Luca Cagnazzi de Samuele
Questo economista pone un problema storico rilevante: in che senso possiamo considerarlo un economista di transizione? E dunque più in generale: con quali tempi e caratteri ebbe luogo in Italia la transizione dal pensiero economico settecentesco alla nuova scienza economica liberale? A fermarsi all’articolazione formale del manuale di economia di Cagnazzi, che sembra ricalcata sulla tripartizione del Traité d’économie politique di Jean-Baptiste Say; o all’immagine di lui venerato Nestore non solo degli statistici ma anche degli economisti liberali italiani (voluto da questi ultimi alla presidenza del Congresso degli scienziati italiani a Napoli nel 1845, e poi ancora del Parlamento napoletano violentato dal re Borbone nell’epica giornata del 15 maggio 1848), la transizione sembrerebbe felicemente compiuta nella sua persona. In realtà, come vedremo, le cose non stavano precisamente così.
Era nato ad Altamura, nella Murgia alta di Terra di Bari, il 28 ottobre 1764, da Ippolito e da Livia Nesti, esponenti della nobiltà provinciale (il secondo cognome de Samuele era rivendicazione di un’ascendenza da antica famiglia nobile macedone). Per la morte prematura del padre, la sua educazione fu presa in carico dall’amico paterno e ministro del Regno, marchese Carlo De Marco: prima al Collegio di Bari, dove trovava tra i professori il matematico ed economista Nicola Fiorentino, e poi in un primo soggiorno a Napoli dove, insoddisfatto dei corsi giuridici, correva a seguire quelli di scienze naturali. Infatti, questa prima fase della formazione avvenne tutta a contatto con gli esponenti di quel naturalismo, un po’ tendenza scientifica e un po’ passione civile, caratteristico della migliore cultura pugliese del secondo Settecento: il suo professore di fisica ad Altamura Giuseppe Carlucci, Giuseppe Maria Giovene, Ferrante de Gemmis, mercé la cui amicizia il giovane Cagnazzi riuscì a farsi istituire nel 1787 una cattedra di matematica da ricoprire nella episodica Università di Altamura. Dove sarà nominato nel 1794 professore di «Fisica e Metafisica, e moderatore». Altra nomina, a canonico poi primicerio poi arcidiacono nella locale cattedrale.
Ma l’orizzonte gli si allargava da un lato con la conoscenza del noto geologo e mineralogista padovano Alberto Fortis, dal 1783 nel Mezzogiorno e in particolare in Puglia alla scoperta del nitro naturale, una vicenda questa non meramente scientifica ma pregna d’impegno civile e riformatore; dall’altro con il secondo soggiorno napoletano. Qui si aprì, al seguito di Francesco Conforti, al primo studio dei classici del pensiero giusnaturalistico e in parte economico, si laureò in legge nel 1790, affidò alla Reale Accademia delle scienze di cui divenne socio il primo scritto matematico sulle curve parallele, cominciò a inviare, fra l’altro, al «Giornale letterario di Napoli», (continuazione dell’«Analisi ragionata de’ libri nuovi» che aveva contribuito a fondare; cfr. Di Battista 1983, pp. 49-50), quelle «osservazioni meteorologiche» compiute nel piccolo osservatorio domestico che s’era impiantato in casa a imitazione dei suoi amici naturalisti pugliesi. E per i ministri Ferdinando Corradini e John Acton compilò nel 1797-1798 i primi lavori statistici a fini militari.
Con lo scoppio della rivoluzione del 1799, «trovossi nel vortice senza pensiero», per dirla con l’amico Vitangelo Bisceglia: portato alla carica di segretario della municipalità, poi a quella di commissario del cantone di Altamura, non poteva che patire i colpi della successiva reazione borbonica. Costretto a peregrinare per varie città dell’Italia settentrionale, si fermò a Firenze, dove entrò in contatto duraturo con l’ambiente culturale toscano più significativo, quello dei Georgofili, approcciò alcune prime fonti di pensiero economico innovativo, e ottenne nel marzo del 1801 la cattedra di «Pubblica economia». Nel dicembre, rientrò nel Regno borbonico, nella sua Altamura.
L’arrivo dei francesi a Napoli era destinato a segnare la svolta della raggiunta maturità da parte di Cagnazzi come intellettuale riformatore settecentesco, come uomo di governo, e poi anche come economista. Il suo incontro con il nuovo ministro degli Interni, François-André Miot, da lui già conosciuto a Firenze, fu decisivo. Come ci narra lui stesso nell’autobiografia, non sempre attendibile ma in questo caso assai rispondente (La mia vita, a cura di A. Cutolo, 1944, pp. 64-66), incontrò il ministro nel maggio del 1806, ricevendone la proposta di trasferirsi nella capitale non solo a ricoprirvi la cattedra d’economia ch’era stata di Antonio Genovesi, ma ad avviare il suo inserimento nell’alta amministrazione incaricandolo «di fare un progetto di una Società economica, cioè tendente al vantaggio e floridezza nazionale». E sarà la nascita del centrale Istituto d’incoraggiamento alle scienze naturali (poi anche «economiche e tecnologiche»), con le provinciali Società di agricoltura, poi economiche, create come sue diramazioni nel quadro della riorganizzazione dell’amministrazione periferica operata dal nuovo regime.
È dunque dal primo scritto economico importante di Cagnazzi, il Progetto di una Società nazionale detta del ben pubblico, che potrebbe stabilirsi in questo Regno sotto i felici auspici di Giuseppe Napoleone I (in parte pubblicato, v. Ricchioni 1942, pp. 40-44), come dal contributo di altri fondatori del calibro di Melchiorre Delfico e di Vincenzo Cuoco, e in genere dalla grande cultura economica riformatrice genovesiana, che scaturì l’ideologia interventistica propulsiva dello sviluppo economico tipica dell’Incoraggiamento napoletano. Era una svolta anche per la direzione di ricerca di Cagnazzi, che dalla storia naturale passava all’economia, ponendo la vecchia passione naturalistica all’effettivo servizio dello Stato (La mia vita, cit., p. 65; cfr. anche la sua memoria che inaugurava gli atti dell’Istituto: Del vantaggio che si può ricavare dalle osservazioni meteorologiche, 1807).
Nell’ottobre del 1806, era nominato «professore di prima classe» di una cattedra che, con lui e per lui, cambierà significativamente denominazione, divenendo di «Statistica ed Economia». L’inserimento formale nell’amministrazione sarà invece successivo: il nuovo ministro degli Interni Giuseppe Zurlo lo nominerà ai primi del 1810 capo del 2° burò (commercio e statistica), e poi anche del 1° (agricoltura), della 3a divisione dell’Interno; nel 1813, capo dell’intera Divisione. In virtù della politica dell’amalgama che caratterizzò la Restaurazione a Napoli, continuò nei suoi incarichi anche dopo il 1815.
Ciò che va sottolineato è che l’insegnamento universitario, la maturazione definitiva come economista e il ruolo crescente nell’alta amministrazione andranno di pari passo. Pubblicò, infatti, in questo suo miglior periodo le opere maggiori: il manuale di statistica nel 1808-1809, quello di economia nel 1813, e il primo volume del saggio sulla popolazione nel 1819. Contemporaneamente, fu l’anima della prima grande statistica del Regno meridionale, quella del 1811: se si confrontano gli scopi, il metodo, le suddivisioni e i questionari adoperati nel corso della sua laboriosa redazione, dichiarata ultimata solo nel 1819, si nota un parallelismo impressionante con i contenuti già presenti nel suo manuale.
L’impegno nella politica economica del governo murattiano si dispiegò a piene mani, fra l’altro come membro della Giunta delle arti manifatture ed industrie. Collaborò con il ministro delle Finanze Pierre Louis Roederer al riordino dell’imposta fondiaria preparandogli due memorie sull’andamento secolare dei prezzi delle derrate e dei valori delle proprietà (pubblicate da Romano 1976, pp. 253-64). Prese parte alle molte decisioni in materia di commercio estero volte a fronteggiare il blocco continentale, che implicarono anche lo scontro grave con Parigi, in cui fu coinvolto personalmente.
Gli avvenimenti del 1820-21 posero sostanzialmente fine alla sua vita attiva, anche se non a quella scientifica, che comunque ne risentì divenendo meno felice e genuina, come se la sua stagione fosse ormai passata. Pur non coinvolto direttamente, fu accusato violentemente da Antonio Capece Minutolo principe di Canosa di essere massone, «murattista» e carbonaro; si difese di fronte alle Giunte di scrutinio, ma dovette lasciare per sempre l’amministrazione. Dalla cattedra fu destituito nell’ottobre 1821: tenterà inutilmente di esservi reintegrato nel 1843, e cioè alla morte del titolare borbonico, e ancora nel 1848. Sperò anche, come tutti, in un nuovo riformismo all’avvento di Ferdinando II, partecipando anche lui in qualche misura a quell’ottimismo sulle prospettive del Regno, e all’effimera effervescenza economico-finanziaria dei primi anni Trenta, fra l’altro spendendosi invano per la Banca del Tavoliere.
Dall’isolamento lo trassero i giovani economisti liberali forieri di una nuova stagione di cultura politica ed economica, quella risorgimentale, che non poteva però essere davvero ancora quella di un Cagnazzi. Lo spinsero a collaborare alla rivista «Il Progresso», a partecipare ai Congressi degli scienziati (a quello di Firenze del 1841 presentò il suo tonografo, per la misura delle vibrazioni dei suoni). Uno di quei giovani liberali, Pasquale Stanislao Mancini, poteva addirittura indicare con orgoglio a Richard Cobden alfiere del free trade, nella tappa napoletana del suo viaggio trionfale del 1847, in occasione della presentazione di Cobden alla Reggia Accademica delle scienze di Napoli, nel
canuto capo del Cagnazzi il prezioso deposito delle più ortodosse dottrine della scienza economica, nelle quali egli stesso, oggi Nestore de’ viventi economisti italiani, altra volta dalla cattedra medesima del Genovesi ammaestrò (in «Biblioteca di scienze morali, legislative ed economiche», 1847, p. 56).
Deputato di Bari al Parlamento rivoluzionario del 1948, presidente della Commissione Pubblica Istruzione, dell’assemblea il 15 maggio, firmatario del documento di protesta stilato da Mancini, non poteva non finire vittima della nuova reazione borbonica. Dopo una breve fuga a Livorno, stanco e malato rientrò graziato, sottoponendosi a processo. Morì a Napoli il 26 settembre 1852.
La maturazione scientifica di Cagnazzi ha luogo parallelamente al progressivo inserimento nell’alta amministrazione murattiana. La sua enfasi sul ruolo ampio e indispensabile della statistica come «parte sperimentale» dell’economia politica capace di farla uscire dalle secche dei «sistemi» lo accomuna a Cuoco e a diversi altri eredi di Genovesi nel periodo, ma in lui rimarrà una costante anche in seguito (Cenno sulla statistica, 1832). Se l’economia insegna «l’arte di formare e di far uso delle ricchezze», tendendo così «direttamente al nostro benessere», ha bisogno da un lato delle scienze naturali, dall’altro della statistica. Questa è scienza meno universalizzante, meno astratta, capace di tenere maggior conto della «varietà delle circostanze naturali, politiche e morali» dei diversi popoli; in tal senso è «l’anatomia e fisiologia del corpo politico». Se l’economia è rivolta a soddisfare i bisogni delle popolazioni «coll’aumento delle produzioni materiali mediante l’industria», rischia senza la statistica di non raggiungere il suo scopo, perché
un aggregato di massime economiche e politiche non è che una scienza imperfetta di governo, come l’empirismo che è un elenco di mali e rimedi, senza analisi delle circostanze del corpo infermo e dell’azione degli agenti.
Ma c’è di più: un governo «saggio» ha bisogno di conoscere il «quadro statistico delle sue forze […] per bilanciarle con quelle delle altre nazioni». (Elementi dell’arte statistica. Parte prima, 1808, pp. 8-9, 28).
Lo stretto legame tra economia e statistica motivava dunque Cagnazzi nell’azione di governo come nell’insegnamento:
chiamato ad insegnare Economia politica in questa R. Università degli studi, persuaso della utilità della Statistica, occuparmi volli anche a dettare gli Elementi dell’arte statistica, e fui il primo in Italia a tale insegnamento (Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia [...]. Parte seconda, 1839, p. 9).
Il manuale di statistica nasceva «per essere parte della pubblica istruzione di Economia dal governo affidatami» (Elementi dell’arte statistica. Parte prima, 1808, p. 16).
Rivolgendosi molti anni dopo al liberale Matteo De Augustinis, Cagnazzi plaudirà all’apertura da parte sua di «una istituzione privata di Economia sociale, sussidiata dalla Statistica» (Al sig. d. Matteo d’Augustinis, socio dell’Accademia Pontaniana, 1838, p. 151). In realtà, i nuovi economisti liberali stavano andando, sulla scorta di Say e non solo, in tutt’altra direzione. Invece lo stretto legame tra le due scienze, in realtà concepite da Cagnazzi come due parti, una «diagnostica» (la statistica) e l’altra «precettiva» (l’economia), di una stessa «scienza del governo politico, che il ben essere generale risguarda», non faceva che sviluppare l’idea della statistica come ancella del legislatore benthamiano, da noi genovesiano. A un’economia normativa e interventista, il cui sfondo operativo non è ancora il mercato ma il «corpo politico» dello Stato, la statistica era destinata a fornire basi solide. Quest’immagine unitaria, per molti versi derivata dalla tradizione genovesiana, doveva risultare scompaginata dagli sviluppi in direzione della rispettiva autonomia scientifica realizzati lungo il corso dell’Ottocento sia dall’economia, che si faceva analisi delle leggi di mercato, sia dalla stessa statistica, che abbandonava l’empirismo approfondendo le metodologie.
L’idea di «ben essere», versione ottocentesca rivista e ammodernata della «pubblica felicità» settecentesca, riveste in Cagnazzi un’importanza particolare. Non è apparentabile certo al reazionario «ben vivere sociale» di un Lodovico Bianchini, ma neppure all’«incivilimento» di Gian Domenico Romagnosi, o all’«ideologia sociale» di Carlo Cattaneo: esprimeva però anch’essa, in una certa temperie culturale di primo Ottocento, la cautela moderata della «scuola italiana» di fronte al restringimento del campo dell’economia politica a «scienza delle materiali ricchezze», invece di «considerarsi come l’aggregato di tutte le cognizioni utili, che più da vicino il bene dell’umanità risguardano» (Elementi dell’arte statistica. Parte prima, 1808, p. 6).
La successiva definizione maturata da Cagnazzi chiariva tutte le sue implicazioni etiche:
il benessere economico di una nazione consiste nel libero e retto uso di sufficienti ricchezze, onde chiunque non concorre alla formazione delle ricchezze, o impedisce il libero uso di queste al legittimo possessore, o promuove l’abuso delle medesime, è indegno di vivere in società (Elementi di economia politica, 1813, p. 343).
È nella loro relazione con il benessere che si qualificano l’utilità, nel senso che l’economia si fa «sociale o politica, se all’utilità sociale si dirige» (Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia [...]. Parte seconda, 1839, p. 208); la libertà economica (Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia [...]. Parte prima, 1820, pp. 75-79); l’«industria», distinta rispetto al mero «travaglio» (Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia [...]. Parte seconda, 1839, p. 207); l’ordine pubblico (Elementi dell’arte statistica. Parte seconda, 1809, pp. 13-14) o meglio l’«ordine sociale» (Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia [...]. Parte prima, 1820, pp. 47-48); lo «spirito pubblico» (Elementi di economia politica, 1813, p. 443).
La lezione smithiana sulla centralità del lavoro (affiancato alla terra) come sorgente della ricchezza, sulla divisione del lavoro e sul lavoro produttivo e improduttivo, rimane sostanzialmente acquisita in Cagnazzi. Ma pur riservando al sistema fisiocratico le sue critiche ricorrenti, non si riconosce in alcun «sistema» di una scienza come l’economia che non gli sembra (a differenza di quanto penseranno ottimisticamente gli economisti liberali risorgimentali) aver ancora concluso il percorso iniziato da più di un secolo (Elementi di economia politica, 1813, pp. 28-58; Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia [...]. Parte seconda, 1839, pp. 208-15). Non si pone sul piano teorico del lavoro astratto, ma su quello della migliore proporzione e armonia tra classi produttive e improduttive dentro il sistema economico, o meglio dentro il corpo politico (Elementi di economia politica, 1813, pp. 101-09): un passo avanti rispetto alla riduzione al minimo delle «classi non producitrici immediatamente» della logica genovesiana, ma non una fuoriuscita decisiva da quella logica.
Naturalmente, dove i limiti teorici di Cagnazzi, del resto non solo suoi, emergono vistosamente è sull’idea della ricchezza come sovrappiù, di capitale, di accumulazione: eredita il superfluo della tradizione tardomercantilistica e genovesiana, quello duramente criticato da Say nel Traité, tenta di migliorarlo prendendo da Nicolas-François Canard la smithiana idea di «travaglio esigibile accumulato», ma il risultato è confuso e contraddittorio: la sua formulazione o si limita ad appiattire l’idea di capitale a livello fisico (Elementi di economia politica, 1813, pp. 58, 94-97); oppure non va oltre all’eccedenza sulle sussistenze («il di più […] che chiamiamo ricchezza») vista come «aumento di produzione man mano al di sopra dell’attuale consumazione, per servire all’aumento di popolazione successivamente» (Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia [...]. Parte seconda, 1839, pp. 152-53). Mostra invece una sua coerenza quando rimane all’interno della tradizione (i tre stati di un sistema economico erano un caposaldo dell’impostazione genovesiana): l’eccedenza della «produzione superiore alla consumazione» distingue lo stato di «floridezza nazionale» da quello di mantenimento e da quello di «miseria e spopolazione» (Elementi dell’arte statistica. Parte seconda, 1809, pp. 327-28; Elementi di economia politica, 1813, p. 313).
Da Say lo divideva molto, a partire dalla stessa immagine dell’economia politica, in lui ancora a mezzo tra «arte» e scienza. Un confronto non solo formale dei suoi Elementi di economia politica con il Traité di Say mostra a chiare lettere la profonda differenza sostanziale: nella tripartizione di Cagnazzi la tradizionale «circolazione» (compresa l’equazione della moneta Mc=DC, p. 217) ha preso il posto della «distribuzione» della ricchezza! A quest’ultima, fondamentale com’è noto nel paradigma classico, sono dedicati solo accenni sporadici, nei quali spesso fanno capolino le valutazioni morali (per es., «l’abuso delle ricchezze», p. 444). Di morale è poi infarcita pressocché tutta la terza parte del manuale, sull’«uso» delle ricchezze, che Cagnazzi tiene a distinguere dalla «consumazione».
Vi si ripropongono la casistica dei bisogni (di necessità, di comodo, di piacere) e la trattazione sul lusso, con l’enfasi sul «lusso virtuoso» (Elementi di economia politica, 1813, p. 333; Analisi dell’economia privata e pubblica, 1830, pp. 118-19). Anche le posizioni di politica economica appaiono influenzate dalla morale: la parola d’ordine liberista di Jean-Claude-Marie-Vincent de Gournay è fatta propria «ne’ limiti dell’onesto» (Elementi dell’arte statistica. Parte seconda, 1809, p. 214); ma la protezione economica è giustificata quando si tratta di «abbattere lo spirito di moda, e d’imitazione dagli esteri», di combattere «il fanatismo del lusso e della moda» (Elementi di economia politica, 1813, p. 150). Gli ostacoli al commercio sono spesso morali, e il governo può rimuoverli inculcando la «buona fede» con l’arma della «persuasione» (Elementi di economia politica, 1813, pp. 262, 272-73; Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia [...]. Parte seconda, 1839, pp. 214, 220-21).
In questo ambito, scritto significativo di Cagnazzi è quell’Analisi dell’economia privata e pubblica degli antichi relativamente a quella de’ moderni in cui vengono passati in rassegna i sentimenti morali che guidavano gli antichi nell’uso delle ricchezze, ma non si manca di sottolineare il progresso rappresentato dall’affermazione del cristianesimo; quello che invece manca è proprio il promesso confronto con la modernità, non solo degli economisti ma anche dei moralisti sette-ottocenteschi. Molto meno ci dicono invece I precetti della morale evangelica, la cui prima edizione (1823) uscì a ridosso del sofferto allontanamento dalla vita pubblica, e anche il saggio del 1845 Su la varia indole delle forze agenti nell’universo, in cui mescola reminiscenze newtoniane e cattolicesimo.
Infine, più che motivabile sul piano teorico come generosamente è stato fatto (Salvemini 1981, pp. 177-88), mi pare condizionata dalle idee morali oltre che dal popolazionismo la proposta riformatrice delle campagne meridionali arretrate ricorrente in Cagnazzi (in partic. Sulle campagne di Puglia, 1810): far convivere insediamento diffuso di piccole aziende agrarie arborate con la grande proprietà cerealicolo-pastorale.
A questo punto l’immagine di Cagnazzi economista potrebbe sembrare troppo appiattita sul genovesismo, e quindi apparire quella di un passatista. Non è affatto così. La sua storica rilevanza emerge tutta solo che si tenga conto della dimensione internazionale dei processi diffusivi della teoria economica al suo tempo. Le sue due opere principali, gli Elementi di economia politica e il Saggio sulla popolazione (compreso il tardo secondo volume), sono letteralmente incomprensibili al di fuori del primo grande impatto dello smithianesimo sul continente europeo, che ha luogo appunto nei primi anni del nuovo secolo. Ma egli riesce ad assorbire in qualche modo lo smithianesimo nella tradizione perché la sua vicenda biografica e di economista riesce a sfuggire ai successivi impatti diffusivi della nuova economia politica molto più duri e difficili da riassorbire.
Il ventaglio delle sue fonti ci dà conto di ciò. Oltre quelle ereditate dalla tradizione, le fonti nuove partono dalla fisiocrazia (fra l’altro, troviamo alle pp. 32-41 degli Elementi la prima traduzione delle trenta Maximes di François Quesnay) e dal Wealth of nations di Adam Smith, in particolare nella versione francese 1802 di Garnier, e si dispiegano con i Principes di Canard del 1801 (che ebbe una traduzione napoletana nel 1809), il Traité di Say soprattutto e la Richesse commerciale di Sismondi, ambedue del 1803, l’Essay di Malthus che però entra tardi, ben dopo la sua traduzione francese del 1809.
Della sua contrapposizione a Malthus è pienamente cosciente, ma a partire dalla memoria del 1819 Sul periodico aumento della popolazione premessa al primo volume del Saggio pubblicato nel 1820. Al 1809 (cui risale il secondo volume degli Elementi dell’arte statistica) le sue vedute sulla popolazione ruotano ancora intorno alle «cause spopolatrici» da combattere, dato che «in un governo illuminato mai sono superflue le braccia» (p. 201); ma nel manuale di economia del 1813 affiorano le basi della prossima contrapposizione: ricchezza nazionale e popolazione sono intimamente connesse, camminano di pari passo, «ciascuna si può nel tempo stesso risguardare come causa ed effetto dell’altra» (Elementi di economia politica, 1813, p. 437).
La sua critica alle due progressioni malthusiane risultava non a caso più significativa per l’andamento delle sussistenze che non per l’aumento della popolazione, sul quale Cagnazzi contestava il raddoppio a 25 anni portandolo a 70. In realtà la sua argomentazione centrale consisteva nel rapportare il livello di popolazione non alle sussistenze, ma alle svariate circostanze che poteva far rientrare nella sua idea di benessere. Se per un verso il benessere era visto come «soddisfacimento de’ bisogni fisici, intellettuali e morali di tutti gl’individui», ciascuno peraltro «ne’ bisogni convenienti al suo stato», per altro verso esso era anche «il libero esercizio delle rispettive facoltà, senza del quale non potrebbe fiorire l’industria. Se dunque la popolazione cresce ove evvi abbondanza di sussistenza, non è questa l’immediata causa», il che limiterebbe la condizione umana a quella dei bruti, mentre invece «tale abbondanza, nata dall’industria e non da straordinaria fertilità del suolo, ha luogo ove evvi il benessere della numerosa classe produttrice» (Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia [...]. Parte prima, 1820, pp. 14-21).
Era la riproposizione della ben nota circle theory settecentesca popolazione-benessere, con tutti i suoi limiti. Ma essa consentiva a Cagnazzi di elaborare quella «formola del prodotto» (Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia [...]. Parte prima, 1820, pp. 28-29) che rappresentava indubbiamente uno sforzo ulteriore di contestare il pessimismo malthusiano tentando il superamento di quei limiti attraverso una configurazione aggiornata dell’interventismo riformatore volto a «torre gli ostacoli». La formula P=ticn/fpm esprimeva infatti la relazione diretta tra quantità prodotta e «travaglio», intelligenza, capitali, natura; e una inversa tra il prodotto e gli «ostacoli»: fisici, politici, morali. Ma da un punto di vista storico, il suo contributo era un po’ il canto del cigno della nostra tradizione popolazionista.
Nella tarda lettera a De Augustinis, non priva di ambiguità, Cagnazzi denunciava il ritardo manifestatosi a Napoli nello «spargere per mezzo della istruzione i buoni principii che già fiorivano in Europa, dopo le teoriche dello Smith» (Al sig. d. Matteo d’Augustinis, socio dell’Accademia Pontaniana, 1838, p. 145).
In realtà, stiamo vedendo con quanta cautela e contraddizioni avvenisse in lui stesso quel primo impatto con la nuova economia politica. Anche la polemica con Sismondi sulla libertà di censuazione delle terre del Tavoliere mostra bene questa cautela (cfr. Sul Tavoliere di Puglia. Lettera [...] al signor Simonde de Sismondi, 1820; Sul dissodamento de’ pascoli del Tavoliere della Puglia, 1832). Ma è sulla teoria del valore-lavoro e del prezzo d’equilibrio, e sulla distinzione tra «prezzo naturale» e «prezzo corrente», che lo vediamo riconoscere il debito allo smithianesimo di Canard (Elementi di economia politica, 1813, pp. 182-95; sole larvate critiche per l’eccessiva analogia con la circolazione sanguigna, pp. 213-15, e sull’imposizione, pp. 396-98), un autore, fra l’altro come lui favorevole all’impiego della matematica nell’economia, verso il quale pure manifesterà in prosieguo un’ostilità ancora non del tutto chiarita (Al sig. d. Matteo d’Augustinis, socio dell’Accademia Pontaniana, 1838, p. 150; Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia [...]. Parte seconda, 1839, pp. 238-40). Come pure non chiarito rimane il rapporto con David Ricardo, con cui pare fosse portato a schierarsi contro Say ma in due memorie rimaste inedite, e introvabili.
Piuttosto chiara invece risulta la matrice tardomercantilistica di un suo contributo originale, specie se visto nello sfondo storico oltremodo interessante dei primi contraccolpi della rivoluzione industriale sulle aree europee più arretrate e agricole, come il Mezzogiorno d’Italia. Fino a quando cioè la nuova scienza economica liberale non fu particolarmente aggressiva, la tradizione genovesiana in qualche modo sopravvisse, e consentì talora risultati in qualche misura anche teorici non spregevoli.
Mi pare questo il caso dell’elaborazione di Cagnazzi in tema di commercio internazionale condotta in termini di scambio ineguale (per prezzi delle merci, per quantità di lavoro, e per livelli salariali: con qualche inevitabile confusione) fra Paesi agricoli e manifatturieri (Elementi dell’arte statistica. Parte seconda, 1809, p. 239; Elementi di economia politica, 1813, pp. 50-51, 232, 245-51; Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia [...]. Parte prima, 1820, pp. 58-59; Analisi dell’economia privata e pubblica, 1830, p. 120; Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia [...]. Parte seconda, 1839, pp. 211-18, 287-88).
Pur apprezzando in linea di principio il liberoscambismo, Cagnazzi si rende conto che nelle condizioni storiche date ormai le nazioni manifatturiere «danno la legge alle agricole», destinate a soccombere «poiché una nazione che dà maggior travaglio per averne meno da un’altra, resta da questa avvilita», violando in tal modo «l’equilibrio, ossia la bilancia di forze tra le nazioni» (Elementi dell’arte statistica. Parte seconda, 1809, p. 335).
Esisteva però a suo avviso un’alternativa alla decadenza e alla rovina: accelerare il passaggio della nazione agricola a quello che per Cagnazzi, che condivide la teoria stadiale settecentesca comunemente accettata, è il quarto stadio (dopo il selvaggio, il pastorale, l’agricolo) dello sviluppo delle nazioni, il manifatturiero. Quello che sarebbe stato il «naturale progresso» delle nazioni, andava dunque forzato: con la protezione economica delle manifatture quando necessario, con la difesa del commercio nazionale, anche correndo i rischi di chiusure autarchiche. Ma, soprattutto, con l’intervento sistematico del governo nel campo dell’istruzione e dell’educazione a ogni livello, dalle scuole primarie (cfr. Saggio sopra i principali metodi d’istruire i fanciulli, 1819) all’università, alle Società agrarie ed economiche. La pedagogia dei «savj», degli intellettuali organizzati dal governo, avrebbe incrementato l’«industria» e il «benessere», venendo a costituire la chiave di volta, molto genovesiana, cui fare affidamento.
Al di là dell’operazione degli economisti liberali risorgimentali volta a recuperare formalmente la tradizione italiana di pensiero economico per rafforzare l’immagine di una «scuola italiana», la lettura attenta delle fonti ci mostra, in conclusione, un economista che fu forse l’ultima, felice ma probabilmente irripetibile espressione di un impatto con la nuova scienza economica classica e liberale tentato in termini di assorbimento più o meno indolore, più o meno contraddittorio, di nuove idee nel tessuto connettivo preesistente della tradizione. Fu un primo strappo, ma non la rottura con la tradizione. Da questo punto di vista, possiamo considerare Luca Cagnazzi il miglior erede ottocentesco del genovesismo.
Le sue principali opere a stampa sono:
Memoria sulle curve parallele, s.n.t. [ma 1794].
Del vantaggio che si può ricavare dalle osservazioni meteorologiche per l’avvanzamento delle scienze utili, «Saggi su le scienze naturali ed economiche della regal Società d’incoraggiamento di Napoli», 1807, 1, pp. 1-20.
Elementi dell’arte statistica. Parte prima, Napoli 1808; Parte seconda, Napoli 1809.
Sulle campagne di Puglia, Napoli 1810.
Elementi di economia politica, Napoli 1813 (riediz., non rigorosa, a cura di E. Parise, Manduria 2003).
Saggio sopra i principali metodi d’istruire i fanciulli, Napoli 1819.
Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia ne’ passati tempi e nel presente. Parte prima. Che contiene lo stato de’ tempi passati, Napoli 1820.
Sul Tavoliere di Puglia. Lettera […] al signor Simonde de Sismondi, Napoli 1820.
Analisi dell’economia privata e pubblica degli antichi relativamente a quella de’ moderni, Napoli 1830.
Cenno sulla Statistica, «Il Progresso delle scienze, lettere ed arti», 1832, 3, pp. 44-57.
Sul dissodamento de’ pascoli del Tavoliere della Puglia e sull’affrancazione de’ suoi canoni, Napoli 1832.
Al sig. d. Matteo d’Augustinis, socio dell’Accademia Pontaniana, «Il Progresso delle scienze, lettere ed arti», 1838, 21, pp. 145-51.
Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia ne’ passati tempi e nel presente. Parte seconda. Che contiene lo stato presente, Napoli 1839.
La mia vita, a cura di A. Cutolo, Milano 1944.
Suoi manoscritti sono stati reperiti (e in gran parte studiati, talora pubblicati) in:
Napoli, Archivio di Stato, Ministero dell’Interno I inventario.
Napoli, Archivio di Stato, Ministero delle finanze.
Napoli, Biblioteca Nazionale, Carte Monticelli.
Bari, Biblioteca Nazionale, Fondo D’Addosio.
Bari, Biblioteca Nazionale, Accademia agraria.
Altamura, Archivio-Biblioteca-Museo Civico, Fondo Serena.
Firenze, Archivio Storico dell’Accademia dei Georgofili.
Paris, Archives Nationales, AB XIX.
T. Fornari, Delle teorie economiche nelle provincie napolitane dal 1735 al 1830, Milano 1888.
M. P[antaleoni], Luca Samuele [sic] Cagnazzi, in Dictionary of political economy, ed. R.H.I. Palgrave, London 1910, 1° vol., pp. 200-01.
F. Zerella, Luca de Samuele Cagnazzi e la sua posizione storico-pedagogica, «Rivista pedagogica», 1936, 29, pp. 88-110.
V. Ricchioni, La «Statistica» del Reame di Napoli del 1811. Relazioni sulla Puglia, Trani 1942.
R. Romano, Napoli: dal Viceregno al Regno, Torino 1976.
A. Di Biasio, Alcuni aspetti dell’economia napoletana nel decennio francese, «Critica storica», 1978, 15, pp. 345-89.
B. Salvemini, Economia politica e arretratezza meridionale nell’età del Risorgimento. Luca de Samuele Cagnazzi e la diffusione dello smithianesimo nel Regno di Napoli, Lecce 1981.
F. Di Battista, L’emergenza ottocentesca dell’Economia politica a Napoli, Bari 1983.
F. Sofia, Una scienza per l’amministrazione. Statistica e pubblici apparati tra età rivoluzionaria e Restaurazione, Roma 1988.
La “Statistica” del Regno di Napoli nel 1811, a cura di D. Demarco, Roma 1988.
E. Lombardo, Il primo trattato italiano di statistica di Luca de Samuele Cagnazzi ed i suoi interessi demografici, in Da osservazione sperimentale a spiegazione razionale. Per una storia della statistica in Italia, a cura di C.A. Corsini, Pisa 1989, pp. 33-48.
F. Di Battista, Dalla tradizione genovesiana agli economisti liberali, Bari 1990.
M. Santillo, Tra rottura e continuità. L’opera di Luca de Samuele Cagnazzi (1799-1821), Napoli 1994.
L. Conte, Luca de Samuele Cagnazzi, “Osservazioni sulla moneta del nostro Regno ragguagliata con l’estera”. Lettera […] a Luigi de Medici, Napoli 1816, in Fra spazio e tempo. Studi in onore di Luigi De Rosa, a cura di I. Zilli, 3° vol., Il Novecento, Napoli 1995, pp. 153-65.
S. Patriarca, Numbers and nationhood, Cambridge 1996.