegi, ove rimase in prevalenza sino al 1266, anno nel quale si verificò un drammatico avvenimento che lo toccò da vicino. Era allora arcivescovo della città Enrico di Gheldria, fratello di Ottone, che della tradizionale figura del presule ebbe ben poco: fu infatti prepotente e collerico signore oltre che impenitente donnaiolo. Comunque sino al 1266 nulla trasparì nei rapporti tra il vescovo conte e il suo arcidiacono che tuttavia dovettero essere piuttosto tesi, dato il lassismo di Enrico e il rigore morale del Visconti.
Proprio nel 1266 accadde che i familiari di una fanciulla, violentata dall'impenitente vescovo, lo affrontassero, addirittura attentando alla sua vita. Tedaldo, presente allo scandaloso evento, fece scudo con il proprio corpo al prelato, evitandogli così la morte. Subito dopo, tuttavia, si permise di riprendere il vescovo e questi reagì percuotendolo duramente. A seguito del deprecabile episodio, Tedaldo contrasse un'ernia dalla quale non si liberò più. Dopo l'increscioso avvenimento Tedaldo abbandonò l'arcidiaconato, ma non dimenticò l'evento. Divenuto pontefice, durante il concilio lionese del 1274, depose il vescovo, allontanandolo per sempre dalla Chiesa. Poco dopo lo sventurato venne ucciso.
Lontano da Liegi Tedaldo continuò la sua carriera ecclesiastico-diplomatica, approfondendo amicizie che lo collocarono in posizione di rilievo in ambito ecclesiastico. Fin dagli anni di studio trascorsi a Parigi egli aveva conosciuto Luigi IX e suo figlio Filippo (il futuro Filippo III l'Ardito) e proprio a quest'ultimo, appena eletto al soglio di Pietro, indirizzò una delle prime lettere, colma di amicizia e di affetto. In un'altra missiva invece, riferendosi al progetto di canonizzazione del defunto re, scrisse "quem vivum pura mente dileximus", facendo così intendere che tra il pontefice e il futuro santo fossero esistiti sicuri legami di familiarità. Infine, dopo il 1266, oltre al rapporto con la casa reale francese, approfondì la conoscenza con il monarca inglese, Enrico III. In Inghilterra infatti l'arcidiacono di Liegi fu inviato da Clemente IV in aiuto al legato, cardinale Ottobono Fieschi - poi papa Adriano V -, in precedenza mandato nell'isola per svolgervi una delicata missione. Già però nel 1260 Tedaldo si era recato presso Alessandro IV per informarlo su affari importanti relativi al Regno inglese. Con la nuova missione svoltasi nel biennio 1267-1268, egli aiutò il cardinale Ottobono a sedare la rivolta animata da Simone di Montfort contro re Enrico.
La missione fu complessa e il Fieschi attraversò momenti difficili poiché, fra l'altro, fu rinchiuso nella torre di Londra dal conte di Glover, venendo poi liberato solo per intervento del principe Edoardo (il futuro Edoardo III). Tutto fa ritenere pertanto che proprio le necessità del cardinale richiedessero l'ausilio di un fine diplomatico e buon conoscitore di problemi inglesi come Tedaldo che, postosi a disposizione di Ottobono, proseguì i contatti da quegli stabiliti con la corte inglese sin dal 1260. Ma un altro personaggio importante fece parte della stessa missione: Benedetto Caetani, poi Bonifacio VIII. Il caso volle dunque che si venissero a trovare contemporaneamente in terra britannica tre futuri pontefici - G., Adriano V e Bonifacio VIII - diversi per temperamento e per la politica svolta, ma certamente tutti e tre esponenti di spicco della vita ecclesiastica ben prima di assumere la tiara.
Nell'autunno del 1268, terminato il soggiorno inglese, Tedaldo rientrò in continente: nel dicembre 1269 fu a Parigi e nel 1270 a Liegi e di questi anni non abbiamo altre notizie, tranne che nel 1267, prima di essere al seguito del cardinale Fieschi, Tedaldo dovette prendere in Parigi la croce, onde recarsi, al pari di Luigi IX e di Tebaldo II di Navarra - fattosi crociato nella stessa occasione - in Terrasanta.
Con tale atto il Visconti attestò di aver posto, almeno da quel momento, fra i suoi primi propositi la liberazione della Terrasanta cui forse egli aveva cominciato a pensare sin da quando nel 1245 aveva collaborato alla preparazione del I concilio lionese, nel corso del quale Innocenzo IV aveva bandito la crociata, poi intrapresa nel 1248 da Luigi IX. È probabile che lo sfortunato esito dell'impresa abbia spinto Tedaldo fin da quegli anni a pensare di consacrare la vita al riscatto della cristianità. Così, allorché fu ripreso l'attacco musulmano contro le parti della Palestina e della Siria rimaste ancora cristiane e furono così occupate Giaffa, Cesarea e Antiochia, fra il 1265 e il 1268 si profilò l'opportunità di una nuova guerra santa invocata da Clemente IV e organizzata ancora da Luigi IX con Enrico III d'Inghilterra e suo figlio Edoardo.
Come è noto, Luigi IX morì di peste quand'era già in vista del "castrum" di Cartagine (25 agosto 1270). Edoardo d'Inghilterra si recò comunque a San Giovanni d'Acri per consolidare le posizioni crociate in Palestina. Tedaldo, che non aveva avuto tempo di partecipare alla campagna tunisina con il sovrano francese, raggiunse allora il principe Edoardo, fra l'inverno e la primavera del 1270. Egli prese a predicare la crociata ed ebbe modo di stringere nuovi e importanti contatti: per esempio conobbe Guglielmo da Tripoli, l'autore del Tractatus de statu Saracenorum ed anche Fidenzio da Padova autore del Liber recuperationis Terrae Sanctae.
L'episodio più importante di questi mesi fu l'incontro fra il Visconti e i fratelli Polo, incontro di cui Marco stesso riferisce nel Milione dove, denominandolo Adaldo, dice che essi lo conobbero a San Giovanni d'Acri prima che diventasse pontefice, chiedendogli persino consigli nell'imminenza del loro ritorno presso il gran khan Qubilai. Tedaldo parlò lungamente con loro, senza essere però in grado di fornire indirizzi precisi, considerato lo stato della perdurante vacanza papale. I Polo appresero in viaggio che il nuovo papa era stato eletto proprio nella persona del loro ultimo interlocutore. Così tornarono immediatamente indietro per rincontrarlo e il nuovo papa ebbe proprio con i Polo uno dei primi contatti nella nuova veste. Egli affidò ai veneziani una missione speciale consistente nell'invito, rivolto al gran khan, di inviare a Roma suoi emissari onde poter stabilire un primo contatto con l'Occidente. Per condurre a termine un incarico così delicato ed insolito i Polo furono accompagnati da due domenicani: Guglielmo da Tripoli e Nicola da Piacenza. L'incontro suddetto è significativo, in quanto mostra, come riporta il Milione, che Tedaldo veniva considerato, prima ancora di ascendere al soglio di Pietro, con il rispetto e la stima dovuti a un uomo di alto prestigio quale ormai appariva, dopo aver preso parte per circa trent'anni a missioni importanti, in cui si era trovato accanto a ecclesiastici e politici di primo piano sia presso la Santa Sede, sia presso le corti occidentali.
Il conclave che, morto nel 1268 Clemente IV, determinò l'elezione di Tedaldo assunse toni drammatici. I contrasti fra cardinali francesi e italiani portarono ad una situazione di stallo che si protrasse per due anni. Il popolo viterbese si vide allora costretto ad adottare un rimedio estremo, quello di rinchiudere i porporati nel palazzo papale, scoperchiandone il tetto onde - come fu riportato in termini maliziosi dal cardinale vescovo inglese Giovanni di Porto - facilitare la discesa dello Spirito Santo che avrebbe dovuto illuminare le menti dei membri del Sacro Collegio e affrettare la designazione del nuovo vicario di Cristo. Lo scopo fu infine conseguito: i porporati delegarono sei fra loro a cui affidare la "tractatio", ovvero l'elezione del papa. Si concluse così una delle "normali" elezioni di compromesso e la scelta cadde su Tedaldo Visconti (1° settembre 1271), estraneo al conclave e dotato solo degli ordini minori. Tedaldo era ben visto per rettitudine di temperamento e per purezza di intenti e soprattutto per l'esperienza politico-diplomatica lungamente maturata. La notizia dell'elezione lo raggiunse in San Giovanni d'Acri, donde partì per sostare a Gerusalemme in preghiera. Di lì, egli si congedò dal principe inglese e, accompagnato dagli ambasciatori pontifici che lo avevano raggiunto, partì alla volta di Viterbo.
Il 1° gennaio 1272 Tedaldo sbarcò a Brindisi e nel suo attraversamento del Regno meridionale fu scortato da Carlo I d'Angiò. Al confine di Ceprano venne ricevuto da una rappresentanza del Sacro Collegio. Il 10 febbraio entrò finalmente in Viterbo e qui pronunciò un appassionato discorso ai cardinali, cui fece presente la triste situazione dei Luoghi Santi, ponendo immediatamente in luce l'importanza per lui assunta dal problema della liberazione della Terrasanta. Presso il palazzo dei papi egli ricevette il fratello, Visconte Visconti, allora podestà di Milano, e nominò persone di fiducia per incarichi significativi: elesse camerlengo il piacentino Guglielmo di S. Lorenzo, vicecancelliere un altro piacentino, Giannone Leccacorvi. Auditori della Camera apostolica furono Rota Razone di Castelnuovo e Gugliemo de' Spettini, ambedue provenienti da S. Antonino di Piacenza. Mantenne poi la carica di notaio pontificio a Berardo di Napoli, giurista di grande cultura e capacità, la cui nomina risaliva a Urbano IV.
Sempre in Viterbo, Tedaldo, che assunse il nome di Gregorio X, ricevette l'ordinazione sacerdotale e fu consacrato vescovo. Per l'incoronazione invece scelse Roma, intendendo con ciò ribadire la centralità della città degli apostoli, nell'ambito dell'azione pontificia. Roma, che praticamente da quindici anni non vedeva un papa, festeggiò con convinzione il nuovo eletto, il quale il 27 marzo 1272 fu incoronato in S. Pietro, probabilmente dando inizio a quella riforma del cerimoniale cui in seguito conferì concreta attuazione in atti ritualmente e canonicamente redatti durante il concilio di Lione. All'incoronazione seguì la cavalcata sino al Laterano ove ebbe luogo il banchetto, cui parteciparono Carlo I d'Angiò, che servì il papa, e l'ex imperatore latino di Costantinopoli, Baldovino II. Il 28 marzo G. annunciò urbi et orbi l'avvenuta elezione con un convinto appello all'unione e alla pace. Celebrate le feste di Pasqua, il pontefice rimase in Laterano fino a giugno. Il 31 marzo da Roma indisse un nuovo concilio ecumenico, non indicando però ancora la città in cui si sarebbe riunita l'importante assise.
Chiara e lucida fu invece la visione programmatica enunciata da Gregorio X. Anzitutto egli evidenziò il fallimento della crociata e la fragilità del negoziato concluso con il sultano d'Egitto in merito alla concessione fatta ai cristiani di proseguire i loro commerci per un numero limitato di anni a San Giovanni d'Acri; poi mise in risalto i pericoli corsi dalla pace nelle città dell'Italia settentrionale turbate da accanite lotte tra guelfi e ghibellini. L'Impero bizantino, riconquistato da Michele VIII Paleologo che lo aveva tolto a Baldovino di Fiandra, gli sembrava inoltre direttamente minacciato dai Turchi e quindi, per rinsaldarne la compagine, gli parve necessario garantire l'unione fra la confessione romana e la costantinopolitana. Nell'ambito della Chiesa, poi, la disciplina del clero non era certo perfetta e la crisi del cardinalato e la conseguente lunghezza dei conclavi costituirono altrettanti aspetti di grave disfunzione su cui ritenne opportuno intervenire. Bisognava inoltre contrastare e combattere le nuove correnti ereticali in vario modo rafforzatesi. Di tutti questi elementi di turbamento il papa ebbe netta percezione. Tali problemi, parte di un ampio disagio accumulatosi in anni di malgoverno della Chiesa, vennero affrontati in tre punti: 1) una nuova crociata per la liberazione dei Luoghi Santi; 2) l'unione della Chiesa greca con la latina; 3) una riforma ecclesiastica accompagnata da una profonda rigenerazione del clero.
Apparve peraltro chiaro a G. che un programma così impegnativo e ambizioso avrebbe potuto realizzarsi solo in un contesto di pacificazione universale, raggiungibile con l'elezione di un nuovo imperatore, con l'eliminazione delle lotte fra le fazioni cittadine, con la pacificazione dei contrasti all'interno degli Ordini religiosi, con la scelta di vescovi degni. Tutto ciò fu posto alla base della futura assise ecumenica. Con questo bagaglio di buoni propositi e con il fermo intendimento di realizzarli, G. si mosse da Roma all'inizio dell'estate del 1272 per recarsi a Orvieto, ove rimase per circa un anno, fino all'estate del 1273. Di lì il papa cominciò a svolgere un ampio lavoro di riorganizzazione della Chiesa italiana e occidentale e fissò a Lione la sede del concilio.
Il 5 giugno 1273 uscì da Orvieto, volto verso Firenze e lì giunse alla fine di giugno, per prendervi stanza presso il palazzo dei Mozzi a ponte Rubaconti. Scopo della sosta fu quello di riconciliare guelfi e ghibellini in lotta fra loro e tenuti divisi da Carlo I d'Angiò, anch'egli presente in città con il proposito manifesto di rendere onore al papa e con l'intenzione riposta di contrastare i suoi propositi pacificatori. G. partecipò personalmente ad estenuanti assemblee politiche, cercando di ottenere garanzie per gli esuli ghibellini. Alla fine venne raggiunto un accordo cui Carlo d'Angiò spinse i suoi fautori con l'intento di "prometter lungo con l'attender corto", ossia di siglare i patti e di venir meno agli impegni contratti, una volta che il papa si fosse allontanato dalla città. Così il 12 luglio 1273 si solennizzò la pacificazione cittadina, per ricordar la quale G. pose la prima pietra di una chiesa dedicata a s. Gregorio Magno. Malespini e Villani aggiungono poi che non erano passati tre giorni che i ghibellini furono consigliati di abbandonare Firenze, per aver salva la vita. Il minaccioso consiglio tutt'altro che pacificatore venne direttamente da Carlo I, ragion per cui, al colmo dell'amarezza, G. il 16 luglio abbandonò la città senza prendere congedo dall'Angiò. Giunto al castello di S. Croce al Mugello, presso la famiglia amica degli Ubaldini, parenti del cardinale che più degli altri si era impegnato ad eleggerlo pontefice, colpì con l'interdetto la città e il governo guelfo che avevano osato ingannare la maestà del papa, sottoscrivendo un accordo subito contravvenuto. A quel punto G. ebbe ben chiaro quanto fosse complesso il suo piano di pacificazione cittadina e quanto poco fosse disposto concretamente ad attuarlo Carlo I d'Angiò. Anche per questo, dunque, il pontefice si rifiutò di appoggiare la candidatura imperiale di Filippo III l'Ardito, zio di Carlo, che avrebbe finito per diventare una pedina nelle mani del sovrano, desideroso di esercitare un dominio incontrollato sull'Italia, la Grecia e il Mediterraneo.
Lasciato il Mugello e passati gli Appennini, G. si fermò a Bologna, riuscendo a riconciliarla con i Veneziani. Poi giunse a Milano e qui cercò di ottenere dalla famiglia guelfa dei Torriani il permesso di far rientrare dall'esilio un loro nemico, cioè il vescovo Ottone Visconti, che egli aveva al suo seguito e che prudentemente aveva lasciato a Piacenza. I Torriani però, nonostante le pressioni papali, rifiutarono ogni proposta pacificatrice e anzi, proprio negli stessi giorni, cercarono persino di far uccidere il vescovo Ottone. Il pontefice ebbe allora in maniera inequivocabile la conferma dello stato precario dell'Italia del Nord, in cui le nobili casate erano fra loro in contrasto e le città, lacerate da lotte intestine, erano nemiche le une delle altre. G. pensò pertanto che la miglior cosa da fare fosse recarsi subito a Lione per organizzare e realizzare il concilio, perché solo quell'evento avrebbe potuto, concludendosi positivamente, rappresentare un concreto deterrente, capace di ricondurre la pace in Toscana e in Lombardia. Passate le Alpi, ai primi di novembre 1273, accolto da Filippo III l'Ardito e da un suo drappello di soldati, egli giunse a Lione.
La città, raggiungibile con relativa facilità dai vescovi provenienti dall'Italia, dalla Spagna e dal Portogallo, praticamente indipendente dal Regno di Francia e dall'Impero, poté godere di un'ampia partecipazione di presuli e abati. Organizzato con ampie vedute, il concilio lionese del 1274 fu tra i più imponenti e maestosi della storia della Chiesa medievale. Vi presero parte numerosi cardinali, circa cinquecento arcivescovi e vescovi, sessanta abati e oltre mille prelati, teologi, procuratori e oratori laici. Altre migliaia di persone del seguito, di componenti della "famiglia" del papa, di quelle cardinalizie e vescovili, completarono la numerosa compagnia, destinata ad animare per circa due anni quel centro urbano.
Fra i componenti di maggior spicco della grande manifestazione deve annoverarsi s. Bonaventura che G. promosse cardinale nel giugno del 1273 (insieme con lui scelse altri quattro porporati, Vicedomino, cardinale vescovo di Palestrina, Pietro di Tarantasia, cardinale vescovo di Ostia e Velletri, Pietro Giuliani, divenuto titolare della sede di Frascati, e Bertrando di S. Martino, titolare della sede di Sabina); a Lione era atteso anche s. Tommaso d'Aquino che in quell'occasione avrebbe dovuto presentare, se non l'avesse fermato la morte, il suo trattato Contro gli errori dei Greci, composto su richiesta di Urbano IV. Il concilio si inaugurò il 7 maggio, dopo tre giorni di digiuno, e si suddivise in sei sessioni. Come facilmente può evincersi, la grande riunione ebbe scopi pratici ed emise un solo decreto dogmatico, relativo alla processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, e inoltre pose l'accento sulla concreta realizzazione della crociata, sull'unione con la Chiesa greca, sulla riforma della disciplina ecclesiastica e sulla pacificazione, questioni su cui G. insisteva sin dal primo giorno del suo pontificato. Proprio per approfondire questi temi, incontrare i delegati e per leggere relazioni e analizzare proposte, G. era giunto in Lione con cinque mesi di anticipo rispetto all'inizio dei lavori.
Nella prima sessione del 7 maggio G. fece una relazione introduttiva sugli scopi della riunione e con ben appropriati spunti biblici cominciò con le parole di Gesù riportate da Luca: "Ho desiderato ardentemente di mangiare con voi questa Pasqua prima della mia passione". Nella seconda sessione del 18 maggio, l'argomento dominante risultò quello della crociata. Fu anzitutto stabilita un'intensa predicazione in tutti i paesi cristiani. Circa il finanziamento fu predisposta una "decima" universale della durata di sei anni (1274-1280); la cristianità fu ripartita in ventisei "collettorie" e per ciascuna fu nominato un collettore generale che avrebbe dovuto disporre di appositi sotto collettori, quattro per ogni diocesi, onde organizzare la raccolta dei contributi. La scadenza delle rate semestrali fu fissata il 24 giugno e il 25 dicembre di ogni anno. Tutti gli ecclesiastici sotto giuramento avrebbero dovuto indicare l'ammontare delle loro entrate, affinché sulla base della loro dichiarazione fossero fissate le quote di esazione. Tuttavia dal pagamento furono esclusi, col passare del tempo, gli Ordini mendicanti, i Cistercensi, i Premostratensi e gli Ordini cavallereschi. I morosi sarebbero stati puniti con il pignoramento o, nei casi più gravi, con il sequestro dei beni, il che dimostra con quanto rigore il pontefice provvedesse all'aspetto economico della guerra santa. La parte strategico-militare del piano di conquista dell'Oriente cristiano fu affidata a Fidenzio da Padova, un francescano ben conosciuto da G. che lo aveva incontrato in San Giovanni d'Acri e gli aveva commissionato per il concilio la stesura del Liber recuperationis Terrae Sanctae. Fidenzio nel suo scritto ribadì la necessità di garantire ai crociati una condizione di pacificazione generale nell'Occidente, tale da consentire un proficuo svolgimento dell'azione militare in Terrasanta, azione che non avrebbe potuto conseguire duraturi successi se non debitamente supportata dall'unità dei cristiani, i quali avrebbero dovuto una volta per tutte superare divisioni politiche ed egoismo economico. Proprio a questo argomento si rifece G. allorché da Lione, in nome della suddetta unità, proibì in modo tassativo alle città e ai Regni di commerciare in armi, stoffe e derrate alimentari con i nemici di Cristo e, per converso, concesse l'indulgenza plenaria a tutti i futuri crociati.
Mentre massiccia fu la presenza dei religiosi al concilio, praticamente assenti si mantennero i sovrani, eccezion fatta per Giacomo I d'Aragona. Ma tutti si fecero comunque rappresentare e decisero tramite i loro ambasciatori di favorire la guerra santa. G. per parte sua li appoggiò con entusiasmo e sin dall'inizio del pontificato lavorò a questo fine, tentando oltre che a promuovere la pacificazione degli Stati cristiani di entrare in contatto in Oriente con i legati del khan dei Tatari del Levante e con l'imperatore Michele VIII Paleologo, bisognoso dell'aiuto di Roma contro Carlo I d'Angiò, pronto a espandere la sua influenza nel Mediterraneo orientale, in Macedonia, in Albania e nel Montenegro. Quindi, a concilio ultimato, il papa programmò di incontrarsi con l'imperatore bizantino.
Importante fu inoltre la terza sessione del concilio - 7 giugno 1274 - dedicata ai problemi disciplinari del clero secolare e soprattutto regolare. In quella stessa occasione G. concluse il suo più significativo intervento politico, ossia la designazione imperiale di Rodolfo d'Asburgo che, pur non presentandosi come il candidato più forte, era certo il più affidabile tra gli aspiranti alla Corona (Alfonso X di Castiglia, Federico di Meissen, Ottocaro II di Boemia e Filippo III di Francia). Fin dal 1273 il pontefice aveva fatto in proposito conoscere ai grandi elettori il suo pensiero e aveva dichiarato con fermezza che se essi non si fossero accordati sul nome di un imperatore, lo avrebbe scelto egli stesso con i cardinali; gli elettori allora, quasi unanimi, designarono a Francoforte il 22 settembre 1273 Rodolfo d'Asburgo, incoronato re di Germania il 24 ottobre 1273 ad Aquisgrana. Essenziale apparve a questo punto in Lione il proposito di resistere alle reazioni dei contendenti delusi, fra i quali i più pericolosi erano Alfonso di Castiglia e Ottocaro di Boemia, senza provocare gravi reazioni destinate a compromettere il concilio e il progetto di pace. La sessione conciliare più significativa fu la quarta del 6 luglio. Fin dal 24 giugno giunsero a Lione, dopo aver subito un naufragio, gli ambasciatori greci, accolti dai padri conciliari con grande pompa. Il 29 giugno, festa dei ss. Pietro e Paolo, G. celebrò una messa durante la quale furono cantati in greco l'epistola, il vangelo e il Credo: per tre volte i greci pronunciarono le parole "qui ex Patre Filioque procedit" e s. Bonaventura tenne il discorso che sanzionò la pacificazione fra le due confessioni divise ormai da più di due secoli (scisma di Michele Cerulario del 1054). Nella cattedrale di Lione splendidamente illuminata e rilucente, il 6 luglio, alla presenza di circa cinquemila persone, venne solennemente e ufficialmente annunciata l'unione fra la Chiesa greca e la latina.
Per primo il logoteta Giovanni Acropolita a nome del Paleologo di cui era plenipotenziario, poi due vescovi a nome del clero bizantino lessero la formula di fede di papa Clemente IV. Si cantò quindi il Te Deum poi il Credo in latino e in greco e gli ortodossi ripeterono due volte il termine Filioque. Venne in tal modo confermata quell'unione che senza alcun dubbio Michele VIII già prima di allora aveva cercato per motivi politici, e che quindi ora appariva deciso a sostenere pur contro la consistente frazione del clero greco contrario all'avvicinamento a Roma. G. fu consapevole di tutto ciò, ma tentò ugualmente di realizzare un'unità intimamente precaria, divenuta comunque un'arma possente per cominciare la costruzione di un piano generale di pace, essenziale per realizzare la riconquista della Terrasanta. A questo fine, pertanto, il papa sacrificò ogni altro progetto. Intervenne infatti autorevolmente a favore di Bisanzio, invitando il sovrano angioino a concludere una vera pace con l'Impero d'Oriente. Da parte sua Michele fece arrestare i più decisi avversari di Roma e sostituì il patriarca dimissionario, Giuseppe, con Giovanni Veccos, a quel punto divenuto sostenitore del pontefice. Al Paleologo, che gli chiedeva di spostare il futuro esercito crociato in Asia Minore, per potersi liberare col suo ausilio della presenza turca, G. rispose che egli stesso si sarebbe posto a capo di un contingente di crociati che sarebbero partiti da Brindisi in occasione della Pasqua del 1276, per collegarsi con le forze del Paleologo, concentrate in Valona. G. inoltre non volle appoggiare il deposto Baldovino II che in quello stesso tempo intendeva ricostituire a Costantinopoli l'Impero latino d'Oriente, oramai nella più completa disgregazione; sostenne invece il Paleologo, che era rientrato in possesso del trono bizantino, nella speranza che questi si sforzasse di realizzare un'unione delle due confessioni, fondata sulla comune fede.
Più che mai in questo momento furono ammirevoli la fermezza e la saggezza del vescovo di Roma il quale, una volta che i Bizantini ebbero riconosciuto la supremazia universale e la guida della Chiesa romana in materia di fede, autorizzò con magnanimità gli ortodossi a conservare i loro antichi riti, a continuare la recitazione del Credo senza il Filioque, a mantenere i consolidati privilegi dei patriarchi e dei metropoliti. Va detto tuttavia che il trattato di unificazione religiosa non ebbe in prospettiva destino favorevole, vuoi in quanto fondato su basi essenzialmente politiche e vuoi per la tradizionale opposizione a Roma di buona parte del clero costantinopolitano. Inoltre il trattato stesso fu strettamente collegato all'infausta sorte di Gregorio. Infatti la prematura morte di Tedaldo Visconti e quella dei successivi tre pontefici non giovarono certo alla causa unionista.
Tornando ai lavori del concilio, il 14 luglio 1274 si svolse un'altra significativa sessione. Infatti, furono accolti in solenne udienza gli ambasciatori del khan dei Tatari del Levante, i quali presentarono a G. lettere contenenti due proposte: l'istituzione di un'alleanza tatarico-cristiana contro i musulmani, segnatamente contro il comune pericolo rappresentato dal sultano d'Egitto, e il rafforzamento delle missioni cattoliche fra i Tatari. Il 16 di luglio il cardinale Pietro di Tarantasia concesse il battesimo a uno dei suddetti ambasciatori. In tal modo l'operazione avviata a Lione fu meno effimera del prevedibile: difatti da allora in poi i Tatari si accostarono alla fede cristiana e nel 1275 invasero i territori saraceni. Nel 1275 poi G. si impegnò ulteriormente con il khan tataro per inviargli prima dell'inizio della crociata una missione diplomatica, orientata a coordinare un'azione comune contro l'Egitto. Così G. compì due utili mosse per la riuscita della crociata: la collaborazione con l'Impero greco di Michele VIII e quella con l'Impero dei Tatari. Alla festa del 14 luglio fece seguito il doloroso lutto per la morte di s. Bonaventura, avvenuta la mattina del 15 luglio. G. presiedette agli imponenti funerali, celebrò messa e ricordò il defunto, cogliendo lo spunto dalla lamentazione di David dedicata alla scomparsa di Gionata: "Piango su te o mio fratello Gionata" (2 Samuele 1, 15-26). Generale fu il compianto del papa e dei padri conciliari che dettero il loro saluto al filosofo e teologo il quale, prima di spirare, fece in tempo ad aiutare G. a far approvare due complesse costituzioni: quella relativa al conclave e quella sull'approvazione degli Ordini mendicanti.
La quinta sessione del 16 luglio si aprì con la commemorazione ufficiale di s. Bonaventura pronunciata dal papa che lo denominò suo prezioso collaboratore. Vennero quindi approvate quattordici costituzioni legate alla riforma interna della Chiesa. L'ampio materiale d'inchiesta, fatto predisporre dal pontefice nella fase organizzativa del concilio, collazionato e commentato, conteneva abbondanti proposte polemiche contro gli abusi dilaganti nelle diocesi e nelle parrocchie fra i laici e gli ecclesiastici; numerose però furono anzitutto le considerazioni contro gli Ordini mendicanti ai quali i vescovi rimproverarono vita oziosa e parassitaria, concorrenza sleale nei riguardi delle parrocchie, eccessiva brevità e superficialità nelle cerimonie religiose e, per contro, eccessiva larghezza nella elargizione delle penitenze. Sembrò pertanto, almeno in un primo momento, che a Lione dovessero prevalere le ipotesi abolizioniste e che si potesse giungere all'abrogazione della "povertà" dei Mendicanti. Ma G., per intervento di s. Bonaventura oltre che per convinzioni personali, respinse il parere degli estremisti che pretendevano la soppressione pura e semplice dei suddetti Ordini e il 17 luglio 1274 emanò la bolla Religionum diversitate sostanzialmente favorevole ai Francescani e Domenicani, cui furono imposte talune misure limitative che, lungi dall'inficiare i due Ordini, ne produssero l'ulteriore crescita. Furono soppressi invece altri Ordini di frati girovaghi, per esempio quello dei Saccati, poco radicati nel territorio e oggetto di critiche generalizzate.
Sorte del tutto particolare fu riservata invece alla Congregazione di Pietro del Morrone, il futuro Celestino V, già confermata nel 1263 da Urbano IV ma posta in pericolo dalle decisioni lionesi. Pietro infatti, al corrente dei rischi corsi dai suoi confratelli, si recò personalmente a Lione a concilio ultimato, nell'inverno 1274-1275, e a nome dei monaci chiese a G., con cui dovette avere importanti colloqui, che il monastero della Maiella e le fondazioni ad esso connesse fossero poste "sub protectione Sancti Petri". Con un apposito privilegio del 22 marzo 1275 la Congregazione abruzzese, pur rimanendo autonoma, venne allora collegata all'Ordine benedettino. Ancor più importante fu la costituzione Ubi periculum, destinata a scoraggiare le lunghe vacanze della sede pontificia e a stabilire norme precise per l'organizzazione del conclave. Secondo le apposite disposizioni che furono poco dopo modificate ma in seguito ripristinate da Celestino V in tutto il loro rigore, disposizioni che ancora oggi restano praticamente alla base dell'elezione pontificia, i cardinali, non oltre dieci giorni dalla morte del papa, avrebbero dovuto rinchiudersi in un'assemblea da cui non avrebbero potuto allontanarsi se non ad elezione avvenuta con la clausola che, dopo tre giorni dall'apertura del conclave, il cibo sarebbe stato progressivamente diminuito fino a ridursi, in rapporto al protrarsi dei lavori, a semplici razioni di pane e acqua.
Senza dubbio la costituzione si impose come la più importante del concilio e costituì un atto decisivo del suo pontificato, destinata come fu a instaurare praticamente il moderno conclave. Essa tuttavia, è facile comprenderlo, non fu affatto gradita ai cardinali che videro molto ridotto il loro potere durante il periodo di sede vacante. Ma G., mostrando ancora una volta la sua abilità politica, riuscì a indurre i membri del Sacro Collegio, uno per uno, nel corso di incontri riservatissimi, a dargli il voto favorevole. Una stessa trattativa il papa concluse poi con i vari gruppi di vescovi riuniti a Lione "per nationes". Così il giustamente famoso decreto, ancora oggi in sostanziale vigore, finalmente passò.
Fra le disposizioni più caratterizzanti relative all'elezione dei pontefici va ancora menzionata quella rivolta all'organizzazione delle solennità legate alla consacrazione e alla intronizzazione papale da svolgersi inderogabilmente a Roma, con solenni cerimonie da attuarsi in parte lungo le strade cittadine, mentre le funzioni decisive avrebbero dovuto aver luogo all'interno dei più significativi monumenti ecclesiastici dell'Urbe. Le cerimonie stesse furono poi connesse alla località ove sarebbero avvenuti le esequie del papa e il conclave. Così se il nuovo eletto fosse giunto nella sede di Pietro da una città del nord, sede del conclave, la prima sosta importante sarebbe stata a S. Pietro e la successiva al Laterano. In caso invece di una provenienza del corteo papale da un centro urbano del sud dove si fosse svolta la riunione del Sacro Collegio, la prima parte del cerimoniale sarebbe stata prevista in Laterano, la successiva nella basilica costantiniana.
Infine, la sesta ed ultima sessione conciliare, del 17 luglio, approvò l'unica costituzione da considerarsi di carattere dogmatico e ai teologi bizantini che muovevano ai latini il rilievo di considerare il Padre e il Figlio due principi distinti dallo Spirito Santo, il concilio rispose che lo Spirito Santo stesso procedeva eternamente dal Padre e dal Figlio non come da due principi, ma da uno e uno solo, e non per mezzo di due ma per opera di una sola ispirazione.
A concilio ultimato il papa si trattenne in Lione per altri dieci mesi allo scopo di tradurre in azione concreta le decisioni relative alla preparazione della crociata e alla "decima". Il diplomatico e fermo G., durante e dopo le tornate conciliari, volle dedicarsi alla questione imperiale, cercando di rafforzare la non salda posizione di Rodolfo d'Asburgo, che dette al pontefice le più ampie garanzie circa la separazione della Corona siciliana dalla imperiale; inoltre Rodolfo garantì massima correttezza nei rapporti tra "imperium" e "sacerdotium" e si dichiarò disponibile a partecipare alla crociata. A questo punto il papa con un decreto del 26 settembre 1274, Te regem Romanum nominamus, confermò ufficialmente l'elezione del sovrano germanico. Nello stesso tempo G. continuò una delicata azione nei riguardi dei candidati esclusi e mentre Ottocaro II di Boemia si irrigidì e rifiutò l'organizzazione di possibili convegni chiarificatori, di più duttili propositi si sperò fosse invece Alfonso X di Castiglia, che il papa volle incontrare per coinvolgerlo nel grande piano pacificatore da concludersi con la proclamazione della crociata. Per dar luogo all'importante colloquio G. lasciò Lione negli ultimi giorni dell'aprile 1275, si fermò a Valence e il 2 maggio fu a Orange, ove presumibilmente si trattenne sino al 12 dello stesso mese; il 14 sostò a Beaucaire e qui finalmente si incontrarono il papa e il sovrano castigliano, due personalità differenti fatte per non comprendersi e non amarsi.
G. parlò, come di consueto, ispirandosi ai principi della pacificazione universale, da premettere "porro unum ac necessarium" alla conquista dell'Oriente cristiano. Proprio per garantire l'esito della grande impresa - egli sottolineò - si vedeva costretto ad accantonare soluzioni politiche che avrebbe forse preferito, ma che avrebbero potuto creare più condizioni di divisioni e di guerra che prospettive di pace, essenziali per la riuscita della crociata. Per tal motivo dunque - continuava - doveva rinunciare a candidature imperiali forti come la castigliana, la francese e la boema, in favore di quella dell'Asburgo, erede di una consolidata tradizione imperiale teutonica e mitteleuropea, intesa come fonte d'equilibrio tra i numerosi signori territoriali di quelle regioni e come momento di stabilità tra gli opposti interessi degli Stati nazionali.
Alfonso a sua volta espose il suo programma fondato su un quasi brutale rapporto di forza. Il Castigliano si sentiva imbattibile, sostenuto com'era dalle città settentrionali italiane, pronte a scendere in lotta per fiancheggiarlo, nonché da Carlo I d'Angiò che in base ad accordi segreti l'avrebbe aiutato allo scopo di indebolire la candidatura asburgica. Quindi non solo non si mostrò disponibile, in vista della crociata, a rinunciare al suo progetto imperiale, ma si proclamò pronto a venire in Italia settentrionale per animare una ribellione congiunta di ghibellini e di guelfi contro il papa e Rodolfo. Al termine dei colloqui i due si lasciarono nella più completa discordia e Alfonso scrisse alla città di Pisa - 21 maggio 1275 - per comunicare che a Beaucaire il papa lo aveva trattato duramente ma che, nonostante ciò, egli, lungi dal rinunciare ai suoi progetti, li avrebbe potenziati, organizzando una discesa in Italia. E senza alcun dubbio, il Castigliano avrebbe attuato il suo piano, se una momentanea riscossa musulmana nella Spagna meridionale conclusasi con la sua sconfitta in Ecija, avvenuta il 7-8 settembre 1275, e la prematura morte dell'infante Ferdinando verificatasi alla fine di luglio dello stesso anno, non gli avessero impedito di mantenere la linea intransigente assunta nei riguardi del papa e di Rodolfo. A incontro ultimato tuttavia G., che non poteva prevedere i futuri risvolti della questione spagnola, pensò di rafforzare la precaria situazione internazionale, predisponendo un incontro con Rodolfo. Tale convegno, nel corso del quale il futuro imperatore avrebbe dovuto dare garanzie al papa, si svolse a Losanna fra il 18 e il 21 ottobre del 1275, allorché l'ormai avvenuta crisi di Alfonso, già nota al pontefice e al re dei Romani, sdrammatizzò molto la situazione.
L'incontro ufficiale iniziò con la consacrazione del duomo di Losanna, fatta da G. alla presenza di Rodolfo, della regina, della nobiltà laica ed ecclesiastica. Il sovrano giurò poi fedeltà al vicario di Cristo, ai cardinali e a tutta l'assemblea con le stesse formule utilizzate da Ottone IV e da Federico II. Egli promise inoltre di proteggere la Chiesa romana, di conservare integralmente i suoi possessi secondo le antiche conferme di Carlomagno e di Ludovico il Pio e fra questi elencò il Patrimonio di S. Pietro con tutte le terre comprese fra Radicofani e Ceprano e poi l'Esarcato di Ravenna, gli altri territori romagnoli, la Contea di Bertinoro, la Pentapoli marittima e i feudi matildini già donati a Pasquale II nel 1102. L'atto ebbe importanza politica e vasta risonanza, tanto che una decina di anni dopo vi fece cenno nella sua Cronaca anche il francescano Salimbene de Adam, il quale rilevò che papa Visconti con astuzia e capacità politica riuscì a farsi concedere da Rodolfo, in vista della prossima incoronazione, anche i possedimenti emiliano-romagnoli. D'altra parte, aggiunse maliziosamente Salimbene, usualmente i pontefici solevano strumentalizzare le incoronazioni imperiali, per "emungere" i sovrani indotti a cedere in prospettiva di futuri acquisti politici. Certo, l'espressione salimbeniana particolarmente colorita confondeva i propositi con la realtà politica. Infatti, alla morte di G., Rodolfo si guardò bene dal dare pratica attuazione a promesse che aveva l'opportunità di non mantenere. Resta però da sottolineare una volta ancora l'intelligenza con cui papa Visconti seppe, sia pur con una costruzione precaria, profittare delle soluzioni che gli si offrirono per rafforzare la Chiesa anche dal punto di vista territoriale. Lasciata Losanna il 27 ottobre 1275, G. prese la via del ritorno. A metà dicembre si fermò nel castello di S. Croce al Mugello, dove, al pari di due anni prima, fu ospitato dagli Ubaldini. Qui, G. si concesse un giorno di riposo di cui aveva bisogno, essendo già stato infermo nei mesi precedenti e in particolare prima della partenza da Losanna. Lo stesso G. scrisse dello stato cagionevole della sua salute a Carlo d'Angiò senza preoccuparsi, anzi in certa misura quasi ostentando che egli era ospite di una famiglia di fede ghibellina come gli Ubaldini, forse per mettere in mora l'Angioino che, come guelfo, avrebbe dovuto sentirsi obbligato ad essere ancor più vicino e generoso col capo della Chiesa. Nella stessa lettera, inoltre, avvertì il sovrano del suo desiderio di soggiornare in Arezzo prima di riprendere la strada per Roma ove avrebbe dovuto incontrarsi con Rodolfo d'Asburgo e dare il via ai preparativi finali per la crociata e ove chiedeva un immediato colloquio chiarificatore a Carlo che, in risposta al messaggio gregoriano, giunse nell'Urbe l'8 gennaio 1276.
Il 17 dicembre G. lasciò il Mugello in direzione di Arezzo. Il suo piano era quello di non toccare Firenze posta sotto interdetto dal 1273, ma per escludere la città dal viaggio, sarebbe stato necessario guadare a monte della stessa l'Arno allora in piena. G. dovette perciò entrare nel centro toscano e attraversare l'Arno da ponte Rubaconti. Il Villani ci narra che i magistrati cittadini gli si fecero incontro per ossequiarlo e per pregarlo di togliere loro la scomunica, quindi di liberare definitivamente la città dall'interdetto, solo momentaneamente sospeso, onde consentire il passaggio del corteo papale che altrimenti non avrebbe potuto aver luogo in un territorio sconsacrato. G. fu però fermissimo con le autorità e infatti, pur benedicendo il popolo che si inginocchiava in pianto al suo passaggio, appena uscito da porta S. Niccolò, rinnovò l'interdetto su Firenze, pronunciando il versetto 9 del Salmo 31 e pregando Dio di punire i magistrati fiorentini ribelli: "frenali con morso e briglia per farli obbedire". Proseguì dunque il suo percorso che prevedeva il passaggio per Arezzo. Sulle ultime giornate di G. sappiamo poco. Dopo la sosta a S. Croce dovette sentirsi ristabilito, allorché scrisse ancora a re Carlo circa i suoi propositi relativi alle settimane successive. Continuando il viaggio invece lo colse di nuovo il male di cui già da tempo soffriva e del quale informò anche Rodolfo d'Asburgo, per ricordargli come già in Losanna si fossero aggravate le sue condizioni fisiche. Ad Arezzo il successore di Pietro pervenne fra il 19 e il 20 dicembre e lì, febbricitante, prese dimora nel palazzo vescovile, sperando di riprendersi per le imminenti festività. Un progressivo peggioramento ne provocò infine la morte il venerdì 10 gennaio 1276. La scomparsa di G., repentina, seppure in qualche modo preannunciata, compromise un piano in costruzione, forse non del tutto solido, ma che, se completato, avrebbe resistito meglio agli anni e alle insidie della politica. Dopo la sua morte, peraltro, nel giugno dello stesso anno, fece seguito quella di Innocenzo V; dopo poco più di un mese di pontificato, il 16 agosto, morì poi Adriano V e il 20 maggio del 1277 seguì il decesso di Giovanni XXI. In sedici mesi insomma, si successero quattro pontificati, così della crociata non si parlò più, mentre nel 1291 cadde San Giovanni d'Acri, ultimo avamposto cristiano in Terrasanta. Anche l'unificazione della Chiesa greca con la latina si manifestò allora come un progetto irrealizzabile e Rodolfo d'Asburgo a sua volta non scese più a Roma per ricevervi la corona dalle mani del papa, dando invece inizio alla guerra contro Ottocaro II di Boemia. Un sogno rimase dunque la pacificazione dei Regni e più ancora quella fra le città italiane in lotta.
Pertanto, se dovessimo dare un giudizio sul programma gregoriano solo sulla base delle effettive realizzazioni e della tenuta complessiva del suo progetto, esso non potrebbe essere che negativo. Diverso invece è il discorso se intendiamo pronunciarci, come è corretto fare, sulla personalità religiosa e politica di questo papa. In tal senso infatti, il parere non può che essere di segno positivo, anche se può ravvisarsi una sensibile divaricazione fra il programma gregoriano saldo e lungimirante, concepito con fermezza e costanza, e i risultati che ne conseguirono. Infatti, il piano di generale unità della cristianità, in vista di una stabile acquisizione della Terrasanta, ovvero la trasformazione del concetto di crociata tradizionale, criticato anche da uomini di Chiesa, soprattutto Francescani e Domenicani, ci rivela un successore di Pietro intento a cogliere nuovi ideali e fermenti destinati a mettere in crisi convincimenti e programmi precedenti. Del pari il progetto d'intesa tra "imperium" e "sacerdotium", volto a riprendere la sottile trama politica interrottasi con il 1250 e l'inizio della "vacanza imperiale", rivela anch'esso il proposito generoso di una mente agile e pronta, pur se ormai votato alla sconfitta, dato l'inarrestabile tramonto degli ideali che nobilitarono l'Occidente medievale. Si impone così la notevole personalità di questo pontefice che seppe con acume e garbo ma con preciso intento trasformare il concilio ecumenico da un'assemblea deliberante in un "consiglio" del papa che egli fu in grado di predisporre e gestire con magistrale abilità, riuscendo a imporsi come il solo legislatore capace di redigere le costituzioni, di modificarle, imporle e farle approvare da un'assemblea variegata e tendenzialmente poco disposta a firmare cambiali in bianco a un pontefice giunto al vertice della Chiesa dopo un lunghissimo periodo di vacanza papale e di confusione organizzativa e morale. Rimane poi il programma di pacificazione della Chiesa e inoltre si impone l'avvio della cristianizzazione dell'Oriente mongolico e tatarico, ancora una volta affidata a Francescani e Domenicani. E altresì si staglia nella sua imponenza il progetto di trasformazione dei costumi del clero, il rigetto dei programmi teocratici per la scelta di soluzioni care alle correnti spirituali che egli rappresentò nella seconda metà del Duecento con Filippo Benizzi e con Celestino V. Resta soprattutto di G. la riforma del conclave intesa a stabilire norme precise per affrettare la scelta del papa e far superare alla Chiesa le perturbazioni prodotte dalle lunghe vacanze e dall'eccessivo peso concentrato nelle mani dei cardinali, una pietra miliare nella storia ecclesiastica, capace di sfidare i secoli. E certo tutto ciò non è poco, se teniamo conto del punto da cui questo pontefice dovette muoversi dopo il lungo conclave viterbese e soprattutto se mettiamo in evidenza che egli lavorò complessivamente solo per circa quattro anni.
Ma la personalità di papa Visconti fu fortemente intrisa di ideali spirituali, tanto che ben presto la sua memoria divenne oggetto di culto, specialmente nelle città con le quali ebbe in modo più continuativo contatti come Piacenza, Lione, Liegi, Arezzo. La sua città natale e Arezzo (quest'ultima conservò il suo corpo in un mausoleo marmoreo situato nella cattedrale a partire dal pontificato di Urbano VIII Barberini) presentarono comuni richieste per la sua canonizzazione.
Nel 1713 Clemente XI ne confermò il culto "ab immemorabili" e Benedetto XIV lo fece inserire nel Martyrologium Romanum il 16 febbraio; nelle edizioni successive del Martyrologium la festa cade il 10 gennaio secondo l'abitudine di festeggiare il santo nel giorno della morte, corrispondente a quello dell'inizio della vita eterna. Anche Liegi, dove trascorse un lungo periodo di arcidiaconato, e Lione da lui scelta come sede conciliare, gli serbarono qualche segno di venerazione. Dieci anni dopo la morte, nel 1286, gli Aretini gli dedicarono una statua con l'aureola intorno al capo e lo considerarono compatrono della cattedrale con s. Donato. Tardi nacque invece la devozione della diocesi di Piacenza in cui si celebra l'ufficio di terza classe il 10 gennaio. Nell'ultima revisione del Proprium romano del 1963, la festa di G. è celebrata invece il 9 gennaio.
fonti e bibliografia
Regesta Pontificum Romanorum, a cura di A. Potthast, II, Berolini 1875, pp. 1651-703.
Les Registres de Grégoire X, a cura di J. Guiraud-L. Cadier, Paris 1892.
Altre lettere di G. sono reperibili in A. Theiner, Codex Diplomaticus dominii temporalis S. Sedis, I, Romae 1861; O. Raynaldi, Annales Ecclesiastici, XIV, Köln 1692 (A. Theiner e O. Raynaldi pubblicano per intero anche lettere dal Guiraud largamente sunteggiate). Si tenga presente inoltre il Catalogue des actes imprimés concernants Innocent V, Pierre de Tarentaise et son temps, in M.H. Laurent, Le Bienheureux Innocent V (Pierre de Tarentaise) et son temps, Città del Vaticano 1947, pp. 444-509.
Sempre per quanto concerne le lettere papali cfr. anche O. Redlich, Eine Wiener Briefsammlung, Wien 1894. Per completare l'edizione curata da J. Guiraud cfr. invece P. Glorieux, Autour des Registres de Grégoire X, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 5, 1951, pp. 305-25 (saggio di datazione di lettere pontificie comprese nella raccolta di Berardo di Napoli costituenti l'oggetto dell'Appendice I dell'edizione curata da J. Guiraud). V. poi F. Bock, Problemi di datazione nei documenti di Gregorio X, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 7, 1953, p. 302-36 (sono qui pubblicati più di duecento documenti originali). Cfr. infine H. Schmidinger, Zur Vita Gregorii X., in Aus Kirche und Reich. Studien zu Theologie, Politik und Recht im Mittelalter. Festschrift für F. Kempf zu seinem 75. Geburtstag und 50. Doktorjubiläum, a cura di H. Mordeck, Sigmaringen 1983, pp. 397-403.
Per la corrispondenza concernente Rodolfo d'Asburgo e i Grandi Elettori v. Rudolphi Regis Constitutiones, a cura di W. Schwolm, in M.G.H., Leges, III, a cura di J. Merkel-Fr. Bluhme-K. von Richthofen, 1863, pp. 7-95. Cfr. poi M. Gernert, Codex Epistolaris Rudolphi I Romanorum regis, Sanktasien 1772.
Per la corrispondenza relativa alla casa reale inglese invece cfr. Th. Rymer, Foedera et Acta Publica et Conventiones [...] inter Regis Angliae et alios quovis imperatores, Londini 1727.
Per la corrispondenza fra G. e Ottocaro II di Boemia v. L. Emler, Regesta Diplomatica necnon Epistolaria Bohemiae et Moraviae, II, Praga 1882, pp. 392, 394, 400.
In relazione alle lettere di Filippo III l'Ardito v. invece M. Champollion-Figeac, Lettres des rois, reines et autres personnages des cours de France, in Collection des documents inédits sur l'Histoire de France, I, a cura di Id., Paris 1839. Per le lettere connesse ad Alfonso X di Castiglia e alla questione imperiale cfr. M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, a cura di L. Weiland, 1896, ma cfr. pure Regesta Imperii, a cura di J. Ficker-S. Winkelmann, Innsbruck 1881-1901; Acta Imperii selecta, Urkunden deutscher Koenige und Kaiser, a cura di J. Ficker-S. Winkelmann, ivi 1870.
Tra le fonti narrative italiane il posto d'onore spetta alla Vita anonima Gregorii X, in P.M. Campi, Historia Ecclesiastica di Piacenza, II, Piacenza 1651, pp. 375 ss. La stessa Vita è stata in seguito pubblicata in R.I.S., III, 1, 1723, coll. 599 ss.
Tra le fonti narrative italiane vanno senz'altro consultate Ricordano Giachetto e Malespini, Historia Florentina ab urbe condita usque ad a. 1286, ibid., VIII, 1726, coll. 871, 1020 ss.; Riccobaldo da Ferrara, Historia universalis ab a. 700 ad annum 1297, ibid., IX, 1726, coll. 139-40; Saba Malaspina, Rerum Sicularum Historia VI, 5, ibid., VIII, 1726, coll. 781 ss.; Galvano Flamma, Manipalus florum, ibid., XI, 1727, coll. 700 ss.; Ptolomaei Lucensis Historia Ecclesiastica, ibid., coll. 1170 ss.; Annales Mediolanenses, ibid., XVI, 1730, coll. 213 ss.; Corpus Chronicorum Bononiensium, in R.I.S.², XVIII, a cura di A. Sorbelli, I-IV, 1910-40; G. Villani, Cronica II, 7, Firenze 1823, pp. 221 ss.; Ptolomaei Lucensis Annales, a cura di B. Schmeidler, in M.G.H., Scriptores, VIII, a cura di G.H. Pertz, 1848; Annales Placentini Ghibellini, a cura di J.L.A. Huillard-Bréholles, Paris 1856; Annali genovesi di Caffaro e de' suoi continuatori, a cura di L.T. Belgrano-C. Imperiale di S. 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Luard, ivi 1869, pp. 260 ss.; Annales de Wintonia, in Annales Monastici, II, ibid., ivi 1865, pp. 260 ss.; Flores Historiarum libri tres, III, in Rerum Britannicarum Medii Aevi scriptores (Rolls Series), XCV, a cura di H.R. Luard, ivi 1890, pp. 40 ss.; importanti le fonti austro-germaniche fra le quali appaiono indispensabili Martino di Troppau, Chronicon pontificum et imperatorum, a cura di L. Weiland, in M.G.H., Scriptores, XXII, a cura di G.H. Pertz, 1872, pp. 377-97; Annales Austriae, Continuatio Vindobonensis, ibid., IX, a cura di G.H. Pertz, 1851, pp. 700 ss.; Annales Basileenses, a cura di Ph. Jaffé, ibid., XVII, a cura di G.H. Pertz, 1861, pp. 199-200; in merito ai rapporti fra Roma e Bisanzio v. G. Pachimere, De Michele Paleologo, in P.G., CXLIII, coll. 810-24; N. Gregoras, Byzantina Historia, ibid., CXLVIII, coll. 260 ss.; notevole, in preparazione del concilio ecumenico lionese II, il materiale fatto predisporre dal papa, di cui ricorderemo almeno: Relatio ad papam super deliberandi in Concilium, ovvero una Memoria dovuta a Bruno di Holstein, vescovo di Olmütz, a cura di W. Hoefler, in M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, III, a cura di J. Schwalm, 1904-06, pp. 589-94;Humbert de Romans, Opus tripartitum, a cura di E. Brown, in Appendix ad fasciculum Rerum expetendarum et fugiendarum [...], II, London 1690, pp. 185-228; Fidenzio da Padova, Liber de recuperatione Terrae Sanctae, a cura di G. Golubovich, in Biblioteca Bio-Bibliografica della Terra Santa e dell'Oriente Francescano [...], II, Firenze 1913, pp. 1-60; Guiberto de Tournai, Collectio de scandalis Ecclesiae, a cura di A. Stroick, "Archivum Franciscanum Historicum", 24, 1931, pp. 32-62; per la preparazione del concilio di Lione (1274) si utilizzi la Ordinatio Concilii Generalis Lugdunensis, a cura di A. Franchi, Roma 1965; S. Kuttner, Conciliar Law in the Making. The Lyonese Constitutions (1274) of Gregory X in a Manuscript at Washington, in Id., Decretals and Collections of Canon Law. Selected Essays, London 1980, n. 12; in rapporto alla causa di canonizzazione di G. cfr. Acta Sanctorum [...], Ianuarii, I, Antverpiae 1643, p. 600; P.M. Campi, Historia Ecclesiastica di Piacenza, II, Piacenza 1651; C. Poggiali, Memorie storiche di Piacenza, V, ivi 1758; P. Piacenza, Compendio della storia del Beato Gregorio X, ivi 1876; G. Tononi, Il Beato Gregorio X e le attinenze coll'insigne Basilica di S. Antonino, ivi 1876; A. Zisterer, Gregor X. und Rudolf von Habsburg, Freiburg i. Br. 1891; F. Walter, Die Politik der Kurie unter Gregor X., Berlin 1891; H. Otto, Die Beziehungen Rudolfs von Habsburg zu Gregor X., Innsbruck 1893; G. Tononi, Relazioni di Tedaldo Visconti con l'Inghilterra, "Archivio Storico Parmense", 1903; W. Norden, Das Papsttum und Byzanz, Berlin 1903; E. Nasalli Rocca, La causa di canonizzazione del Beato Gregorio X, "Nuovo Giornale", 1926; R. Diaccini, Gregorio X e i Domenicani, "Memorie Domenicane", 43, 1926; P. Castagnoli, Le relazioni del Beato Gregorio X con la teologia e la filosofia del suo tempo, "Bollettino Storico Piacentino", 22, 1927; O. Joleson, Die Papstwahlen des 13. Jahrhunderts bis zur Einführung der Conclaveordnung Gregors X., Berlin 1928; J. Müller, Studien zur Geschichte Gregors X., Freiburg Br. 1929; Id., Die Legationen unter Gregor X., "Römische Quartalschrift", 37, 1929; G. Soranzo, Il Papato, l'Europa cristiana, i Tartari, Milano 1930; E. Nasalli Rocca, Problemi religiosi e politici del '200 nell'opera di due grandi italiani, il cardinal Giacomo da Pecorara e il Pontefice Beato Gregorio X, Piacenza 1938 (v. in partic. la nota bibliografica alle pp. 144-51); W. Hotzelt, Gregor X., der letzte Kreuzzugspapst, in Heiliges Land in Vergangenheit und Gegenwart, III, a cura di Id., Köln 1941; M. Coens, Une consultation hagiographique de Bossuet, "Analecta Bollandiana", 60, 1942, pp. 140-42; E. De Giovanni, Il Beato Gregorio X nell'arte, "Bollettino Storico Piacentino", 40, 1945; V. Laurent, La croisade et la question d'Orient sous le pontificat de Grégoire X, "Revue Historique du Sud-Est Européen", 15, 1945; A. Fliche, Le problème oriental au second Concil oecuménique de Lyon, "Orientalia Christiana Periodica", 13, 1947; G. Palemon, Autour des Registres de Grégoire X, Roma 1951; M.H. Laurent, Le bienheureux Innocent V (Pierre de Tarentaise) et son temps [...], Città del Vaticano 1947; F.X. 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Laurent-J. Darrouzès, Dossier grec de l'Union de Lyon (1273-1277), "Archive de l'Orient Chrétien", 16, 1976; Gregorio X e la città di Arezzo. Studi per il VII centenario della morte del pontefice, a cura di P. Castagnoli, Arezzo 1976; gli stessi studi dovuti ad A. Tafi-P. Racine-F. Molinari-P. Castiglioni, sono comparsi in "Archivio Storico per le Province Parmensi" ser. IV, 28, 1976; 1274 Année Charnière. Mutations et Continuités, Lyon-Paris 30 septembre-5 octobre 1974, Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique, Paris 1977; Gregorio X nel VII centenario della morte, Piacenza 1977; B. Roberg, Das "Orientalische Problem" auf dem Lugdunense II, "Archivum Historiae Conciliorum", 9, 1977; J. Richard, La papauté et les missions d'Orient au Moyen Âge, Roma 1977; J. Gill, The Church Union of the Council of Lyons (1274) Portrayed in the Greek Documents, in Id., Church Union: Rome und Byzantium (1204-1453), London 1979; J. Le Goff, La perception de l'espace de la chrétienté par la curie romaine et l'organisation d'un Concile oecuménique en 1274, in W. Paravicini-K.F. Werner, Histoire comparée de l'administration (IVe-XVIIIe ss.). Actes du XIVe colloque historique franco-allemand, Tours 27 mars - 1° avril 1977, Zürich-München 1980; A.G. Rigg, The Lament of the Friars of the Sack, "Speculum", 55, 1980; A. Failler, Chronologie et composition dans l'Histoire de Georges Pachymere, "Revue des Études Byzantines", 39, 1981; Y. Congar, 1274: les enjeux du Concile, in Id., Droit ancien et structures ecclesiae, London 1982, n. 10; J. Richard, Chrétiens et Mongols au Concile. La papauté et les mongols de Perse dans la seconde moitié du XIIIe siècle, in Id., Croisés, missionnaires et voyageurs. Les perspectives orientales du monde latin médiéval, ivi 1983, n. 15; S. Lloyd, The Lord Edward's Crusade 1270-1272: Its Setting and Significance, in J.Gillingham-J.C. Holt, War and Government in the Middle Ages. 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Claverie, Un aspect méconnu du pontificat de Grégoire X, "Byzantion", 68, 1998, nr. 2; per il culto di G. v. Acta Sanctorum [...], Maii, VI, Antverpiae 1688, pp. 102-59; (Benedetto XIV) De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione I, 41, 10, Venetiis 1764, pp. 180 ss.; i più significativi capitoli relativi al culto gregoriano sono raccolti nella ristampa della P.L., CXLVIII, prima delle lettere di Gregorio X. Cfr. poi A. Ciacconio-A. Oldoino, Vitae et res gestae Pontificum Romanorum, I, Roma 1677, coll. 847-61; P. Bayle, Dictionnaire historique et critique, I, 2, Rotterdam 1697, s.v., coll. 847-61; R. Aubert, Grégoire X, in D.H.G.E., XXI, coll. 1438-39.