Benedetto Croce
Nella storia culturale italiana del Novecento, Benedetto Croce non ha nessuno che gli stia accanto, perché nessuno, e per un così lungo periodo, ha coltivato contemporaneamente le scienze filosofiche, le ricerche storiche, la critica letteraria, intervenendo inoltre nei dibattiti contemporanei, in un confronto spesso polemico con quasi tutti gli intellettuali eminenti del suo tempo, italiani e non italiani. Nei suoi scritti storico-politici egli non si preoccupò mai di esprimersi, come si direbbe oggi, in modo politicamente corretto. A decenni di distanza val sempre la pena di rileggere quei volumi, redatti in un italiano impeccabile, per trarne stimolo non conformistico.
Nato a Pescasseroli, in provincia dell’Aquila, il 25 febbraio 1866, in una famiglia di agiati proprietari terrieri, Benedetto Croce trascorse quasi tutta la sua vita a Napoli; nel luglio 1883 conseguì la licenza liceale e, pochi giorni dopo, il 28 luglio, perse i genitori e la sorella Maria nel terremoto di Casamicciola; egli stesso rimase molte ore sotto le macerie. Essendo ancora minorenne, ne assunse la tutela Silvio Spaventa, zio per parte di padre, nella cui casa romana Croce trascorse circa due anni; qui conobbe Antonio Labriola, di cui anche seguì le lezioni all’università. Già nel biennio romano si era dato a studi eruditi, che lo occuparono esclusivamente dopo che, nel 1886, tornò a stabilirsi a Napoli: i temi principali, la storia letteraria e politica dell’Italia meridionale, dall’età aragonese alla fine del Settecento.
Già negli anni liceali aveva letto Francesco De Sanctis; a illustrarne e continuarne l’opera Croce attese tutta la vita; per lui De Sanctis era uno «storico di prim’ordine», storico «del contenuto ideale della vita in quanto si manifesta nelle opere letterarie» (B. Croce, Scritti su Francesco De Sanctis, a cura di T. Tagliaferri, F. Tessitore, 2° vol., 2007, p. 62); tra il 1896 e il 1898 ne pubblicò tre volumi di scritti. La sua prima opera teorica che ebbe risonanza anche fuori d’Italia fu la ‘memoria’ del 1893 su La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte; e alla meditazione sulla storia fu ulteriormente stimolato dalla lettura (1895) del saggio di Labriola In memoria del Manifesto dei comunisti, del quale si fece editore; nel 1896 incominciarono gli scambi epistolari con Giovanni Gentile, preludio di una stretta amicizia che si interruppe nel 1924.
Del 1900 sono le Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, cui faceva seguito la grande Estetica del 1902, ove sono già presenti i lineamenti del ‘sistema’ di filosofia dello spirito; prima di redigere gli altri due volumi destinati a darlo per intero, la Logica e la Filosofia della pratica (1909), Croce tradusse e studiò intensamente Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Nel 1903 incominciò a uscire «La critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia», con fascicoli a rigorosa cadenza bimestrale: fu con essa che Croce assunse rapidamente un posto di primo piano nella cultura italiana, non soltanto come pensatore e storico, ma anche come portatore di un suo ideale di cultura e di moralità, dichiaratamente ispirata alla tradizione del Risorgimento. Nella Introduzione egli proponeva un
ponderato ritorno a tradizioni di pensiero, che furono disgraziatamente interrotte dopo il compimento della rivoluzione italiana, e nelle quali rifulgeva l’idea della sintesi spirituale, l’idea dell’humanitas («La critica», 1903, 1, p. 5).
I saggi che vennero pubblicati nella prima serie vertevano principalmente sulla letteratura (Croce) e sulla filosofia (Gentile) in Italia nella seconda metà del 19° sec.; un bilancio critico per aprire la strada a una fase nuova; e, per aprire a orientamenti attuali, i saggi erano seguiti da recensioni di opere contemporanee, italiane e straniere. Nel dicembre 1901 erano iniziati i rapporti con Giovanni Laterza, che divenne l’editore, dal 1906, della «Critica» e delle opere di Croce, ma anche delle grandi collane dei Classici della filosofia moderna e degli Scrittori d’Italia, i cui volumi Croce programmava e curava con estrema attenzione.
Nel 1910 Croce fu nominato senatore del Regno; lo fu per censo, ma fu una sorta di riconoscimento ufficiale della posizione che ormai aveva assunto anche nella cultura europea. Già nel primo decennio del secolo l’Estetica era tradotta in inglese, francese, tedesco, il Saggio sullo Hegel in francese e tedesco, il Materialismo storico in francese; e nel 1909 gli fu proposto di scrivere, per una serie tedesca di manuali filosofici istituzionali, una «filosofia della storia», che poi sarà, invece, la Teoria e storia della storiografia.
Nell’aprile 1915, alla vigilia dell’intervento, scrisse il Contributo alla critica di me stesso, facendo un consuntivo ideale che si concludeva con una non celata inquietudine per il prossimo futuro; durante la guerra, oltre a molti scritti di orientamento politico e morale, redasse una delle sue opere più importanti, la Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono. Nel 1920 fu chiamato da Giovanni Giolitti, con il quale non aveva avuto precedentemente alcun rapporto, a far parte del suo ultimo gabinetto, come ministro dell’Istruzione; dopo la marcia su Roma mantenne, verso il governo Mussolini, un atteggiamento inizialmente riservato, che divenne aperta opposizione dalla fine del 1924. Nel 1929 parlò in Senato contro l’approvazione dei Patti lateranensi e, dalle pagine della «Critica», condusse una tenace polemica su temi filosofici e storici che avevano, allora, anche un significato politico: divenne così l’esponente maggiore dell’opposizione interna. In questo periodo, che Croce disse la sua seconda giovinezza, egli compose le sue più note opere storiche (la «grande tetralogia») e La storia come pensiero e come azione.
Dopo la caduta del regime e l’armistizio del settembre 1943, Croce s’impegnò intensamente onde si prendessero misure che consentissero all’Italia di uscire dallo stato di nazione sconfitta; valore simbolico aveva per lui l’abdicazione di Vittorio Emanuele III, e questa sua proposta venne accolta al congresso dei partiti antifascisti svoltosi a Bari nel gennaio del 1944. Ottenuta l’assicurazione che l’abdicazione sarebbe avvenuta dopo la liberazione di Roma, accettò di entrare, come ministro senza portafoglio, nei governi Badoglio e poi Bonomi (aprile-luglio 1944). Fu in seguito presidente del ricostituito Partito liberale e membro della Consulta nazionale (1945-46); eletto all’Assemblea costituente, tenne incisivi discorsi contro l’approvazione dell’articolo 7 della Costituzione (sui rapporti tra Stato e Chiesa) e contro l’approvazione del trattato di pace, i cui termini gli sembravano offensivi della dignità nazionale; nel maggio 1948 tornò in Senato.
In quel turbolento periodo, non aveva abbandonato gli studi e la sua opera di promozione di essi; nel febbraio 1947 venne fondato l’Istituto italiano per gli studi storici, alla cui direzione chiamò Federico Chabod; chiusa «La critica» alla fine del 1944, fece uscire, senza periodicità fissa, i «Quaderni della “Critica”» (1945-1951); nel 1952 pubblicò le sue Schede nella rivista «Lo spettatore italiano», anima della quale era la figlia Elena, con il genero Raimondo Craveri. Morì a Napoli il 20 novembre 1952.
«La politica del mio paese mi stava innanzi come spettacolo al quale non mai mi proposi di partecipare con l’azione» (B. Croce, Etica e politica, 19432, p. 376); e anche quel sentimento di passione politica che gli era nato durante lo studio del marxismo (1895-98) «non durò»; tornai «alla mia vera natura [che] era quella dell’uomo di studio e di pensiero» (p. 383). Se si collegano queste dichiarazioni di Croce, consegnate al Contributo alla critica di me stesso, con ciò che egli disse più tardi, della sua opera come ministro dell’ultimo gabinetto Giolitti, di aver «sopportato» (Carteggio Croce-Vossler, 1951, p. 309) quel carico come una sorta di servizio militare, si potrebbe ritenere che Croce, sino a quando, nel 1924, incominciò a dichiarare il suo dissenso nei confronti del fascismo, fosse stato un «epicureo che medita su le forme del pensiero, ignaro della vita» (A. Labriola, Carteggio, a cura di S. Miccolis, 4° vol., 2004, p. 497), un «letterato», come gli rimproverava Labriola nel 1898.
Non importa qui riferire la risposta, un po’ piccata, di Croce a questi rilievi; si deve constatare peraltro che l’operosità che egli profuse nel primo quindicennio del Novecento fece di lui un maestro di moralità, esplicantesi nella teoria filosofica come nella critica letteraria, e che non disdegnava di affrontare questioni di politica spicciola e di criticare frontalmente, su punti specifici, le ideologie liberiste e socialiste. Si trattava di una consapevole opera di «educazione», ispirata ai due personaggi che quel lodatore dell’autodidattismo sempre riconobbe come maestri: anzitutto De Sanctis, ma anche Labriola. Di entrambi Croce riconosceva l’inadeguatezza come politici «pratici», ma apprezzava il loro intendimento di proporre un rinnovamento delle categorie morali per l’Italia postunitaria, per la «nuova Italia». Come loro continuatore egli si poneva, con l’intento di portare la cultura italiana al livello delle più avanzate culture europee, valorizzando, anche, quel che di eccellente gli italiani dell’Ottocento avevano fatto, e che non aveva trovato riconoscimento al di là delle Alpi per la scarsa considerazione di cui l’Italia godeva.
Il primo scritto di Croce che si può dire programmatico, La critica letteraria. Questioni teoriche (1894), si concludeva rilevando la «deficienza» degli studi letterari in Italia – imputata soprattutto al progressivo abbandono del rapporto con la scienza estetica tedesca; l’invito di Croce era di colmare quella lacuna. Quattro anni dopo, nel saggio Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti (1898), riprendeva, da Giustino Fortunato, l’immagine del De Sanctis «educatore», che «ai giovani non inculcava la gloria per la gloria, ch’è la vanità, la guerra per la guerra, ch’è l’assassinio; ma il lavoro, la coltura, la dirittura del carattere» (Scritti su Francesco De Sanctis, cit., 2° vol., p. 166). Diversamente dal pur, da Croce, tanto ammirato Giosue Carducci, De Sanctis aveva lucidamente visto che, conseguita l’Unità d’Italia, il «patriottismo» non era più nell’andare sulle barricate, bensì nel lavoro quotidiano, onde cessare di vivere «sul nostro passato e del lavoro [intellettuale] altrui» (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, 1958, 2° vol., p. 975). Non è una forzatura ritenere che Croce giunse al medesimo risultato per la propria esperienza di studioso, ma essendo ben memore di ciò che De Sanctis più volte aveva detto.
Quanto a Labriola, questi, anche più di De Sanctis, auspicava che l’Italia si mettesse al passo delle grandi potenze; e l’opera sua, di teorico e propagandista del marxismo, muoveva dalla convinzione che l’educazione politica del proletariato, tradotta in organizzazione, e in opposizione senza compromessi, ma anche senza velleità insurrezionalistiche, «moti inconsulti delle moltitudini inconscie» (A. Labriola, Carteggio, cit., 5° vol., 2006, p. 179), avrebbe spinto la debole borghesia italiana ad assolvere più degnamente il proprio compito; era la prospettiva di un progresso dialettico, combattente, si dovrebbe anzi dire, perché, senza negare la possibilità di realizzazione dell’ideale socialista della fratellanza umana, Labriola non riteneva, né desiderava, che quel futuro fosse da prendersi come criterio dell’operare presente.
Quanto De Sanctis e Labriola si unificassero idealmente nella mente di Croce, si può vedere da un passo (1897) che pare quasi anacronistico:
Quell’indirizzo che ora si chiama […] del materialismo storico […] ha spesso nel De Sanctis un rappresentante non dottrinario. E ciò sembrerà naturale quando si pensi che quell’indirizzo è nato dalla suggestione dell’esperienza storica (Scritti su Francesco De Sanctis, cit., 2° vol., p. 113).
La storia: giudizi, interpretazioni, teorie valgono in quanto siano nutriti di storia; la quale, se coltivata in felice disposizione d’animo («giustezza del sentimento», «intuito»), rettifica gli errori dottrinali o li redime; senso storico, inoltre, è sinonimo di «senso pratico e politico» (p. 149), potenzia la capacità di vedere cosa, in ogni situazione data, abbia mosso la volontà. Così, De Sanctis «vagheggiava il progresso, ma il progresso cauto, che tien conto […] delle verità effettuali; il progresso preceduto dalle analisi di Niccolò Machiavelli» (p. 114); e anche Karl Marx insegna «pur con le sue proposizioni approssimate nel contenuto e paradossali nella forma, a penetrare in ciò ch’è la società nella sua realtà effettuale», per cui merita «a titolo d’onore» di esser detto il «Machiavelli del proletariato» (B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, 196110, p. 113). Sullo sfondo di questa ripetuta evocazione di Machiavelli, c’è anche De Sanctis, con la sua insistenza su Machiavelli come «il primo tipo dell’uomo moderno» (F. De Sanctis, Saggi critici, a cura di L. Russo, 2° vol., 1965, p. 320), che aveva saputo guardare la realtà senza schemi precostituiti, leggendo anche il passato sulla base della sua esperienza presente. E Croce si ricordò forse di questo anche in occasione del suo primo scritto teorico, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, ove la storia era distinta dall’arte «in senso stretto» in quanto narrazione del «realmente accaduto» (B. Croce, Primi saggi, 19513, p. 36).
Croce non si appagò della formula appena citata, la quale sembrava, tra l’altro, la parafrasi di un celebre detto di Leopold von Ranke, evocato poi più volte e, da ultimo, come la divisa di una storiografia «senza problema storico». Non si può seguire qui l’elaborazione della filosofia dello spirito, consegnata nei tre volumi apparsi tra il 1902 e il 1909; basterà dire che la storia, fin dalla memoria accademica sulla logica (1904-1905) viene presentata come il «risultato cui mette capo non solo l’arte, ma la filosofia»; la storia è sintesi di intuizione e concetto, e «presuppone e compie la scienza, cioè la filosofia» (B. Croce, Memorie accademiche, s.a., p. 199). A servirsi di una formulazione che non è crociana, si potrebbe dire che la coscienza storica è il momento nel quale si completa l’educazione dell’uomo; e in tale coscienza Croce vedeva, anche, la confluenza delle principali «rivoluzioni» dell’età moderna, Rinascimento, Illuminismo, Romanticismo; e qui vale la pena di rilevare, di passaggio, come non sia corretta la critica, rivolta a Croce, di aver sottovalutato l’Illuminismo. A quest’ultimo, anzi, viene attribuito il merito di aver perfezionato l’opera del Rinascimento, con una più netta affermazione dei «valori spirituali», di aver prodotto «un effettivo incremento nella vita, e perciò nella concezione storica stessa» (B. Croce, Teoria e storia della storiografia, 19435, pp. 231 e 241): «vita», nel linguaggio crociano, è sinonimo di «spirito», il solo universale, il quale si esplica attraverso le infinite individualità; e l’individualità «non è altro che il veicolo dell’universalità, la sua effettualità», che va giudicato per ciò che, perseguendo i propri fini, attua «per l’idea vera della libertà e dell’umanità» (B. Croce, Saggio sullo Hegel, 19675, p. 43).
È un enunciato di pretto sapore hegeliano, che ha stimolato obiezioni di carattere filosofico per il duplice significato che può avere «libertà»: facoltà di scelta del singolo, oppure cifra dell’intero mondo spirituale? Ma, per una teoria della storiografia, è più interessante un ulteriore passo dell’argomentazione crociana; si è visto che la coscienza storica è il punto più alto della consapevolezza umana: ebbene, c’è un «circolo» tra il momento della vita e quello della riflessione storica – da cui la celebre affermazione che ogni storia «pensata» è «contemporanea», «viva», e perciò distinta da quella «ricordata nelle astratte parole che erano un tempo concrete e la esprimevano» (B. Croce, Teoria e storia, cit., pp. 10-11); e ancora, nella storiografia la vita è pensiero, e non sentimento: «vita che si fa pensiero» (p. 28); di qui, adesso, la dichiarata identità di storia e filosofia.
Il significato di questa formula (che ha la sua origine nel rapporto, sempre dialettico, con il pensiero di Gentile) è che l’uomo di studi, l’«intellettuale», non è pensabile fuori del rapporto con gli accadimenti del suo tempo; egli deve, certo, servire la «verità», che è un valore non contingente, ma non può illudersi di raggiungerla in una regione eterea, estranea ai conflitti del presente. Il che implica, anche, l’impegno ad assumere una posizione critica nei confronti sia della tradizione sia delle ideologie consolidate. È caratteristico che, nello scritto preso come titolo di questo paragrafo (la prima stesura dei capitoli 1-3 di Teoria e storia della storiografia), si trovi un inciso riguardante la debolezza dei libri italiani sul Risorgimento, che «aspetta ancora gli storici» (p. 31); il criterio dell’auspicata «storia vera» avrebbe dovuto essere «la Cultura, la Civiltà, il Progresso», ovvero la narrazione pensata di ciò che, nell’ottica di quei «valori», era stato fatto nei decenni risorgimentali; e qui va citata una confessione, di quegli stessi anni, di aver
imparato a risentire […] il valore di certa idealità del Risorgimento italiano che i patrioti e liberali tra il 1875 e il 1895 avevano reso odiose, perché […] se n’erano valsi ad orpello di ogni sorta di cupidigie (B. Croce, Cultura e vita morale, 1993, p. 189).
Si tratta di una ripresa dei giudizi negativi che, sulla Sinistra al potere, Croce aveva raccolto, in gioventù, dalla bocca di Silvio Spaventa e di Labriola. E, contro le forme protonovecentesche di quella Sinistra, Croce polemizzò in proprio, nelle pagine implacabili, animate da un ironico sarcasmo, sulla «morte del socialismo» e sulla «mentalità massonica». Qui si trattava di demistificare ideologie che pretendevano di esprimere valori eterni, i quali però, nella mente stessa di coloro che li professavano, non trovavano alcuna applicazione reale, e quindi erano ingenuità, o, più spesso, ipocrisie; e il peggio era che quei termini («la ragione, la libertà, l’umanità, la fratellanza, la tolleranza») scimmiottavano «valori di cultura», superiori ai «valori storici» (p. 143). È una forma precoce della protesta di quindici anni dopo contro l’uso politico dell’attualismo, ma in tutt’altra temperie.
Nel 1911-12, contro gli ideologi alla francese, Croce si faceva rappresentante dei valori «storici», identificati nella patria e nelle sue istituzioni, perché «i doveri generali non si attuano se non […] quando si facciano a noi prossimi». Non c’è, insomma, l’uomo in generale, ma l’italiano, il francese, il tedesco ecc. di quel determinato momento storico, vincolato agli interessi della comunità cui appartiene; e quest’ultimo dato non è una contingenza, anche se nessuno sa che cosa ciò possa implicare. Questo concetto Croce espresse con una frase potente, che gli accadde di ripetere anche altre volte:
Noi siamo, nella vita, come guarnigioni e sentinelle poste qua e là dallo Spirito del mondo; al quale male serviremmo abbandonando i posti che ci ha affidati, per rendergli un omaggio astratto e inerte, a lui non gradito (p. 181).
L’ammonimento non era volto soltanto al radicalismo internazionalista e umanitario; che anzi Croce, nel 1907, notava come certi avversari del socialismo finivano per «negare la civiltà», presentando, sotto vari travestimenti verbali, «gli ineffabili ideali della forza per la forza, dell’imperialismo, dell’aristocraticismo»; era «insincerità», «fabbrica del vuoto» quella di chi vagheggiava una «Italia borgiana e corsara» (B. Croce, La letteratura della nuova Italia, 4° vol., 1960, pp. 211, 195, 201). A tutto ciò, appunto, egli contrapponeva le idealità del Risorgimento; se, dopo il 1875, c’era stata una triste decadenza del costume politico, il periodo «carducciano», sino al 1890, era ancora animato dai sentimenti «elementari» dell’umanità; dopo, si era fatta strada una mentalità «estetizzante», «decadentistica», «misticheggiante», di «malati di nervi», diceva rudemente. Qualificata in questo modo, era la sua stessa generazione – e quella immediatamente successiva – che stava facendo le sue prove nei primi anni del 20° secolo. Nel 1914, nel volume Le lettere, Renato Serra scrisse che l’opera di Croce aveva «dominato dall’alto il pensiero di questa generazione» (p. 140), ma dominato, non voleva dire che lo avesse del tutto orientato. Di ciò, Croce era del resto consapevole.
Per Croce, come per quasi tutti, l’inizio della Prima guerra mondiale (agosto 1914) fu una sorpresa. Il governo italiano aveva dichiarato la sua neutralità, ma nel Paese, rapidamente messi ai margini coloro che volevano, in nome della Triplice, schierarsi con gli imperi centrali, erano sempre più attivi i gruppi interventisti, nei quali confluivano democratici, repubblicani, socialisti e anche nazionalisti. Croce collaborò invece al periodico «Italia nostra», che negava ai moti di piazza il diritto di influenzare la politica estera, e voleva che un eventuale intervento fosse valutato e deciso dagli organi costituzionali. Si è detto che, questo, era il segno di una mentalità arcaica; in realtà Croce aveva visto subito che tra gli «apostoli del credo bellicoso» (B. Croce, L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, 19503, p. 19) c’erano proprio quei «profeti» di un indeterminato «nuovo» che egli aveva criticato negli anni precedenti.
Nel maggio 1915 l’Italia entrò in guerra; durante questo periodo Croce redasse pagine (molte delle quali raccolte nel volume Pagine sulla guerra, 1919, poi ristampato con il titolo L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra nel 1928) che un autorevole studioso del suo pensiero definì «uno dei libri più affascinanti […] e talvolta più inquietanti della letteratura europea relativa al primo conflitto mondiale» (Sasso 1975, p. 460). La guerra, per lui, non era un conflitto ideologico, di principi (per es., quello autoritario, degli imperi centrali, e quello democratico, delle potenze dell’Intesa), ma di Stati, una sorta di periodico fenomeno naturale «tanto poco morale o immorale quanto un terremoto» (L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, cit., p. 91), nel quale i contendenti, hobbesianamente definiti Leviatani, mettevano alla prova il loro istinto di conservazione. A essi «noi abbiamo il dovere di servire e di obbedire» (p. 166); e proprio i sacrifici che i popoli sopportavano per questa obbedienza, gli facevano dire che la guerra aveva lo scopo implicito di «maturare più alta forma di civiltà» (p. 46), «lotta di Bene con Bene per assurgere a più alto Bene» (p. 84).
È semplicismo tacciare questi enunciati di ‘idealistico’ ottimismo; almeno sino al 1917 Croce ritenne che la guerra fosse, se è lecito dire, controllabile dai governi, e che il suo esito sarebbe stato soltanto una modificazione dell’equilibrio europeo; in essa egli, che pure era stato contrario agli interventismi, vedeva l’occasione per il popolo italiano di «esercitare la sua degna parte nella storia, risoluto a non farsi a niun patto ricacciare tra i popoli secondarî e passivi» (p. 128), e di lasciarsi alle spalle la «stentatezza» (p. 138) della sua storia recente. Un fenomeno naturale, dunque, come estremo stimolo per le energie umane.
C’è un breve scritto, dell’estate 1916, ove si delinea una contrapposizione frontale tra la «concezione trascendente e cristiana», della quale pure si apprezza la «sublimità», e la concezione «della realtà come svolgimento e lotta»; tale concezione, che impone all’uomo di «difendere la causa del popolo del quale esso è parte», è «religiosa», «di quella religione, che è insieme filosofia» (pp. 132-33); è, insomma, la religione dei moderni, Hegel integrato da Machiavelli. Si badi però che questo dovere è «politico», e non coinvolge «la scienza e la morale» (p. 112); di qui la costante protesta contro chi, prendendo a pretesto la guerra contro la Germania, pretendeva di negare il valore del pensiero tedesco nella cultura europea. Questo limite per la politica si riproponeva, in altro modo, anche per gli Stati; Croce non esitava a dire «scientifica» la teoria dello Stato come potenza, e dichiarava vuoto moralismo invocare criteri che vincolassero il comportamento degli Stati; i limiti «sono limiti e freni che [lo Stato] trova in sé stesso» (p. 107); non si tratta, però, di un assioma che legittimi ogni azione, in quanto atti non strettamente necessari alla conservazione dello Stato mostrano che, in esso, si è attenuata la capacità di discernimento, e che gli uomini che lo dirigono non sono pari al loro dovere, non promuovono il rigoglio della vita che aveva spinto i popoli ad accettare la «religiosa ecatombe».
A partire, come si è detto, dal 1917, quando si vide che il conflitto era ormai a oltranza, e che si voleva la distruzione del nemico, Croce cominciò a prendere atto che la guerra non era riuscita a indurre quella severa disciplina interiore che gli immani sacrifici avrebbero suggerito; constatava che «i giovani delle trincee» leggevano «soprattutto roba futuristica»; più tardi, a proposito di uno dei contributi della letteratura di guerra, notava che chi aveva «sofferto» «il contatto con l’Assoluto» si era fatto diverso «dall’uomo della vita ordinaria». Non condannava, perché rispettava quella esperienza, ma neppure era disposto ad accettarla come una base alternativa al modello culturale da lui coltivato, e che auspicava si ristabilisse; tanto che, nel 1919, esortava i reduci «a guardare l’Italia solo attraverso l’Europa» (p. 298).
La fine della guerra, e poi il convulso triennio tra le elezioni del 1919 e la marcia su Roma, videro Croce coinvolto in modo anche attivo, come ministro, nella vita politica italiana; all’inizio del governo Mussolini, dette, in Senato, voto favorevole, e appoggiò con la sua autorità la riforma scolastica intrapresa da Gentile. La rottura personale con questi (ottobre 1924) precedette di poche settimane il suo aperto passaggio all’opposizione; e oppositore fu intransigentemente, per tutto il ventennio. Sarebbe però limitativo vedere soltanto sotto questo segno la sua operosità intellettuale, e storiografica; anche negli altri Paesi europei, pur governati da sistemi parlamentari, egli vedeva all’opera tendenze preoccupanti; la Germania stentava a trovare un assetto stabile, e il successo che vi aveva riscosso Der Untergang des Abendlandes (1918-1922) di Oswald Spengler (che pure il suo amico Karl Vossler leggeva non senza interesse) gli pareva «comprovare» lo scadimento della cultura tedesca; e anche peggio andavano le cose negli altri Paesi europei: l’affermarsi del bolscevismo in Russia, l’arroganza della Francia, il sempre maggior diffondersi del materialismo industrialistico. Comunque, fino al 1933, il fascismo al potere era un fenomeno soltanto italiano; e le grandi opere storiche che Croce pubblicò in meno di un decennio (Storia del Regno di Napoli, 1925, che molti storici ‘di mestiere’, quali Chabod e Walter Maturi, considerarono il suo capolavoro; Storia d’Italia dal 1871 al 1915, del 1928; Storia dell’età barocca in Italia, 1929; Storia d’Europa nel secolo decimonono, 1932) erano sì il raccogliere le fila di studi più che quarantennali, ma anche la riflessione su fasi sia di decadenza sia di progresso; di quest’ultimo, l’audacia del pensiero e l’impulso artistico preparavano il terreno; a tradurlo in opere e istituzioni era l’impegno politico, che sapesse farsi «fede».
L’opera sul Regno di Napoli è, dichiaratamente, uno «studio di storia politica» (B. Croce, Storia del Regno di Napoli, 19312, p. IX), di un territorio, e di un popolo composto da gruppi etnici differenti, governato da dinastie quasi sempre straniere di origine; dal momento stesso dell’inizio del Regno, con la dinastia angioina, Croce vede all’opera i fattori che lo fecero quasi sempre fragile: l’incapacità dei baroni, che costituivano la «classe preponderante e dirigente» (p. 66), a servire un interesse generale, a «sacrificarsi» allo Stato, e, dall’altro lato, la debolezza del «cosiddetto ceto medio», non soltanto privo del sostegno regio, ma contrastante il baronaggio soltanto sul piano della contesa legale; e «gli avvocati sono avvocati, e non uomini politici». Fu quando, tra fine Seicento e inizio Settecento, emersero personalità (Giannone!) animate da «zelo riformatore» e da «spirito pugnace» (p. 176) che incominciò a formarsi la «nazione», composta fondamentalmente da intellettuali, «la sola classe politica del Mezzogiorno d’Italia» (p. 258); fu questa classe che spronò alle riforme, che si fece militante, con gran tributo di sangue, tra il 1798 e il 1815, che lanciò per prima la parola d’ordine dell’Italia unita. Va rilevato che è attraverso i riformatori e i rivoluzionari meridionali che Croce ha delineato il cammino verso lo Stato unitario, sino al 1860, osservando che un’analoga tensione morale non esisteva in altre parti della penisola; con l’eccezione del Piemonte sabaudo che, per il suo costante spirito di espansione, non era stato infettato da «quell’ideale della tranquillità» (p. 265) che aveva contribuito alla decadenza degli altri Stati italiani. Quegli «uomini di dottrina e di pensiero» erano la «nobiltà» di nascita della nuova Italia, e andavano sempre tenuti presenti come antidoto al «nazionalismo» che minacciava «la purezza di questa nostra tradizione» (p. 267).
C’è un’ideale connessione tra la Storia del Regno di Napoli e gli scritti che Croce venne redigendo tra il 1924 e il 1926 per presentare la sua concezione della politica in alternativa a quella che, in vari modi, era proposta dagli intellettuali o dai pubblicisti fascisti. Il filosofo non rinnegava il «realismo» di tipo germanico («concetto più alto») professato dieci anni prima; tornava a ribadire che gli Stati erano «forze della natura […] che l’individuo etico dirige e attualizza, ma non crea» (B. Croce, Etica e politica, cit., p. 179); aggiungendo però subito «e nel dirigerle spende tesori d’intelletto e di volontà e in ciò si mostra, pur nel servirle, a esse superiore». La superiorità consisteva nel considerare la forza, e il potere, come un mezzo, e non come un fine; bisognava concepire «dialetticamente» il rapporto tra i due lati della politica, economico ed etico, tra la «necessità» di azioni da compiersi per il bene della «patria» e la contingenza di azioni ispirate dalla sete di potere. Il discrimine non era facile, ma Croce lo indicava proprio sull’esempio di Machiavelli, che aveva sì scoperto l’autonomia della politica, ma aveva anche accompagnato questa «asserzione» con «acre amarezza» (p. 251); e tanto più questa amarezza si doveva sentire dopo l’affermarsi, nella cultura europea, della concezione storicistica come svolgimento e progresso, e non come ritorno ciclico. Hegel aveva definito lo Stato universo etico, che era una categoria spirituale; Croce voleva però che tale categoria venisse articolata nelle sue componenti, individui piuttosto che istituzioni: lo Stato è il processo delle azioni degli individui che vivono in esso. Ancora: se si riconosce la lotta tra gli Stati «non si può non riconoscerla dentro ciascuno Stato […] come lotta tra governo e governati» (p. 262); e non era concepibile che la «lotta» mirasse all’annientamento di una delle parti; quest’ultima prospettiva era esemplificata esplicitamente nel regime comunista, e implicitamente in quello fascista, cui Croce opponeva la concezione «liberale», «storicistica» «metapolitica», «cosa affatto moderna» (pp. 291 e 285). Essa non era legata al «liberismo economico», ed era compatibile con provvedimenti «socialisti», purché questi fossero «salutari all’uno, ai più e a tutti, all’uomo nella sua forza e dignità di uomo»; e veniva ammessa anche la formula «paradossale» di un «socialismo liberale» (pp. 319-20).
L’evocazione della «dignità» dell’uomo significava accentuare l’attenzione per il momento morale, e la produzione di vita non poteva mai da questo essere scompagnata. Il motivo emerge in concomitanza con una sempre più intensa riflessione di Croce sul tema della decadenza, sondato attraverso varie figure storiche: è noto il giudizio sulla Controriforma, che non produsse avanzamento morale perché opera esclusivamente «politica». Più complessa la ricerca degli «spiriti di decadenza» che avevano operato nella più recente storia d’Italia, e d’Europa. La Storia d’Italia dedicava sì due capitoli al rigoglio economico e culturale del primo decennio del Novecento, ma registrava, anche, nel trentennio precedente, una «decadenza nel vigore e nella larghezza del pensiero» (B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 196614, p. 139), manifestatasi con la disistima nella quale era caduta l’opera di De Sanctis, e con il diffondersi di una mentalità utilitaria e meschina; gli uomini politici migliori, Quintino Sella, e lo stesso Francesco Crispi, si muovevano sotto l’impulso del pensiero che avevano «respirato» nella loro gioventù.
L’Italia era il caso di una tendenza molto più generale: nel saggio Contrasti d’ideali politici dopo il 1870 (1927), Croce constatava che in tutta Europa, allora, «fu scossa la fede nella libertà» (Etica e politica, cit., p. 303); e val la pena di notare che, in esso, egli non esitò a dire la guerra 1914-18 «priva d’ogni ragione ideale», sostituto, o «prologo», dei sommovimenti propagandati dai movimenti rivoluzionari. La celebre lezione di Oxford (settembre 1930), intitolata Antistoricismo, continuava a svolgere il tema: prendeva le mosse dal «futurismo» per designare le velleità di rompere con ogni passato, parlava della nuova «barbarie», esito anch’essa della guerra, che aveva disabituato dalla «lotta civile», e concludeva che nei movimenti che agitavano l’Europa non si vedeva alcun preannunzio di una nuova vita spirituale; la chiusa rievocava suggestivamente la fine del mondo romano, ricordando che era più degno prendere come modello Boezio, una vittima «civile», piuttosto che Totila, il bellicoso re dei Goti.
Nella Storia d’Europa la storia etico-politica diventa, come notò Chabod, etico-religiosa, il lungo contrasto di due opposte «fedi» che si erano riflesse anche in due avvenimenti analoghi, eppure diversi: il compimento dell’Unità d’Italia, «il capolavoro dei movimenti liberali-nazionali del secolo decimonono», e quello dell’unità germanica, opera «esclusivamente politica», «processo inverso a quello accaduto in Italia» (B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, 19538, pp. 220 e 242). Era stato il modo in cui quest’ultima si era realizzata a rendere impossibile una «liberale unione europea», cioè, a scanso di anacronismi, una convivenza pacifica non soltanto perché non scossa da guerre (come di fatto fu), ma perché libera, anche, da periodiche velleità di egemonia o di rivincita. Pure, il periodo 1870-1914 viene detto «età liberale» per il progresso civile ed economico, la riduzione dell’influenza della Chiesa negli affari mondani, l’accresciuta forza delle istituzioni rappresentative, per la trasformazione del movimento socialista da rivoluzionario a riformista. Il limite fondamentale era però che «al fare pratico, che si moveva negli ordini liberali […] non andava congiunta l’alta coscienza di quel fare», e che «la mera forma istituzionale e giuridica […] non basta a segnare la libertà di un popolo» (pp. 311 e 275). Era la replica anticipata a chi più tardi lo avrebbe accusato di non aver fornito gli elementi per comprendere come Stati con istituzioni liberali si fossero repentinamente adattati a regimi dittatoriali; una risposta integrata dalle pagine sul passaggio, in Francia, tra il 1848 e il 1852, dalla Repubblica democratica al Secondo impero.
Nell’Europa dell’Ottocento era venuta meno la «fede» nella libertà, e si era diffusa invece, nei ceti intellettuali e nelle ideologie che li ispiravano, una «malattia» che spregiava il passato, oppure lo mitizzava, che «innalzava a ideale […] la mera e astratta energia e vitalità» (p. 252). La guerra del 1914-18 aveva ulteriormente rafforzato queste tendenze, anzi, aveva indotto un movimento a ritroso: il socialismo era tornato a essere rivoluzionario, il cattolicesimo aveva recuperato influenza politica, il sentimento nazionale si era fatto «febbre», e non «ideale». A sollievo di questa non lieta situazione presente, Croce ribadiva che liberalismo significava umanità; non importava che l’avvenire prossimo non gli sembrasse propizio, perché esso aveva dalla sua parte «l’eterno».
Nella chiusa della Storia d’Europa, Croce aveva auspicato che si avviasse un «processo di unione europea» (p. 354) che liberasse dalla «psicologia» dei nazionalismi; in esso, egli vedeva la condizione, e il mezzo, perché negli animi tornasse a vivere l’idea liberale. Le cose andarono nella direzione opposta; pochi mesi dopo (1933) Adolf Hitler saliva al potere, e nel 1939 ebbe inizio la Seconda guerra mondiale, nella quale, sino alla fine del 1941, la Germania parve vicina all’egemonia sull’Europa continentale. Venne poi il rovesciamento della situazione militare; nel 1943, caduto Benito Mussolini, l’Italia uscì dall’alleanza tedesca, e Croce, mettendo in gioco tutto il suo personale prestigio, si impegnò a fondo per accreditare e promuovere il passaggio dell’Italia nell’alleanza antihitleriana. A partire dalla metà del 1945, si ebbe il faticoso avviarsi della normalizzazione, subito resa meno tranquilla dal profilarsi della guerra fredda e dal contrasto, in Italia, tra la coalizione guidata dalla Democrazia cristiana e quella capeggiata dal Partito comunista. La polemica che Croce aveva condotto contro i fascismi europei prese a bersaglio, adesso, i partiti della sinistra, pur non mancando di mettere in guardia contro un ritorno di clericalismo.
Più che di ciò, che ha interesse soltanto per la biografia dell’ultimo Croce, occorre dar conto delle sue riflessioni «storiche» sulla situazione spirituale del presente; esse non rinnegarono nulla di ciò che egli aveva scritto nei decenni precedenti, ma vi apportarono significative specificazioni, con una decisa affermazione del momento «morale». E non va taciuta, anche per le discussioni che suscitò, la sua nuova formulazione della categoria dell’economico, adesso detta «vitalità», presentata in una dura tensione dialettica tra il suo essere, da una parte, «forza affatto amorale», che la poesia trasfigura e il pensiero conosce, ma che «svela sempre la sua forza propria» (B. Croce, Indagini su Hegel, 1952, p. 134), tanto da sospingere l’umanità verso la barbarie, ed essere, dall’altra parte, «forma spirituale» cui si devono gli stimoli a rompere periodicamente le strutture consolidate; l’esempio, canonico, è il passaggio dal Medioevo al Rinascimento. A coloro (ed erano molti) che accusavano il pensiero storicista di aver dissolto l’idea di un mondo ordinato (il diritto naturale), aprendo così la strada a secoli di ferro, Croce ribatteva che concepire la storia come libero, e quindi imprevedibile, svolgimento era un principio irrinunciabile. Dava però, di quel divenire, la chiave, era la tradizione culturale dell’Occidente: Grecia, Roma, cristianesimo, civiltà moderna; ed era la rottura di quella tradizione a fargli temere che incombesse una crisi quale l’Europa non aveva mai conosciuto.
Il breve saggio La fine della civiltà, apparso nel 1946 nel secondo dei «Quaderni della “Critica”», voleva esorcizzare quella prospettiva; ma tante sue pagine di questi anni testimoniano come essa gli fosse ben presente, e quasi lo opprimesse. «Decadentismo» (e intendeva le varie tendenze culturali che avevano alimentato i fascismi) e «materialismo storico» gli sembravano confluire nell’aver indotto «l’indifferenza verso i sempre venerati valori umani», «una sorta di allegria di distruzione che tiene del diabolico»; in tutte le epoche della vicenda umana c’era sì stata lotta «tra una forma più alta e un’altra più bassa dell’umanità», ma non c’era mai stata «la negazione delle radici stesse dell’uomo, come accade nella lotta attuale», tanto da legittimare il timore di una nuova età «oscura», nella quale «sarà fiaccata, come non fu mai, la tradizione della storia europea» (B. Croce, Filosofia e storiografia, 1949, pp. 332-33).
Contro questa degenerazione, l’unica resistenza possibile era quella individuale, morale. Ancora una ventina di anni prima, Croce non dubitava che spettasse alla suprema struttura giuridica, lo Stato, assegnare al singolo il dovere cui adempiere; in questo senso egli aveva potuto anche accettare che lo Stato si dicesse etico; adesso non voleva più quell’aggettivo, perché, allo Stato, si doveva sì prestare ossequio, ma non «amore»; l’amore si doveva piuttosto alla «patria», e per ciò che essa avesse fatto in pro «dell’umanità e della civiltà» (pp. 241-42). Di più: l’amore per la patria dispensava dai doveri verso lo Stato, quando questi avesse impiegato la sua forza oltre quei limiti «posti ad ogni atto dell’uomo».
La Seconda guerra mondiale Croce aveva definito «guerra di religione»; ed era proprio dalla resistenza che uomini religiosi avevano opposto all’autorità statale che egli traeva gli esempi storici avvaloranti la sua tesi; il portato di essa era però assai vasto, in quanto, trovando lo Stato, quale limite pregiudiziale, la coscienza individuale, non si poteva più attribuire alla politica, e ai maggiori protagonisti di essa, gli individui «cosmico-storici», quel ruolo che, sulle orme di Hegel, Croce aveva precedentemente loro assegnato. Messa in discussione l’identificazione, una volta implicita, tra Stato e patria, quest’ultima diventava il suolo sentimentale e culturale dal quale il singolo poteva attingere forza per resistere ai Leviatani, che ormai si identificavano con i movimenti politici di massa e con i partiti ideologici; a chi osservava che questi almeno coinvolgevano un gran numero di cittadini nell’impegno politico, Croce ribatteva che le «grandi masse» erano «attente solo alla loro utilità» (p. 3).
In corrispondenza, anche le definizioni della storia mutarono: storia religiosa o morale «o etico-politica, come abbiamo preferito denominarla», era la storia della civiltà; storia puramente politica o economica era la storia degli Stati. Sarebbe errato trarre, dai detti riferiti, la conclusione che, negli ultimi anni della sua vita, Croce valutasse soltanto negativamente la politica, o spingesse a cancellare quei tratti caratteristici dello Stato che aveva enunciato così energicamente nel primo quarto del secolo; non sarebbe difficile mettere insieme un buon numero di passi comprovanti la permanenza, in lui, di quasi tutti i suoi convincimenti antichi: basti, come esempio, il suo ribadire che «la guerra è una legge eterna del mondo, che si attua di qua e di là da ogni ordinamento giuridico» (B. Croce, Scritti e discorsi politici, 2° vol., 1963, pp. 404-405), come fece nel discorso Contro l’approvazione del dettato della pace e del resto fieramente si era detto «patriota italiano». A conferire peraltro quel senso di consapevolezza di una inarrestabile crisi, che si trova nei suoi scritti ultimi, è la certezza che, dopo le due guerre mondiali, la sua Europa non esisteva più.
Lo stesso Croce provvide a organizzare l’edizione dei suoi scritti, presso l’editrice Laterza (Bari), articolata in quattro sezioni: Filosofia dello spirito (4 voll.); Saggi filosofici (14 voll.); Scritti di storia letteraria e politica (44 voll.); Scritti vari (13 voll.). Per informazioni sulle vicende di ciascuno scritto, si vedano F. Nicolini, L’«editio ne varietur» delle opere di Benedetto Croce, Napoli 1960, nonché S. Borsari, L’opera di Benedetto Croce. Bibliografia, Napoli 1964.
Dalla fine degli anni Ottanta è stata proseguita dall’editore Adelphi (Milano) la pubblicazione di varie tra le più significative opere, a cura di Giuseppe Galasso. Dal 1991 è incominciata l’Edizione nazionale presso Bibliopolis (Napoli); a oggi sono usciti 22 volumi. In edizione critica gli Scritti su Francesco De Sanctis, a cura di T. Tagliaferri, F. Tessitore, 2 voll., Napoli 2007.
Il seguente elenco delle opere è ordinato secondo la data di pubblicazione nel corpus delle edizioni Laterza:
Scritti e discorsi politici (1943-1947), 2 voll. (1963).
Si vedano inoltre:
Taccuini di lavoro, 1906-1919, 6 voll., Napoli 1987 (l’Indice dei nomi è stato pubblicato nel 2011).
Nel 1925 Adelchi Attisani aveva ripubblicato le ‘memorie’ accademiche del 1900 e del 1904-05: La prima forma della Estetica e della Logica, Messina-Roma, s.a.
Per una rassegna degli studi, si rinvia in primo luogo ai seguenti repertori:
E. Cione, Bibliografia crociana, Milano 1956, pp. 305-438.
C. Ocone, Bibliografia ragionata degli scritti su Benedetto Croce, Napoli 1993.
S. Bonechi, B. Croce-G. Gentile. Bibliografia 1980-1993, «Giornale critico della filosofia italiana», 1994, 2-3, pp. 534-631.
In particolare, tra gli studi, si vedano:
F. Chabod, Croce storico, «Rivista storica italiana», 1953, 4, pp. 473-530.
A. Mautino, La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce, Bari 19533.
N. Bobbio, Politica e cultura, Torino 1955, pp. 100-20 e 211-68.
G. Galasso, Croce, Gramsci e altri storici, Milano 1969.
M. Bazzoli, Fonti del pensiero politico di Benedetto Croce, Milano 1971.
D. Faucci, La filosofia politica di Croce e di Gentile, Firenze 1974.
G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975.
G. Sasso, La «Storia d’Italia» di Benedetto Croce. Cinquant’anni dopo, Napoli 1979.
G. Sasso, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna 1989.
G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Milano 1990.
«La cultura», 1993, 2, nr. monografico: Studi su Croce.
G. Sasso, Filosofia e idealismo, 6 voll., Napoli, 1994-2012.
M. Visentin, Sul liberalismo di Croce, «La cultura», 1995, 3, pp. 399-431.
G. Sartori, Studi crociani, 2 voll., Bologna 1997.
M. Ciliberto, Figure in chiaroscuro, Roma 2001, pp. 219-83.
M. Maggi, ‘L’Italia che non muore’. La politica di Croce nella crisi nazionale, Napoli 2001.
D. Conte, Storia universale e patologia dello spirito. Saggio su Croce, Bologna 2005.
F. Tessitore, La ricerca dello storicismo. Studi su Benedetto Croce, Bologna 2012.
Nel 1929 Benedetto Croce, nel saggio Intorno alle presenti condizioni della storiografia in Italia, traeva una sorta di bilancio dell’efficacia della propria opera; constatava che l’esperienza della guerra, e delle rivoluzioni, aveva fatto accettare che la storiografia dovesse essere «militante»; ma, precisava, molti non avevano inteso che ciò significava «pensante», cioè «idealistico-dialettica», tale da concepire la storia come perpetua vita: arricchimento etico, e non gioco di forze. Tale limitatezza egli imputava alla sordità di molti storici nei confronti degli impulsi morali, anzi, «religiosi», o al loro adattarsi a essere supporto, inutile, del potere politico. Riconosceva, d’altro canto, che sulla strada da lui aperta si erano messi valorosi studiosi: faceva i nomi di Guido De Ruggiero, di Adolfo Omodeo (i quali avevano preso, nella «Critica», il posto prima occupato da Gentile) e di Antonio Anzilotti (1885-1924).
Accanto a questi, merita di essere ricordato Nino Cortese (Perugia 1886-Napoli 1972), che riconobbe pubblicamente di dovere a Croce gli orientamenti della sua ricerca; nel 1926, in un saggio apparso sulla «Rivista storica italiana», Cortese aveva dato piena adesione sia alla metodologia crociana sia all’applicazione che di essa era stata fatta nella Storia del Regno di Napoli; condusse, su solide basi documentarie, studi sul Mezzogiorno, dal Cinquecento all’Ottocento; accanto alle monografie su Lo studio di Napoli nell’età spagnola (1924), ci sono i saggi, redatti tra il 1920 e il 1942, raccolti nel volume Il Mezzogiorno ed il Risorgimento italiano (1965); curò edizioni di opere di Vincenzo Cuoco e di Pietro Colletta; di particolare impegno il suo lavoro di editore degli scritti di Francesco De Sanctis, 15 volumi, dal 1930 al 1941, opera che fu interrotta dalla guerra.
Sino appunto alla guerra le critiche, talvolta aggressive, rivolte ai volumi storici di Croce non ne avevano limitato la fortuna; la Storia d’Italia ebbe otto edizioni dal 1928 al 1943, la Storia d’Europa cinque edizioni dal 1932 al 1942; correva la battuta che non si poteva non dirsi crociani. Le cose mutarono rapidamente dalla fine degli anni Quaranta, con l’emergere di tendenze culturali alimentate da quelle istanze di un radicale mutamento della società italiana che erano state elaborate sia durante la guerra partigiana sia nei movimenti e nei partiti di massa dei primi anni del dopoguerra. Dopo una breve fase nella quale parve che la concezione della storia come opera di minoranze colte potesse venir applicata alle élites rivoluzionarie (a coltivare questa posizione erano molti militanti del Partito d’azione), ad assumere un atteggiamento vivacemente critico fu la storiografia di ispirazione marxista, orientata dalla pubblicazione, che si aveva proprio in quegli anni, dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci: essa rifiutava la prospettiva etico-politica, insisteva sul conflitto delle classi, criticava risolutamente l’immagine che, della storia d’Italia, Croce aveva dato. Un altro tipo di critiche, le quali investivano più la teoria che l’opera storiografica, venivano dall’area che si disse neoilluminista: Croce era accusato di aver respinto in blocco la sociologia, sbarrando così la strada allo sviluppo, in Italia, delle scienze sociali; e di aver avuto, inoltre, una fondamentale indifferenza per le forme istituzionali, con il risultato di fare della libertà una nozione metafisica.
A rivendicare, contro queste critiche, la permanente validità dell’insegnamento crociano, fu Vittorio De Caprariis (Napoli 1924-Roma 1964), che fu anche, per alcuni anni, vicedirettore dell’Istituto italiano per gli studi storici. Dopo un libro su Francesco Guicciardini. Dalla politica alla storia (1950), nel quale, staccandosi dalla famosa immagine desanctisiana del Guicciardini, che talvolta lo stesso Croce aveva ripreso, spiegava come attraverso una serie di delusioni politiche il suo personaggio avesse trovato la passione per scrivere la sua Storia d’Italia, de Caprariis pubblicò nel 1959 la sua opera maggiore, Propaganda e pensiero politico in Francia durante le guerre di religione. In essa si intrecciano vari filoni, tra i quali notevole è l’attenzione per gli sforzi di fondare la libertà di coscienza su basi istituzionali, giuridicamente valide, che fossero in grado di togliere alla «politica» il suo aspetto «demoniaco». Al di là dell’espressione, che non era certo crociana, de Caprariis vedeva in questi sforzi l’inizio della politica moderna – pur continuando, sulle orme di Croce, a respingere l’idea di un «diritto naturale». Dai francesi del Cinquecento passò ai costituzionalisti americani e a Tocqueville. Nella sua assai intensa attività pubblicistica propose una lettura ‘democratica’ del liberalismo crociano, con particolare attenzione alle istituzioni (non soltanto parlamento e governo, ma anche i partiti, che voleva regolati da norme più precise di quanto stabilito dall’articolo 49 della Costituzione). Alla sua sensibilità politica non sfuggì che, alla fine degli anni Cinquanta, la prima crisi dei partiti stava innescando una crisi istituzionale; e, quasi a continuare l’opera di Croce, si era accinto, alla vigilia della morte, a una storia d’Italia a partire dalla Prima guerra mondiale.