Bruto e la nascita della Repubblica romana
La vicenda di Lucio Giunio Bruto e dei Tarquini è narrata in parecchie fonti antiche e, più ampiamente che altrove, in Dionigi d’Alicarnasso (Antichità romane IV lxv-V xviii) e in Livio (Storia di Roma I lvi-II vii), il quale anche in questo caso è stato il punto di riferimento principale di Machiavelli.
Un infausto prodigio fa sì che il re Tarquinio il Superbo decida di mandare i figli Tito e Arrunte a Delfi per consultarvi l’oracolo. Li accompagna ludibrium verius quam comes («più come zimbello che come compagno», I lvi 9) Bruto, che per proteggersi dall’ambiziosa crudeltà del re si finge pazzo. Dall’oracolo essi apprendono fra l’altro che il regno di Roma passerà a chi per primo bacerà la propria madre. Bruto, che intuisce il significato recondito del responso, simula una caduta e bacia la terra, madre di tutti i mortali. Dopo il ritorno dei tre in patria i Romani entrano in guerra contro i Rutuli e stringono d’assedio la città di Ardea. Nelle lunghe pause fra i combattimenti i giovani nobili si danno ai piaceri conviviali; fra di loro è Sesto Tarquinio, figlio minore del re. A un certo momento il colloquio tocca le virtù delle rispettive mogli. Ognuno esalta la propria, anche Tarquinio Collatino, stretto parente di Sesto, che proclama essere la sua Lucrezia la migliore di tutte e che propone ai compagni di tornare subito a casa per averne la riprova. Lì sorprendono le nuore del re a oziare con le compagne tra i piaceri del banchetto, mentre Lucrezia risulta intenta a filare la lana, circondata dalle ancelle. È lei chiaramente la più virtuosa di tutte, ma la sua bellezza e castità destano la concupiscenza di Sesto Tarquinio. Pochi giorni dopo egli torna in segreto da lei, la sorprende nel sonno e con la spada in pugno la costringe a subire le sue voglie. Appena lo stupratore si è allontanato, Lucrezia avverte i suoi cari, che stanno al campo con l’esercito. Il padre Spurio Lucrezio accorre con Publio Valerio, il marito Tarquinio Collatino con Bruto. Lucrezia narra loro quel che è accaduto, chiede di vendicare il proprio onore e poi si trafigge con un coltello. Estraen dolo dal suo corpo, Bruto giura di combattere tutta la famiglia reale e di non permettere mai più una tirannide a Roma. I suoi compagni, pur stupiti del suo improvviso mutamento d’animo, giurano con lui. Bruto solleva il popolo e l’esercito contro il re, che è infine costretto all’esilio; vengono cacciati anche i suoi figli: Sesto, in particolare, trova la morte. Il potere passa nelle mani dei primi due consoli, nelle persone di Bruto e Tarquinio Collatino, ma presto quest’ultimo cade in disgrazia perché il solo suo nome ricorda al popolo gli odiati tiranni. Bruto gli chiede di dimettersi, incontrando larghi consensi: Collatino acconsente e lascia la città. Bruto propone poi di proscrivere tutta la gens Tarquinia, e al posto di Collatino fa eleggere console Publio Valerio.
Alcuni giovani romani, ex compagni dei giovani Tarquini esiliati, si lamentano però dei rivolgimenti recenti che, se a molti hanno portato libertà, a loro invece schiavitù. Mentre il re era con loro largo di favori, le leggi «sorde e inesorabili» (II iii 4) a cui sono ora soggetti li degradano a cittadini qualunque. Intanto i Tarquini mandano dei messi in città per chiedere la restituzione dei beni che vi hanno lasciati. I messi tramano in segreto per preparare il ritorno del re, sondando anche gli animi dei giovani nobili scontenti. Fra di loro sono Tito e Tiberio, i due figli di Bruto, che si lasciano coinvolgere nel complotto. Ma un servo li denuncia ai consoli, che fanno arrestare i traditori e danno da saccheggiare alla plebe i beni dei Tarquini, affinché si renda impossibile fra questa e quelli ogni rappacificazione. I congiurati, compresi i figli di Bruto, vengono condannati e giustiziati; Bruto assiste all’esecuzione, con il volto che tradisce le sue sofferenze di padre.
Intanto Tarquinio il Superbo cerca aiuto militare in Etruria e riesce a convincere i Veienti e i Tarquiniesi a marciare contro Roma. La cavalleria etrusca, comandata da Arrunte, figlio di Tarquinio, si scontra con quella romana, comandata da Bruto. I due s’affrontano in duello e trovano entrambi la morte. Dopo alterne vicende, Veienti e Tarquiniesi si ritirano. I Romani rimangono vincitori; Bruto riceve funerali solenni.
Assai difficile da determinare, come sempre in simili casi, è il grado di storicità della vicenda, per non pochi versi affine a quella successiva di Appio Claudio (→ Appio Claudio e il decemvirato romano) e dei decemviri. Alla delineazione del carattere e delle imprese del protagonista avranno in ogni caso contribuito generazioni successive della sua stirpe, che in lui videro il loro auctor nobilitatis. La vicenda come tale, inoltre, è esemplata in non pochi luoghi su modelli greci e greco-ellenistici, e subì certo elaborazioni tardorepubblicane, pur difficili da definire. Ai tempi di Livio essa era considerata molto attuale: nell’eroismo liberatorio del primo Bruto si specchiava infatti quello di Marco Giunio Bruto e degli altri cesaricidi (per lo sfondo storico-letterario, cfr. Ogilvie 1965, pp. 216 e segg.; Mastrocinque 1988). Infine, va notato che la versione liviana contiene alcune patenti incongruenze, probabile residuo di una complicata evoluzione narrativa: così la finta (ma da tutti ritenuta vera: cfr. I lix 2) pazzia di Bruto non gli impedisce di ricoprire l’alto ufficio di tribunus celerum (I lix 7), e le forzate dimissioni di Tarquinio Collatino, colpevole solo di appartenere alla gens Tarquinia e di portarne il nome, ignorano il fatto che a tale gens apparteneva a pieno titolo anche lo stesso Bruto, figlio di una sorella di Tarquinio il Superbo (I lvi 7).
Unica opera machiavelliana che ne parli, i Discorsi ospitano la vicenda anzitutto in due capitoli di grande importanza (I xvi-xvii), che a essa sembrano in buona parte ispirati. In essi, M. sottolinea che un popolo asservito che conquista la libertà la riperde quasi sempre, sia perché non sa come consolidarla e metterla a frutto sia perché pochi sono solitamente i difensori convinti del nuovo ordine, e molti invece i suoi nemici giurati, in particolare tra coloro che erano stati beneficiati dal vecchio regime. Se ciononostante Roma dopo la cacciata dei re rimase libera, lo si dovette anzitutto a una circostanza fortuita (infetto in quel momento era solo il capo dell’organismo statale, ancora fondamentalmente sane le sue membra) e poi a un drastico, ma salutare intervento del nuovo regime, il quale sfruttò la prima occasione che si presentava per eliminare «i figliuoli di Bruto», cioè i sostenitori della monarchia. Va osservato inoltre che buona parte del capitolo xvi è volta a illustrare la necessità dell’eliminazione dei «figliuoli di Bruto» anche nel caso di un rivolgimento in direzione monarchica o tirannica.
Al tema si torna poi, con un mutamento parziale di prospettiva, all’inizio del libro III, dove M. si propone di descrivere le imprese di una serie di protagonisti della storia romana, a cominciare da Bruto, «padre della romana libertà» (III i 42, da Livio VIII xxxiv 3). Seguono quattro brevi capitoli, il cui tema è sempre annunciato alla fine del capitolo precedente. Essi riguardano del resto solo parzialmente la stessa figura di Bruto; M. rinuncia a rievocare per esteso gli avvenimenti di cui questi, mescolando abilmente frode e forza, fu protagonista, e passa subito a illuminarne alcuni particolari degni di nota.
Il cap. ii del III libro è dedicato alla finta pazzia di Bruto. Esso consiste di due parti: nella prima (§§ 2-4) è brevemente enunciato e interpretato il fatto come tale; nella seconda (§§ 5-12) si discutono gli insegnamenti che se ne possono trarre. Le altissime lodi con cui comincia la prima parte («Non fu alcuno mai tanto prudente») sono certo propiziate dal pensiero dell’«alto effetto» che dantescamente «uscir dovea di lui». Ma, come ricordano i migliori commenti, il § 3 rende giustizia solo in parte a ciò che si legge in Livio. Anzitutto, M. afferma che Bruto si finse pazzo per «potere più sicuramente vivere e mantenere il patrimonio suo»; in realtà Bruto, per proteggersi dall’aggressiva cupidità del re, aveva rinunciato a tutti i suoi averi (Livio I lvi 7-8). Diversamente da quanto M. afferma, inoltre, Livio attribuisce la finta stoltezza di Bruto, oltre che al desiderio di salvaguardare la propria persona, a mire prettamente politiche: Bruti quoque haud abnuit cognomen ut sub eius obtentu cognominis liberator ille populi Romani animus latens opperiretur tempora sua («egli non rifiutò il soprannome di Bruto, affinché sotto la copertura di quel nome il suo coraggio, che avrebbe poi liberato il popolo romano, potesse attendere il momento propizio», I lvi 8). Va osservato poi che la regola generale formulata nel titolo del capitolo è documentata, come spesso in M., con un solo esempio. Si rinuncia dunque a menzionare altri noti casi di finta pazzia, come quelli di David (primo libro di Samuele, 21, 11-16), Solone (Plutarco, Solone VIII 1-3; Cicerone, De officiis I xxx 108) e Ulisse (Cicerone, De officiis III xxvi-xxvii 97-98).
Nella seconda parte del capitolo oggi si tende a vedere da più parti un riferimento alla situazione fiorentina dopo il ritorno dei Medici, e nella raccomandazione con cui si conclude («Conviene adunque fare il pazzo, come Bruto») un’allusione manifestamente autobiografica (Discorsi, premessa a testo e note di G. Inglese, 1984, p. 582 nota 11; Opere, a cura di R. Rinaldi, 1999, p. 962 nota 52): si deve tuttavia tener conto del fatto che Bruto simulò una pazzia reale, laddove quella raccomandata da M. consiste nell’assecondare «i gusti del principe, al fine di conquistare la sua amicizia e la sua confidenza, e di procurarsi in tal modo un’occasione propizia per abbatterlo» (Marietti 1981, p. 149), e inoltre considerare che «l’operazione tentata [da M.] nel 1513-15 con Lorenzo de’ Medici era stata ben altro che una simulazione di pazzia» (Discorsi, cit.). Questa parte sfocia infine in una tesi che avrebbe forse meritato trattazione più ampia: quella dell’impossibilità del disimpegno politico per tutti coloro che, avendo «qualità», vogliano tutelare la propria persona e i propri averi. È tesi qui riferita esplicitamente solo all’ambito monarchico, ma certamente estensibile anche a quello repubblicano.
Per l’accenno al parere di chi nei rapporti con i principi privilegia la «via del mezzo» (§ 8) si è giustamente ricordato il parere analogo espresso in Francesco Guicciardini, Ricordi C 100 (Discorsi, a cura di F. Bausi, 2001, p. 538 nota 20). Ma qui è da tener presente anche un detto antico attribuito ad Antistene, poi accolto da Giovanni Stobeo tra i suoi Apophtegmata. Nella versione latina che Guarino (o Varino) di Favera (o Favorino), confidente dei Medici, e soprattutto di Giovanni (Leone X), ne pubblicò a Roma nel novembre 1517, con dedica allo stesso Leone, esso suona come segue:
Antisthenes interrogatus, quonam modo ad rem publicam accedendum esset, dixit: “quemadmodum ad ignem: neque nimis prope ne comburaris, neque nimis procul ne frigeas”
Antistene, interrogato in che modo ci si dovesse avvicinare al potere politico, disse: “come al fuoco: non bisogna accostarvisi troppo per non scottarsi, né restarne troppo lontano per non patir freddo”.
Il cap. iii rivendica, per il consolidamento di una libertà (ri)conquistata, la necessità di uccidere «i figliuoli di Bruto». È, come si è visto e come lo stesso M. non manca di ricordare, tesi già ampiamente discussa nei capp. xvi-xvii del I libro, riguardo alla quale non si forniscono qui ulteriori considerazioni o particolari. Essa sembra perciò qui ripresa principalmente per poter ridiscutere (cfr. infatti già I lii) il caso tutto domestico e contemporaneo di Piero Soderini, conferma negativa di una regola che Bruto incarna positivamente. A Piero sono ampiamente riconosciuti integrità personale, prudenza politica e un profondo senso dell’alto ufficio che con lui era nato e che si sentì in dovere di difendere. Ma tali pregi per M. furono infine vanificati da una fede ingenua e inopportuna nella bontà e nella ragionevolezza umana, e da una incapacità psicologica di agire in contrasto con l’ordine costituzionale vigente, per amore di un bene politico di ordine superiore. A tali difetti, e a essi soli, è attribuita infine la caduta di Piero (§ 13): i rivolgimenti politici nazionali ed europei che in buona parte la determinarono sono lasciati completamente in ombra.
In margine a questo accostamento va però osservato che Bruto con il suo operato restava dentro i limiti dell’ordine repubblicano che rappresentava, mentre a Piero, che scelse di fare lo stesso, si rimprovera qui di non averlo voluto o saputo infrangere, di non aver cercato di trasformare il potere ‘civile’ che di comune accordo gli era stato affidato (e che da M. è ritenuto chiaramente insufficiente a risolvere la cronica debolezza politica della città) in un potere più forte e più personale, che indubbiamente avrebbe incontrato un’opposizione feroce. È certo possibile che M. pensasse qui a un’infrazione che rispettasse l’ordine repubblicano come tale («qui non è questione di principato; è, invece, questione di repubblica»: Sasso 1988, p. 90). Ma il ricorso alla forza, si sa, è per definizione pieno di incognite e può portare il suo autore dove mai avrebbe creduto di arrivare. Va notato poi che il sospirato colpo di mano a fin di bene è qui giustificato, oltre che con la sua stessa supposta necessità, con una fiducia a dire il vero alquanto gratuita, e comunque non ulteriormente documentata, sia nella sua buona riuscita sia (par di capire) nella possibilità di poter poi a risultati raggiunti tornare senza grandi scosse a un’esercitazione di potere più condivisa e ‘civile’ (§ 11).
Nel cap. iv si ripete, in riferimento alla monarchia, la tesi enunciata nel capitolo precedente in riferimento alla repubblica. All’attenzione sono ora le complicate vicende dinastiche degli ultimi tre re di Roma (Livio I xxxiv-xlviii) che precedettero la vicenda di Bruto (qui già uscito di scena) e che anch’esse si presuppongono sostanzialmente note. Per M., la morte violenta di Tarquinio Prisco, a opera dei figli del suo predecessore Anco Marzio, e quella di Servio Tullio, a opera di Lucio Tarquinio detto poi il Superbo (morti ‘causate’ dai figli di Anco e da Lucio Tarquinio perché questo e quelli furono i mandanti, non gli esecutori materiali dell’assassinio), furono favorite da un’eccessiva fiducia rispettivamente nella legittimità del proprio potere (Tarquinio Prisco) e nella possibilità di ingraziarsi dei rivali sconfitti (Servio Tullio). Ma leggi e favori non poterono infine nulla contro l’ambizione frustrata di coloro che si videro scavalcati e che i due regnanti, per mettersi al sicuro, avrebbero dovuto eliminare (§§ 1, 9). Insomma, Tarquinio Prisco avrebbe dovuto uccidere i due figli che il suo predecessore (Anco Marzio) aveva affidato alla sua tutela (Livio I xxxiv 12), e Servio Tullio, l’ultimo dei sovrani giusti e legittimi (Livio I xlviii 8), avrebbe dovuto eliminare i figli del re (Tarquinio Prisco) che lo aveva adottato, educato, dato come marito a una figlia e preferito al suo stesso sangue quale successore, e della regina (Tanaquil, moglie di Tarquinio Prisco) che dopo l’assassinio del marito lo aveva aiutato a salire sul trono. Ambedue avrebbero dunque dovuto compiere, per mera sete di dominio, un gesto non solo chiaramente «istraordinario e odioso» (III v 3), ma almeno nel caso di Servio Tullio, a cui la qualifica di usurpatore (§ 9) sta un po’ stretta, di estrema ingratitudine. Senza poi dire che ciò, nel caso di Servio, non sarebbe forse neppur bastato: perché come Livio dice e M. ripete (§ 8), il suo potere fu minato, oltre che dal genero Lucio Tarquinio, dalla sua stessa figlia che «stimava più essere regina che figliuola di re». Ma di tutto ciò M. qui non si cura. A lui preme, al di là di ogni considerazione di ordine morale o giuridico, e senza uscire qui dall’orbita della storia più antica di Roma, sottolineare ancora una volta la validità universale della regola già formulata nel capitolo precedente; il che implica dunque l’estensione ai figli di Anco Marzio e di Tarquinio Prisco del principio già enunciato riguardo a quelli di Bruto.
Il cap. v, infine, si sofferma sulla causa della caduta di Tarquinio il Superbo che, dopo l’assassinio di Servio Tullio, di cui non si ricordano figli maschi, era rimasto senza rivali diretti. A dispetto del fatto che la sua presa del potere mancasse di ogni base giuridica e poggiasse solo sull’uso della forza (egli s’affrettò fra l’altro a far uccidere quelli che per lui erano i «figliuoli di Bruto», cioè i più importanti senatori che si erano schierati col suo predecessore: Livio I xlix 3), M. considera Tarquinio una specie di principe ereditario che avrebbe potuto consolidare il proprio potere se solo avesse osservato «gli antichi ordini delli altri re» (§ 3). Ma egli fece il contrario, alienandosi senato e popolo, governando in modo del tutto autocratico e perseverando nelle «crudeltà»; in tal modo si addossò l’odio universale, destinato a trasformarsi in aperta ribellione alla prima occasione propizia. L’occasione venne in modo del tutto casuale con lo stupro e con il suicidio di Lucrezia, e fu abilmente sfruttata da Bruto, col che la fine del potere del re e della monarchia fu segnata. All’antico principe ‘cattivo’, Tarquinio, sono poi contrapposti (in linea, per es., con Discorsi I x) due antichi principi ‘buoni’ nelle persone di Timoleone di Corinto e Arato di Sicione, il cui ritratto positivo trova del resto solo parzialmente giustificazione nelle fonti; esempi positivi moderni non sono dati. Mancano ulteriori riferimenti a Bruto, se si eccettua un breve cenno al tradimento dei figli di Bruto e alla loro delazione in III vi 62 (ma Livio, II iv 4-6, non dice che fossero proprio loro a essere «intesi da uno servo»).
Tra le numerose assonanze concettuali con altri luoghi dell’opera di M., meritano di essere segnalate alcune pagine del Principe: per esempio quelle in cui si discutono la relativa facilità di consolidare il potere ereditario (cap. ii); la necessità di estirpare ogni traccia di un regime spodestato (v, vii); le conseguenze nefaste della crudeltà male usata (viii); la necessità per un principe di conquistare e conservare il favore popolare (ix); l’opportunità o meno del passaggio dal potere ‘civile’ al potere assoluto (ix); la necessità, per chi regna, di tener conto dell’inestirpabile cattiveria umana, di far uso della simulazione, nonché di rendersi conto che le sue azioni saranno giudicate «dal fine», e di regolarsi di conseguenza (xviii). In III iv 4, infine, riecheggia, applicata a Servio Tullio, la notissima massima di Principe vii 48: «chi crede che ne’ personaggi grandi e’ benifizi nuovi faccino sdimenticare le iniurie vecchie, s’inganna».
Bibliografia: Fonti ed edizioni critiche: N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, introduzione di G. Sasso, premessa a testo e note di G. Inglese, Milano 1984; N. Machiavelli, Opere, a cura di R. Rinaldi, 1° vol., Torino 1999; N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di F. Bausi, Roma 2001.
Per gli studi critici si vedano: R.M. Ogilvie, A commentary on Livy: books 1-5, Oxford 1965 (in partic. pp. 213-52); C. Lefort, Le travail de l’oeuvre. Machiavel, Lille 1973, pp. 606-17; M. Marietti, Folie simulée et tyrannicide: réflexions sur un chapitre de Machiavel (Discours III II), in Visages de la folie (1500-1650), éd. A. Redondo, A. Rochon, Paris 1981, pp. 147-53; G. Sasso, Machiavelli, Cesare Borgia, don Micheletto e la questione della milizia, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 57-117, in partic. pp. 82-91; A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto. Ricerche di storia, religione e diritto sulle origini della repubblica romana, Trento 1988.