Abstract
La voce analizza la disciplina del bilancio d’esercizio contenuta negli artt. 2423 e ss. c.c. Dopo un inquadramento generale della medesima, sono esaminati i profili più rilevanti della struttura del bilancio, delle clausole generali, dei principi generali ex art. 2423bis c.c. e dei criteri di valutazione.
Tutte le società di capitali sono tenute, ai sensi dell’art. 2423, co. 1, c.c., alla redazione del bilancio d’esercizio, che costituisce la sintesi delle scritture contabili tenute in conformità agli artt. 2214 ss. c.c.
Non tutte le società di capitali redigono però il bilancio secondo le disposizioni del codice civile. A seguito all’entrata in vigore del d.lgs. 28.2.2005, n. 38, che prevede l’obbligo per alcune categorie di società e la facoltà per altre di redigere il bilancio d’esercizio (e consolidato) in conformità ai principi contabili internazionali Ias/Ifrs omologati dalla Commissione europea, coesistono nell’ordinamento interno due distinte discipline dei conti annuali, l’una dettata dai principi Ias/Ifrs recepiti mediante il Regolamento comunitario 1725/2003/Ce e le sue successive modificazioni (funzionali all’endorsement dei nuovi principi e delle modifiche progressivamente approvati dallo Iasb), l’altra fondata sugli artt. 2423 ss. cc. e sui principi contabili nazionali emanati dall’organismo italiano di contabilità (Oic).
In base al combinato disposto degli artt. 2 e 4 del d.lgs. n. 38/2005, sono tenute alla redazione del bilancio d’esercizio secondo gli Ias/Ifrs le società quotate, quelle con titoli diffusi tra il pubblico di cui all’art. 114 t.u.f., le banche e gli altri intermediari finanziari sottoposti a vigilanza, nonché le società di assicurazione quotate e che non redigono il bilancio consolidato. Per contro, l’adozione degli Ias/Ifrs è preclusa alle società che possono redigere il bilancio in forma abbreviata in quanto non superano le soglie dimensionali dell’art. 2435 bis c.c. Tutte le altre società non rientranti nelle categorie appena menzionate possono adottare in via facoltativa i principi Ias/Ifrs.
Al fine di limitare i costi legati alla redazione dei bilanci per le imprese di minori dimensioni, la disciplina applicabile varia, parzialmente, anche in ragione delle dimensioni della società. Per le imprese “medio-piccole” di cui all’art. 2435 bis c.c. e per le “micro-imprese” dell’art. 2435 ter c.c. è, infatti, prevista una disciplina semplificata che consente l’omissione di parte delle informazioni richieste alle società medio-grandi.
Indipendentemente dai criteri adottati per la sua redazione, il bilancio d’esercizio assume un ruolo centrale nella disciplina delle società di capitali, nell’ambito della quale esso assolve molteplici funzioni. Secondo l’art. 2423, co. 2, il bilancio deve rappresentare la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio, costituendo perciò il principale riferimento informativo per i soci, i creditori sociali e le altre categorie di soggetti interessati ai risultati ed all’andamento dell’attività sociale. Ciò non esaurisce, tuttavia, l’elenco delle funzioni del bilancio d’esercizio il quale rappresenta altresì lo strumento per l’accertamento di eventuali perdite di capitale sociale rilevanti ai sensi degli articoli 2446 e 2447 c.c., nonché per la determinazione dell’utile e delle riserve distribuibili ovvero utilizzabili per l’effettuazione di operazioni sulle proprie (Colombo, G.E., Il bilancio d’esercizio, in Tratt. colombo-Portale, VII, t. 1., Torino, 1994, 28 ss., che introduce a tal proposito la definizione di «funzione organizzativa» del bilancio).
La disciplina del bilancio di esercizio contenuta negli art. 2423 ss. c.c. si articola - in seguito al recepimento della direttiva comunitaria direttiva 78/660/Cee - su un triplice livello, in quanto, oltre alle clausole generali e alle norme specifiche sulle strutture e sulle valutazioni di bilancio (già in precedenza previste), sono stati introdotti, al livello intermedio, i principi generali di valutazione, i quali, pur non essendo caratterizzati dal grado di generalità della clausola generale, non hanno neppure la specificità propria dei criteri di valutazione, in quanto non riferiti alle singole voci di bilancio (Colombo, G.E., Il bilancio d’esercizio, in Tratt. Rescigno, XVI, t. 3, Assago, 2011, 544 ss.).
La strutturazione della disciplina codicistica del bilancio d’esercizio su tale triplice livello e la posizione al vertice della stessa delle clausole generali della chiarezza e della rappresentazione veritiera e corretta previste dall’art. 2423 c.c. sono da considerare diretta conseguenza della particolarità della materia contabile, la quale, dato l’elevato grado di tecnicismo da cui è caratterizzata, non può essere regolata in ogni dettaglio dal legislatore, con la conseguente necessità di preservare un margine flessibilità al fine di consentire, in casi eccezionali, al redattore del bilancio (secondo quanto previsto dall’art. 2423, co. 3 e 5) di integrare l’informativa qualora quella richiesta non sia sufficiente ai fini di una chiara rappresentazione contabile ovvero, in casi eccezionali, di disapplicare le norme che si rivelino non compatibili con la rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale e finanziaria nonché del risultato d’esercizio e di individuare i più adeguati criteri applicabili nella specifica fattispecie (Bocchini, E., Diritto della contabilità delle imprese. Bilancio d’esercizio, III ed., Assago, 2010, 59 s.).
Alla luce di quanto appena affermato è da notare altresì che, la disciplina giuridica del bilancio inevitabilmente concede al redattore dello stesso margini di discrezionalità che consentono di incidere sulla rappresentazione e la determinazione della situazione patrimoniale e del risultato di periodo. L’intrinseca soggettività caratterizzante la determinazione dei valori stimati presenti nel bilancio d’esercizio fa sì, infatti, che il valore di determinate attività possa variare a seconda delle assunzioni poste a base della stima. Tale ineliminabile grado di discrezionalità va tuttavia contenuto «entro i limiti tra i quali può oscillare la stima fondata sulla veritiera assunzione di premesse di fatto e sull’applicazione obiettiva di criteri tecnicamente idonei» (v. Colombo, G.E., Il bilancio d’esercizio, cit., 44), risultando dunque preclusa qualsiasi attribuzione di valore che fuoriesca (in senso eccessivamente prudenziale ovvero ottimistico) da tali limiti e che sia perciò incompatibile con l’obiettivo della rappresentazione veritiera, corretta e chiara.
Il primo comma dell’art. 2423 c.c. definisce la struttura del bilancio d’esercizio, il quale deve comporsi - salvo che si applichino le semplificazioni di cui agli articoli 2435 bis e 2435 ter c.c. - dello stato patrimoniale, del conto economico, del rendiconto finanziario e della nota integrativa. Inoltre deve essere allegata al bilancio la relazione sulla gestione di cui all’art. 2428 c.c.
Al fine di assicurare la chiarezza e la comparabilità dei bilanci, gli schemi di bilancio sono tendenzialmente rigidi, essendo modificabili soltanto entro i limiti previsti dall’art. 2423 ter c.c., così da consentire il loro adattamento eventualmente necessario in ragione delle caratteristiche dei fatti oggetto di rappresentazione, della natura dell’attività svolta dalla società ovvero della composizione del patrimonio sociale.
Lo stato patrimoniale è lo schema destinato a rappresentare la situazione patrimoniale della società. L’art. 2424 c.c. prescrive l’utilizzo di uno schema «a sezioni contrapposte» nel quale le attività e le passività sono organizzate in colonne contrapposte, con l’evidenziazione del saldo, ossia del patrimonio netto, nel lato destro unitamente alla passività.
Essenziale per la corretta rappresentazione dell’attivo patrimoniale è la distinzione tra immobilizzazioni e attivo circolante, la quale non dipende da un criterio temporale bensì dalla destinazione impressa dagli amministratori all’elemento dell’attivo: essa è operata secondo il criterio della destinazione economica (art. 2424bis, co. 1, c.c.), in base al quale rientrano nell’attivo circolante gli elementi patrimoniali destinati a essere ceduti a breve termine, ossia (v. principio contabile Oic 12) entro l’esercizio successivo, o (nel caso delle materie prime e dei semilavorati) a essere consumati a breve nel processo produttivo, mentre l’attivo “immobilizzato” include le attività destinate a permanere durevolmente nel patrimonio sociale (De Angelis, L., sub art. 2424 c.c., in Comm. c.c. Gabrielli, 2015, 986).
Il lato destro dello stato patrimoniale presenta un contenuto eterogeneo poiché, oltre al passivo vero e proprio (macroclassi B, C, D, E), comprende il patrimonio netto (macroclasse A), che rappresenta l’insieme delle risorse conferite o versate dai soci ovvero generate dall’esercizio dell’attività sociale in forma di utili, alle quali, tuttavia, non corrisponde necessariamente la disponibilità di risorse finanziarie in eguale importo, potendo perciò manifestarsi una situazione di insolvenza anche in presenza di un’eccedenza dell’attivo sul passivo (Strampelli, G., Distribuzioni ai soci e tutela dei creditori, Torino, 2009, 150 ss.).
Per la classificazione dei debiti il legislatore non ha adottato il criterio finanziario dell’esigibilità, che sarebbe risultato speculare a quello della liquidità crescente utilizzato (parzialmente) per la classificazione dell’attivo, ma ha preferito organizzare gli stessi secondo un duplice criterio: la natura del rapporto da cui il debito deriva (es.: debiti verso fornitori; debiti verso banche) ovvero l’appartenenza del creditore e della società al medesimo gruppo (es.: debiti verso società controllate, collegate, controllanti).
Tra le passività occorre inoltre distinguere i debiti dai fondi rischi e oneri. Questi ultimi si differenziano dai debiti «veri e propri» in quanto accolgono gli accantonamenti destinati a coprire perdite o debiti che presentano i) natura determinata; ii) esistenza certa o probabile; iii) ammontare o data di sopravvenienza indeterminati alla chiusura dell’esercizio (Oic 31, par. 4). La rilevazione di un accantonamento ad un fondo del passivo è dunque ammissibile, ai sensi dell’art. 2425 bis, co. 3, c.c., a fronte di perdite o debiti di natura certa o probabile, qualora si ritenga probabile l’impiego di risorse future e sia attendibilmente stimabile l’ammontare della perdita futura (Trib. Milano, 5.11.2001, in Soc., 2002, 722 ss.). Là dove la perdita o il debito siano, invece, considerati (sulla base delle evidenze disponibili al momento della redazione del bilancio) soltanto possibili, di essi dovrà essere data notizia nella nota integrativa senza effettuare alcun accantonamento. L’iscrizione di un fondo rischi presuppone, inoltre, l’individuazione di un rischio specifico, essendo esclusa l’effettuazione di un accantonamento a fronte dei rischi generici gravanti sull’attività d’impresa, per fronteggiare i quali è possibile esclusivamente la formazione di una riserva (Trib. Napoli, 24.2.2000, in Soc., 2000, 1274 ss.).
Il conto economico rappresenta il risultato di esercizio e le diverse componenti di reddito che hanno contribuito alla formazione del medesimo. Al tal fine l’art. 2425 c.c. definisce uno schema a scalare con classificazione dei costi per natura, che consente di porre in evidenza il contributo delle diverse aree di gestione alla formazione del reddito di periodo, distinguendo tra la gestione ordinaria (classi A e B) e quella finanziaria (classi C e D) (Strampelli, G., Art. 2425 c.c., in Abbadessa, P. – Portale, G. B., diretto da, Le società per azioni, Milano 2016, 2245 ss.).
Dal punto di vista giuridico, è rilevate osservare che tutte le componenti di reddito (positive e negative) derivanti dalla gestione dell’impresa sociale transitano dal conto economico e concorrono alla formazione del risultato di periodo: fanno eccezione, essendo imputati direttamente ad incremento o decremento del patrimonio netto, i versamenti “fuori capitale”, eventuali distribuzioni di dividendi (Figà Talamanca, G., Bilanci e organizzazione dei poteri dispositivi sul patrimonio sociale, Milano, 1997, 163 ss.) nonché, ai sensi dell’art. 2426, co. 1, n. 11bis, c.c., le variazioni, positive e negative, del fair value degli strumenti finanziari derivati (ad esempio, interest rate swap) impiegati per la copertura dei flussi finanziari attesi di un altro strumento finanziario o di un’operazione programmata. Di conseguenza, è possibile che la variazione del patrimonio netto registrata nell’esercizio e risultante dallo stato patrimoniale non coincida con il saldo di conto economico.
L’art. 2425 ter c.c. impone alle società diverse da quelle che possono predisporre il bilancio in forma abbreviata o ipersemplificata (di cui agli artt. 2435 bis e 2435 ter c.c.) l’obbligo di redigere il rendiconto finanziario, la cui predisposizione era già raccomandata dai principi contabili nazionali e internazionali. La redazione del rendiconto finanziario determina un sensibile aumento della valenza informativa del bilancio d’esercizio, in quanto fornisce informazioni fondamentali per valutare la capacità di un’impresa di far fronte ai debiti in scadenza e di effettuare nuovi investimenti, non desumibili né dallo stato patrimoniale, né dal conto economico, dai quali non emerge la liquidità generata o consumata dalla società nell’esercizio (Campobasso, G.F., Diritto commerciale. Diritto delle società, t. 2, IX ed., a cura di M. Campobasso, Assago, 2015, 461; Oic 10, parr. 1 ss.).
A differenza di quanto accade per i prospetti di stato patrimoniale e di conto economico, il codice civile non prevede né una struttura predefinita né un contenuto analiticamente predeterminato del rendiconto finanziario. L’art. 2425 ter c.c. detta, infatti, indicazioni minimali sulla struttura ed il contento del rendiconto finanziario, che non risultano di per sé esaustive ai fini della redazione del documento e che devono necessariamente essere integrate facendo ricorso ai principi contabili nazionali e, segnatamente, all’Oic 10.
Ai sensi dell’art. 2425 ter c.c., i flussi finanziari risultanti dal rendiconto sono distinti a seconda che essi siano attinenti alla gestione reddituale (alla quale afferiscono, di regola, le operazioni riconducibili all’acquisizione, produzione e distribuzione di beni e alla fornitura di servizi) ovvero all’attività di investimento o di finanziamento. Nel silenzio del codice civile, l’Oic 10, parr. 15 ss., prevede uno schema di rendiconto finanziario di tipo scalare e detta limitate possibilità di adattamento dello stesso (v. Racugno, G., Il rendiconto finanziario secondo le nuove norme sul bilancio d’esercizio, con una postilla sui flussi finanziari dei derivati, in Giur. comm., 2016, I, 278, secondo il quale, non essendo l’Oic 10, per sua natura, vincolante e non rinvenendosi alcuna preclusione in tal senso nell’art. 2425 ter c.c., la rappresentazione può essere alternativamente effettuata sia a sezioni contrapposte che a sezioni sovrapposte).
La valenza informativa dello stato patrimoniale, del conto economico e del rendiconto finanziario sarebbe limitata in assenza della nota integrativa, la quale contiene informazioni essenziali per la comprensione dei valori esposti negli schemi di bilancio e, più in generale, per l’apprezzamento dell’andamento dell’attività della società.
Più precisamente, il contenuto della nota integrativa, disciplinato dall’art. 2427 c.c. nonché da altre disposizioni del codice civile che dettano specifici oneri informativi (es.: art. 2423, co. 3 e 5; art. 2426 co. 1, n. 2, 3, 4, 6, 10; art. 2427 bis; art. 2497 bis, co. 4, c.c.), può essere idealmente suddiviso in due sezioni: l’una relativa alle informazioni aggiuntive e complementari rispetto a quelle contenute negli schemi di stato patrimoniale e di conto economico, l’altra alla motivazione e all’illustrazione dei criteri valutativi utilizzati per la redazione dello stato patrimoniale e del conto economico (Bocchini, E., Diritto della contabilità delle imprese. Bilancio d’esercizio, Assago, 2010, 341 s.). Secondo un criterio maggiormente analitico, le informazioni richieste dall’art. 2427 c.c. possono inoltre essere ricondotte a tre profili principali: i) illustrazione del contenuto delle voci dello stato patrimoniale (nn. 1-8, 19 bis); ii) illustrazione del contenuto delle voci del conto economico (nn. 10-14); iii) altre informazioni (nn. 9, 15-22-ter) (Lolli, A., La nota integrativa nel bilancio d’esercizio delle s.p.a., Milano, 2003, 260 s.; Oic 12, parr. 106 ss.).
Il secondo comma dell’art. 2427 c.c. regola la struttura della nota integrativa stabilendo che le «informazioni in nota integrativa relative alle voci dello stato patrimoniale e del conto economico sono presentate secondo l’ordine in cui le relative voci sono indicate nello stato patrimoniale e nel conto economico». In linea con tale precetto, il contenuto della nota può essere pertanto organizzato secondo la numerazione prevista dal primo comma dell’art. 2427 c.c., fornendo in relazione ad ogni punto le informazioni in base all’ordine delle voci degli schemi di stato patrimoniale e di conto economico.
Le clausole generali della rappresentazione veritiera e corretta e della chiarezza, poste al vertice della disciplina giuridica del bilancio, definiscono gli obiettivi che devono essere perseguiti dal redattore del bilancio. La veridicità, la correttezza e la chiarezza della rappresentazione contabile nella normalità dei casi sono conseguite mediante l’applicazione delle previsioni degli articoli 2423 ss. del codice civile (Strampelli, G., Art. 2423 c.c., in Abbadessa, P. - Portale G.B., diretto da, Le società per azioni, cit., 2245 ss.). Tuttavia, data l’impossibilità del legislatore di definire ex ante il trattamento contabile di ogni operazione nella quale la società può essere coinvolta, il quinto comma dell’art. 2423 c.c. prevede che, in casi eccezionali, le disposizioni contenute negli articoli seguenti non devono essere applicate qualora esse siano incompatibili con le clausole generali (v. Colombo, G.E., Il bilancio d’esercizio, cit., 331 ss.).
La clausola generale della veridicità attiene al contenuto del bilancio e concorre a circoscrivere l’ambito degli elementi patrimoniali da iscrivere nonché (come già accennato) a limitare la discrezionalità del redattore in merito alla valutazione delle singole poste. Il bilancio è, dunque, veritiero soltanto qualora contenga tutti (e soltanto) gli elementi iscrivibili in bilancio alla data di chiusura dell’esercizio e il valore di iscrizione dei medesimi non sia inficiato da arbitrarie sopravvalutazioni o sottovalutazioni (Caratozzolo, M., Il bilancio d’esercizio, Milano, 2006, 78 s.). In ragione dell’impossibilità di individuare una verità oggettiva di bilancio in ragione della presenza di poste stimate o soltanto congetturate, è, infatti, ormai pacifico che la veridicità consiste nella «corrispondenza tra enunciati, da un lato, e giudizi accurati e sorretti da adeguate conoscenze tecniche, dall’altro» (così Colombo, G.E., Dalla chiarezza e precisione alla rappresentazione veritiera e corretta, in Palma, A., a cura di, Il bilancio di esercizio, Milano, 2008, 81).
Strettamente connessa a quella di veridicità è la clausola di correttezza, alla quale la dottrina ha tentato di assegnare autonomo rilievo, sì da non privare di significato la scelta legislativa di introdurre tale nozione a fianco di quella di veridicità. In linea con tale impostazione è possibile notare che, là dove il redattore abbia operato scelte ragionevoli e in buona fede all’esito di un’adeguata raccolta di informazioni, il bilancio può dirsi veritiero ma non necessariamente anche corretto qualora sia redatto impiegando criteri valutativi o modalità applicative degli stessi non conformi alle previsioni di legge ed alle indicazioni dei principi contabili (Bocchini, E., Diritto della contabilità delle imprese, cit., 75). Ad esempio, nel caso in cui, essendovi diversi criteri utilizzabili per la valutazione di alcune categorie di attività, si decida di passare da un criterio all’altro, il bilancio potrebbe essere veritiero ma non risulterebbe corretto ove non ricorra uno dei casi eccezionali di cui all’art. 2423 bis co. 2 c.c., in presenza dei quali è consentito derogare al principio di continuità dei criteri di valutazione.
Dopo un lungo periodo in cui la giurisprudenza poneva la clausola della chiarezza in rapporto di strumentalità e di subordinazione rispetto a quella di rappresentazione veritiera e corretta, è ormai largamente prevalente l’orientamento opposto, accolto anche dalla giurisprudenza successiva all’importante pronuncia resa dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel 2000 che costituisce il leading case in materia (Cass., S.U., 21.2.2000, n. 27, in Giur. comm., 2000, II, 73 ss.; seguita da Cass., 9.5.2008, n. 11554, in Riv. not., 2008, II, 1120 ss.; Cass., 2.5.2007, n. 10139, in Giust. civ., 2008, I, 441; Cass., 7.3.2006, n. 4874, in Soc., 2007, 703).
In termini generali, il rispetto della clausola della chiarezza implica l’ordinata esposizione delle voci di bilancio, l’univocità e la comprensibilità delle denominazioni delle medesime nonché l’intelligibilità e la completezza delle informazioni di carattere qualitativo, contenute principalmente nella nota integrativa. Una ulteriore rilevante implicazione della clausola generale della chiarezza è costituita dall’obbligo di fornire informazioni complementari di cui all’art. 2423 co. 3 c.c.. Benché la norma appena richiamata riconduca tale obbligo alla clausola della rappresentazione veritiera e corretta, non può infatti dubitarsi che tale precetto costituisca principalmente un’implicazione della chiarezza. Si trae conferma di ciò dall’orientamento giurisprudenziale che ravvisa l’obbligo di fornire informazioni integrative qualora la società legittimamente rediga il bilancio in forma abbreviata ai sensi dell’art. 2435 bis c.c. ma le informazioni richieste da tale norma non siano sufficienti a fornire una rappresentazione chiara, in ragione, ad esempio, della natura dell’attività svolta dalla società o delle dimensioni della stessa (Trib. Milano, 5.11.2001, in Giur. it., 2002, 554 ss.).
I principi generali attengono tutti alle valutazioni di bilancio e, data la loro collocazione in posizione intermedia, da un lato, rappresentano la «prima griglia di esplicazione» della clausola generale (Bussoletti, M. - De Biasi. P., Art. 2423 bis c.c., in Niccolini, G. - Stagno d’Alcontres, A., a cura di, Società di capitali. Commentario, Napoli, 2004, 990), dall’altro sono sovraordinati ai criteri valutativi delle attività e delle passività potendo perciò incidere sulla loro applicazione (ad esempio l’iscrizione degli oneri pluriennali di cui all’art. 2426, co. 1, n. 5 c.c. è subordinata ad una previsione della loro «recuperabilità» mediante gli utili degli esercizi successivi che necessariamente deve essere svolta in conformità al principio di prudenza).
Fermo restando che il legislatore non ha inteso stabilire un ordine gerarchico tra i principi generali di cui all’art. 2423 bis c.c. e che a tutti deve pertanto attribuirsi il medesimo rilievo, è opportuno, ai presenti fini, concentrare l’attenzione sui principi della valutazione nella prospettiva della continuazione dell’attività (cd. going concern) e della prudenza, che significativamente connotano la disciplina codicistica del bilancio d’esercizio.
Il principio della prospettiva della continuazione dell’attività esige che le valutazioni di bilancio siano effettuate nel presupposto del proseguimento dell’attività dell’impresa. Tale principio chiarisce, dunque, che dal bilancio devono risultare i valori cd. di funzionamento degli elementi patrimoniali iscritti, ossia il valore che i cespiti assumono in ragione della loro attitudine, quali parti del complesso aziendale, a contribuire alla produzione del reddito, essendo perciò irrilevante il loro valore di realizzo al momento della redazione del bilancio. Di conseguenza, là dove venga meno la prospettiva della continuazione dell’attività e sia probabile l’avvio della liquidazione, devono essere abbandonati i criteri di funzionamento (salva l’eventualità della continuazione dell’attività durante la fase liquidativa espressamente ammessa dall’art. 2490 c.c.) ed è necessario adottare i criteri propri dei bilanci di liquidazione (non definiti dal legislatore ma oggetto del principio contabile nazionale Oic 5), procedendo alla rettifica dei valori delle attività nonché all’eliminazione degli elementi patrimoniali la cui iscrizione non è compatibile con tali criteri valutativi. Secondo la tesi che appare preferibile, la disapplicazione del going concern non presuppone la formale messa in liquidazione della società, dovendo esso essere abbandonato antecedentemente a tale momento qualora, sulla base delle informazioni disponibili al momento dell’approvazione del progetto di bilancio, la liquidazione costituisca l’esito maggiormente probabile nel breve termine, alla luce di una valutazione complessiva dei profili patrimoniali, finanziari e gestionali della società.
Passando ad esaminare il principio di prudenza, è anzitutto da notare che esso assume una duplice valenza nel contesto della disciplina nazionale dei conti annuali: da un lato, esso rappresenta un canone di portata generale al quale devono conformarsi le scelte del redattore del bilancio circa la valutazione e l’iscrizione delle componenti patrimoniali e reddituali, come risulta evidente da talune disposizioni relative alle singole voci quali quelle concernenti l’iscrizione degli oneri pluriennali e dell’avviamento (art. 2426, co. 1, n. 2 e 5 c.c.), che chiaramente esigono da parte del redattore un apprezzamento prudenziale delle condizioni di iscrivibilità di tali attività. Dall’altro lato, il principio di prudenza costituisce la «sintesi concettuale di una serie di regole specifiche, miranti ad evitare che il bilancio esponesse utili stimati ma non realizzati e, rispettivamente, omettesse di rilevare perdite stimate (probabili)» (Colombo, G.E., Il bilancio d’esercizio, cit., 157). In questa seconda prospettiva il principio di prudenza si estrinseca principalmente nei (sotto)principi di realizzazione dell’utile e di dissimmetria, in forza dei quali gli utili sono rilevabili in bilancio soltanto se realizzati mentre le perdite devono essere considerate anche là dove soltanto probabili nonché nella scelta del costo storico quale criterio principale di valutazione.
È da precisare, infine, al fine di meglio definire la portata del principio di prudenza, che esso non impone, nel dubbio tra due valori, di scegliere il più basso: resta, infatti, che anche il principio di prudenza è pur sempre subordinato alla clausola generale e che pertanto esso non può dare luogo ad ingiustificate svalutazioni che possano condurre alla sottovalutazione del patrimonio sociale (Trib. Milano, 31.10.2007, in Dir. prat. soc., 2008, fasc. 18, 76).
Come si evince chiaramente dall’art. 2426 c.c., il costo storico costituisce il criterio di valutazione principale, utilizzabile pressoché per ogni categoria di attività; l’attribuzione di tale centrale rilievo al costo storico è riconducibile non soltanto alla sua oggettività e semplicità di applicazione ma altresì al fatto che il criterio del costo storico è funzionalmente coerente con i principi di prudenza e di realizzazione dell’utile giacché esso non consente l’emersione di utili non realizzati dal bilancio d’esercizio.
In relazione a talune categorie di attività l’art. 2426 c.c. affianca a quello del costo storico criteri di valutazione concorrenti ovvero alternativi. In primo luogo, i nn. 3 e 9 dell’art. 2426, co. 1, c.c. prevedono i criteri alternativi che trovano obbligatoria applicazione successivamente alla prima iscrizione del bene al costo storico: il valore contabile (coincidente inizialmente con il costo storico) deve essere ridotto sino a concorrenza del valore di utilizzo durevolmente inferiore nel caso delle immobilizzazioni materiali e immateriali ovvero sino a concorrenza del valore desumibile dall’andamento di mercato nel caso delle rimanenze nonché dei titoli e delle attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni. I nn. 8 e 11-bis del primo comma dell’art. 2423 c.c. prevedono poi criteri diversi dal costo storico che devono essere obbligatoriamente utilizzati per la valutazione di alcune categorie di attività: l’art. 2426, co. 1, n. 8, c.c. prescrive l’impiego del criterio del costo ammortizzato per la valutazione dei crediti, dei debiti e (nel caso in cui le caratteristiche del titolo lo consentano) dei titoli iscritti tra le immobilizzazioni; inoltre, il nuovo co. 1, n. 11-bis dell’art. 2426 c.c., introdotto dal d.lgs. 18.8.2015, n. 139 in recepimento della direttiva 2013/34/Ue, impone la valutazione al fair value degli strumenti finanziari derivati, rinviando per la “regolazione” di tale criterio valutativo ai principi contabili internazionali Ias/Ifrs (v. art. 2426, co. 2, c.c.).
Costituiscono, diversamente, criteri concorrenti, la cui adozione in luogo del costo storico è rimessa alla discrezionalità del redattore del bilancio, il metodo del patrimonio netto di cui all’art. 2426, co. 1, n. 4, c.c., utilizzabile per la valutazione delle partecipazioni “immobilizzate” in imprese controllate e collegate, nonché il metodo “della percentuale di completamento” o “dello stato di avanzamento” previsto per la valutazione dei lavori in corso su ordinazione. L’adozione di tali metodologie valutative concorrenti rientra in ogni caso nella discrezionalità degli amministratori e non può essere considerata obbligatoria neppure qualora il loro impiego consenta una migliore soddisfazione della clausola della rappresentazione veritiera e corretta.
Nel caso delle immobilizzazioni materiali e immateriali la cui utilizzazione è limitata nel tempo, il valore contabile del bene è assoggettato, ai sensi dell’art. 2426, co. 1, n. 2, c.c., ad ammortamento sistematico, sì da ridurlo progressivamente, sino ad azzerarlo al termine del periodo di ammortamento previsto. Ciò è coerente con il principio di competenza in quanto consente di ripartire il costo del bene lungo l’arco temporale di previsto utilizzo del bene: in assenza dell’ammortamento si fornirebbe una rappresentazione non corretta poiché il costo del bene graverebbe interamente sul risultato dell’esercizio nel corso del quale esso è acquisito mentre non concorrerebbe in alcun modo alla determinazione del risultato dei successi esercizi nei quali il bene è utilizzato.
Come già accennato, il valore di tutte le immobilizzazioni, incluse quelle non assoggettate ad ammortamento, può diminuire successivamente alla prima iscrizione, là dove siano rilevate riduzioni durevoli di valore ex art. 2426, co. 1, n. 3, c.c. ai sensi del quale, là dove il valore al termine dell’esercizio sia durevolmente (ossia in modo non transitorio ma tendenzialmente irreversibile) ridotto rispetto al valore contabile, il bene deve essere iscritto a tale minor valore. Secondo i principi contabili nazionali (v. Oic 9, par. 15) quest’ultimo coincide con il maggiore tra il suo valore d’uso e il suo valore equo (coincidente con «l’ammontare ottenibile dalla vendita di un’attività in una transazione ordinaria tra operatori di mercato alla data di valutazione»). La svalutazione in precedenza effettuata deve essere eliminata - salvo che nel caso dell’avviamento: v. art. 2426, co. 1, n. 3, c.c. - qualora ne siano venuti meno i presupposti: in tale eventualità il valore dell’immobilizzazione è ripristinato sino a concorrenza del valore contabile ante-svalutazione, in misura dunque non eccedente il costo storico.
Fonti normative
Artt. 2423 -2435-ter c.c.; d.lgs. 18.8.2015, n. 139; d.lgs. 28.2.2005, n. 38; d.lgs. 9.4.1991, n. 127.
Bibliografia essenziale
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