Benedetto Croce
La disposizione civile, o etico-politica, della filosofia guida l’intera opera di Croce: non un programma intellettuale, ma un riconoscimento di realtà, non una regola da imporre, ma un’organica funzione chiarificatrice e ordinatrice. Di qui una concezione volta ad accogliere tutte le articolazioni della realtà (le forme dello spirito) per sorreggerne l’affermazione e la crescita contro le spinte distruttive. Questa disposizione civile si manifesta pienamente nel legame di Croce con l’Italia, in quanto formazione statale determinata e in quanto dimensione culturale universale.
Benedetto Croce nasce il 25 febbraio 1866 a Pescasseroli, in provincia dell’Aquila, nel palazzo avito della madre Luisa Sipari. La famiglia del padre Pasquale proveniva da un altro comune dell’alta montagna abruzzese, Montenerodomo. Cresce a Napoli, dove risiedono i suoi, e vi compie gli studi ginnasiali e liceali. Nel luglio 1883 è con la famiglia a Casamicciola, nell’isola d’Ischia, quando un terremoto sconvolge la zona: muoiono il padre, la madre e la sorella Maria, mentre Benedetto, sepolto anch’egli sotto le macerie, viene tratto in salvo dopo molte ore. Di lui e del fratello minore Alfonso si assume la tutela Silvio Spaventa, cugino del padre, accogliendoli presso di sé a Roma. Qui si iscrive alla facoltà di Legge, ma vi rinuncia presto, avviando invece un suo personale programma di formazione. Tornato a Napoli nel 1885, comincia un’attività di studio intensissima, pubblicando articoli e saggi su temi vari di storia della letteratura, della vita civile, del costume, delle tradizioni popolari. Allarga intanto le sue conoscenze con frequenti viaggi in Italia e in tutta Europa. Nei primi anni Novanta entra nella sua vita Angela Zampanelli, nata a Savignano di Romagna, che gli sarà accanto per vent’anni (morirà a quarantatré anni, nel 1913, per una malattia di cuore improvvisamente aggravatasi).
Del 1893 è il primo saggio filosofico, una memoria sul concetto della storia. Dal rapporto con Antonio Labriola, dei cui saggi sul marxismo Croce si fa promotore ed editore, traggono impulso gli interventi poi raccolti nel volume Materialismo storico ed economia marxistica (1900). Nel 1902 esce l’Estetica. La sistemazione teorica essenziale verrà con i volumi della Filosofia della pratica e della Logica, del 1909. Nel 1903 comincia a pubblicare la rivista «La critica». Nel suo programma di rinnovamento culturale Croce ha come collaboratore il più giovane Giovanni Gentile, con il quale ha stabilito un’amicizia destinata a durare, al di là delle divergenze teoriche pur consistenti, fin quando le scelte politiche contrarie sanciranno la rottura. Il 7 marzo 1914 sposa a Torino Adele Rossi, torinese e laureata in lettere presso quella Università. Donna di cultura e insieme di senno pratico, Adele ne accompagnerà l’attività con l’affetto di un’attenta vita familiare. Dall’unione nascono quattro figlie, Elena, Alda, Lidia, Silvia, e il figlio Giulio, morto a poco più di un anno.
Senatore dal 1910, Croce entra come ministro della Pubblica istruzione nell’ultimo governo Giolitti, dal giugno 1920 al giugno 1921. Di fronte all’andata al governo di Benito Mussolini nel 1922 l’atteggiamento di Croce è inizialmente combattuto tra le aspettative di un ristabilimento dell’ordine istituzionale attraverso l’assorbimento della nuova forza e la ripulsa mai attenuata verso le disposizioni psicologiche e culturali che vede confluire nel movimento fascista. Quando il contenimento del nuovo potere nei quadri legittimi dello Stato liberale si rivela inattuabile, giudizio culturale e giudizio politico vanno a combaciare in un’opposizione senza riserve. All’opposizione dà voce, per quanto possibile, in Senato nel 1925 nella discussione della legge sulle associazioni e nel 1929 sul Concordato tra la Santa Sede e l’Italia. Ma la lotta più efficace in difesa delle tradizioni civili e del principio di libertà sarà condotta sulle pagine della «Critica» e attraverso le grandi storie: la Storia del Regno di Napoli (1925), la Storia d’Italia (1928), la Storia d’Europa (1932).
Gli anni dal 1943 al 1948 chiedono l’impegno intero di Croce in un ruolo di riferimento ideale e insieme di indirizzo e direzione politica effettiva. Ministro nei primi due governi di unità nazionale, membro della Consulta, membro dell’Assemblea costituente, tiene fino al 1947 la presidenza del Partito liberale, ma sempre svolgendo al di sopra dei partiti una funzione di impulso e di raccordo tra vecchia e nuova classe politica.
Fonda nel 1946 l’Istituto italiano per gli studi storici, continuando fino all’ultimo il suo lavoro di studioso. Muore a Napoli il 20 novembre del 1952.
Il monumento letterario edificato da Benedetto Croce nel corso di una straordinaria vita produttiva è in ogni suo punto l’affermarsi di una impresa di filosofia integrale, nella suprema sicurezza di un compito liberamente intrapreso e sottratto fin dalle prime prove a qualsiasi vincolo professionale o condizionamento corporativo. Una tale assunzione di responsabilità senza riserve nasce da un sentimento di realtà nel quale l’istanza filosofica s’impone con la forza di un’intuizione del profondo. Questa esigenza originaria trova la sua piena esplicazione nella teoria dell’unità-distinzione delle forme spirituali: l’attività teoretica, nelle due modalità dell’estetica e della logica, e l’attività pratica nelle due sfere dell’azione utile e dell’azione morale – categorie del giudizio e insieme modi dell’agire, nei quali si determina e riconosce il continuo processo di creazioni che è la realtà.
Ne risulta una nozione amplissima della filosofia, non settore disciplinare limitato né branca particolare dell’albero delle scienze, ma principio universalmente operante che accompagna, con diversi livelli di compiutezza, ogni processo vitale. In questo senso Croce può dire che «la filosofia è intrinseca all’uomo, e lavora in lui anche quando egli non se ne avvede» (Il pensiero volgare e il pensiero vero, in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, a cura di A. Savorelli, 1998, p. 151). Non c’è diversità tra pensiero ordinario e pensiero filosofico, ma solo differenza quantitativa, di maggiore o minore ampiezza e coerenza, giacché quando si pensa, se davvero si pensa, si attinge la realtà. L’estensione del concetto non ne abbassa, anzi ne esalta la portata. Filosofia è ritrovamento dell’unità spirituale e dunque difesa dell’interezza della realtà nella quale «viviamo, ci moviamo e siamo», secondo la frase paolina così spesso evocata da Croce. Quello che nel discorso all’Areopago era il disvelamento della divinità universale onorata nell’altare ignoto Deo, in Croce è l’assunto da cui si parte e al quale continuamente si ritorna attraverso l’opera del pensiero: non una rivelazione in un punto della storia, ma un dato che è compito della filosofia portare a sempre maggiore consapevolezza.
La filosofia lavora infatti a discernere le modalità del processo per cui quella continua attività che Croce chiama spirito si realizza in infinite individuazioni. È filosofia dello spirito, appunto, quale lo sperimentiamo in ogni momento del nostro essere e operare, «lo spirito, che è nell’uomo come è in tutto l’universo, che “intus alit” negli astri come negli animali e nell’uomo» (La conversione del vero col fatto. Quel che Vico ci dice e quel che non ci dice, in Id., Terze pagine sparse, 1° vol., 1955, p. 71): non l’Io dell’astratto soggetto conoscente, né il Dio della trascendenza teologica, non una facoltà che guarda a un mondo fuori di essa o un’entità superiore al mondo, bensì l’intera realtà, non scindibile in spirito e materia, in psichico e fisico. In questa visione della totalità vivente non c’è posto per i tradizionali dilemmi del dualismo di interno ed esterno, di soggetto e oggetto, di pensiero ed essere. La stessa distinzione tra uomo e natura è una differenziazione empirica, vale a dire adoperabile praticamente in quanto utile, non una divisione di sostanza, la quale comporterebbe il sussistere di realtà separate e quindi tra di loro incomunicabili.
La filosofia si conferma così della stessa natura della religione, della quale rileva il motivo essenziale, il sentimento del legame dell’uomo con il cosmo, sceverandolo dall’elemento mitologico e fantastico cui resta legato nelle religioni tradizionali. Come leggiamo in uno dei tanti luoghi:
la religione è filosofia, filosofia in elaborazione, filosofia più o meno perfetta, ma filosofia, come la filosofia è religione, più o meno purificata ed elaborata, in continuo processo di elaborazione e purificazione, ma religione o pensiero dell’Assoluto e dell’Eterno (Breviario di estetica, in Id., Nuovi saggi di estetica, a cura di M. Scotti, 1991, p. 24).
È una continuità nella sostanza: non la sostituzione di un quadro razionale a un fondale irrazionale, verità subentrante all’errore; e nemmeno propriamente il passaggio a uno stadio superiore della coscienza, con il decadere di quello precedente. L’affermazione dell’identità filosofia-religione fonda ed è insieme il risultato di tutto l’impegno teorico di Croce. Vale come rivendicazione della filosofia di fronte alla dissoluzione di essa nelle scienze particolari cercata da quel «positivismo» il quale «fece appunto il singolare tentativo di lasciare insoddisfatto il bisogno religioso dell’uomo», scrive in uno degli interventi di polemica culturale con cui viene affermando ai primi del Novecento la concezione appena messa a punto (Per la rinascita dell’idealismo, in Id., Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, a cura di M.A. Frangipani, 1993, p. 15). È l’atmosfera vitale del concetto nell’itinerario teorico della Logica come scienza del concetto puro: dove
pensare, ossia cercare e conseguire il vero, è insieme conferire all’avanzamento e all’innalzamento dell’uomo e del mondo tutto: è un negarsi e superarsi in quanto individuo singolo, e servire Dio (Logica come scienza del concetto puro, a cura di C. Farnetti, 1996, p. 57).
È la natura morale dell’attività conoscitiva, come nel saggio del 1943 su Cultura storica, scienza, azione e religione:
La cultura storica, che potrebbe dirsi anche religiosa perché è un intrinseco elevamento al pensiero di Dio, ci apre la visione del mondo e di noi stessi come in perpetuo divenire, senza nessuno stato terminale a cui sia dato mirare e senza posa alcuna in cui sia dato indugiare. A ogni attimo, un mondo muore e noi muoriamo con lui, e a ogni attimo un mondo nasce e noi con lui rinasciamo (B. Croce, Discorsi di varia filosofia, a cura di G. Giannini, A. Penna, 2011, p. 164).
Il ricorso ai termini tradizionali della religione risulta consueto in Croce. Quei termini non sono provvisori puntelli oratori per la divulgazione culturale. Non sono però neanche i passaggi residuali di una teologia razionale fattasi filosofia. Impostazione teologica, per quanto razionalizzata, e impostazione metafisica stanno per Croce sullo stesso versante. Il Dio trascendente delle religioni (il «Geova dei sacerdoti» di Giosue Carducci: un poeta a Croce caro) e il Logo hegeliano, per quanto tra di loro distanti, ripropongono la stessa struttura dualistica e ultramondana. Appunto il persistere in Georg Wilhelm Friedrich Hegel delle «superstizioni teologiche» – come le chiama in uno degli ultimi scritti dedicati alla filosofia hegeliana (Hegel e l’origine della dialettica, in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, cit., p. 41) – impedisce il conseguente immanentismo che deriverebbe dal principio della dialettica. Le moderne filosofie della storia sono trasposizioni laiche su piani umanitari dei miti delle religioni apocalittiche: in tutti i casi, supremo motore è un principio che sovrasta la storia portandola all’unificazione finale.
Tanto più il pensiero può far valere la sua intima religiosità, quanto più si è liberato dell’eredità teologico-metafisica. «Nella filosofia che abbiamo delineata – scrive Croce nelle pagine conclusive di Teoria e storia della storiografia –, la Realtà è affermata come Spirito, ma non già tale che stia sopra il mondo o corra attraverso il mondo, sibbene che coincide col mondo» (Teoria e storia della storiografia, a cura di E. Massimilla, T. Tagliaferri, 2007, p. 263). L’unità, la creatività, la divinità è in ogni punto della storia, in ogni individuazione della realtà. In quanto consapevolezza della compenetrazione universale la filosofia è religione non per metafora o per sostituzione, ma in senso proprio, funzione insieme di verità e di vita morale. Le verità della filosofia non portano su fatti indifferenti, avendo «la loro energia e vitalità […] nell’essere protagoniste nella lotta tra il bene e il male», scrive in un saggio del 1948 tutto da tenere presente a compendio della concezione di Croce:
Se si chiede una breve e pregnante risposta alla domanda su quel che sia il problema della filosofia, non si può dire altrimenti che è il medesimo di quello delle religioni: la conoscenza del bene, della sua lotta contro il male e della salvazione, o, come si esprimevano e si esprimono le religioni, della luce contro le tenebre, di Dio contro il diavolo, dello spirito contro la carne, e della redenzione dal peccato. La differenza non cade nella essenza di questo problema, perché una filosofia non può mai, senza entrare in contradizione con sé medesima, negare Dio o lo spirito o l’immortalità; sebbene suo ufficio sia pensarli con quella purezza di concetti che vieta la sostituzione e la contaminazione del pensiero con l’immaginazione, e vieta anche di fissare in un momento del tempo e dello spazio un processo che è eterno e di presentarlo come una “rivelazione” (Filosofia e non filosofia, in Id., Filosofia e storiografia, a cura di S. Maschietti, 2005, p. 68).
Questa la prospettiva che regge l’intera opera. È una religione combattente a salvaguardia dell’integrità della realtà: non negazione del mondo in nome di un principio superiore, ma partecipazione consapevole al dramma della sua perenne creazione, non trasvalutazione ma conferma di valore. In questo senso è filosofia «politica», secondo il significato dato al termine da Giambattista Vico in contrapposizione alla filosofia «monastica» e solitaria che considera l’individuo fuori da ogni legame sociale e significato universale. In quanto teoria delle distinzioni, che apre all’azione pratica senza dissolversi in questa, è una funzione equilibratrice e liberatrice di energie, al contrario delle ideologie, che confondono verità e azione in un’unica imposizione di volontà. Filosofia della realtà, insomma, rispetto alle filosofie della prassi destinate a occupare il vuoto di senso aperto dal venire meno della presa delle religioni tradizionali. Alla crisi spirituale, avvertita già al finire del secolo e sperimentata nei suoi effetti devastanti nel Novecento dei totalitarismi e delle guerre europee, può fare fronte soltanto una filosofia non rinunciataria, capace in quanto concezione del mondo e nello stesso tempo orientamento etico di accogliere in tutta la sua estensione il bisogno religioso.
Si manifesta così la caratteristica sociale della filosofia, intendendo per socialità lo stesso nesso delle forme spirituali, quindi una dimensione non esterna alla concreta individualità. In questo senso la filosofia è chiarificatrice, non missionaria, terapia, non profezia: coadiuva nel continuo ripristino della sanità spirituale, non prepara l’avvento di un mondo rovesciato. Per sua natura, tale funzione ordinatrice opera a tutti i livelli. Come consapevolezza dei principi che reggono ogni agire, la filosofia non si pone infatti su un piano qualitativamente altro dal pensiero comune, ma porta questo a maggiore coerenza e complessità. Il rapporto con quello che Croce chiama buon senso è una corrispondenza categoriale e insieme un processo di elaborazione sempre aperto. La contrapposizione non è tra la filosofia, come pensiero straordinario, e il pensiero ordinario, ma tra pensiero vero e proprio e pensiero volgare:
E che cos’è mai il pensiero volgare? Non certo quello del popolo, e dell’uomo più modesto che si dia. […] Il pensiero volgare non è altro che dare pienezza di realtà ai generi, alle specie, alle classi, e ragionarne quasi fossero cose esistenti: è, come si dice, ragionare su parole o per clichés e pregiudizî, ripetendo il detto altrui. Il pensiero non volgare è, invece, pensare col proprio cervello e guardare coi proprî occhi, cogliere il particolare e il singolare delle cose, il proprio di esse, aver vivo il senso dell’individualità (Il pensiero volgare e il pensiero vero, in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, cit., p. 151).
Se l’uomo è uomo intero in ognuno e in ogni istante, non si dà nessun uomo del tutto non filosofo e nessun filosofo unicamente e perfettamente tale. Né su questo terreno si danno prerogative esclusive, giacché
filosofo può essere anche colui che non scriva di filosofia e perfino ignori il nome di questa disciplina, e nondimeno abbia compiuto o compia il lavoro di porre ordine nel suo intelletto e di formarsi, come si dice, idee nette sul mondo e sulla vita, e sia aperto ai dubbî, che hanno sempre virtù di renderlo pensoso, e, per vie non scolastiche, consegua sempre quel tanto di filosofia che gli bisogna. Non senza ragione si ammira talvolta la «filosofia» di certi modesti uomini, e perfino di popolani e contadini, che pensano e parlano savio e posseggono con sicurezza le verità sostanziali, di quelli che un tempo erano chiamati «filosofi naturali»: non si tratta, in questi casi, di uso metaforico della parola, ma di uso proprio, e metaforico sarebbe da dire piuttosto l’uso che se ne fa col largirla ai compilatori di tesi e di dissertazioni e ai recitatori di lezioni, deserti di spirito filosofico (Filosofia come vita morale e vita morale come filosofia, in Id., Ultimi saggi, a cura di M. Pontesilli, 2011, pp. 212-13).
La classicità di sempre (l’oraziano «Ofellus rusticus, abnormis sapiens crassaque Minerva») rivive qui in un rinnovamento radicale, una riforma culturale caratterizzatasi fin dall’inizio per un’operazione di sgombero dei canoni scolastici e delle chiusure corporative, contro ogni immagine del lavoro filosofico quale riserva professionale. La contraddistingue una potente spinta antiintellettualistica, una destituzione di autorità stabilite e di idee ricevute che però non comporta alcuna tentazione popolareggiante, nascendo da una concezione della filosofia tanto più universale quanto più è consapevole della relazione del pensiero con le altre forme dell’attività. La filosofia non deriva dalla scuola, non si tramanda come procedura privilegiata, ma sorge all’interno del circolo vitale complessivo e in esso ha la sua funzione: «nasce dalla vita e torna alla vita», dice continuamente Croce.
La comune natura di pensiero filosofico e di pensiero ordinario o pensiero in generale (in quanto si pensa, se effettivamente si pensa, si pensa il vero) comporta una disposizione espansiva del filosofare. La filosofia agisce infatti come superamento dei limiti della coscienza comune, in un continuo processo di ordinamento ed elaborazione. In questo senso si può affermare che
filosofia è nient’altro che coerenza mentale, la quale coerenza si trova anche in uomini che vivono in una cerchia materialmente assai ristretta di esperienza e che la sicumera degli addottrinati chiama ignoranti, laddove può accadere che, in quel che davvero è sostanziale, ignoranti siano gli addottrinati e non essi (Filosofia come vita morale e vita morale come filosofia, in Id., Ultimi saggi, cit., p. 217).
Si tratta allora di formare filosoficamente gli addottrinati affinché siano tali per davvero, e così assicurare quel ceto civile e mediatore che nel suo significato non di classe sociale ma di modalità spirituale è un’indispensabile funzione di realtà. Bisogna così impedire che avvenga una frattura nella vita generale, uno stato di incomunicabilità tra senso comune e filosofia. Soprattutto ciò è necessario quando entrano in crisi i vecchi sistemi mentali e si apre una divaricazione «tra il giudicare e la teoria, tra l’operare e le credenze, tra le voci fresche della vita e i dommi inariditi» (Troppa filosofia, in Id., Cultura e vita morale, cit., p. 231). Si deve a questo punto evitare che lo scompenso sia riempito da fedi inferiori e che il bisogno di ricomposizione trovi risposte deviate, come avviene con i miti derealizzanti delle ideologie di massa.
La polemica antipositivistica e antiprofessorale degli inizi del secolo si rivela così un aspetto e un momento di una battaglia volta a rimuovere barriere castali e blocchi mentali per ristabilire la circolazione tra cultura e vita: una critica liberatrice che è insieme una rilegittimazione della realtà di fronte alle nuove tendenze decostruttive. Su questa via Croce aprirà negli anni seguenti un cimento senza incertezze con le dottrine che lacerano il tessuto culturale comune dell’Europa. È una lotta contro le formule astratte, gli intellettualismi e gli ideologismi che ne derivano, le diverse forme di quell’«attivismo» che sostituisce alla complessità della vita reale l’unilateralità della volontà totalitaria. Tutta l’opera di Croce si conferma così una grandiosa impresa volta al mantenimento del rapporto di ragione e realtà, di pensiero e vita, nell’epoca in cui la società europea sperimenta insieme con la sua crescita le sue più distruttive scissioni.
Questa concezione è alla base di una produzione di eccezionale vastità che si sottrae alle classificazioni e alle partizioni di genere. Il Croce filosofo, il Croce storico, il Croce etico-politico non vanno mai astratti dal quadro concettuale che unifica l’intera opera. Gli scritti di critica letteraria, di storia, di saggistica morale e civile, gli interventi di polemica culturale e di costume, le dichiarazioni politiche, gli epistolari, oltre che i testi direttamente dedicati alla sistematica teorica, fanno tutti un discorso ininterrotto, e fin dall’inizio riluttante a ogni collocazione dentro una scuola filosofica. Le etichette di neoidealismo o di neohegelismo, per essere state ripetute tante volte a contrassegno delle posizioni crociane, non restano meno fuorvianti. Croce non manca di far valere, anche a scopi orientativi e didascalici, i legami della propria filosofia con l’eredità della stagione classica della filosofia tedesca, Immanuel Kant e Hegel innanzitutto: ma è un rapporto giocato in piena autonomia e non impedisce il ricupero di pensatori che non si collocano su quella linea, come mostra la decisa rivalutazione che a un certo punto farà di una figura anomala come Friedrich Heinrich Jacobi; mentre il confronto con Hegel, condotto avanti fino all’ultimo, resta un rapporto critico, teso a misurare sulla propria concezione ciò che della filosofia hegeliana viene accolto e ciò che va respinto. Se si guarda al sistema, scrive nel Contributo alla critica di me stesso, «la Filosofia come scienza dello spirito, da me disegnata, non è la prosecuzione, ma la totale eversione dello hegelismo»; diverso il giudizio
se, invece, nello Hegel si dà risalto soprattutto alla vigorosa tendenza verso l’immanenza e la concretezza, e alla concezione di una logica filosofica intrinsecamente diversa da quella del naturalismo (Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, 1989, p. 59).
Certo, fin dagli inizi Croce si tiene in pari con lo stato degli studi e in particolare con le problematiche circolanti in quel mondo universitario tedesco che ancora garantiva la continuità istituzionale dell’elaborazione teorica. Il primo saggio filosofico, la memoria del 1893 sulla Storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, si inserisce subito nei punti alti della discussione avviata in Germania sulla natura del conoscere storico e sulla sua collocazione nel quadro generale dei saperi. In apparenza Croce viene così ad accostarsi agli indirizzi che, definendo per le scienze dello spirito uno specifico statuto conoscitivo distinto da quello delle scienze della natura, cercano di estendere al mondo della vita le griglie gnoseologiche di derivazione kantiana. In verità, già la radicalità dell’assunto dichiarato nel titolo di questo primo scritto postula un diverso sviluppo, pur se ancora non se ne vedono le condizioni concettuali. Quale ne fosse la consapevolezza dello stesso autore, l’elemento innovativo non sta tanto nell’attribuzione della storia allo stesso campo dell’arte, in quanto rappresentazione del particolare, rispetto all’elaborazione scientifica che verte su concetti generali: questo è solo l’aspetto più vistoso e di più immediata presa polemica dell’argomentazione. La distinzione tra conoscenza dell’individuale e conoscenza dell’universale, tra rappresentazione del particolare e generalità del concetto, e dunque tra storia e scienza, rimanda a un’armatura scolastica il cui residuo resterà ancora a impacciare la prima trattazione sistematica di Croce, l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Successivamente, con la Filosofia della pratica e la Logica, le leggi o generalizzazioni delle scienze vengono spostate dal piano conoscitivo a quello delle operazioni pratiche. Questo permette di abbandonare la divisione tra campo della storia-arte e campo della scienza-filosofia, portando a una completa riformulazione del rapporto di individuale e universale. Non più due livelli o modalità del conoscere, in reciproca delimitazione per forma e contenuti e quindi relativizzati (inevitabile approdo della distinzione tra scienze dello spirito e scienze della natura su cui insistono gli indirizzi neokantiani), ma una diversa attribuzione categoriale: mentre il generale delle scienze si risolve interamente nella forma pratica dell’attività spirituale (presupposto e risultato di operazioni e regole a fini utilitari), l’universale non si dà per astrazioni, ma come universale-concreto, vivendo solo nelle individuazioni della realtà. La forma è qui quella teoretica della filosofia-storia, che è la vera conoscenza e copre intera la sfera della conoscenza. Un’ombra della vecchia armatura, semmai, si può trovare proprio nel modo con cui, dall’Estetica alla Filosofia della pratica, si rappresenta il rapporto delle forme, con la forma pratica suddivisa in volizione dell’individuale e volizione dell’universale e la forma teoretica a sua volta suddistinta in conoscenza dell’individuale e conoscenza dell’universale: una raffigurazione che per il suo stesso schematismo si presta a essere accolta come formula canonica nei capitoli di manuale dedicati a quella filosofia; benché Croce abbia poi messo continuamente in guardia dall’intendere come giustapposizione quella che è un’implicazione reciproca delle modalità compresenti in ogni nesso vitale, simboleggiandola nell’immagine del «circolo» proprio per escludere qualsiasi serialità e gerarchizzazione della relazione dei distinti nell’unità.
Lo scarto che decide della posizione di Croce, fin dalle prime prove filosofiche, e i cui effetti si faranno sempre più chiari allo stesso autore nelle sistemazioni più mature, sta altrove. A contare non è tanto la formula provvisoria dell’assimilazione della storia all’arte, quanto il suo presupposto, vale a dire il riconoscimento dell’arte quale funzione teorica. L’arte è attività conoscitiva, anzi la base stessa della conoscenza, il punto della compenetrazione, attraverso la creazione di immagini, con la realtà. A partire da qui la scelta filosofica viene dispiegando tutta la propria diversità, lasciandosi dietro definitivamente i «residui di un certo naturalismo, che è piuttosto kantismo», presenti ancora nella prima edizione dell’Estetica, come ricorderà più tardi (Contributo alla critica di me stesso, cit., p. 56). Questa compenetrazione non ha niente del dissolvimento mistico nel tutto, ma è il continuo processo di apprensione-formazione quale si realizza attraverso il linguaggio. L’estetica si definisce appunto come scienza dell’espressione, del linguaggio inteso non come complesso di segni su cui si conviene, ma come attività produttrice di immagini: poesia e parola nel senso più ampio, intuizione lirica che dà voce e figura a sentimenti e stati d’animo nascenti nel continuo processo di immedesimazione della coscienza di realtà. Nella voce Aesthetics scritta per l’Encyclopaedia britannica, rivendicandone il carattere di fondazione filosofica, Croce potrà affermare: «Nel crearsi dell’opera di poesia, si assiste come al mistero della creazione del mondo; e da ciò l’efficacia che la scienza estetica esercita sulla filosofia tutta quanta, per la concezione dell’Uno-Tutto» (Aesthetica in nuce, in Id., Ultimi saggi, cit., p. 25).
L’attività di apprensione-creazione, quale si realizza come identità di intuizione ed espressione, se nella forma estetica ha una particolare evidenza, vale infatti altrettanto per le altre modalità spirituali. Per questo nesso inscindibile di forma e materia, di universale-individuale per cui passa ogni momento di produzione della realtà (ogni pulsazione effettuale, potremmo dire, dello spirito) Croce ricupera la formula di «sintesi a priori»: accanto alla sintesi a priori dell’attività estetica, intuizione-espressione, la sintesi a priori logica, concetto o giudizio individuale, e la sintesi volitiva della pratica. L’uso del termine accreditato, se è volto ad agevolare la ricezione dei propri concetti presentandoli in un quadro di continuità e di sviluppo del pensiero moderno, ne comporta in verità un’estensione e un valore del tutto mutati rispetto alla pertinenza della nozione kantiana. Croce del resto è consapevole della diversità e la indica con chiarezza proprio nel capitolo della Logica intitolato La sintesi a priori logica: il grande valore, scrive, dell’idea designata con quel termine «celebre negli annali della filosofia moderna» è l’efficacia che
essa possiede a porre termine ai dubbî circa l’oggettività del pensiero e la conoscibilità della realtà, e a fare trionfare la potenza del pensiero sul reale, che è la potenza del reale a conoscere sé medesimo. Ma […] questa potenza appunto della sintesi a priori rimase oscura allo scopritore di essa (e oscurissima ai suoi ortodossi seguaci): di guisa che anche al Kant parve che la categoria fosse non già immanente al reale e pensamento della realtà di questo, ma aggiunta estrinseca benché necessaria, alterazione inevitabile introdotta nella realtà per poterla pensare, rinunzia anticipata alla conoscenza della realtà genuina, la quale resterebbe fuori di ogni categoria e giudizio, come Cosa in sé (Logica come scienza del concetto puro, cit., pp. 166, 172-73).
Con l’immanenza delle categorie, a fondare la piena corrispondenza di forme del conoscere e forme della realtà, siamo del tutto fuori dai confini della gnoseologia kantiana con la sua separazione tra ambito fenomenico dell’esperibile e piano noumenico dell’idea; né resta alcuna possibilità di raccordo con le linee di pensiero che si propongono un allargamento metodologico del kantismo alle scienze della storia e della società. Se la conoscenza è reale, se come dirà in una delle tarde conferenze napoletane «la ragione fu data all’uomo piena e non vuota» (L’uomo vive nella verità, in Id., Terze pagine sparse, cit., 1° vol., p. 8), non ci sono due metodi per due campi conoscitivi, ciò che rimanderebbe a una divisione delle sostanze, ma un unico metodo: e il piano della metodologia coincide con quello dell’ontologia, come riconoscimento delle modalità per cui passa il perenne processo di creazioni che è la vita universale. Nell’ultimo volume della quadrilogia sistematica, Teoria e storia della storiografia, apparso in tedesco nel 1915 e in edizione italiana nel 1917, Croce definisce la filosofia come «il momento metodologico della storiografia»: dove per metodo si intende non uno strumento separabile dalla materia trattata, ma la formula riassuntiva di tutto un corso concettuale che ha portato all’identità di filosofia e storia affermata nella Logica. Il saggio Punti di orientamento della filosofia moderna, inviato come discorso di saluto al Congresso internazionale di filosofia svoltosi a Cambridge, Massachusetts, nel 1926, parla della necessità che alla figura «che si è formata nelle scuole medievali e si è trapiantata nelle università moderne, quella del “puro filosofo”», subentri «la formazione di un nuovo tipo di studioso di filosofia, che partecipi alle indagini della storia e della scienza, e soprattutto al travaglio della vita del suo tempo, politica e morale», nella «consapevolezza dell’unità, cioè del vivo ricambio che corre tra filosofia ed esperienza» (Punti di orientamento della filosofia moderna, in Id., Ultimi saggi, cit., p. 210). Tenendo presente ciò, spiega Croce,
non parrà troppo paradossale la definizione che a me è accaduto di proporre della filosofia come il momento astratto della storiografia, o la metodologia della storiografia. Perché il conoscere che davvero c’interessa, e il solo che c’interessa, è quello delle cose particolari e individue, tra le quali e delle quali viviamo e che di continuo trasformiamo e produciamo, immersi non già nella realtà come in un ambiente esterno, ma tutt’uni con essa: cose particolari e individue, che sono l’universale stesso (pp. 206-07).
Dire metodologia della storiografia è dunque lo stesso che dire logica della storia, dove storia è l’intero campo del conoscere in quanto è la stessa realtà, liberata dal «fantasma della “cosa in sé”» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 53).
La liquidazione, sotto l’apparente ricupero-inveramento della «sintesi a priori», della teoria kantiana della conoscenza è il risultato di uno stacco originario rispetto a tutta una linea del razionalismo del soggetto quale attraversa la filosofia moderna da René Descartes in avanti. Per questo Croce può riprendere motivi del grande periodo romantico, ritornanti per mille rivoli nelle «filosofie della vita» e nella letteratura filosofica di inizio secolo. E per rendere anche didascalicamente lo stacco, è disponibile il rimando alla serie canonica dei grandi sistemi postkantiani, a Johann Gottlieb Fichte, a Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, a Hegel:
Tutti e tre sono kantiani, ma tutti e tre (e segnatamente i due ultimi) non sono unicamente kantiani. Essi mettono in opera motivi che il Kant ignorava o timidamente adoperava, e in particolare la tradizione mistica e le nuove tendenze del pensiero estetico e storico; onde superano l’età del Kant, l’astrattismo e l’intellettualismo, si ricongiungono idealmente al Vico (il piccolo Vico tedesco fu lo Hamann), e inaugurano il secolo decimono (Logica come scienza del concetto puro, cit., p. 367).
A marcare la diversità è proprio la scelta di Vico quale pensatore sentito più affine: «Il primo filosofo – scrive nella Logica – che innalzasse la storia al grado della filosofia»; il Vico che «avversò il cartesianesimo; e sta tra i secoli decimosettimo e decimottavo come oppositore del passato e dell’avvenire, o del prossimo passato e dell’imminente avvenire» (Logica come scienza del concetto puro, cit., pp. 386-87). Del 1911 è il volume sulla Filosofia di Giambattista Vico. Non è solo la restituzione di un anello trascurato nella catena del pensiero universale (il libro recava appositamente la dedica a Wilhelm Windelband, che darà infatti spazio a Vico in una nuova edizione della sua Storia della filosofia moderna); è la rivendicazione, attraverso la diversità di Vico, della propria stessa inassimilabilità alla linea prevalsa. Per il problema posto dall’età moderna, di una concezione pienamente mondana, in grado «di dar fondamento filosofico e gnoseologico all’attività o al “fare”, che si vedeva fervido in ogni parte della vita moderna, e di non lasciare che questa vita andasse accompagnata da una filosofia che la contraddiceva e che essa contraddiceva, cagione di oscurità e perplessità nella vita necessaria che pur si percorreva», la via indicata non è quella di Cartesio, come vorrebbe la glossa tradizionale, bensì quella di Vico:
L’opposizione risoluta a Cartesio segna nel Vico, mercé della netta antitesi, l’avviamento nuovo che la filosofia doveva prendere, perché Cartesio rappresenta, in verità, non propriamente l’inizio di questa filosofia […], ma anzi l’ultima sebbene più affinata forma della filosofia della contemplazione o, se si vuole, il momento critico di questa, e molto ancora scolastico era il suo criterio dell’evidenza e la sua conferma ultima nella fede, e per questo l’interpretazione di Cartesio torna ad esser oggi incerta e variamente proposta (Il primato del fare, in Id., Filosofia e storiografia, cit., pp. 13 e 16).
Il compito di una filosofia adeguata allo sviluppo del mondo moderno è quello che Croce stesso si era assunto. La potenza cui far fronte non sta tanto negli avanzamenti della ragione strumentale e nelle applicazioni della tecnica, quanto nella liberazione di energie fino allora contenute o sopite. Di qui il nuovo rilievo che hanno le due «scienze mondane», alle quali si intitola un saggio del 1931 compreso nel volume Ultimi saggi: l’Estetica, o scienza dell’espressione e del linguaggio, e l’Economica, o scienza dell’attività pratica e della politica – ambedue sfere essenziali per ristabilire l’unità di intelletto e senso, di spirito e natura, insomma di anima e corpo nel senso più ampio e «sociale» del termine.
Alla luce di questo approdo si comprende la radicalità dell’esigenza originaria quale emergeva ancora frammentaria nelle prime prove teoriche. Già allora era balzato in evidenza, forzando quadri ancora scolastici di riferimento, il richiamo a Vico, sulla via di una logica dell’individuale, rappresentativa e non astratta, logica dell’immaginazione e non logica dell’intelletto: il Vico «antidoto sempre possente contro l’intellettualismo», per il quale è l’arte la prima forma del vero, fondamentale per il sorgere della vita sociale, e la potenza rappresentativa e fantastica, invece che illusione o ombra vana, è la base di tutto il successivo svolgimento mentale (La storia considerata come scienza [1902], in Id., Primi saggi, 1951, p. 173). Sono gli anni in cui Croce sta lavorando alla costruzione in grado di corrispondere a questo ricupero integrale di realtà e di proiettare la filosofia nella vita pubblica e nella cultura diffusa.
Nelle grandi opere degli anni Trenta il programma filosofico di Croce si esplica nella ricognizione storica ed elaborazione concettuale di quella «religione della libertà» cui s’intitola appunto il capitolo iniziale della Storia d’Europa. Non è soltanto una rivendicazione dell’idea liberale affermatasi nel mondo moderno come criterio degli istituti giuridici e rappresentativi (e ciò proprio quando la carta politica europea vede ridurne quasi dovunque gli spazi), ma una celebrazione della libertà in quanto coincidente con lo stesso principio del mondo. È davvero una lotta di religione, contro le «fedi religiose opposte»: le vecchie concezioni storicamente consumate, ma soprattutto gli orientamenti totalitari sorti sul terreno stesso di crescita della modernità. I nuovi potentati e le ideologie che li alimentano sono infatti, prima ancora che strumenti di compressione e repressione politica, esperimenti che mettono a rischio le basi stesse su cui si tesse la tela della civiltà. Vanno in tal senso le varie tendenze, reazionarie o rivoluzionarie che si dichiarino, accomunate da Croce sotto i termini di «attivismo» e «antistoricismo»: dove attivismo è l’assolutizzazione della prassi, fattasi prevaricante e distruttiva degli altri momenti dell’unità spirituale, e antistoricismo è la connessa disposizione psicologica di disconoscimento e interruzione della continuità storica.
La battaglia è tra intellettuali, e contro intellettuali, al fine di preservare la dimensione culturale comune. Quella dimensione Croce si era ritrovato a difenderla, quasi solo, durante la grande guerra europea. Allora aveva verificato il criterio della distinzione tra valori storici e valori universali, tra i doveri che ci legano alla patria fino al sacrificio, e ciò che non si ha il diritto di sacrificare poiché significherebbe rompere con la superiore umanità quale si riconferma in quegli stessi focolari affettivi e insieme si riconosce nella dignità di tutte le patrie e di tutte le parti in conflitto. Da questo momento l’opera di Croce è interamente volta a rinsaldare, quando più questa appare malcerta, la comune appartenenza di un’Italia e di un’Europa ideale, centro della cultura universale lacerato dalla guerra globale e devastato dalle tempeste ideologiche che ne sono derivate. Il suo intervento al congresso internazionale di filosofia tenuto a Oxford nel 1930, nell’affermare la coincidenza di sentimento storico e sentimento europeo, concludeva così:
Per noi, filosofi e storici, la storicità – che vuol dire civiltà e cultura – è il valore che ci è stato confidato e che abbiamo il dovere di difendere, tener forte ed ampliare: la storicità, nodo del passato con l’avvenire, garanzia di serietà del nuovo che sorge, blasfemata come la libertà, ma che, come la libertà, ha sempre ragione di chi le si rivolge contro (Antistoricismo, in Id., Ultimi saggi, cit., p. 243).
Qui è l’ultima e più elevata religione su cui l’uomo possa attestarsi:
Coloro che la ignorano e la sconfessano sono, nel mondo moderno, i veri atei, gl’irreligiosi: irreligione e ateismo che non è quel che meno offenda nelle parole e negli atti degli antistoricisti, energumeni del nuovo e vacui restauratori dell’antico (p. 244).
Sotto l’alta oratoria compare una struttura concettuale chiamata a misurare la sua tenuta in una contingenza storica che sembra metterne in discussione i fondamenti stessi. Viene sempre più in primo piano la costituzione drammatica del processo vitale, continuo sforzo di vincere sul dolore e sulla morte attraverso la dialettica di bene e male, di positivo e negativo: un dramma che non si potrebbe comporre definitivamente senza rompere la molla stessa della realtà, quella libertà che è insieme forma e soggetto di ogni storia. La libertà, troviamo nel capitolo della Storia come pensiero e come azione intitolato appunto La storia come storia della libertà, «è, per un verso, il principio esplicativo del corso storico e, per l’altro, l’ideale morale dell’umanità» (La storia come pensiero e come azione, a cura di M. Conforti, 2002, p. 54). Libertà è la continua tensione di energie che lottano per affermarsi in forme, per vivere in determinazioni di realtà; libertà è l’attività morale che favorisce e regge questa affermazione contenendone le spinte distruttive. Riconoscere l’autonomia delle forze e dunque l’ineliminabile conflittualità del processo significa rinunciare a concepire la morale come imposizione di una norma eguagliatrice e pacificatrice che sostituisca l’astratta unificazione all’irregolare molteplice. Per essere operante, la morale deve riconoscersi come momento della stessa realtà. Secondo i concetti della Filosofia della pratica, la volontà in tanto opera sulle passioni, in quanto è omogenea con le passioni, passione tra le passioni essa stessa.
Questa capacità pratica della libertà, e con essa la tenuta complessiva della «filosofia dello spirito», è messa storicamente alla prova nel momento in cui la polarità di forze vitali e forze morali mostra al massimo la sua tensione. La sfera dell’economico-utile, o del vitale (come Croce a un certo punto preferisce dire, con una designazione che se non ne muta la collocazione categoriale ne sottolinea l’elementarità fondante), è emersa infatti in tutta la sua potenza, e insieme nella distruttività del suo dilatarsi oltre ogni limite fino a mettere in pericolo l’unità spirituale. Se infatti la vitalità domata e regolata dà le sue forze alle altre forme, che senza di essa non avrebbero voce né forze, la stessa nella crudezza del suo impulso di immediato godimento, nel suo chiuso e ingenuo egoismo di volontà rapace, è però negatività, male, come dirà in uno scritto del 1951 tornando ancora una volta sul tema della dialettica: «il male in tutte le sue conseguenze, anche le più terrificanti, e il male è vinto dalle categorie ulteriori, che non aboliscono la sua forza e ne fanno forza di bene» (Hegel e l’origine della dialettica, in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, cit., p. 44). È questo il «peccato originale» della realtà, la contraddizione irredimibile, e superabile solo di volta in volta nella dialettica del concreto processo creativo per cui sulla morte e sul male si afferma la forza etica e con essa la realtà.
I saggi degli ultimi anni sono un continuo lavoro di adeguamento alla luce delle esperienze tragiche del presente: non una crisi, ma certo un ampliamento concettuale, da cui esce con sempre maggiore intensità, insieme con l’ambiguità ineliminabile della potenza vitale, la forza incomprimibile dell’etica come continuo ristabilimento dell’unità spirituale, cioè del processo vitale stesso:
La moralità è nient’altro che la lotta contro il male; ché se il male non fosse, la morale non troverebbe luogo alcuno. E il male è la continua insidia all’unità della vita, e con essa alla libertà spirituale; come il bene è il continuo ristabilimento e assicuramento dell’unità, e perciò della libertà (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 51).
La dialettica della realtà sta in questo suo continuo rinascere e trarsi in alto sul negativo e attraverso il negativo. La storia ha il suo senso nell’etica.
Questa visione non lascia spazio né per l’ottimismo né per il pessimismo. Infatti,
se la storia non è punto un idillio, non è neppure una «tragedia di orrori», ma è un dramma in cui tutte le azioni, tutti i personaggi, tutti i componenti del coro sono, nel senso «aristotelico», mediocri, colpevoli-incolpevoli, misti di bene e di male, e tuttavia il pensiero direttivo è in essa sempre il bene, a cui il male finisce per fare da stimolo, l’opera è della libertà che sempre si sforza di ristabilire, e sempre ristabilisce, le condizioni sociali e politiche di una più intensa libertà (p. 57).
La fede nel principio di libertà come principio stesso della realtà non comporta alcun affidamento al corso delle cose, ma è coscienza tragica dell’eterno circolo tra «vita animale» e «vita spirituale e morale», consapevolezza del nesso inscindibile delle forze:
Nessuna delle forze dello spirito, nessuna delle forme della storia può essere isolata dalle altre tutte, dall’unità dello spirito e della storia, senza renderla inintelligibile alla mente, pericolosa alla vita (La storiografia meramente politica e il pessimismo morale, in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, cit., p. 162).
Questo significa che anche la volontà morale può risultare distruttiva, tanto se si propone di inglobare l’intero per fare trionfare il bene una volta per tutte, quanto se respinge il rapporto con le forze vitali recidendo così le proprie stesse radici: disconoscimento, in ambedue i modi, di quella che Croce chiama l’«effettualità del corso storico degli ideali umani» (Storia dei valori assoluti e storia dei valori strumentali, in Id., Discorsi di varia filosofia, cit., p. 419). L’attività morale è tale in quanto appunto effettuale, in quanto si determina in istituti e contenuti particolari senza mai esaurirsi in questi: «spiritualità corporificata, e, per ciò stesso, corporeità spiritualizzata», come si dice a proposito della libertà nel primo capitolo della Storia d’Europa. Essa opera quale forza tra le forze per promuovere la «continua archia dell’anarchia», il continuo «equilibrio dello squilibrio» (sono espressioni di Croce) in cui consiste la vita storica di ogni società, compresa la società che l’individuo ha con sé stesso, nella gestione delle proprie volizioni e passioni.
In questo l’etica si fa politica: la politica, potremmo dire, della libertà e della civiltà. La politica della virtù è il titolo di uno dei Frammenti di etica pubblicati nel 1922 e poi riuniti con altri saggi in Etica e politica del 1931. La tematica, contenuta già nella categorizzazione dell’economia-utilità, cioè nell’elevazione dell’intero mondo delle azioni pratiche e degli interessi a forma dello spirito, è orientata inizialmente a sottolineare la specificità del momento della politica nella sua distinzione dall’etica. Questo, da un lato serve alla messa in guardia dalle astrattezze moralistiche che, nelle versioni ingenue come in quelle calcolate e strumentali, disabituano alla realtà e occultano la verità: si colloca qui la denuncia, negli anni del conflitto del 1914-18 e dei trattati conseguenti, delle retoriche della guerra per la giustizia. Dall’altro respinge l’opposta unilateralità delle teorizzazioni miranti a ritirare l’etica nella sfera più angusta della politica e dello Stato, cosa che chiuderebbe gli spazi alla libertà, la quale si serve degli istituti storici, ma non si esaurisce in alcuno di essi, attraversandoli e modificandoli invece in continuazione.
A partire dalla distinzione, è pensabile l’unità concreta, la «verità effettuale della cosa» di cui aveva parlato Niccolò Machiavelli. Machiavelli è tra i pensatori che hanno contribuito a concettualizzare la distinzione affermando la qualità specifica del momento della politica, del conflitto, della forza: in questo accostato a Vico, per cui, dice Croce in un saggio del 1924, si può parlare di «inconsapevole vichismo del Machiavelli» e di «non voluto machiavellismo del Vico» (Per la storia della filosofia della politica, in Id., Etica e politica, a cura di G. Galasso, 1994, p. 297). A riportare alle «migliori tradizioni della scienza politica italiana» serve fino a un certo punto lo stesso marxismo, aveva scritto nel 1917 nella prefazione alla terza edizione di Materialismo storico ed economia marxistica; almeno fino a quando il congiungimento della riduzione materialistica della dottrina con la filosofia della storia apocalittica del suo autore non fa di Karl Marx il profeta e portatore della principale ideologia totalitaria destinata a diffondere il suo virus devastante nel nuovo secolo.
La distinzione è ancora una volta la via per ristabilire l’unità spirituale: dove, non l’etica è una funzione della politica, come diventa quando si vuole sottometterla all’interesse statale (dello Stato esistente o di quello atteso per il futuro) ritenuto superiore, ma la politica è una funzione dell’etica, che esercita sulla prima, e in lega con essa, l’egemonia delle forze spirituali sulle forze vitali. L’assunto iniziale di una filosofia integrale, in questo senso filosofia-religione, può ritornare così arricchito di tutte le mediazioni della gestione concreta del mondo.
Sono questi gli elementi dell’educazione alla realtà per una ideale classe dirigente: ideale non nel senso di non avere incarnazione nella vita storica, ma nel senso di attuare al maggior grado di consapevolezza quella ineliminabile funzione egemonica che è nel ritmo stesso della realtà.
Il problema della classe dirigente – scrive nel 1945 – non è mai se ci debba essere, ma quale debba essere; e noi in Italia non abbiamo certo mancato, neanche nei tempi ultimi, di una effettiva e ben pesante classe dirigente, e ancora fremiamo nel pensare che gente di quella sorta, che non ha lasciato dietro di sé neppure gli uomini tecnicamente capaci che i vecchi regimi assolutistici seppero educare, s’impadronì dello Stato e a lungo lo mantenne nelle sue mani. Senonché una classe dirigente era necessaria, e non ce n’era pronta un’altra migliore, e all’uopo venne quella. Nondimeno, una classe dirigente degna deve essere una classe sapiente, che non vuol dire un platonico ordine di filosofi che governi lo stato, ma tale che raccolga in sé stessa in modo vivo la tradizione della vita morale del suo popolo e le esperienze del suo passato, e sappia essere prudente e ardita, conservatrice e riformatrice, congiungente nel presente il passato e l’avvenire (Classi economiche e classi dirigenti, in Id., Nuove pagine sparse, 1° vol., 19662, pp. 299-300).
Sono gli anni più drammatici della vita nazionale, dalla sconfitta bellica e dal crollo del regime fascista alla rifondazione statale repubblicana, che vedono Croce impegnato in prima persona nell’opera di salvazione dello Stato unitario e di transizione verso il rinnovato assetto istituzionale. Croce si trova allora ad assommare un ruolo di riferimento ideale per gli italiani, una funzione di rappresentanza e garanzia per le opinioni pubbliche dei Paesi vincitori e un diretto compito politico.
È un impegno d’eccezione in una situazione eccezionale, eppur sempre in continuità con il senso dell’intera sua opera. La destinazione civile della filosofia comporta un sempre rinnovato legame con le forze storiche. E una forza storica essenziale, venendo meno la quale Croce sa bene quanto possa indebolirsi l’affermazione, anzi l’accessibilità stessa del suo pensiero, è appunto l’Italia, nella costruzione statale uscita dalle lotte del Risorgimento, con le peculiarità e le difficoltà di una crescita presto travagliata da una più generale crisi europea. A rinsaldare quella costruzione Croce reca un contributo unico, con un’assunzione di responsabilità portata fino al livello di una tutela, per non dire di una supplenza generale, esercitata in modi diversi nelle diverse fasi, ma sempre perseguita come la vita concreta del lavoro filosofico. Agli inizi del secolo è un programma di studi di grande respiro, volto a confermare un superiore stile culturale, una «aristocrazia mentale», secondo l’espressione di Croce, modello e guida di un’opinione pubblica colta capace di sorreggere e ampliare i processi di formazione della classe dirigente.
Alla sistemazione teorica assicurata dalle grandi opere del primo decennio del secolo, con un vero e proprio ristabilimento dei possessi della filosofia, corrisponde un’attività intensissima diretta a suscitare energie e interessi di ricerca, a promuovere traduzioni e cure di testi classici e contemporanei in iniziative editoriali di lunga lena (nel 1901 entra in contatto con Giovanni Laterza, che diverrà l’editore della rivista e di quasi tutte le sue opere), ad apprestare strumenti per un più moderno e largo pubblico colto. Vanno in questo senso gli interventi di polemica culturale nei quali, utilizzando ampiamente l’universo della comunicazione giornalistica, Croce viene trasmettendo in orientamenti ideali e dettami pratici i principi filosofici. Al centro è l’impresa della «Critica», che comincia le pubblicazioni nel gennaio del 1903 e uscirà con cadenza bimestrale fino al 1944 (seguita dal 1945 al 1951 dai «Quaderni della “Critica”»). A partire dal primo fascicolo «La critica» offre i saggi che andranno a comporre i volumi della Letteratura della nuova Italia: rassegna degli scrittori, dai maggiori ai minori e minimi, che prima ancora di una cernita estetica è un bilancio delle tendenze psicologiche e di costume nel nuovo Stato, e in questo modo storia morale e insieme educazione del gusto per i nuovi cittadini.
Il volume Cultura e vita morale uscito nel 1914, che raccoglie articoli e interviste di questi anni, segna forse la fase culminante della presenza di Croce nel discorso intellettuale diffuso: una presenza giudicatrice e, per alcuni, una dominanza ingombrante. Non si tratterà mai di una egemonia, e tanto meno di una dittatura culturale: definizioni nate come formule polemiche e trascinatesi in luoghi comuni, ma non corrispondenti ai diversi modi e ai limiti entro cui può effettivamente essere recepito quel possente impulso. E se Croce diventa un punto di riferimento inevitabile per nuovi gruppi intellettuali che di lui sentono l’influsso e da lui ricevono un controllato appoggio, il rapporto si rompe a partire dal 1914 per il diverso atteggiamento sull’opportunità dell’entrata in guerra dell’Italia. Quasi isolato rispetto alle passioni prevalenti tra gli intellettuali, Croce (vicino agli orientamenti di Giovanni Giolitti e della maggioranza parlamentare, travalicata dalla pressione congiunta della piazza e della corona) si oppone infatti alla campagna interventistica, considerandone con preoccupazione le conseguenze pratiche e i contraccolpi culturali. È il prodromo di una frattura che si aprirà nel dopoguerra, fino alla crisi dello Stato liberale e all’instaurazione del regime di dittatura.
Un’estrema chiamata a raccolta di voci solidali Croce potrà allora farla, su invito di Giovanni Amendola, opponendo al Manifesto degli intellettuali del Fascismo pubblicato da Gentile la Risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani, manifesto degli antifascisti che esce il 1° maggio 1925 e raccoglie numerosissime firme. Ma a quel punto l’azione in profondità e in prospettiva è affidata alla prosecuzione dell’opera filosofica e storica. Nel 1928 Croce pubblica la Storia d’Italia dal 1871 al 1915, dove il riepilogo del difficile progresso compiuto nei decenni della costruzione unitaria, con la rivendicazione del lavoro della «semplice e sennata Italia, aliena da fanatismi di ogni sorta» (Storia d’Italia dal 1871 al 1915, a cura di G. Talamo, 2004, p. 238), è un richiamo alla realtà, contro le forzature e i nuovi miti nazionalistici, e insieme l’affermazione di una continuità civile da mantenere e ritrovare oltre l’avventura del fascismo. A far vivere questa continuità lavora appunto Croce. I suoi scritti, dei quali la forza al potere non può impedire la circolazione, hanno immediato riscontro internazionale: la Storia d’Europa nel secolo decimonono è subito pubblicata in traduzione inglese, a New York nel 1933 e a Londra nel 1934, e in tedesco nel 1935, stampata non in Germania, dove era ormai impossibile, ma a Zurigo; La storia come pensiero e come azione, apparsa nel 1938, è tradotta nel 1941 a New York sotto il titolo di History as the history of liberty. In questi anni si rinnova così per Croce su un piano più largo la fama internazionale già raggiunta con l’opera filosofica. Chi ha mantenuto aperta la prospettiva della libertà negli anni più cupi della crisi europea, potrà porsi quale supremo garante nel momento più difficile per l’Italia e difendere il proprio popolo davanti all’opinione pubblica dei Paesi vincitori.
Nel rapporto con l’Italia trova la sua piena verifica il discorso sulla unità-distinzione di valori storici e valori universali derivante da tutta la concezione di Croce. L’Italia è una precisa costruzione statale, da comprendere e curare come entità nella quale storicamente si compongono forze e si alimentano energie vitali: in questo uno strumento essenziale, da difendere contro le spinte dissolutrici. È l’Italia reale, di cui valutare virtù e debolezze, in una concezione sobria e austera della vita e della politica: ai popoli come agli individui, scrive nel 1925, «non bisogna dire: “siate grandi”, ma “siate severi”, e, tutt’al più: “Estote parati”» (La decadenza italiana, «La critica», 23, p. 194). Ma l’adesione alla realtà è insieme il modo storicamente effettuale per tenere aperta la prospettiva dell’idealità, cioè per preservare e trasmettere il patrimonio storico di quella letteratura universale (la Weltliteratur celebrata nel libro su Goethe, significativamente scritto negli anni della guerra europea) di cui l’Italia è tanta parte e che è la stessa forma continuamente rinnovata dell’unità della civiltà umana. Italia reale e Italia ideale, politica ed etica, vita statale e respiro universale, hanno nella filosofia di Croce il congiungimento di una visione culturale intera.
Sono indicati i volumi usciti nell’Edizione nazionale in corso presso la casa editrice Bibliopolis di Napoli; altrimenti le opere disponibili nelle edizioni Adelphi di Milano, o l’ultima edizione apparsa presso l’editore Laterza di Bari. Tra parentesi quadre si riporta l’anno di prima pubblicazione dell’opera.
Primi saggi [1919], Bari 1951.
Terze pagine sparse, raccolte e ordinate dall’autore, 2 voll., Bari 1955.
Goethe, con una scelta delle liriche nuovamente tradotte [1919], 2 voll., Bari 1959.
Nuove pagine sparse [1949], seconda edizione ordinata dall’autore, 2 voll., Bari 1966.
Contributo alla critica di me stesso [1918], a cura di G. Galasso, Milano 1989.
Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Teoria e storia [1902], a cura di G. Galasso, Milano 1990.
Il carattere della filosofia moderna [1941], a cura di M. Mastrogregori, Napoli 1991.
Nuovi saggi di estetica [1920], a cura di M. Scotti, Napoli 1991.
Storia d’Europa nel secolo decimonono, a cura di G. Galasso, Milano 1991.
Storia del Regno di Napoli [1925], a cura di G. Galasso, Milano 1992.
Cultura e vita morale. Intermezzi polemici [1914], a cura di M.A. Frangipani, Napoli 1993.
Scritti e discorsi politici (1943-1947) [1963], a cura di A. Carella, 2 voll., Napoli 1993.
Etica e politica [1931], a cura di G. Galasso, Milano 1994.
Filosofia della pratica. Economica ed etica [1909], a cura di M. Tarantino, Napoli 1996.
Logica come scienza del concetto puro, a cura di C. Farnetti, Napoli 1996.
La filosofia di Giambattista Vico [1911], a cura di F. Audisio, Napoli 1997.
Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici [1952], a cura di A. Savorelli, Napoli 1998.
Materialismo storico ed economia marxistica [1900], a cura di M. Rascaglia, S. Zoppi Garampi, Napoli 2001.
La storia come pensiero e come azione [1938], a cura di M. Conforti, Napoli 2002.
Storia d’Italia dal 1871 al 1915 [1928], a cura di G. Talamo, Napoli 2004.
Filosofia e storiografia, a cura di S. Maschietti, Napoli 2005.
Teoria e storia della storiografia [1917], a cura di E. Massimilla, T. Tagliaferri, Napoli 2007.
Discorsi di varia filosofia [1945], a cura di G. Giannini, A. Penna, Napoli 2011.
Ultimi saggi [1935], a cura di M. Pontesilli, Napoli 2011.
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