Beni culturali
Codice dei beni culturali e del paesaggio
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio è contenuto nel d. legisl. 22 genn. 2004 nr. 42, emanato in attuazione dell'art. 10 della legge delega 6 luglio 2002 nr. 137 (Delega per il riassetto e la codificazione in materia di beni culturali e ambientali, spettacolo, sport, proprietà letteraria e diritto d'autore) ed entrato in vigore il 1° maggio 2004 (come espressamente previsto dallo stesso Codice all'art. 183, 7° co.). La legislazione in materia era sostanzialmente ferma alle cosiddette leggi Bottai (l. 1° giugno 1939 nr. 1089, Tutela delle cose d'interesse artistico o storico; l. 29 giugno 1939 nr. 1497, Protezione delle bellezze naturali), dal nome del ministro per l'Educazione Nazionale G. Bottai, rimaste vigenti e pressoché inalterate per sessant'anni grazie al loro mirabile disegno organico. La l. 1089 del 1939, in particolare, doveva il suo impianto a uno dei più grandi giuristi del 20° sec., S. Romano, presidente della commissione ministeriale incaricata da Bottai di elaborarne il progetto. Precedentemente al Codice erano in realtà intervenute altre disposizioni legislative (tra le più innovative, a tutela delle zone di particolare interesse ambientale, la l. 8 ag. 1985 nr. 431) che tuttavia non avevano deformato il quadro d'insieme, limitandosi a integrarlo o ad aggiornarlo al mutato contesto storico. La prima vera rielaborazione della materia si era avuta con il d. legisl. 29 ott. 1999 nr. 490, recante il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352, che all'art. 166 abrogava espressamente le leggi Bottai del 1939, pur conservandone l'impianto originario. Alla delega legislativa, diretta a riunire e coordinare "tutte le disposizioni legislative vigenti in materia di beni culturali e ambientali", fu data attuazione attraverso un notevole sforzo di riordino e di ristrutturazione, che condusse all'emanazione di un corpo normativo dotato di coerenza logica e sistematica, che sembrava perciò destinato a una certa stabilità nel tempo. Senonché, l'emanazione del d. legisl. 31 marzo 1998 nr. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo 1 della legge 15 marzo 1997, n. 59) e soprattutto la riforma con l. cost. 18 ott. 2001 nr. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, in partic. artt. 117 e 118 della Costituzione), hanno determinato la necessità di tornare a legiferare in materia, al fine di adeguare la disciplina vigente al mutato quadro istituzionale e al nuovo riparto di attribuzioni normative e amministrative tra Stato, Regioni ed enti locali. Si è così giunti alla già citata legge delega 137 del 2002. Il compito di elaborare il progetto della legge fu affidato dal ministro per i Beni e le Attività culturali G. Urbani a una commissione di studio presieduta da G. Trotta e composta da S. Cassese, G. Caia, G. Severini, C. Zucchelli, M. Fiorilli e N. Aicardi. Parallelo ai lavori della commissione si è svolto l'impegno dell'Ufficio legislativo del ministero (guidato da M. Torsello e dal suo vice G. Famiglietti), di concerto con i consiglieri scientifici del ministro (S. Settis, L. Godart, G. de Vergottini, A. Paolucci e G. Vaciago). Il Codice si apre con una prima parte dedicata alle Disposizioni generali, contenenti l'enunciazione di alcuni principi e nozioni fondamentali (patrimonio culturale, tutela, valorizzazione) destinati a ispirare l'intera normativa. I principi racchiudono in forma ellittica i contenuti compiutamente svolti nelle parti successive del Codice, fissando concetti e criteri che non nascondono una vocazione generale e sistematica. La stessa utilizzazione del termine 'codice', che asseconda il mandato legislativo a 'codificare', dà conto dell'esigenza - rispondente alla fase storica in atto - di non fermarsi alla semplice consolidazione in un unico testo di una pluralità di disposizioni speciali, ma di procedere alla costruzione di uno statuto normativo autonomo che, seppur con riguardo a una specifica materia, abbia in sé la capacità di completarsi e di durare nel tempo, attraverso la formulazione di principi e criteri generali in grado di superare polisemie, antinomie, lacune, obsolescenze. Il termine codice si rivela così ingannevole: non già ri-codificazione, intesa come ritorno al codice civile, bensì ritrovata urgenza di comporre l'originaria frammentarietà di leggi e leggine, attraverso un fascio di corpi legislativi unitari e organici che, ciascuno nel proprio settore, possano aspirare all'autosufficienza e alla stabilità del sistema (da qui la proliferazione di codici - protezione dei dati personali, amministrazione digitale, consumo, proprietà industriale - cui si assiste negli ultimi anni). È il fenomeno della pluralità di microsistemi e di logiche di settore, descritto da N. Irti nei suoi scritti sulla decodificazione (v.). Dalla lettura dell'art. 1 del Codice emerge, come dato tra i più rilevanti, che l'attuazione dell'art. 9 della Carta repubblicana passa non solo attraverso la tutela del patrimonio culturale (formula nella quale l'art. 2 del Codice compendia sia i beni culturali in senso stretto sia il paesaggio), ma anche attraverso la sua valorizzazione. L'intera normativa ruota intorno ai rapporti tra le due attività e alla ripartizione - tra Stato ed enti pubblici territoriali - delle rispettive funzioni. La distinzione tra tutela e valorizzazione corrisponde a quanto previsto nel nuovo art. 117 della Costituzione, che attribuisce allo Stato la potestà legislativa e regolamentare in tema di tutela (2° co., lett. s e 6° co.), mentre, in materia di valorizzazione, affida le medesime competenze alle Regioni ("salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato", 3° e 6° co.).
La tutela dei beni culturali consiste, secondo l'art. 3, 1° co. del Codice, "nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un'adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione". Distinta dalla tutela, ma a essa inscindibilmente collegata, è la valorizzazione che, secondo l'art. 6, 1° co. del Codice "consiste nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso". Le formule legislative appaiono, a prima vista, simmetriche e omogenee. Da un lato, la tutela, svolgentesi attraverso le potestà (amministrativa: esercizio di funzioni; e normativa: disciplina di attività) di individuazione, protezione, conservazione dei beni culturali: si pensi al procedimento di verifica e dichiarazione dell'interesse culturale, alle modalità di catalogazione dei beni (individuazione), ovvero alla previsione di interventi vietati (per es., lo smembramento di archivi) o soggetti ad autorizzazione (per es., lo spostamento, anche temporaneo, del bene) (protezione), nonché al coordinamento e alla programmazione dell'attività di restauro (conservazione). Dall'altro, la valorizzazione, che si tradurrebbe nella diffusione presso la collettività della conoscenza del patrimonio culturale (mediante pubblicazioni, riproduzioni, attività culturali, didattiche e divulgative) e nell'agevolazione dell'accesso ai singoli beni (attraverso l'apertura di musei, l'organizzazione di esposizioni, mostre ecc.). Difficoltà di delimitazione tra tutela e valorizzazione derivano tuttavia dalla fondamentale nozione, introdotta nel Codice - e riferita in termini teleologici a entrambi i concetti -, di 'fruizione pubblica', che se da un lato appare contaminare le attività di tutela, dall'altro si pone quale profilo apparentemente distorsivo del concetto di valorizzazione. Se, infatti, si dovesse guardare alla disciplina dei b. c. secondo un criterio esclusivamente teleologico, e dunque considerare la fruizione quale indice imprescindibile e necessario per valutare la corretta esplicazione della tutela e della valorizzazione, il confine tra queste due funzioni sarebbe destinato a un inevitabile dissolvimento: ogni attività di tutela potrebbe essere imputata alla valorizzazione - in quanto tutte riconducibili alla garanzia delle migliori condizioni di fruizione pubblica dei beni tutelati (dunque alla valorizzazione) - e quest'ultima sarebbe degradata alla mera salvaguardia del libero accesso ai beni. Occorreva dunque, in via interpretativa, recuperare alle due nozioni un significato coerente con la rilevanza costituzionale della loro distinzione. A ciò ha provveduto - in realtà già prima dell'emanazione del Codice - quella dottrina che ha introdotto un ulteriore criterio di discrimine tra tutela e valorizzazione, fondato sul diverso rapporto tra interesse pubblico, perseguito mediante l'esercizio della relativa potestà (normativa e amministrativa), e situazioni soggettive degli amministrati. Si è così rilevato che mentre l'esplicazione della tutela presuppone un potenziale conflitto tra il primo e le seconde, determinando effetti limitativi nella sfera soggettiva dei destinatari, la valorizzazione si svolge in un diverso quadro di convergenza tra interesse pubblico e situazioni soggettive dei terzi coinvolti. All'area della tutela apparterrebbero non solo le discipline e le funzioni dirette "a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale" (art. 3, 2° co. del Codice), ma anche tutte quelle che, pur non traducendosi in effetti direttamente impositivi o restrittivi delle situazioni soggettive dei destinatari, siano a essi inscindibilmente connesse (si fa l'esempio dell'erogazione di contributi per il restauro di un bene culturale, collegata alla previa imposizione dell'obbligo di provvedere al restauro stesso). Seguendo questa impostazione si sarebbe in grado, tra l'altro, di comprendere le ragioni che hanno determinato il riflusso dell'istituto della espropriazione dall'ambito della valorizzazione (dove era stato erroneamente situato nel Testo unico del 1999) a quello della tutela; nonché di conferire al contenuto della valorizzazione un significato più ampio (in cui possano rientrare anche "la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale", art. 6, 1° co. del Codice: si pensi, per es., agli interventi di restauro finanziati da soggetti privati quali le ex fondazioni bancarie), che consenta altresì di prendere in considerazione, in una giusta proporzione, le potenzialità prettamente economiche dei beni culturali, in un'ottica circolare, secondo la quale la loro capacità di produrre reddito non sia fine a sé stessa bensì costituisca un plusvalore strumentale al rinvigorimento e alla dilatazione della tutela. La subordinazione della valorizzazione alla tutela è del resto espressamente stabilita dall'art. 6, 2° co. del Codice secondo cui la valorizzazione deve essere "attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze". Si è in tal modo introdotto un principio fondamentale che, nel caso di rapporto conflittuale tra esigenze di protezione ed esigenze di sfruttamento del b. c., assegna netta priorità alle prime, fissando così un preciso limite a modalità di valorizzazione del bene (comprese l'eccessiva esposizione e destinazione alla pubblica fruizione) che si rivelino potenzialmente lesive della sua integrità o comunque rischiose per la sua conservazione. Quest'ultima, come risulta evidente dalle disposizioni del Codice, non consiste soltanto nella conservazione in senso stretto, fisica e materiale (custodia, manutenzione, restauro ecc.), ma si deve anche tradurre in una attività di conservazione per così dire 'giuridica', volta a impedire - o comunque a sottoporre a rigorosi controlli - l'alienazione dei b. c. demaniali (artt. 53-59), ovvero ad agevolare l'ingresso di ulteriori beni nella sfera patrimoniale pubblica (si pensi agli istituti della prelazione, artt. 60-62; e della espropriazione, artt. 95-100). È stato così apprestato un complesso sistema di garanzie, fondato sulla sottoposizione (provvisoria e cautelare) dei beni pubblici al regime vincolistico proprio dei b. c., in assenza di un accertamento negativo dell'interesse culturale effettuato dai competenti organi del ministero (per i quali v. il relativo Regolamento di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali, d.p.r. 10 giugno 2004 nr. 173). Dal combinato disposto degli artt. 12, 1° e 2° co., e 10, 1° co. del Codice, risulta che le cose di proprietà pubblica o di enti privati senza fine di lucro che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga a oltre cinquanta anni sono sottoposte a tutela fino a quando non sia stata effettuata la verifica dell'interesse culturale. Il procedimento di verifica dell'interesse culturale può essere avviato, ai sensi dell'art. 12, 2° co. del Codice., sia d'ufficio sia "su richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono e corredata dai relativi dati conoscitivi". Viene così introdotta una presunzione legale relativa (iuris tantum) di sussistenza dell'interesse culturale, destinata a cadere soltanto in caso di esito negativo della verifica. Tale impianto, che sembrava fornire sufficienti sbarramenti sul fronte delle alienazioni, era tuttavia apparso gravemente minato dall'ultimo comma dell'art. 12 del Codice, che richiama l'art. 27 del d.l. 30 sett. 2003 nr. 269 (così come modificato dalla legge di conversione 24 nov. 2003 nr. 326), il quale imponeva la comunicazione dell'esito del procedimento di verifica dell'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico dei beni di proprietà pubblica entro il termine perentorio di 120 giorni (dalla ricezione della scheda descrittiva del bene), stabilendo che in caso di mancata risposta il bene in questione avrebbe dovuto considerarsi privo di interesse culturale e dunque sottratto al regime proprio dei beni culturali. La norma in questione appariva sovvertire pericolosamente il principio della inalienabilità dei beni di interesse culturale; il significato di verifica negativa (anche se non direttamente di autorizzazione ad alienare) attribuito al silenzio della pubblica amministrazione era sostanzialmente riconducibile al meccanismo del silenzio-assenso. L'anomalia era evidente: da un lato, in apparente ossequio al regime di tutela, si prevedeva un procedimento, tecnico e vincolante, di verifica dell'interesse culturale; dall'altro, attraverso lo strumento del silenzio-assenso, veniva compromesso fortemente il sistema di garanzie apprestato, raggiungendo, con il semplice decorso di un lasso di tempo, lo scopo precipuo della immediata sdemanializzazione e della libera alienabilità. L'ultimo comma dell'art. 12 del Codice è stato successivamente modificato con d. legisl. 24 marzo 2006 nr. 156, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale nr. 97 del 27 apr. 2006, suppl. ord. nr. 102/L., che sembra aver tramutato il limite temporale di 120 giorni in un termine meramente ordinatorio. Occorre tuttavia precisare che i due profili della sottoposizione al regime vincolistico e della alienabilità dei beni non sono necessariamente coincidenti. Mentre, infatti, la verifica dell'interesse culturale può condurre, in caso di esito negativo, all'affrancazione dei beni mobili e immobili appartenenti ai soggetti indicati nell'art. 10, 1° co. del Codice, le disposizioni di cui agli artt. 53 e segg. individuano i beni (demaniali e non) che non possono assolutamente essere alienati (art. 54) e i presupposti in base ai quali i beni (demaniali e non) non appartenenti alla prima categoria possano essere alienati con l'autorizzazione del ministero (artt. 55 e 56). Tra i beni assolutamente inalienabili ex art. 54 rientrano, appunto, quelli per i quali vige la presunzione di sussistenza dell'interesse culturale (art. 10, 1° co. del Codice), ma solo fino a quando non sia intervenuta la sdemanializzazione a seguito dell'esito negativo del procedimento di verifica previsto dall'art. 12 (v. art. 54, 2° co., lett. a).
La disciplina cui si è fatto breve cenno va raccordata con le disposizioni legate a quella politica di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico avviata in Italia verso la fine degli anni Novanta a seguito dei vincoli posti alla finanza pubblica per effetto della adesione del nostro Paese all'Unione monetaria europea. Già nel decennio precedente si erano venute formando le istanze di una più remunerativa amministrazione dei beni immobili dello Stato, attraverso l'attuazione di criteri economici e l'adozione di strumenti giuridici diretti a conseguire un contenimento del disavanzo pubblico. In tale prospettiva, il concetto di valorizzazione dei beni pubblici si riempiva di significati coerenti con gli obiettivi di politica economica, che si traducevano nel risanamento dei conti attraverso l'individuazione e l'alienazione dei beni la cui gestione era considerata improduttiva e dispendiosa. Da qui il ricorso a modelli privatistici - e in particolare allo strumento societario - allo scopo di amministrare più proficuamente e dismettere beni di appartenenza pubblica che sono ritenuti 'non essenziali'.
Il d.l. 25 sett. 2001 nr. 351 (Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di investimento immobiliare), convertito con modificazioni nella l. 23 nov. 2001 nr. 410, attribuisce al ministro dell'Economia e delle Finanze il potere di costituire mediante atto unilaterale, o promuovere la costituzione, anche attraverso soggetti terzi, "di più società a responsabilità limitata con capitale iniziale di 10.000 euro, aventi a oggetto esclusivo la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato e degli altri enti pubblici" (art. 2, 1° co.), (sono le cosiddette SCIP - Società per la Cartolarizzazione degli Immobili Pubblici); nonché stabilisce che i beni dello Stato di particolare valore artistico e storico sono trasferibili alle cosiddette società-veicolo con decreto del ministro dell'Economia e delle Finanze di concerto con il ministro per i Beni e le Attività culturali (art. 3, co. 1-bis). L'operazione di cartolarizzazione, applicata ai proventi delle dismissioni immobiliari, configura un'alienazione indiretta dei beni immobili di appartenenza pubblica, i quali vengono trasformati in strumenti finanziari da collocare sul mercato (v. cartolarizzazione). Il ruolo della società-veicolo è quello di acquistare a titolo oneroso, attraverso l'assunzione di finanziamenti e/o l'emissione di titoli, un 'portafoglio' di immobili da sottoporre a cartolarizzazione, i cui proventi sono destinati al soddisfacimento dei diritti dei concedenti i finanziamenti e dei portatori dei titoli. I beni oggetto di ciascuna operazione di cartolarizzazione costituiscono un patrimonio separato dal patrimonio generale della società e da quello relativo ad altre operazioni: in altri termini, in deroga al principio di cui all'art. 2740 c.p.c., il patrimonio così costituito non potrà essere aggredito da creditori della società diversi dai concedenti i finanziamenti ovvero dai portatori dei titoli emessi per quella singola operazione di cartolarizzazione, così come questi ultimi non potranno rivalersi sul patrimonio generale della società. Il ricorso all'istituto del patrimonio separato ispira anche la costituzione, in forza del d.l. 15 apr. 2002 nr. 63 (convertito con modificazioni nella l. 15 giugno 2002 nr. 112), della Patrimonio dello Stato S.p.a. (art. 7) e della Infrastrutture S.p.a. (art. 8). Alla prima società, nata "per la valorizzazione, gestione ed alienazione del patrimonio dello Stato" (art. 7, 1° co.), "possono essere trasferiti diritti pieni o parziali sui beni immobili facenti parte del patrimonio disponibile e indisponibile dello Stato, sui beni immobili facenti parte del demanio dello Stato, e comunque sugli altri beni compresi nel conto generale del patrimonio dello Stato" (art. 7, 10° co.). La Patrimonio dello Stato S.p.a. "può effettuare operazioni di cartolarizzazione" (art. 7, 11° co.) e può trasferire, esclusivamente a titolo oneroso, i suoi beni a Infrastrutture S.p.a. (art. 7, 12° co.). Quest'ultima, "in via sussidiaria rispetto ai finanziamenti concessi da banche e altri intermediari finanziari: a) finanzia sotto qualsiasi forma le infrastrutture e le grandi opere pubbliche, purché suscettibili di utilizzazione economica; b) concede finanziamenti sotto qualsiasi forma finalizzati ad investimenti per lo sviluppo economico"; fornisce altresì garanzie per le medesime finalità (art. 8, 3° co.).
Le citate disposizioni hanno destato forti preoccupazioni, sia in ambito istituzionale sia nel mondo della cultura, rinnovate successivamente dal dibattito - cui si è già accennato - sull'utilizzazione dello strumento del silenzio-assenso nel procedimento di verifica dell'interesse culturale. Il presidente della Repubblica C.A. Ciampi, con comunicato stampa del 15 giugno 2002, dando notizia della promulgazione della legge di conversione del d.l. nr. 63 del 2002, inviava contestualmente al presidente del Consiglio dei ministri S. Berlusconi una lettera nella quale lo invitava ad assicurare che la valorizzazione del patrimonio dello Stato fosse coerente "con il rigoroso rispetto dei valori che attengono alle finalità proprie dei beni pubblici, intese alla luce dei principi costituzionali che riguardano la tutela dei predetti beni e, in primo luogo, di quelli culturali ed ambientali, che costituiscono identità e patrimonio comune di tutto il Paese". Nel medesimo contesto si inseriva l'appello di un gruppo di Accademici dei Lincei che, nell'imminenza della emanazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, aveva formulato alcuni principi, considerati irrinunciabili, cui si auspicava che la nuova normativa dovesse ispirarsi. Tra questi principi, espressi in dieci punti, era indicata la necessità "di preservare rigorosamente l'intrasferibilità, in qualsiasi forma ed a qualsiasi soggetto, dei beni di interesse storico-artistico-archeologico, che sono nel demanio e nel patrimonio pubblico, distinguendoli, mediante urgenti misure di censimento, dagli altri beni di proprietà pubblica che non rivestano quell'interesse. E la congiunta necessità di adottare norme legislative idonee a raggiungere tale scopo, anche modificando o restringendo norme vigenti" (Il giornale dell'arte, sett. 2003, nr. 224, p. 41). Anche se, in via interpretativa, l'applicabilità delle norme richiamate appare oggi circoscritta entro limiti di garanzia (non potrebbero essere trasferiti alle società-veicolo i beni inalienabili; questi ultimi potrebbero essere solamente gestiti e valorizzati, ma non alienati, dalla Patrimonio dello Stato S.p.a.; alla Infrastrutture S.p.a. non potrebbero essere ceduti beni indisponibili e demaniali), non si possono nascondere, in conclusione, le forti perplessità suscitate dalle moderne modalità di gestione imprenditoriale dei beni pubblici, che appaiono ispirate a pure istanze economicistiche, nell'ottica delle quali i b. c. figurano - come è stato efficacemente rilevato da S. Settis, al quale si deve la più incisiva e costante opera di denuncia, in salvaguardia del principio costituzionale della tutela dei b. c. e dell'integrità del patrimonio storico e artistico della Nazione - più come patrimonio da investire, al solo scopo della produzione di maggiori entrate (da destinare altrove), che come patrimonio su cui investire, mediante una corretta attività di tutela, diretta ad assicurarne la conservazione e la più diffusa conoscenza e fruizione.
(v. anche archivio, biblioteca e museo).
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