GHISILIERI, Bonaparte (Parte)
Nacque a Bologna intorno al 1290, ultimo dei quattro figli di Francesco di Jacopo e di Bartolomea, figlia di Francesco da Ignano.
Con il padre e i fratelli risiedette a lungo nella grande casa, consona al rango e al prestigio della famiglia, posta nella "cappella" di S. Prospero. Nel 1315 sposò Magdalucia, figlia di Jacopo Boattieri, ma non risulta che dal matrimonio siano nati figli. Nello stesso anno presentò la sua prima dichiarazione d'estimo, nella quale peraltro non figurava titolare di alcun bene. Pochi mesi dopo tale dichiarazione il G., a seguito di rinuncia del padre, entrò in possesso dell'eredità del nonno Jacopo. Quale fosse la consistenza dei beni ereditati non è detto, ma di un certo patrimonio il G. dovette comunque riuscire a disporre, dal momento che nel 1317 effettuò il pagamento di 80 lire a Romeo Pepoli per un debito del padre Francesco e l'anno successivo, con il padre e con il fratello Giovanni, risulta iscritto nelle liste dei cavalieri del Comune, in grado pertanto di prestare un servizio militare fortemente oneroso. Non restano invece tracce per questo periodo di sue attività in campo pubblico.
Nel 1319 il bando pronunciato contro il padre, accusato di essere stato il mandante dell'assassinio di Zeno Rovisi, appartenente alla fazione "popolare", e la contemporanea scomparsa del fratello Giovanni, lasciava il G. unico rappresentante della famiglia in città. La situazione che egli si trovò ad affrontare era indubbiamente molto difficile, poiché tutti i beni del padre erano stati confiscati e la grande casa di famiglia completamente distrutta. È probabile che proprio tale frangente abbia avuto un ruolo nelle successive decisioni del G., che troviamo schierato nelle file dei sostenitori del ricco banchiere Romeo Pepoli e del suo disegno di insignorirsi della città. Non è chiaro se il G. si sia allontanato da Bologna insieme con Romeo Pepoli nel luglio 1321, quando un tumulto, provocato dagli avversari del banchiere, ne causò la fuga dalla città o se lo abbia raggiunto successivamente. Di certo egli prese parte all'assalto contro porta Maggiore, condotto il 9 maggio 1322 dai partigiani del Pepoli fuorusciti con l'appoggio di un consistente nucleo di sostenitori rimasti a Bologna. L'assalto non riuscì e i partigiani del Pepoli che vi avevano preso parte, sfuggiti alla cattura, il 19 maggio successivo vennero posti al bando della città e colpiti dalle usuali pene: la decapitazione, se fossero stati catturati, la multa di 1000 lire, la confisca o la distruzione dei beni. Tra i sostenitori del Pepoli posti al bando figurava anche il G. ed è probabile che in seguito a ciò egli si sia riunito al padre Francesco, insieme con il quale egli venne riammesso in città da un decreto del 17 marzo 1328 del cardinale legato Bertrando del Poggetto. Il provvedimento di clemenza di quest'ultimo non fu peraltro sufficiente ad acquisirgli la riconoscenza e la dedizione del G., che partecipò in misura molto tiepida alle iniziative del legato negli anni successivi. Resta infatti memoria di due soli suoi interventi: nel luglio del 1321 fu gonfaloniere nell'esercito bolognese inviato contro Forlì e l'anno successivo fu uno dei dieci rappresentanti del quartiere di Porta Stiera che accompagnarono il legato nella sua spedizione in Romagna.
La sua posizione defilata era probabilmente frutto di un persistente legame con i Pepoli. Infatti soltanto dopo la cacciata del legato il G. assunse incarichi di rilievo negli organi di governo cittadini. Tali incarichi appaiono determinati o comunque connessi con una sua adesione alla fazione pepolesca. Nel 1334 venne eletto, unitamente ai capi delle due più potenti consorterie cittadine, Taddeo Pepoli e Brandaligi Gozzadini, e ad altri personaggi di spicco, a far parte di una ristretta Balia di 18 persone che avevano il compito di condurre, con la mediazione di Roberto d'Angiò, re di Napoli, trattative con il papa per riportare la città all'obbedienza della Chiesa, ricucendo lo strappo verificatosi con la cacciata del legato pontificio. La questione, di per sé molto difficile per la rigidità delle richieste del papa e le mire di re Roberto, era resa ancora più complicata dalle opposte ambiziose aspirazioni del Pepoli e del Gozzadini. Le trattative erano quindi destinate a protrarsi nel tempo e i Bolognesi nel marzo dell'anno successivo inviarono quattro ambasciatori, tra cui il G., ad Avignone per concordare direttamente con il papa i termini di un accordo che ponesse fine al contrasto.
L'ambasceria, che era composta in misura paritetica da partigiani del Pepoli e del Gozzadini - e già questo dovette intralciarne non poco l'attività - si trovò ad agire in Avignone alla presenza dello stesso cardinale Bertrando del Poggetto. Risultati concreti non potevano quindi essere conseguiti, né lo furono. Sembra peraltro che il prestigio dei quattro ambasciatori non ne venisse intaccato. Sempre nel 1335 il G. fu infatti eletto membro di una Balia incaricata di organizzare la difesa del territorio bolognese e l'anno successivo di un'altra Balia che doveva sovrintendere alla moralità dei cittadini.
L'acclamazione di Taddeo Pepoli a signore di Bologna il 28 ag. 1337 pose fine per il momento ai più esasperati contrasti interni e al sistema del ricorso a Balie straordinarie per la gestione degli affari più delicati del governo cittadino che il nuovo signore riservò a sé e ai suoi più fidati collaboratori. Il G. rimase estraneo a questo gruppo, ma non gli mancarono riconoscimenti e incarichi, anche se da ambienti esterni alla città. L'11 nov. 1337 fu creato cavaliere da Obizzo (III) d'Este e dallo stesso mese di novembre fino all'aprile del 1338 fu podestà a Perugia.
Al 22 ag. 1338 risale una testimonianza che apre uno squarcio su un aspetto privato e poco felice della vita del G.: la richiesta rivolta a Taddeo Pepoli da Dosio Guramonti di Ferrara e dalla figlia Jacopa, che il G. aveva sposato, in data non nota, essendo rimasto vedovo della prima moglie Magdalucia. Da tale richiesta risulta che il G. aveva dilapidato la dote della moglie e i ricorrenti chiedevano pertanto che il Pepoli assegnasse loro, in cambio dei beni dilapidati, altri beni del G., di pari valore. La richiesta venne accolta, ma non vennero specificati né l'ammontare della dote, né i beni che dovevano essere acquisiti in cambio. Il documento non specifica quali motivi avessero indotto il G. a dilapidare la dote della moglie, ma il fatto doveva essere incontestabile, dal momento che non risulta che egli abbia fatto opposizione alla richiesta.
La testimonianza è l'ultima che lo concerne. È quindi probabile che egli sia morto poco dopo.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Bologna, Comune-Governo, Riformagioni del Consiglio del Popolo, vol. XV, 2, cc. 48v-51; Riformagioni e provvigioni cartacee, s. I, reg. 42, cc. 13-19; s. II, reg. 6, c. 61; Curia del podestà, Giudici ad maleficia, Accusationes, b. 45/a, vol. IX, reg. 10, cc. 2 s.; Capitano del Popolo, Venticinquine, b. 17, regg. 7, 19; Ufficio dei riformatori degli estimi, s. II, b. 197 (a. 1315); Ufficio dei memoriali, voll. 89, c. 327; 90, c. 327; 130, cc. 322, 435; 133, c. 197; Studio Alidosi, b. 47; Corpus chronicorum Bononiensium, a cura di A. Sorbelli, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XVIII, I, t. 2, ad ind.; M. de Griffonibus, Memoriale historicum de rebus Bononiensium, a cura di L. Frati - A. Sorbelli, ibid., XVIII, 2, p. 46; C. Ghirardacci, Historia di vari successi d'Italia e particolarmente della città di Bologna, II, Bologna 1669, ad ind.; P.S. Dolfi, Cronologia delle famiglie nobili di Bologna, Bologna 1670, p. 356; M. Sarti - M. Fattorini, De claris Archigymnasii Bononiensis professoribus…, a cura di G. Albicini - C. Malagola, I, Bologna 1888, p. 290; V. Giorgetti, Podestà, capitani del Popolo e loro ufficiali a Perugia (1195-1500), Spoleto s.d., pp. 145 s.; M. Giansante, Patrimonio familiare e potere nel periodo tardo-comunale. Il progetto signorile di Romeo Pepoli, banchiere bolognese (1250 ca.-1322), Bologna 1991, p. 74.