CALABRIA (A. T., 27-28-29)
Il nome, sua estensione e vicende. - Il nome Calabria non designò durante l'età classica, come ora avviene, la penisola che si diparte, a sud-ovest, fra il Mare Tirreno e lo Ionio, dalla maggiore penisola italica, bensì l'odierna Penisola Salentina, detta anche in età classica Messapia. (v. calabri). Il nome Calabria cominciò ad estendersi dalla Penisola Salentina all'antico Bruttium (Βρεττία dei Greci), formante con la Lucania la 3ª Regione d'Italia nella divisione augustea, probabilmente nel sec. VII dell'era cristiana, durante la dominazione bizantina nell'estrema Italia meridionale, e finì col designare unicamente l'odierna penisola calabrese, prima a sud del fiume Sinni e poi a sud dell'alta e ripida barriera del M. Pollino, allorché, di fronte all'estendersi della potenza longobarda verso mezzogiorno, i Bizantini si videro ristretti al possesso della terra dei Bruzî e della Sicilia. Nel basso Medioevo si cominciò ad usare la denominazione Calabrie, allorché si vennero distinguendo una Calabria Citeriore o settentrionale, comprendente la Valliscrata più a nord e la Terra Iordana più a mezzogiorno, da una Ulteriore, detta anche talora senz'altro Calabria in opposizione alle altre due parti. Sotto gli Aragonesi la divisione ebbe sanzione ufficiale e la linea del confine amministrativo fu portata al Neto (Calabria citra e Calabria ultra Neaethum), al quale si diede come linea di continuazione verso ponente il corso del Savuto. Le due Calabrie ebbero come capoluogo rispettivamente Cosenza e Catanzaro. La distinzione, confermata dagli Spagnoli, dai Borboni e dai Napoleonidi (dai quali ultimi Monteleone fu fatta capoluogo della Calabria ultra in luogo di Catanzaro) e, dopo il 1814, di nuovo dai Borboni, con la suddivisione della ulteriore in Iª (capoluogo Reggio) e IIª (capoluogo Catanzaro), è ormai venuta meno interamente. Ora si parla comunemente e ufficialmente di Calabria, distinta nelle tre provincie di Cosenza, Catanzaro e Reggio. Nessun cambiamento è stato portato alle circoscrizioni territoriali delle tre provincie durante le innovazioni del 1926-1929, sicché i loro limiti e la loro estensione sono ancora quelli dell'ultimo periodo borbonico.
Le caratteristiche fisiche. - La Calabria è, dopo le grandi isole, la regione d'Italia meglio definita nei suoi limiti e caratteri geografici. La sua natura peninsulare spiccatissima (lunghezza dall'estremità settentrionale sulla fiumara ionica San Nicola sino al Capo Spartivento, 248 km., larghezza massima, dalla Punta della Alice sullo Ionio al Capo Bonifati sul Tirreno, 111 km., minima nell'Istmo di Squillace 32 km.), l'assenza assoluta di una cintura d'isole nei suoi mari, l'alta e in gran parte impervia zona montagnosa che la cinge a settentrione, fanno di essa una regione separata e pressoché isolata dal rimanente della regione italiana, con caratteri geografici, fisici ed antropici tutti proprî e singolari. È però da notare che il confine amministrativo settentrionale della Calabria, quale è stato determinato da secolari vicende storiche, non coincide interamente con quello che veramente si può dire il confine terrestre della regione fisica calabrese, giacché esso lascia alla Basilicata tutta la parte superiore del bacino del fiume Lao, mentre comprende in più, pure all'estremo nord-occidentale, la montagna aspra e deserta che s'innalza tra la fiumara La Noce e lo spartiacque fra il bacino di questa e quello del Lao. Inoltre, all'estremo nord-orientale, il confine amministrativo comprende nella Calabria un tratto del bacino del basilicatese Sinni, deviando dopo il M. Rotondella verso nord-ovest dalla linea di spartiacque tra il Sinni stesso e le fiumare calabresi che tra la pianura di Sibari e quella di Metaponto scendono allo Ionio.
Più ristretti ancora di quelli della regione geografica o della amministrativa sono poi i limiti della Calabria dallo stretto punto di vista geologico. Infatti tutta quella parte della regione situata a settentrione di una linea che si può tracciare sui corsi opposti della fiumara Sangineto (che ha foce sul Mar Tirreno fra Belvedere Marittimo e Capo Bonifati) e della corrente fluviale Esaro e Coscile-Crati sino alla foce di quest'ultimo fiume nello Ionio, separati l'uno dall'altro dalla stretta soglia del Passo dello Scalone (spartiacque settentrionale dell'intiero rilievo calabrese), forma geologicamente una cosa sola con la vasta regione appenninica meridionale, con la quale ha comuni la generale natura calcarea o dolomitico-calcarea delle rocce e i derivanti aspetti orografici, la circolazione delle acque, la vegetazione, per lo più raccolta alle falde delle montagne e nelle valli, e la stessa fisionomia generale del paesaggio. Tutto il rimanente, cioè la maggior parte della regione geografica calabrese, a mezzogiorno di questa linea, è un insieme di terre in grande prevalenza anch'esse rilevate e montuose, ma di natura geologica fondamentalmente diversa e d'aspetto e di paesaggio perciò differenti, anzi singolari nel complesso della regione fisica italiana. I rilievi di questa Calabria geologica propria sono infatti formati essenzialmente di rocce d'età arcaica o primaria, cristalline eruttive o scistose (graniti, porfidi, dioriti, gneiss, micascisti, ecc.), profondamente degradate dall'azione atmosferica, demolite e quasi sempre modellate e arrotondate, sicché in essi prevalgono le forme ad altipiano e tabulari e quelle a dorsali con allineamenti di cupole uniformi o le mescolanze delle une e delle altre. Questa massa più ampia e più antica, allungata da nord a sud e forse suddivisa durante periodi alternati di emersione e sommersione in più isole, penetrata durante l'età secondaria e la terziaria da ampî golfi marini ancor oggi assai bene distinguibili nell'orlo interno delle sue pianure e delle sue grandi valli, probabilmente fratturata da potenti faglie, dovette ricevere la sua attuale forma per via di sollevamenti e sedimenti, in modo specia e nel Pliocene: a questo sembrano essere dovute le grandi formazioni periferiche calcaree, argillose, marnose e di arenarie e conglomerati, le quali fanno sì che, mentre l'aspetto della regione è nelle sue parti più alte e terminali in genere piuttosto uniforme e austero, essa abbia carattere più vario e più contrastatamente pittoresco nelle parti più basse e fiancali. A queste stesse formazioni sedimentarie e alle formazioni alluvionali del Quaternario, tuttora largamente attive, si deve poi anche la completa saldatura fra la montagna cristallina eruttivo-scistosa e la montagna calcarea e dolomitico-calcarea; saldatura che, colmando il vasto golfo pliocenico ora occupato dalla Piana di Sibari e dalle vallate degl'influenti del corso inferiore del Crati, determinò il definitivo formarsi della regione geografica calabrese. A costituire questa unità e a includervi, oltre il bacino del fiume Lao, inclinato verso il Tirreno al nord-ovest di una potente uniforme barriera calcarea (Cozzo Pellegrino, m. 1986, i Paratizzi, m. 1793, M. La Mula, m. 1931) che con direzione generale da NE. a SO. va dall'inizio orientale della conca di Campotenese, alle falde sud-occidentali del M. Pollino, sino al Tirreno, anche la già ricordata montagna estrema nord-orientale sino alla fiumana Castrocucco, contribuì pure la conformazione costiera delle due parti geologicamente differenti del rilievo, dalla Punta di Castrocucco sino alla Punta Pezzo all'inizio dello Stretto di Messina e di qui sino alla pianura di Metaponto. Essa infatti riceve il suo carattere dalla presenza di una quasi ininterrotta e piatta cimosa litoranea alluvionale, più ampia e allargantesi a volte sino a formare brevi pianure costiere sullo Ionio, meno ampia e a volte esigua lungo il Tirreno, tutta formata di vaste e spesso amplissime falcature poco profonde che si stendono fra l'uno e l'altro dei rari promontorî in cui viene a morire sul mare l'ossatura montuosa della regione. Da questa orlatura, che si continua uniforme anche al margine esterno delle grandi pianure risultanti dal riempimento dei golfi pliocenici (pianure del Lao, di S. Eufemia e di Gioia sul Tirreno, del Neto e di Sibari sull0 Ionio), deriva l'assoluta importuosità di tutta la costa calabrese, ove, su di un complesso di circa 780 km. di coste, non si notano che due mediocri porti naturali (Reggio e Crotone). Comune poi a tutta la regione geografica calabrese, e più spiccatamente caratteristica di essa che di altre parti dell'Italia Meridionale, è la presenza di una cintura di terrazzamenti costieri segnanti i varî periodi di lenta emersione succedutisi alla fine del Terziario e nel Quaternario: terrazzamenti che sono rintracciabili anche nell'orlo interno rilevato delle grandi pianure rispondenti ad antichi golfi marini. Il fenomeno è più grandioso e più nettamente visibile sul Tirreno, da Praia a Mare a Scilla, che sullo lonio, ove i terrazzamenti sono in gran parte demoliti dalle acque superficiali. La serie di essi, allorché si presenta intiera come sul fianco nord-occidentale dell'Aspromonte o nell'Altipiano Vibonese, è quadruplice e raggiunge nei Piani di Aspromonte i 1200 m. d'altitudine. A questi sollevamenti del Quaternario sono da ricollegare, potendone essere considerati come le attuali esigue prosecuzioni, i fenomeni di bradisismo di alcune parti della costa calabrese, e specialmente della meridionale, i quali in genere si accentuano catastroficamente durante gl'intensi commovimenti sismici cui va soggetta, come è noto, in singolar modo la regione calabrese. Per essa, dal sec. XII in poi, sono stati registrati più di 30 terremoti rovinosi e disastrosi (gradi dall'VIII al X della scala del Mercalli), alcuni dei quali, ad es. quello famosissimo detto della Piana di Gioia, del 5 e 6 febbraio 1783, furono accompagnati da sconvolgimenti sensibili del terreno, trasporti ingenti di masse terrose, temporanee formazioni lacustri, ecc. In genere, i sismologi mettono in relazione le aree sismiche tipiche della penisola calabrese (Costiera reggina, Piana di Gioia, Valle del Mesima, Istmo di Squillace, Valle del Savuto, Valle del Crati, ecc.) con le supposte grandi linee di frattura o faglie sopra ricordate.
Una profonda depressione del generale rilievo calabrese, corrispondente a due simmetrici addentramenti della costa tirrenica e della ionica fra i quali si stende l'Istmo di Squillace o stretta di Catanzaro, divide la Calabria in due grandi parti, oltre le quali si possono distinguere varie parti minori corrispondenti in genere alle isole geologiche già ricordate, e bene individuate da depressioni del generale rilievo o da vere e proprie terre basse di natura sedimentaria e alluvionale. Queste hanno una parte assai meno importante che i rilievi, e demograficamente ed economicamente compiono funzioni in genere quasi soltanto, sinora, separatrici e negative.
La Calabria settentrionale comprende due parti rilevate, cioè la Calabria calcarea e calcareo-dolomitica già ricordata e la massa geologicamente omogenea formata dalla Sila e dalla Catena costiera paolana. Tra la prima, saldata per mezzo della breve soglia del Passo dello Scalone (744 m. di alt.) alla montagna calcareo-dolomitica (la Montea), e la seconda, si addentra per circa 35 km. da sud a nord la parte più interna del grande golfo pliocenico della Calabria settentrionale, la Valle o il Vallo del Crati, largo nel suo fondo in media 3 km., ma in qualche punto anche più di 6, sbarrato a settentrione dai sedimenti tabulari che, staccandosi dalla catena costiera stessa e dalla Sila, costringono il fiume a cercarsi faticosamente una via verso lo Ionio in una valle di erosione angusta e selvaggia (Valle di Tarsia), che è sfuggita dalle strade e dalla ferrovia. A mezzogiorno la Catena costiera e la Sila sono unite da una larga soglia alta in media 700 m., inclinata per circa 15 km. da sud a nord, fra Rogliano e Cosenza, e scendente ripidamente col suo fianco meridionale sul profondo affossamento della valle del Savuto. La Catena costiera è una dorsale di rocce cristallino-scistose (micacisti, filladi, scisti granatiferi, ecc.), che si allunga per circa 70 km. sino al corso inferiore del Savuto, con un'uniforme linea di vetta distante in media solo 6 km. dal Tirreno; essa culmina a 1541 m. nel M. Cocuzzo, solitario e potente aggetto calcareo che, sorgendo all'inizio di un lungo contrafforte della sua estremità meridionale, le dà improvvisa e ardita novità di aspetto. La Sila (v.) è un vasto altipiano di perimetro pressoché circolare, dell'altezza media di 1200 m e culminante a 1929 m. nel M. Botte Donato, il cui fianco occidentale scende ripidamente dopo un alto orlo sulla valle del Crati, mentre gli altri fianchi sono meno alti e assai meno ripidi e si rompono nelle formazioni collinari e negl'intricati ondulamenti di ampie zone premontane scendenti sulla piana di Sibari e sullo Ionio. La Sila è di natura prevalentemente granitica; nella sua orlatura rilevata e specialmente nella occidentale, si presentano le stesse formazioni scistose della Catena costiera, e sul fianco settentrionale e sull'orientale si stende una larga fasciatura di terreni secondarî e terziarî (calcari, argille e arenarie), la quale forma il caratteristico ondulato paese costiero ionico del latifondo malarico, spingendosi a sud-est, fra il Neto e il Tacina, a forma di penisola in un ampio sollevamento di argille azzurrastre dell'altitudine media di 200 m., il cosiddetto Marchesato di Crotone. Verso sud-ovest la Sila spinge una diramazione che, fra Savuto e Amato, dopo la soglia di Soveria Mannelli (774 m.), s'innalza nel M. Reventino, donde si biforca verso est e verso ovest formando un'ampia spalliera boscosa (Montagna nicastrese) che scende terrazzata a mezzogiorno verso la vallata inferiore dell'Amato e la pianura di S. Eufemia; la quale ne è in gran parte formazione alluvionale e rientra perciò quasi tutta nella Calabria settentrionale.
La Calabria meridionale s'inizia con una serie di terrazzamenti che occupano la massima parte dell'Istmo di Squillace. La linea di spartiacque Ionio-Tirreno lo attraversa su di un'esile groppa (La Carrupa o Gola di Marcellinara, 250 m.) che segna la massima depressione di tutto il rilievo italico peninsulare dall'Appennino Toscano all'Aspromonte. I terrazzamenti (Piani di Caraffa, di Borgia, di Cortale, ecc.) cingono il fianco settentrionale e si continuano lungo l'occidentale e il meridionale dell'Altipiano delle Serre (v. serre), il quale, insieme con quello meno esteso e di minore altitudine media (500 m.) e assoluta (M. Poro, 702 m.) dei Pori (v. poro) o Altipiano vibonese, nettamente terrazzato verso il mare e verso il Megima, riproduce nella Calabria meridionale la presenza di una vasta zona arcaico-cristallina, in prevalenza granitica, penetrata da una larga zona di depressione (la vallata del Mesima), caoticamente riempita di detriti alluvionali e aperta verso il mare. Il fianco orientale comprende, nella sua orlatura meno nettamente continua di quella dell'occidentale, la massima altitudine (M. Pecoraro, m. 1420) dell'altipiano. Il fianco meridionale termina al piano della Limina (gr. λίμνη "palude"), donde si allunga una dorsale tabulare pure granitica, dell'altitudine media di 900 m., che con un succedersi uniforme di piani giunge (Piano Alati) sino al vero e proprio Aspromonte.
L'Aspromonte (v.), col quale termina l'intiero rilievo calabrese, è un vasto acrocoro di natura scistosa (gneiss e micascisti in prevalenza), culminante a 1956 m. nella cima di Montalto, come un immenso cono solcato profondamente a raggiera dalle acque superficiali e vastamente terrazzato da mezzogiono a nord-ovest. La Calabria meridionale comprende infine la Piana di Gioia o di Rosarno, formata dalle alluvioni delle Serre, dell'altipiano dei Pori e della montagna tabulare tra le Serre e l'Aspromonte e dell'Aspromonte stesso, e l'ampia costa geracese derivante interamente dall'accentuatissima demolizione della montagna tabulare, verso la quale risale anch'essa con terrazzamenti.
In complesso, nonostante la presenza di parti basse e vallive più o meno ampie, la Calabria è paese che dalla montagna riceve tutti i caratteri più evidenti del suo aspetto e quelli più importanti della sua civiltà demografica ed economica. Due grandi versanti si distinguono nel complessivo rilievo, lo ionico e il tirrenico. Il primo risulta assai più ampio che il second0, occupando la massima parte della Calabria settentrionale e più che metà della meridionale. Ionici sono i maggiori bacini fluviali, ioniche le maggiori estensioni di altipiani e ionico è il maggiore sviluppo delle coste. La stessa civiltà calabrese ebbe in passato caratteri soprattutto ionici, e si può dire che anche sul versante tirrenico questi si siano manifestati più evidenti e importanti che non gl'influssi della civiltà settentrionale.
Clima, idrografia, vegetazione. - La posizione astronomica della Calabria (lat. estreme 40° 8′ 39″, 37° 54′ 51″) e il suo spiccatissimo carattere peninsulare accentuano sulle sue coste e sulla parte esterna o meno alta dei suoi rilievi i caratteri climatici proprî di tutta l'Italia peninsulare mediterranea, e cioè l'escursione termica annua poco considerevole, la piovosità in complesso scarsa e distribuita quasi interamente nel semestre invernale (novembre-aprile) e la ventosità assai pronunciata. Le parti a mano a mano più alte dei rilievi, e specialmente i fianchi interni e le sommità di essi, vedono questi caratteri modificarsi per dar luogo a condizioni climatiche assai differenti, che sulle aree più vaste di considerevole altitudine sono paragonabili a quelle di zone prealpine settentrionali. È da notare poi che i caratteri mediterranei del clima, e specialmente quelli riguardanti la piovosità, si accentuano in genere procedendo da settentrione a mezzogiorno. La piovosità è anche minore sul versante ionico che sul tirrenico, a causa della direzione generale del rilievo calabrese, la quale fa sì che i venti di ponente si scarichino in gran parte sul secondo versante dell'umidità della quale son carichi. Così l'escursione annua termica fra i medî estremi (gennaio-luglio) che è di 14° a Tropea (costiera tirrenica meridionale) è di 19° a Cosenza e supera i 30° sulla Sila e sull'Aspromonte terminali; a Reggio è di 13° e a Capo Spartivento di 12°. Riguardo alla piovosità si possono assegnare ai principali rilievi calabresi, considerati nelle loro parti più interne e più alte, le seguenti medie annue in mm.: montagna calcarea settentrionale 1800, Sila 1700, Serre ed Aspromonte 1400. La piovosità è distribuita in queste zone durante tutto l'anno ed è accompagnata da abbondante nevosità invernale; sulle parti più alte della montagna calcarea e sulla Sila la neve dura sino a tutto maggio. La zona premontana dai 300 agli 800 metri circa ha nella regione una media di 880 mm., e il litorale una di 500.
In complesso, la quantità di acqua piovana che cade sulla regione e specialmente sulle parti più alte dei suoi rilievi è considerevole, e maggiore che nella Sicilia, nella Basilicata e nella Puglia. I corsi d'acqua hanno però carattere in massima parte torrentizio (fiumare), con portate di magra terminali poverissime, e piene invernali improvvise e spesso rovinosissime. Più regolare e più ricco di acqua è il loro corso montano, mentre lungo i fianchi dei rilievi o nei corsi terminali le acque si disperdono in gran parte o per l'evaporazione o perché vengono distratte per i bisogni minuti delle irrigazioni. Più lunghi e di più ampio bacino sono in genere i corsi d'acqua ionici, fra i quali i più importanti sono quelli silani, il Crati, il Neto, il Tacina. Però fra i fiumi tirrenici si trova quello che ha la massima portata media di magra alla foce, cioè il Lao (mc. 4,8); laddove il Crati l'ha di mc. 3,3 (quasi esclusivamente per l'apporto del Coscile), il Neto di mc. 2,8 e gli altri fiumi l'hanno tutti inferiore ai 2 mc.: il che è in relazione con le cifre di piovosità media annua, che abbiamo già riportate per i varî rilievi calabresi.
Caratteristica poi della Calabria è la mancanza di formazioni lacustri, sebbene sull'alto dei suoi rilievi vi siano tracce frequenti di antichi bacini già occupati da laghi (Campotenege, Piano del Lago, ecc.). L'opera dell'uomo ha recentemente restituito alla Calabria una delle sue antiche formazioni lacustri montane col lago artificiale dell'Ampollino, formato a scopi industriali mediante la costruzione della grande diga di Trepidò; altri laghi artificiali sono in preparazione nelle alte vallate del Neto e dell'Arvo (v. sila) e nella conca di Decollatura.
A causa della varietà del suo rilievo e delle relative differenze climatiche, la Calabria si presenta come paese assai vario anche rispetto all'ammanto di vegetazione, ma in complesso meno spoglio, e d'aspetto più attraente che la maggior parte della restante Italia meridionale. Sulle sue coste è, in genere come su quelle di tutti i paesi mediterranei meridionali, diffusa la tipica vegetazione di sempreverde, o a macchia (mirti, mortelle, lentischi, oleandri, ecc.), o in oasi di coltura specializzata (uliveti e agrumeti), con la presenza di piante subtropicali largamente diffuse in seguito ad acclimazione (agave e soprattutto fico d'India, che talvolta copre vaste estensioni di fianchi di rupi e alture; verso Reggio si è acclimata l'Anona cherimolia, importata un secolo fa dal Brasile). I fianchi dei rilievi ricevono il loro carattere, sino ai 750 m. circa, dalla coltura promiscua domestica del lino, del frumento, dell'ulivo (che giunge sino agli 800 m. e talora più in alto), della vite, del gelso e delle piante da frutto (fico, melograno e specialmente mandorlo); viene in seguito sino ai 1000 m. la zona del castagno (che nella Sila si trova anche a 1200 m.), mescolato con la quercia ed altri latifogli e diffuso in Calabria più che in ogni altra regione dell'Italia Meridionale e, dopo la Toscana, della peninsulare. Seguono le conifere (Pinus nigra della Sila e dell'Aspromonte, in zone assai più ristrette, quali il Cariglione e la soglia che chiude a S. la conca di Serra S. Bruno, l'abete, Abies alba) e il faggio, che copre quasi tutte le sommità più elevate della regione, esclusa la montagna calcarea, che è priva di vegetazione arborea nelle sue parti più alte; i pascoli naturali ricoprono le parti pianeggianti degli altipiani granitici e le sommità di tratti della montagna calcarea. Notevole è la larga presenza, in tutta la montagna calabrese, di specie vegetali arboree ed erbacee boreali, che dà spesso al suo paesaggio, nelle umide zone di maggiore altitudine, soprattutto nella Sila, un aspetto nordico singolarmente contrastante con la fisionomia delle zone costiere aride e a vegetazione mediterranea.
La popolazione. Dati demografici. Zone di abitazione. - Lo specchio che segue dimostra quale risultava la popolazione (presente o di fatto) della regione calabrese nel censimento del 1° dicembre 1921 e quale veniva calcolata il 1° gennaio 1926. I comuni calabresi, che erano 417 sino al 1926, allorché s'iniziarono le aggregazioni cessate col 31 marzo 1929, sono attualmente 367, dei quali 153 nella provincia di Catanzaro, 127 in quella di Cosenza e 87 in quella di Reggio.
La Calabria si presenta etnicamente abbastanza compatta ed omogenea, nonostante le immistioni (alto Medioevo) d'invasori africani ed orientali che hanno lasciato traccia di sé particolarmente sulle coste della parte più meridionale della regione, alterando abbastanza visibilmente il tipo somatico ariano-italico derivante dai sabellici Bruzî; i quali nel secolo VI e nel V a. C. occuparono dal settentrione l'odierna penisola calabrese, sopraffacendo le popolazioni primitive, probabilmente rispondenti ad anteriori immigrazioni esse pure ariane, e sostituendosi a poco a poco anche sulle coste all'elemento greco immigratovi nei secoli VIII e VII a. C. (Magna Grecia). Gruppi particolari di popolazioni immigrate nella Calabria durante il Medioevo e al principio dell'età moderna, cioè i Neogreci dell'Aspromonte meridionale (v. italia: dialetti), gli Albanesi delle provincie di Cosenza e Catanzaro (v. albanesi d'talia) e i Galloprovenzali di Guardia Piemontese (v. guardia piemontese) non hanno in nulla alterato la fisionomia etnica calabrese, rimanendo nettamente separati, anche linguisticamente, dal resto della popolazione calabrese.
Questa ebbe dal principio dell'età moderna sino ad oggi accrescimento lento, con frequenti e lunghe soste e anche regressi notevoli, dovuti alle generali condizioni di povertà e di primitività economica della regione, alle malattie endemiche quali la malaria, alle frequenti pestilenze, ai terremoti. La numerazione dei fuochi del 1562 sommava questi a 160.335, quella del 1648 a soli 81.642. Pur tenendo presenti le difficoltà estreme in cui si svolgeva in quelle età l'opera dei censimenti, ai quali la popolazione tendeva a sfuggire per il timore di aggravî fiscali, abbandonando in occasione di essi anche gli abitati, si deve ritenere che nella seconda metà del sec. XVII la popolazione della Calabria fosse scesa sino a non superare di molto i 500.000 abitanti. Nel sec. XVIII vi fu un notevole aumento, che, nonostante le cifre dei morti per il terremoto del 1783 (30.000, oltre a 20.000 per epidemia seguita al terremoto), portò la popolazione a 750.000 abitanti circa nel 1788 e a 805.000 nel 1815. Nel 1851 le cifre dell'ultimo censimento borbonico erano di 1.138.245, con aumento del 43% circa dal principio del secolo. La tabella a piè di questa pagina riassume i dati relativi alla popolazione delle provincie calabresi dal 1816 al 1921.
È da notare lo scarso accrescimento avvenuto nella seconda metà del secolo XIX e quello anche minore del primo decennio del XX. La causa di ciò si deve ricercare soprattutto nel fenomeno migratorio, che diede la sua impronta a tutta la vita calabrese dell'ultimo cinquantennio.
L'emigrazione calabrese s'iniziò, fra il 1870 e il 1875, quasi esclusivamente nella provincia di Cosenza; presto guadagnò la provincia di Catanzaro, salendo in entrambe a cifre notevoli, mentre in quella di Reggio sino al 1890 diede cifre assai esigue. Il movimento emigratorio calabrese nel periodo 1901-1916 risulta dallo specchio che si trova in cima alla pag. 297.
Il fortissimo accrescimento del 1905 e le alte cifre di tutto il periodo 1905-1913 si spiegano con i gravi perturbamenti economici apportati alla regione, e in particolar modo alla sua parte meridionale, dai terremoti del 1905, del 1907 e del 1908 e dalle loro ripercussioni, anche psicologiche, sulla classe agricola calabrese. Le cifre degli anni 1917 e 1918 si ridussero, rispettivamente per le tre provincie, a 200 e 90, 555 e 279, 301 e 89; la ripresa s'iniziò vigorosa nel 1919 e raggiunse nel 1920 cifre uguali alle più alte del periodo dal 1905 al 1916, ma si attenuò considerevolmente negli anni seguenti a causa delle leggi proibitive nord-americane, le quali ridussero assai fortemente quella che era la parte di gran lunga più cospicua dell'emigrazione calabrese, che era divenuta quasi per intiero transoceanica dopo le sue prime grandi manifestazioni e che presto si era decisamente orientata verso gli Stati Uniti d'America.
Dopo il 1921 l'emigrazione calabrese cercò altri sbocchi di là dall'Oceano Atlantico e li trovò nell'America Meridionale e soprattutto nella Repubblica Argentina, che ne assorbe tuttora grandissima parte, circa il 60%.
Fra il 1923 e il 1926 vi fu anche una notevole corrente emigratoria verso la Francia (1906 emigrati nel 1925), ora ridottasi e pressoché cessata. Le cifre del periodo 1919-1925 appaiono nello specchio seguente:
Le cifre totali della regione furono negli anni 1926, 1927 e 1928 rispettivamente 22.911, 20.931, 9714. Le cifre dei rimpatriati dal 1905 al 1913 furono considerevoli, ma sempre notevolmente inferiori a quelle dei partiti, con un massimo di 22.711 nel 1908 e un minimo di 10.214 nel 1905. La proporzione si accresce negli anni di guerra e si mantiene alta nel dopoguerra (6612 nel 1925), ma l'insieme dei ritorni è ben lungi dal colmare i vuoti lasciati per un periodo così lungo nella popolazione calabrese dal grandioso fenomeno, al quale si deve peraltro il principio del risorgimento economico della regione dopo molti secoli di stasi e di depressione.
La media della mortalità nella regione era nel 1927 del 17,45 per mille abitanti, cioè alquanto superiore alla media del Regno (1577), inferiore però a quella di tutte le altre regioni dell'Italia meridionale eccettuata la Sicilia. La natalità dello stesso anno era del 32,53 per mille, di fronte al 26,95 del Regno; superava cioè quella di tutte le altre regioni italiane, eccetto la Puglia e la Basilicata. L'eccedenza dei nati sui morti era di 24.497, cioè del 15,8 per mille, massima fra tutte quelle delle regioni d'Italia, dopo la Venezia e la Basilicata. A questo stato di cose, oltreché alla quasi cessata emigrazione, si deve in questi ultimi anni il rapido e notevole accrescimento della popolazione; fenomeno che, continuando con tutta probabilità a manifestarsi nei prossimi anni, porterà presto la densità della popolazione della regione a una cifra non inferiore a quella della densità del Regno. La provincia più densamente popolata è quella di Reggio, vengono in seguito Catanzaro e Cosenza. In nessuna delle tre, però, la popolazione apparisce omogeneamente distribuita, ma piuttosto raccolta e talora addensata in zone più o meno estese, di fronte ad altre più o meno scarsamente popolate e ad altre addirittura deserte. In genere la popolazione sfugge sia le zone pianeggianti costiere più ampie (sterilità del recente terreno alluvionale, malaricità), sia le parti più alte e terminali dei rilievi, lasciando le une e le altre interamente deserte. Al contrario, le zone di maggiore densità corrispondono o alle vaste oasi costiere o alle parti della zona premontana, dai 250 ai 500 m. circa, meglio favorite da condizioni speciali di clima e di terreno agrario. In genere i terreni terrazzati, costieri o che orlano internamente le pianure, sono quelli che si prestano meglio all'agricoltura, mentre le sono sfavorevoli quelli formati dai calcari compatti o dalle sterili argille e marne plioceniche. Ciò spiega anche perché queste aree di maggiore densità si trovino nel versante tirrenico piuttosto che nello ionico, meno favorito anche dal punto di vista della piovosità. Nella provincia di Reggio esistono, di fronte a zone disabitate quali l'Aspromonte terminale, la Montagna tabulare e la parte bassa della Piana di Gioia, zone d'intensa popolazione (costiera geracese, con densità di circa 250 ab. per kmq. e orlo interno della Piana di Gioia, con circa 300) e di intensissima (costiera reggina sino ai 300 m. con circa 600). La provincia di Catanzaro ha due sole zone di densa popolazione, l'orlo esterno dell'altipiano vibonese (circa 250) e il basso Nicastrese (200 circa), ma presenta in complesso minore estensione di zone completamente deserte e maggiore omogeneità nella distribuzione della popolazione. La provincia di Cosenza è quella che ha più frequenti e più vaste zone di alta montagna e di pianura costiera o interna malarica disabitate; la popolazione si addensa nei dintorni di Cosenza (250 circa), e nella costiera paolana tra Cetraro e Amantea (200 circa).
In complesso la popolazione calabrese tende ad abitare stabilmente fra i 250 e i 750 m. circa di altitudine (60% circa); il 10% vive tra i 750 e i 1000 m.; il 0,02% soltanto oltre i 1000 m., ove, all'infuori del capoluogo del comune di S. Giovanni in Fiore e di alcune abitazioni di guardiani, cantonieri, ecc., cessa ogni tipo di abitazione permanente. Il 30% circa della popolazione calabrese vive nella zona costiera sino ai 250 m.: in questa zona si trova quasi tutta la popolazione in case sparse, che nel censimento del 1921 era calcolata di 281.170 persone, cioè del 18,6% della popolazione totale; cifra che si può ritenere ora di parecehio maggiore e in continuo aumento a causa delle sempre nuove sistemazioni agrarie. Infine è da notare il fenomeno delle migrazioni interne, per le quali durante la stagione primaverile-estiva le zone più alte della regione (Sila, Piani d'Aspromonte, Montagna tabulare, anche la parte terminale dell'Altipiano dei Pori, ecc.) hanno una popolazione temporanea di pastori o di agricoltori che vi salgono per lo più dai paesi della zona premontana sottostante.
Caratteristiche economiche. Agricoltura. Industrie. - L'economia calabrese è in complesso ancora assai arretrata, per un insieme di cause naturali e storiche, le quali si potrebbero riassumere nelle condizioni di lontananza e d'isolamento della regione dalle maggiori zone produttive e dai maggiori mercati italiani ed europei, e nella sua scarsa importanza politica durante l'età moderna. L'agricoltura è ancora la ragione di vita della gran maggioranza della popolazione, come mostra la tabella in calce a questa pagina, che reca le percentuali delle occupazioni principali della popolazione calabrese, secondo il censimento del 1921.
Secondo determinazioni risalenti al 1913, della superficie totale del suolo calabrese venivano coltivati il 46%, mentre il 23% era occupato da pascoli naturali, il 23% da boschi e l'8% era formato da terreno improduttivo e non suscettibile di coltura. Attualmente le cifre possono ritenersi alquanto modificate nel senso d'una maggiore superficie coltivata, e più recenti valutazioni fanno salire al 27% la superficie boschiva, cioè ad una percentuale che è fra le maggiori dell'intera regione fisica italiana. Parte del terreno già dichiarato improduttivo potrà anche essere guadagnato all'agricoltura dalle bonifiche, già da tempo iniziate e la cui esecuzione ha avuto impulso dalla legge del gennaio 1928 sulla bonifica integrale (v. bonifica). L'agricoltura calabrese si esplica attraverso parecchi tipi di proprietà, dalla piccolissima al latifondo, indici l'una e l'altro delle arretrate condizioni economiche e sociali e del non sempre favorevole ambiente naturale. Il latifondo, infatti, è connesso con la malaricità e con la scarsa produttività dei terreni disabitati e poveri o privi di strade. Esso ha antica origine feudale e resistette alle leggi sull'eversione feudale del 1806, o, piuttosto, fu ricostituito dopo tali leggi, non accompagnate da quell'insieme di grandi opere, tecniche pubbliche (rimboschimenti, bonifiche, ecc.), che sole avrebbero potuto renderle economicamente e socialmente giovevoli. Nel 1911 si faceva salire il latifondo a ha. 100.741, cioè a circa il 7% dell'intera superficie agricola e forestale della regione, calcolata in ha. 1.386.139. Non tutto però il cosiddetto latifondo è rimasto tale nel suo significato economico più vero, cioè di terra in cui predomina la cerealicoltura estensiva associata al pascolo naturale. Molta parte infatti della più estesa proprietà calabrese, nelle zone meno infelici di produzione, suddivisa in grandi e medie affittanze, con produzione non limitata al frumento. Le zone costiere a coltura specializzata sono a loro volta caratterizzate da una media e da una piccola proprietà, che formano la ricchezza tipica e principale della regione, anche per le trasformazioni industriali alle quali dànno luogo. Nella zona semimontana e in quella montana, cioè dai 250 ai 1000 m. circa di altitudine, esistono grande e media e piccola proprietà, ma, specialmente nelle parti più alte e meno fertili, la proprietà tende a divenire frazionatissima, con risultati economici assai scarsi o addirittura negativi a causa dello sfruttamento irrazionale del suolo, con uso assai limitato di fertilizzanti e attrezzatura di lavoro in genere ancora primitiva.
Le cifre dei principali prodotti agrarî della regione dal 1923 al 1928 sono le seguenti:
La media della produzione del frumento nel periodo 1923-28 fu di q. 8,5 per ha., con un massimo di 11,2 nel 1925 e un minimo di 6,4 nel 1922; medie assai basse e inferiori a quelle di tutte le altre regioni dell'Italia Meridionale e delle isole. Per gli agrumi la Calabria viene in Italia subito dopo la Sicilia; più diffusa è l'arancio; vengono poi il bergamotto (costiera reggina, da Villa S. Giovanni sul Tirreno a Brancaleone sullo Ionio); poco estese sono le piantagioni di limoni e di cedri (costiera tirrenica settentrionale, fra Cetraro e Praia a Mare). Il mandarino ha pochissima importanza. Per la produzione delle ulive la Calabria viene in Italia subito dopo la Puglia, e ha nell'Italia meridionale il primato assoluto per quella delle castagne e dei bozzoli. Notevole è pure la coltivazione della frutta e degli ortaggi, per la quale la Calabria occupa uno dei primi posti nell'Italia meridionale, sebbene non lievi difficoltà, inerenti ai trasporti e derivanti anche dall'incertezza dei mercati forestieri, non le abbiano ancora permesso di divenire tipica, come quella degli agrumi, dell'economia regionale. Scarsa è la produzione della vite, anche perché i comuni calabresi sono tutti fillosserati, sì che il patrimonio viticolo della regione è tuttora in lenta ricostruzione.
L'allevamento del bestiame e la pastorizia sono parte ancora assai notevole dell'economia rurale calabrese. Essi tendono però a trasformarsi, con diminuzione degli ovini e soprattutto dei caprini e aumento dei bovini, le cui qualità si cercano di migliorare con l'introduzione di razze forestiere e l'incrocio con esse. L'allevamento è in genere di tipo brado o semibrado, con transumanza nelle zone montane dall'aprile all'ottobre o al novembre.
L'industria calabrese è quasi interamente ancora legata alla produzione della terra; nel linguaggio popolare le parole industria e industriante si riferiscono soltanto all'attività armentizia, alla quale va collegata la produzione dei latticini, ancora arretrata nei suoi sistemi, sebbene dia prodotti assai pregiati. Essenziali nell'economia della regione sono l'industria delle essenze di agrumi (Reggio), migliorata sin dal 1845 con l'introduzione di macchinarî, recentemente perfezionati, e la olearia (estrazione e raffineria dell'olio d'oliva, con i suoi centri a Gioia Tauro, Palmi, Gerace Marina, Siderno. Marina di Catanzaro, Nicastro, Rossano, Corigliano), che ha fatto progressi assai notevoli nel dopoguerra emancipando in parte la Calabria dalla soggezione economica a regioni settentrionali; l'una e l'altra sono però in periodo di crisi, la prima per le forti concorrenze straniere (Spagna e Tunisia), la seconda per i danni della mosca olearia e per la concorrenza degli olî di seme. Notevoli sono anche le industrie della liquirizia (Corigliano, Spezzano Albanese e Rende in provincia di Cosenza), della seta (filande di Villa S. Giovanni che esportano il loro prodotto in Lombardia), della frutta secca (costiere paolana e geracese, ecc.), e delle castagne infornate o pastille (alto Catanzarese). Accanto a queste industrie inerenti alla produzione della terra, sono da collocarsi molte altre attività che costituiscono piuttosto un vasto minuzioso artigianato domestico, i cui prodotti spesso non escono dai limiti delle piccole aziende famigliari o hanno soltanto sbocco nei mercati regionali: così la fabbricazione di terraglie diffusa un po' in tutta la regione, quella degli oggetti di giunco ed altro materiale vegetale per uso agricolo, quella degli oggetti casalinghi di legno tornito, ecc. Diffusa ampiamente in tutta la regione è la produzione tessile domestica (lino e ginestra, cascame di seta o capisciuola), che ha talora notevoli caratteri di arte di antica tradizione orientale (Longobucco, Bocchigliero, Cerzeto, ecc. in provincia di Cosenza e alto Crotonese). Tutta questa produzione casalinga e specialmente la tessile è però in grave crisi di decadenza, per la concorrenza della grande industria forestiera.
Industria notevole è quella del legname (Sila, Aspromonte occidentale, Serre catanzaresi), che nel dopoguerra si è attrezzata modernamente e dà produzione abbondante; essa però non può vincere ancora, soprattutto per la difficoltà e per il costo dei trasporti, la concorrenza forestiera, specialmente della Venezia Giulia, e ha perciò mercati quasi esclusivamente locali.
L'industria della pesca ha tradizioni antichissime nella regione ed è diffusa su tutte le coste, ma è in condizioni assai arretrate per mancanza di capitali e per la concorrenza di altre marine pescherecce meglio attrezzate. Nel 1928 essa occupava 1823 uomini nel dipartimento marittimo di Pizzo e 4059 in quello di Reggio. Il valore totale dei prodotti era nello stesso anno di lire 4.442.550, di fronte a lire 6.506.950 del 1927. Tipiche la pesca del tonno (Pizzo) e quella del pesce spada (tra Palmi e Villa S. Giovanni).
Le industrie minerarie non hanno grande sviluppo nella Calabria, sebbene la regione presenti assai svariate specie di minerali. I prodotti principali sono la calce e i cementi (Trebisacce, Tiriolo, Melito P. Salvo, ove sono sorti stabilimenti modernamente organizzati), il salgemma (Lungro, ove esiste la maggiore miniera italiana di salgemma, gestita dallo stato), le pietre da costruzione e specialmente i marmi (Gimigliano, in provincia di Catanzaro), il caolino (Parghelia, in provincia di Catanzaro). Nelle vicinanze di Strongoli (Catanzaro) si trovano alcune antiche miniere di zolfo che dànno minerale in non grande quantità ma notevolmente puro e pregiato. Pressoché nulla è l'estrazione dei minerali metallici, che un tempo aveva fama per le miniere di limonite nella zona di M. Pecoraro e del M. Stella, le quali alimentavano nel periodo borbonico gli stabilimenti siderurgici statali di Mongiana.
La grande industria non era rappresentata in Calabria sino all'entrata in funzione dei primi grandi impianti idroelettrici silani, la cui costruzione, progettata sino dal 1906 in conseguenza di provvedimenti legislativi ed economici straordinarî per la regione, non ebbe impulso che nel dopoguerra. Attualmente è in funzione la prima parte dell'intero impianto progettato, formata dal serbatoio dell'Ampollino con le tre centrali di Primo Salto, Timpa Grande e Basso Neto, e avente una produzione annua di energia elettrica che rappresenta da sola all'incirca il 75% di tutta la produzione regionale, la quale ammontava nel 1928 a circa 700.000 kw-ora annui. Parte di questa energia viene sfruttata a Crotone, ove sono sorti dal 1926 alcuni grandiosi stabilimenti nei quali si fabbricano ammoniaca sintetica e concimi azotati e si estrae l'acido solforico da minerali grezzi sardi (v. crotone). Il caso di Crotone è però probabilmente destinato a rimanere unico ancora per parecchio tempo, dato che la regione si trova tuttora, in certo senso, soltanto all'inizio della trasformazione necessariamente lenta della sua economia e del passaggio da una produzione di tipo prevalentemente domestico a quella di tipo propriamente industriale.
Viabilità e mezzi di comunicazione. - La viabilità ordinaria e quella ferroviaria rispecchiano da vicino i caratteri ancora arretrati dell'economia della regione, oltreché le condizioni naturali e specialmente l'orografia di quest'ultima. Sino al 1860 la Calabria non aveva che una sola grande arteria stradale, cioè la carrozzabile detta delle Calabrie, che da Campotenese giunge sino a Reggio per la valle del Crati e per Cosenza, Tiriolo, Vibo Valentia e Palmi, con qualche breve diramazione, delle quali la più importante era la Tiriolo-Catanzaro. Le costruzioni poi eseguite portarono nel 1906 la rete stradale a 3432 km. Le costruzioni però erano state fatte senza un piano organico, avendo soprattutto di mira l'interesse dei singoli paesi e lo scopo principale di avvicinarli alle ferrovie. Con la legge speciale per la Calabria del 25 giugno 1906, s'iniziò l'attuazione di un nuovo piano organicamente concepito e tendente a riunire tra di loro i paesi, per lo più rimasti isolati sulle loro rupi; ma l'esecuzione ne fu arrestata dalla necessità straordinaria di spese in seguito al terremoto del 1908 e poi dalla guerra europea. Il piano fu ripreso nel 1920, ma ebbe un decisivo impulso solo dopo il 1925, con l'istituzione del Provveditorato alle opere pubbliche in Calabria, il quale ha attualmente in esecuzione un piano di costruzioni che porterà la rete stradale calabrese a circa 7500 km., cioè alla proporzione di mezzo km. per kmq. Manchevole è tuttora la Calabria di strade poderali e vicinali per i bisogni dell'agricoltura. La costruzione di esse fa parte dei piani di bonifica integrale in attuazione della legge del gennaio 1928.
La Calabria ha una rete ferroviaria principale a scartamento ordinario (Ferrovie dello Stato) di 830 km., formata di due linee costiere, ionica e tirrenica, e di linee di raccordo fra esse. Dal 1866 al 1875 fu costruita la ferrovia ionica, della quale era più forte la necessità, essendo maggiormente isolato dal rimanente d'Italia il versante ionico, mentre il tirrenico aveva possibilità di comunicazioni marittime (Reggio, Scilla, Pizzo, Scalea). Nel periodo 1881-1895 fu costruita la linea tirrenica Battipaglia-Reggio; dal 1876 al 1879 fu costruita la Cosenza-Stazione di Sibari e dal 1889 al 1899 la Marina di Catanzaro-Staz. S. Eufemia Biforcazione. Ultimo ad essere costruito fu il raccordo Cosenza-Paola, attraverso la catena costiera tirrenica, terminato nel 1915. La legge per la Calabria del 5 giugno 1906 prevedeva anche la costruzione di una rete di ferrovie complementari a scartamento ridotto, allo scopo di allacciare i centri minori più importanti tra di loro e di dar luogo a vie dirette di comunicazione e di trasporto tra gli opposti versanti della regione. Sono attualmente in esercizio, delle linee allora progettate, 30 km. e altri tratti di esse sono in esecuzione o già prossimi all'apertura. Il complesso darà alla Calabria una rete complementare che gioverà grandemente ai rapporti fra le sue popolazioni, metterà in valore zone, come la Sila, sinora economicamente poco sfruttate e potrà crearvi forse anche condizioni di vita atte ai soggiorni permanenti.
Grande importanza ha avuto nel ventennio decorso la trazione a motore in una regione come la Calabria, scarsa di ferrovie. L'automobile è stato per essa causa notevolissima di progresso economico e ha prodotto effetti assai profondi nella sua vita sociale. Le linee automobilistiche pubbliche sovvenzionate dallo stato erano 79 al 31 dicembre 1928, con un complesso di 2094 km. di percorso. Assai scarso è al contrario il traffico marittimo, venuto quasi completamente meno in seguito alla costruzione delle ferrovie costiere, e pressoché inesistente è l'attrezzatura navale della regione. I due dipartimenti marittimi di Pizzo e di Reggio Calabria avevano nel 1928 una marina mercantile di 21 navi a vela e una nave a vapore con una stazza complessiva di 1543 tonnellate. Occupano perciò l'ultimo posto nella classifica dei compartimenti marittimi del Regno. Notevole è tuttavia il movimento del porto di Crotone (v.), dovuto interamente allo sviluppo industriale della città. Considerevole è l'emigrazione di gente marittima calabrese verso importanti centri portuarî italiani, ad esempio da Pizzo di Calabria a Genova.
I centri abitati. - La popolazione calabrese ha la tendenza, comune a tutte le popolazioni dell'Italia meridionale e insulare, a vivere agglomerata; ma, a differenza di ciò che avviene nelle altre regioni e specialmente nella Puglia e nella Sicilia, prevalgono in essa i centri piccoli e i piccolissimi. Infatti dal censimento del 1921 risultavano in Calabria soltanto dieci centri di popolazione superiore ai 10.000 abitanti, di fronte a 114 dai 2000 ai 10.000, a 348 dai 501 ai 2000 e a 328 dai 50 ai 500. Attualmente i centri superiori ai 10.000 abitanti sono 17, dei quali 6 in provincia di Cosenza, 4 in provincia di Catanzaro, 7 in provincia di Reggio; due di essi stanno fra i 20.000 e i 30.000 (i nuclei cittadini di Catanzaro e Cosenza) e uno fra i 70 e gli 80.000 (nucleo cittadino di Reggio). Il numero di gran lunga maggiore dei centri calabresi, grandi, medî e piccoli, capoluoghi e frazioni di comune, sono situati nella zona già ricordata fra i 250 e i 750 m. di altitudine, sui fianchi dirupati e sui terrazzamenti dei rilievi, là dove sin dalla fine dell'età classica le popolazioni si rifugiarono, sfuggendo le coste e le parti basse e vallive per sottrarsi alla malaria e alle depredazioni dei corsari orientali, e dove esse vennero creando faticosamente, e spesso con conseguenze non liete per l'avvenire economico della regione (disboscamenti delle montagne, abbandono di terreni agrarî costieri, impaludamenti), l'ambiente agrario indispensabile al loro sostentamento.
Al disopra dei 750 m. i centri sono assai meno frequenti e i capoluoghi di comune sono in tutto soltanto 29 nell'intera regione (15 in provincia di Cosenza, 10 in provincia di Catanzaro, 4 in quella di Reggio); abbastanza numerosi sono ancora i piccolissimi centri, in parte di recente formazione (emigrazione). Al disopra dei 1000 m. non vi è in Calabria che un solo centro abitato in permanenza, il capoluogo del comune di S. Giovanni in Fiore, a 1008 m. sull'orlo orientale silano. È notevole il fatto che questi centri posti ad altezza superiore ai 750 m. si trovano tutti sul versante ionico, in corrispondenza ai tratti pianeggianti costieri fortemente malarici, tolti alcuni pochi situati sul fianco occidentale della Sila Grande.
Le due zone costiere tirrenica e ionica presentano, rispetto ai loro centri abitati, una notevole differenza inerente ai caratteri alquanto diversi dalla loro conformazione. La prima è abbastanza ricca di centri abitati, per lo più paesi collocati sin da tempi remoti (età bizantina e alto Medioevo) sui pittoreschi promontorî, ai piedi dei quali si stendono le loro "marine", da pesca e da traffico, quasi tutte assai decadute dall'importanza che avevano un tempo (Scilla, Bagnara, Tropea, Pizzo, Amantea, Cetraro, Scalea, ecc.), prima della costruzione della ferrovia costiera. Sulla costa ionica è, relativamente alla sua maggiore lunghezza, assai meno considerevole il numero dei centri marittimi, a causa della presenza di una cimosa bassa e pianeggiante e della sua maggiore malaricità. In questa costa è però notevole il fenomeno, non proprio della sola Calabria ma in questa regione manifestatosi con singolare intensità, dello sdoppiamento dei paesi dal fianco montano verso il mare. Esso, cominciato timidamente nel sec. XVII in seguito all'inizio della grande coltura degli agrumi (ad es. Melito Porto Salvo), si fece assai importante e generale dopo la metà del sec. XIX con la costruzione delle ferrovie costiere. Il fenomeno ebbe le sue manifestazioni più singolari nella Calabria ionica meridionale e specialmente sulla costa geracese, ove si vennero così formando, sull'orlo stesso marino, centri importanti talora rapidamente assurti a carattere economico e demografico cittadino; meno vivace fu più a settentrione, a causa della maggiore malaricità della costa. Sul Tirreno il fenomeno ebbe solo scarse e poco significative manifestazioni, e si esplicò piuttosto con l'ampliamento delle marine già esistenti, mentre sullo Ionio rispose soprattutto ai bisogni dell'economia agricola e specialmente a quelli del traffico dei prodotti dell'agricoltura.
L'aspetto dei centri abitati calabresi è, in genere, povero, e poverissimo è per lo più quello dei piccoli e dei piccolissimi centri, quasi tutti ancora in primitive e deplorevoli condizioni edilizie e igieniche. A ciò ha contribuito assai il ripetersi frequente dei terremoti, che spesso hanno addirittura sconvolto o profondamente trasformato l'aspetto d'intere zone della regione, distruggendo opere d'arte insigni e sostituendo all'aspetto edilizio secolare, caratteristico e decoroso, un altro pressoché informe, a costruzioni basse e senza carattere. Comune è così, specialmente nella Calabria meridionale tirrenica (Altipiano vibonese, Piana di Gioia, Aspromonte occidentale, ecc.), il tipo del paese risorto dopo il terremoto, a vie larghe e a grandi piazze disegnate geometricamente con casette ad un piano o ancora superstiti baraccamenti. Anche nella toponomastica è spesso facile trovare il segno dell'origine di tali paesi (Filadelfia, Pianopoli, Cittanova, Cinquefrondi, Delianuova, Terranova), talvolta formati per via di sinecismo di popolazioni di più paesi o villaggi distrutti.
I centri cittadini veri e proprî della Calabria sono pochi, benché il nome di città sia spesso attribuito o conservato a centri che hanno soltanto carattere agricolo, per lo più ad antichi e spesso ora spopolati paesi medievali bizantino-normanni, talora nobilitati dall'essere stati o dall'essere ancora sedi vescovili (Bova Superiore, Gerace Superiore, Santa Severina, Cariati, ecc.). Né possono considerarsi vere e proprie città alcuni centri tra i più popolosi della regione (Acri, ab. 4346, S. Giovanni in Fiore, 11.214, Corigliano, 14.552), i quali sono soprattutto grossi agglomeramenti rurali ai margini di ampie e deserte estensioni agricole o forestali. Nella provincia di Cosenza si possono considerare come centri cittadini, dopo il capoluogo, Rossano (ab. 10.787 nel 1921) di origine bizantina, centro della zona olearia ionica cosentina; Castrovillari (abitanti 8955), centro economico della Calabria settentrionale calcarea e nodo importante per le comunicazioni con la Basilicata; Paola (ab. 9328), principale centro ferroviario tirrenico e mercato agricolo notevole. Nella provincia di Catanzaro, dopo il capoluogo sono da notare Crotone (già Cotrone, ab. 8588), principale centro industriale della regione e porto di notevole avvenire; Nicastro e Vibo Valentia (già Monteleone Calabro), rispettivamente con 15.511 e 9392 ab., mercati di zone agricole vaste e fiorenti. I centri cittadini della provincia di Reggio, dopo il capoluogo, che è la città più estesa e più popolata della regione, sono, sul versante tirrenico, Palmi (ab. 11.771), città agricola ricostruita interamente dopo il terremoto del 1908; Cittanova (ab. 13.494), sull'alto orlo della Piana di Gioia; sul versante ionico, Gerace Marina e Siderno Marina, rispettivamente con 3932 e 5616 ab., centri agricoli costieri vicinissimi tra di loro. È da notare infine come la Calabria non abbia mai potuto, a causa delle sue speciali condizioni fisiche e delle sue vicende storiche, formare in sé una grande città che sia assurta a carattere e a importanza di metropoli regionale. Catanzaro, Cosenza e Reggio, pur contando ciascuna benemerenze insigni nella storia dell'intera regione, non hanno mai potuto nè possono aspirare ad essere considerate ciascuna come capoluogo della regione, anche se si trovano in una fase di notevole ampliamento e di trasformazione edilizia, e, soprattutto Reggio, di accrescimento di popolazione, e sebbene Catanzaro abbia per sé la sua favorevole posizione geografica.
Bibl.: E. Cortese, Descrizione geologica della Calabria, Roma 1895; T. Fischer, La penisola italiana, Torino 1902, pp. 300-310; S. Pagano, La Calabria, Catanzaro 1927; G. Algranati, Basilicata e Calabria, Torino 1929; G. Isnardi, Sul confine terrestre della Calabria, in Atti dell'XI Congresso geografico italiano, Napoli 1930; S. Pagano, Qualche esempio di movimenti di popolazione in Calabria, in L'Universo, VIII (1927); M. Valenti Millotti, I centri costieri della Calabria e il loro sviluppo, Catanzaro 1924; Taruffi, De Nobili, Lori, La questione agraria e l'emigrazione in Calabria, Firenze 1908; Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e nella Sicilia, V, Roma 1911; Annuario statistico italiano, dal 1878 al 1929.
Folklore.
Le ricerche comparative hanno dimostrato il carattere magico-religioso e l'antichità di molte fra le tradizioni popolari calabresi. Secondo usanze ora dismesse, si diceva acceppata la fanciulla, sulla cui soglia l'innamorato, per farsi intendere da lei, avesse posto un ceppo adorno di nastri; e scapellata quella a cui il pretendente avesse strappato in pubblico il copricapo per indurre i genitori riluttanti al consenso. In S. Giovanni in Fiore, nella vigilia delle nozze, la sposa riceve il cistiellu (cesto) contenente gli abiti nuziali che lo sposo le manda con una bambola di caciocavallo, adorna degli ori per la cerimonia.
La nascita di un bambino, se maschio, si annunzia con cinque colpi di fucile, se femmina, con quattro. Nel primo caso la creatura si porta al fonte battesimale adorna di nastri azzurri facendole poggiare il capo sul braccio sinistro; nel secondo, adorna di nastri rossi, col capo sul braccio destro; prima del battesimo è paganella e non dev'essere guardata e, tanto meno, baciata.
Le nenie funebri (repitu) diffuse un tempo, ma proibite dai sinodi diocesani, sono ora scomparse. Rigide norme governano il lutto: il focolare è spento, la porta è abbrunata; gli uomini si lasciano la barba intonsa; la vedova dell'ucciso ne indossa il cappotto. Gli abiti tradizionali maschili sono scomparsi: il cappello a cono adorno di fettucce, le brache di panno o di velluto verde o turchino, le calzette di lana nera o chiara. Perdurano invece i costumi femminili, fra cui caratteristici il panno rosso (sottana di color scarlatto) nel territorio che va da Belvedere Marittimo a Tiriolo; l'abito nero nella zona attorno a S. Giovanni in Fiore; la gonna azzurra, nella provincia di Reggio.
Feste e spettacoli rappresentano l'apoteosi del santo patrono, al cui intervento varî paesi attribuiscono la salvezza dalle aggressioni dei corsari barbareschi. Avanzi di sacre rappresentazioni si vedono nella settimana della Passione. Nella notte del Natale, sul focolare arde il ceppo contornato di tanti altri piccoli ceppi quante sono le persone della famiglia. Nel Carnevale le vie e le piazze sono percorse dalle comitive dei zupini e dei farsanti, che mettono in parodia gli avvenimenti paesani.
Fra i canti popolari predominano le forme liriche; principale fra di esse è la canzune (strambotto). Le canzuncine son d'argomento sacro.
Le leggende (rumanze nel Cosentino) possono essere raccontate o cantate,
Fra le danze tipica è. sui monti, la pecurara, il ballo dei pastori, ma è molto diffusa la tarantella, che un tempo si eseguiva al suono della cornamusa e della lira.
Bibl.: V. Dorsa, La tradizione greco-latina negli usi e nelle credenze della Calabria citer., 2ª ed., Cosenza 1884; G. De Giacomo, Il popolo di Calabria, I, Castrovillari 1897; II, Trani 1899; R. Corso, Patti d'amore e pegni di promessa, S. Maria Capua 1925; P. Rossi, Le rumanze e il folklore in Calabria, Cosenza 1903; M. Mandalari, Canti del pop. reggino, Napoli 1881; R. Lombardi-Satriani, Canti pop. calabresi, I, Napoli 1929. L. Di Francia, Fiabe e novelle calabresi, Torino 1929. Vedi anche le riviste: La Calabria (1888-1901); Il Bruzio (1878); Folklore calabrese (1915-1920); Folklore (1921-1929).
Dialetti.
Conviene tener distinta, nell'esame linguistico, la zona calabrese meridionale da quella settentrionale. Da Catanzaro sino alla punta estrema della Calabria, il vocalismo ha caratteri siciliani: l'é??? e l'ó??? vi si fanno í e ú rispettivamente, senza riguardo alla vocale d'uscita (p. es. catanz. vina "vena", Serrastretta, vina, regg. vina, ecc.; vutu, gula, ecc.); anche l'-e e l'-i s'incontrano in -i nel tratto estremo da Nicastro e Tropea sino a Reggio e Melito Porto Salvo (p. es. kori, denti, ecc.); ma questo fenomeno si rinviene anche in una zona centrale, ad Acri. Nel tratto settentrionale, lo sviluppo per í da é è condizionato dall'uscita in -ŭ e -ī (vena a Saracena, Acri, Mangone, Melissa, ma gilu, pilu, dappertutto), mentre più esteso e, si potrebbe dire, generale, è l'ú da î??? (a vúkka "la bocca", gúvitu, vúvitu "gomito", nepúte "nipote", ecc.); e anche l'-e non volge a -i (kore, dente a Saracena, Mangone, ecc.), mentre dappertutto l'-o s'incontra con l'-u. Un parallelismo analogo, col tipo siciliano da un lato e il napoletano dall'altro, si osserva nello svolgimento delle vocali aperte é??? e ó???, perché mentre queste rimangono invariate quando la parola non finisce per -ī e -ŭ (pelle, peḍḍe, dente, kore e kori, ecc.), si dittongano, sia in sillaba libera, sia in posizione, quando si abbiano le condizioni metafonetiche, particolarmente nella zona settentrionale (p. es. úossu "osso", ma òssa "ossa", ad Acri, Serrastretta, ecc.; invece abbiamo óssu al singolare a Reggio, a S. Pantaleone, ecc.); e in modo analogo, avremo al singolare dènte, ma al plurale díenti, diénti, dinti nella zona centro-settentrionale e dènti in quella meridionale.
Notevole è il mutamento isolato di á in å in contatto con nasale a Mangone (p. es. gåna "dente molare", canåta "cognata") e diffuso è, accanto a quello letterario, lo svolgimento del dittongo au in agu (táguru "toro", laguru "alloro").
Compaiono i fenomeni consonantici caratteristici dei dialetti centro-meridionali (v. italia: Dialetti; abruzzo: Dialetti; basilicata: Dialetti; campania: Dialetti; puglia: Dialetti); è necessario fare parecchie distinzioni, considerando la grande varietà delle parlate calabresi.
Per es.: ll ha tre esiti principali che si possono ripartire così: 1. ḍḍ al nord e al sud (koḍḍu "collo"; peḍḍa, peddi "pelle"); 2. ll nel centro (kúollu; pelle, pelli; ma a Melissa hoḍḍu e peḍḍa); 3. i̯ (kòyu, peyi in una zona fra centrale e meridionale da Conidoni sin verso Gerace). Il gruppo mb presenta lo sviluppo centro-meridionale mm nella zona settentrionale (gamma), ma rimane mb, dato che non si tratti di una ricostruzione, nel tratto meridionale (gamba). Altrettanto si dica della conservazione reale o apparente di nd. Il nesso nt rimane nel mezzogiorno e nel calabrese centrale mentre nella parte settentrionale del sistema volge a nd come nel campano, nel basilisco, nel pugliese (per es. ćanta, ad Acri kjanda "pianta"); fl ha anch'esso più esiti: l'aspirata mediopalatale χi (Catanzaro: yiatu "fiato", χiure "fiore", χianku "fianco", e così a Castrovillari, Tropea, Laureana, Terranova); j nel cosentino; e anche (a meno che non si tratti sempre della palatale aspirata h) š da Radicena a Reggio. Anche lj ha esiti varî: l′, jj, ggj, ǵǵ: figliu, fijju, figghiu, figgiu. Hanno duplice esito cj e ti, cioè: zz e ćć. Per gn, lo sviluppo è, specialmente nel Cosentino, un: p. es. aunu, amunu (lat. agnu), livunu (lignu). Abbiamo perdita della gutturale in cognatu e cognoscere. Il gruppo gl- si presenta nelle forme di jj, ggj e l′, p. es. jjanda (ajjanda), aggjanda "ghianda"; aggjuttuni "ghiottone"; aggjiru, aglire, jjiru, a seconda dei luoghi; ma qui sarebbero opportune maggiori informazioni. È naturale che pl vada con cl: kjanu "piano", inkire "empire" (kjovu, uokkju), ecc. Il nesso lt si svolge, ma non dappertutto, in t: bota "volta"; ma abbiamo ávutu "alto", atru "altro"; ld ci dà dd, rd o si mantiene, a seconda delle località. Il nesso nf dà mp: mpernu "inferno". Per le consonanti semplici, sia ricordato l in d ad Acri, p. es. pidu "pelo".
Per il rispetto morfologico, va notato che è rarissimo il plurale in -ŏra (cosent. àkura, kàpura) e che frequente è l'uscita in a al plurale: i vrazza, i kjova, ecc. I nomi femminili in e, laddove l'e rimane, non dànno i al plurale: kruće, nuće.
Manca il futuro, sostituito dal presente, p. es. mannu e mandu "manderò". Si usa in senso di condizionale fino a Catanzaro una forma in -érra (amerra, volerra, facerra), che pare ricongiungersi al piuccheperfetto latino; più a sud, la forma è in -ia. Il congiuntivo è rarissimamente usato. In suo luogo si adopera l'indicativo con mu e kimmu (lat. quo modo), o pimmu (pro modo), e in alcuni luoghi, per analogia di ka (quia), si usa ma, o, per analogia di ki, si adopera mi, p. es. li disse mi sede.
L'articolo sostituisce il possessivo con i nomi di parentela: a lu patre "a suo padre" (o anche a pátressa, perché nel calabrese sono molto usati gli enclitici ma, ta, sa con "padre, madre, zio", ecc.). In luogo del promme di 3ª persona indiretto, si adopera l'avverbio ćći, ćće o nći, p. es. ćće dunau "gli donò".
Lasciando da parte le colonie greche (mandamento di Bova) e quelle albanesi (nel circondario di Castrovillari e nei mandamenti di Borgia, Cerzeto, Gropani, Nicastro, Strongoli, ecc.), per cui si veda alla voce italia: Dialetti, ricorderemo che a Guardia Piemontese (Cosenza) si parla un dialetto di tipo alpino occidentale (alte vallate piemontesi), che aspetta ancora uno studio approfondito, dopo le buone, ma rapide, note del Morosi (Arch. glott., ital., XII, p. 381).
Bibl.: F. Scerbo, Sul dialetto calabro, Firenze 1886; A. Gentili, Fonetica del dial. cosentino, Milano 1897; G. Bertoni, Italia dialettale, Milano 1916; Jaberg e Jud, Sprach- u. Sachatlas Italiens u. der Südschweiz, Zofingen, I (1928), II (1929).
Letteratura dialettale.
Non ricca, né importante è la letteratura d'arte in dialetto calabrese, e del resto ciò è coerente con le scarse manifestazioni che la poesia in generale ha in quella regione, che ha sempre trovato e trova in altri campi, e soprattutto nella filosofia, di che appagare la proprie esigenze spirituali. Ricorderemo tuttavia i nomi dei più importanti scrittori in versi dialettali.
Il primo di essi in ordine di tempo è Domenico Piro da Aprigliano (Cosenza), detto Duonnu Pantu (1664 o '65-1696), verseggiatore notissimo ancor oggi nella sua regione, soprattutto per l'oscenità e trivialità di molti dei suoi versi, più volte editi. E in ogni modo sciolto e fluido congegnatore di strofe, e si muove con molta disinvoltura nell'equivoco genere che predilige. Castigato scrittore è invece l'abate Giovanni Conia (1752-1839) da Galatro (Reggio Calabria), la cui arte, ben altrimenti compiuta e conscia, è degna talvolta di esser chiamata poesia; mentre Pier Vincenzo Gallo (1811-1865) da Rogliano (Cosenza) non può esser ricordato che per certa sua simpatica spontaneità e immediatezza. Maggiore di tutti è indubbiamente Vincenzo Padula (v.), che è poi il maggiore dei moderni poeti calabresi in lingua italiana; ma accanto a lui va nominato, per la robustezza delle immagini, Vincenzo Ammirà (1821-1898) da Monteleone Calabro (ora Vibo Valentia, in provincia di Catanzaro), che però troppo spesso si compiacque dell'oscenità per l'oscenità.
Nei nostri tempi, diffondendosi con grande celerità la cultura, e con essa il gusto letterario e la frequenza dei contatti con altre letterature dialettali, v'è tutta una vivace fioritura di poesia in dialetto. Tra questi poeti ultimi ricorderemo Michele Pane, nato ad Adami di Decollatura (Catanzaro) nel 1876, le cui Viole e ortiche (New York 1906) e soprattutto gli Accuordi (Napoli 1911; Catanzaro 1930), sono opere di poesia tenue ma sincera e persuasiva, in cui la nostalgia accorata ma serena per luoghi e uomini della sua terra e della sua infanzia (il Pane è emigrato da molti anni in America) si esprime naturalmente nelle forme del dialetto. Belle Favole inedite ha Vittorio Butera, nato a Conflenti (Catanzaro) nel 1877, che maneggia i metri e domina le difficoltà di un linguaggio ancor rozzo per espressioni letterarie, con originalità e spontaneità veramente singolari.
Senza dubbio assai più ricca e, dal lato folkloristico, assai interessante è la letteratura cosiddetta popolare. Rumanze (fiabe o leggende) fantastiche e ingenue, strine (canti propiziatorî di strenne) disinvolte, ninne-nanne e serenate rozze e dolci, canti d'amore (canzoni a sdegno, a dispetto, di spartenza, disperate, stornelli, contrasti, ecc.) pieni di passione per lo più pudica; dovizia di canti religiosi: l'anima del popolo calabrese, montanaro e marinaro, si effonde in questa letteratura, il cui carattere principale è l'ardore diffidente e chiuso, che sembra restio a rivestirsi di parole, e talvolta è persino cupo e squallido. L'umorismo, scarso ed esasperato, diventa per lo più espressione di spregio, sarcasmo, invettiva tanto più aspra quanto più è dissimulata la sofferenza di chi la scaglia. E accanto a questo, la dolcezza dell'abbandono al sogno più lontano, e la fresca gioia del meraviglioso.
Bibl.: Oltre quella citata sotto al paragrafo Folklore, v.: A. Tosti, Poeti dialettali dei tempi nostri, Lanciano 1924; L. Fucile, Un poeta dialettale della Calabria reggina: l'abate Conia, Messina 1927; V. G. Galati, V. Ammirà, Firenze 1929; G. Algranati, Calabria forte, Milano s. a.; Fiorita di canti tradiz. del pop. ital., 2ª ed., Firenze 1925, p. 51 segg.; Canti del popolo reggino, a cura di M. Mandalari, Napoli 1881; A. Lumini, Le farse di carnevale in Calabria e Sicilia, Nicastro 1888; id., Studi calabresi (Le sacre rappresentazioni ecc.), Cosenza 1890; S. De Chiara, La mia Calabria, Milano 1920.
Preistoria.
Nonostante la grande quantità di materiali paletnologici, soprattutto appartenenti alla seconda età della pietra, rinvenuti nelle tre provincie che componevano in antico l'Ager Bruttiorum, il quadro della preistoria calabrese non può tracciarsi con quella chiarezza e precisione di dati che sussistono per altre regioni italiane. Se i materiali abbondano (ricche collezioni si trovano ora nei musei di Catanzaro, di Reggio, di Siracusa, di Crotone, nel Nazionale di Napoli, nel Preistorico di Roma, e altrove), essi però provengono nella massima parte da ritrovamenti fortuiti o sporadici, ovvero da investigazioni limitate e superficiali; poche assai furono le campagne regolari di scavo finora eseguite in terra calabrese, e le prime rimontano ad anni non lontani, per merito soprattutto di P. Orsi, e furono rivolte allo studio delle antichità meno remote. Quel poco che possiamo dire della preistoria calabrese è dunque dovuto all'opera di alcuni studiosi e collezionisti privati.
Le prime notizie di preistoria calabrese sulla base dei reperti materiali, furono fornite fra il 1871 e il 1879 dall'antropologo Giustiniano Nicolucci; dopo di lui si devono ricordare i nomi di Giuseppe Ruggero, di Vincenzo Rambotti, di Domenico Lovisato e di G. Foderaro, dei marchesi Lucifero e Gagliardi, di altri, fino al dottor Domenico Topa, il quale recentemente in un lavoro sintetico ha riassunto tutte le sparse notizie.
Per i tempi pleistocenici, cioè per l'età paleolitica, non mancano testimonianze della presenza dell'uomo, benchè scarse; una sola località, la grotta della torre di Talao presso Scalea, in provincia di Cosenza, ha fornito strumenti di selce e di quarzite, punte, raschiatoi, schegge, di tipo moustériano. Le selci segnalate già nel 1885, studiate e ben definite più tardi da A. Mochi, furono raccolte in associazione con resti di fauna quaternaria (Elephas antiquus, Rhinoceros Mercki, Hippopotamus amphibius, Cervus elaphus, Bison priscus, Ursus spelaeus, Hyaena crocuta sp., Equus caballus, ecc.); in modo che l'appartenenza al Pleistocene di questi relitti industriali, primo segno di vita umana nella Calabria citeriore, è fuori dubbio. Non così può dirsi di altri manufatti silicei, creduti di foggia moustériana, raccolti in strato alluvionale nella valle del Pellena (o Alessi) presso Squillace; oltre le condizioni di giacimento e la forma dei manufatti, la presenza di resti ceramici mescolati alle selci toglie la possibilità di attribuire queste ai tempi del Paleolitico.
La quantità di oggetti appartenenti all'età neolitica, raccolti nelle varie contrade calabresi, soprattutto nella provincia di Catanzaro, è veramente ingente; e già nel 1879 il Nicolucci poneva in rilievo questo fatto. Nelle collezioni paletnologiche calabresi si contano ricchissime serie di asce, scalpelli e simili, di pietra levigata (diorite, serpentino, porfido, basalto, quarzite, e anche giadeite e nefrite) che per le forme e per la tecnica della lavorazione non si differenziano dall'analogo materiale rinvenuto nelle diverse regioni d'Italia. Speciale menzione deve farsi per il martello litico con scanalatura in giro, di cui la Calabria ha fornito esemplari numerosi e pregevoli, tanto da potersi supporre una lavorazione caratteristica locale; molto usata l'ossidiana che forse venne importata dalle Lipari riccamente fornite di questo minerale.
Mentre la provincia di Cosenza finora si presenta quasi del tutto sfornita di vestigia neolitiche, quelle invece di Catanzaro e di Reggio, oltre alla straordinaria abbondanza di oggetti raccolti sporadicamente, hanno rivelato tracce di abitazione e sepolcri con rito ben definito; le zone più fruttifere, e dove è possibile supporre una densità di abitati non indifferente, sono le valli sul golfo di Squillace, specie dell'Alessi e dell'Ancinale, e il territorio reggino (valle del Calopinace, Monte Basilico, spiaggia di Melito). Anche sul versante tirrenio, a Monteleone, furono riscontrate tracce di una stazione all'aperto, menzionate dal Lenormant nel suo libro sulla Magna Grecia. Benché i dati di scavo non siano abbondanti, si possono ritenere attestati anche in Calabria i modi d'abitazione comuni a tutte le altre genti neolitiche d'Italia; sia in grotte naturali, come nei monti di Tiriolo (valle di Donnopetro), sia in capanne. Tracce evidenti di focolari neolitici furono notate dal Foderaro presso Cardinale, sulla sponda destra dell'Ancinale, e anche a Salto la Vecchia presso Melito. Ma le vestigia più importanti, nonostante la limitatezza dei ritrovamenti, sono quelle funebri; nel Catanzarese, presso Girifalco, nel fondo Caria, il marchese A. Lucifero scavò alcune tombe, formate da lastroni di pietra, e contenenti lo scheletro rannicchiato. Il corredo funebre si componeva di rozza stoviglia di impasto, di asce di pietra levigata, di due lame di selce e di un grande anello di ardesia; fatto notevole fu l'aver trovato in una tomba sola ben sette cranî, probabile segno della tumulazione di ossa scarnite, secondo il Pigorini. Non solo per gli oggetti ritrovati, ma più ancora per la testimonianza del rito funebre dell'inumazione rannicchiata (che in Calabria risulta persistente fin nella prima età del ferro) si ha diritto di ritenere che questi primitivi abitatori della Calabria appartengano al grande strato etnico (stirpe ibero-ligure dei paletnologi) produttrice nel nostro paese della civiltà neolitica.
Per il periodo eneolitico si hanno deboli testimonianze, se si pretendono trovamenti di oggetti tipici, ma la continuità degli abitati neolitici può provarsi con la stazione di Donnopetro sotto Tiriolo; parimenti può dirsi per l'età del bronzo. Per questa, attenendoci alle scoperte finora avvenute, bisogna riconoscere che in Calabria manca sostanzialmente la vera e propria civiltà enea, ma armi e strumenti caratteristici di questa si rinvennero qua e là.
Ma la ricchezza e l'importanza delle vestigia paletnologiche, già riscontrate per il neolitico, nuovamente si notano per la prima età del ferro. Vestigia quasi esclusivamente funebri, esse provengono da tombe numerose e da intere necropoli, rintracciate in tutte tre le provincie. Le località principali sono le seguenti: nel Cosentino: Torre del Mordillo, Spezzano e Terranova, S. Croce, Laino; nel Catanzarese: Cirò, Strongoli, Scandale, Crichi, Settingiano, Borgia e Squillace (versante jonico), e Torre Galli presso Monteleone, Nicotera (versante tirrenico); nel Reggino: S. Leo, Cannitello, Sala e Trunca, e Reggio stessa. Le necropoli che, per il numero delle tombe e per la ricchezza dei corredi, più servono allo studio della civiltà indigena venuta a contatto dei colonizzatori greci, sono quelle di Torre del Mordillo nella valle del Coscile, esplorata da L. Viola nel 1887-1888 e descritta dal Pasqui e dal Pigorini; di Torre Galli e di Canale-Janchina, le quali, ben esplorate nel 1922-23, furono accuratamente studiate da P. Orsi.
Esaminate nel loro complesso, queste tombe calabresi ci presentano innanzi tutto l'uso esclusivo del rito inumatorio. Ciò può affermarsi con sicurezza, poiché, meno due casi assai dubbî, i soli casi sicuri di incinerazione (otto su 336 tombe esplorate) riscontrati a Torre Galli, vanno spiegati secondo l'Orsi come il prodotto di infiltrazione di elementi greci. La posizione del cadavere e la forma del sepolcro non sono dappertutto le medesime. Nella necropoli di Torre del Mordillo e nelle fosse di Scandale il cadavere era in posa rannicchiata; nelle restanti tombe, eccettuato qualche esempio di giacitura accoccolata a Canale-Janchina, vige la posizione distesa. A Torre Galli fu poi notato che i cadaveri erano stati deposti vestiti. Quanto alla forma dei sepolcri, essa varia anche secondo la natura del terreno; nel territorio locrese, a Canale-Janchina e Patariti, si ha il tipo della cameretta scavata nella roccia, di pianta trapezoidale o quadrata, chiusa nell'ingresso da un lastrone di pietra o da macèra; altrove sono fosse rettangolari ricoperte da blocchi di pietra, come a Torre del Mordillo e a Torre Galli; altrove, come a Crichi, Scandale, Strongoli, si tratta quasi di cassoni funebri, essendo le fosse rinforzate ai lati da lastroni di pietra, con una lastra per coperchio. Come nelle coeve tombe della penisola, i corredi funebri si compongono di materiali ceramici e metallici, che nelle forme e negli aspetti mostrano strette affinità con gli oggetti scoperti nelle necropoli contemporanee cosiddette italiche o villanoviane; ad esempio, sia a Torre del Mordillo, sia a Torre Galli e a Canale-Janchina, si raccolsero vasi d'impasto di forma biconica, ricordante la tipica forma dell'ossuario villanoviano, ma spogli di ornati o con scarsa decorazione. Delle fibule di bronzo, mentre si nota l'assoluta mancanza del tipo più arcaico "ad arco di violino", si hanno le forme: ad arco semplice, serpeggiante o a gomito, a piattello, foliata, a navicella, ad occhi; si riannodano, più che con le siciliane, con le fibule del centro d'Italia e della Campania. Armille, anelli e anelloni, rasoi rettangolari od ovali, completano l'abbigliamento, in cui largamente presente è l'ambra. A Torre Galli, in via eccezionale, si trovarono anche oggettini d'oro e d'argento, oltre alle perline di vetro e agli scarabei; tutte cose importate d'oltremare. Le tombe, specie a Torre Galli, sono ben fornite di armi in bronzo e in ferro: daghe, lance, giavellotti, pugnali; le spade sono per lo più con impugnatura a T e con guaina decorata di fini incisioni, appartenenti a un tipo submiceneo in voga proprio nei tempi immediatamente precedenti la colonizzazione greca. Nella necropoli di Torre del Mordillo, assai vasta (vi furono esplorate 229 tombe), ma forse meno ricca rispetto a Torre Galli, fu notato anche un grande uso di ferro; il che può essere indizio di appartenenza a tempi meno antichi.
Gli scavi dell'Orsi, sia nel Monteleonese, sia nel Locrese, hanno rivelato anche traccie degli abitati (avanzi di capanna rettangolare in muratura a Torre Galli); a Canale-Janchina, dove la necropoli è di tipo strettamente siculo, anche il villaggio annidato su una specie di amba ricorda le terrazze abitate del sud-est della Sicilia.
Arduo è il problema etnografico che i paletnologi cercarono più volte di affrontare e di risolvere; il materiale archeologico scavato nelle varie necropoli calabresi senza dubbio si lega con stretti rapporti a quello del restante della penisola; ma le somiglianze con i tipi del vero villanoviano sono soltanto nelle esteriorità. Le genti che seppellirono i loro morti seguendo costantemente il vecchio rito inumatorio, a Torre del Mordillo così come a Torre Galli e a Canale-Janchina non sono gl'Italici che voleva il Pigorini, ma forse sono i discendenti della stirpe cui dobbiamo le manifestazioni culturali del Neolitico; sia questa stirpe la ligure, come alcuni hanno supposto, sia la sicula propriamente detta, dati i molti rapporti di affinità che esistono fra le vestigia calabresi e quelle siciliane, rafforzati dai caratteri antropologici risultati identici, secondo l'esame condotto da G. Sergi su alcuni cranî di Canale-Janchina, di tipo dolicomorfo mediterraneo. E non è da escludersi, come recentemente l'Orsi ha dimostrato di preferire, che i Siculi dell'antico Ager Bruttiorum appartengano alla stessa grande famiglia mediterranea, la ibero-ligure, da cui pur discendono i Liguri propriamente detti e i più antichi abitatori della Sicilia stessa. Comunque sia, la civiltà indigena della Calabria, quale è stata rivelata dai gruppi di antichità sopra ricordate, perdette i suoi caratteri fondamentali a contatto con gl'immigrati greci, ma notevoli contributi dovette portare alla formazione di quella splendida civiltà che si riassume nel nome di Magna Grecia.
Bibl.: F. von Duhn, Italische Gräberk, I, Heidelberg 1924, pp. 52-66; L. Pigorini, Preistoria (Cinquant'anni di storia italiana), Roma 1911, passim; P. Orsi, Le necropoli preelleniche calabresi di Torre Galli, ecc., in Mon. antichi Lincei, XXXI (1926); D. Randall-Mac Iver, The Iron Age in Italy, Oxford 1927, pp. 178-210; D. Topa, Le civiltà primitive della Brettia, 2ª ed., Palmi 1927; R. Vaufrey, Le Paléolithique italien, Parigi 1928, p. 62.
Storia.
Per l'antichità, v. magna grecia; bruzî; bruzio; lucania.
Sulla Calabria medievale, abbiamo scarse notizie anteriormente al VII secolo d. C. Esaurita dalla stessa multiforme crisi che aveva logorato l'Impero romano, percorsa dai Goti di Alarico, ebbe qualche sollievo da Teodorico, che in essa trovò il ministro dei suoi ideali, Cassiodoro. L'invasione dei Longobardi spezzò l'unità politico-territoriale della Calabria, poiché quasi tutta l'attuale provincia di Cosenza fu strappata ai Bizantini e annessa al ducato di Benevento prima, al principato di Salerno poi. Soltanto Niceforo Foca poté finalmente ricostituire, ai primi del 900, la dominazione bizantina in tutto il paese, che venne organizzato in un thema, posto alla dipendenza di uno stratega. Nonostante questo e la lunga durata e la completa ellenizzazione del paese nella lingua, nel diritto e nelle istituzioni, nella liturgia e nel clero, sottoposto, in seguito alle lotte iconoclaste, al patriarcato d'Oriente, i bizantini non seppero garantire alla Calabria la sicurezza e il benessere necessario. Le città, sguarnite, furono costrette a difendersi da sè dalle incursioni dei Saraceni, che divennero frequentissime dal sec. IX in poi; un cieco fiscalismo contribuì a inaridire le forze locali; col decadere dell'agricoltura, a causa della palude invadente e della scarsezza della mano d'opera, rinacque il latifondo non senza funeste ripercussioni sulla storia dei secoli posteriori. Quasi nessun effetto ebbero le frequenti sommosse contro i Bizantini, i quali trovarono un valido appoggio nei monaci basiliani, che popolarono di cenobî la Calabria e vi crearono un'atmosfera di misticismo, dalla quale venne fuori, fra gli altri, Nilo da Rossano, che intorno al Mille spiegò un'opera ch'ebbe larga eco anche fuori dalla regione.
Furono soltanto i Normanni, più che l'infelice spedizione di Ottone II (982) e gl'ininterrotti assalti dei Saraceni, che infransero il dominio bizantino in Calabria, non senza aver dovuto fronteggiare una certa coraggiosa resistenza delle popolazioni cittadine (1052-1059). E nell'unità della monarchia siciliana, la Calabria ebbe finalmente un lungo periodo di vita tranquilla e ordinata. Garantita la sicurezza delle persone e creati nuovi rapporti sociali col vincolo feudale, che aveva il terreno predisposto ad attecchirvi; favorita l'agricoltura e gli scambî, soprattutto con la Sicilia, a cui la regione è naturalmente congiunta; tenuto a freno il baronaggio che si distinse soprattutto nella congiura contro Maione di Bari; riorganizzata e rilatinizzata la gerarchia ecclesiastica con la penetrazione del monachismo occidentale, del quale Gioacchino da Fiore - ; il mistico cisterciense poi fondatore dei florensi - fu espressione fedele; riordinata su nuove basi l'amministrazione regionale e locale, con l'istituzione di due giustizierati: tutto contribuì a destare le latenti energie indigene. Non minori premure per la Calabria ebbero gli Svevi, segnatamente Federico II, verso la cui persona e verso quella dei suoi eredi i Calabresi mostrarono forte attaccamento. Infatti, non soltanto sostennero Manfredi, osteggiando i tentativi autonomistici di Pietro Ruffo e l'esercito spedito in Calabria da Alessandro IV; ma, scoppiata la rivoluzione e la guerra del Vespro, parteggiarono per i Siciliani, costringendo Carlo d'Angiò a intervenire con le armi.
Con la pace di Caltabellotta, s'inizia per la storia della Calabria un ciclo di eventi, che si chiude con la fine dell'indipendenza del Regno di Napoli (1302-1503). Fu un periodo di profonda decadenza, che trovò la sua causa precipua nell'abbandono in cui la regione fu lasciata da Angioini e Aragonesi. Gli stranieri, che ottennero dalla corte lo sfruttamento delle miniere, e specialmente gli Ebrei, diventarono, per difetto di capitali e di spirito d'intraprendenza, gli arbitri dei mercati e delle piccole industrie, di cui una, quella della seta, riuscì a raggiungere una certa importanza. La terra, che nei primi anni della conquista angioina era stata spezzettata fra una turba di avidi cavalieri francesi, in poco tempo si raccolse nelle mani di poche casate feudali, sulle quali emersero i Ruffo, con Nicolò Ruffo, marchese di Cotrone e conte di Catanzaro, ribelle a Ladislao di Durazzo. Soltanto pochissime città riuscirono a conservarsi demaniali; e in esse, in particolar modo a Cosenza, la vita municipale ebbe durante il Trecento momenti di viva drammaticità per le lotte fra nobili e medio ceto. Potentissimi furono quindi i baroni, il cui dominio, soprattutto per le qualità di alcuni personaggi, irrefrenabili nella loro tendenza all'emancipazione dal potere regio, non fu sempre tirannico. Tale, invece, fu il fiscalismo angioino e aragonese. Contro di esso, rimaste inascoltate le voci di moderazione, i contadini calabresi, oppressi dalla miseria e dalla prepotenza, insorsero con selvaggio furore nel 1459. Volle capeggiarli un audace avventuriero spagnolo, Antonio Centeglia, che sperava di ricuperare i vasti possedimenti della moglie, erede dei Ruffo, già confiscatigli per ribellione da Alfonso d'Aragona. Ma Ferdinando d'Aragona affogò nel sangue quella terribile rivolta di plebei, che minacciava di fargli perdere il trono, e colpì ferocemente i feudatari che avevano tentato di trarne vantaggio.
D'allora, non s'ebbero serie sedizioni popolari: tanto vero che le fazioni, ricompostesi al tempo delle lotte tra Francesi e Spagnoli nel regno, non diedero luogo a conflitti, malgrado i maneggi del Lautrec. E sterile riuscì il tentativo rivoluzionario di Tommaso Campanella (1600); quasi nessuna ripercussione politica ebbe la rivoluzione cosiddetta di Masaniello (1647-1648). Anzi, approfittando della supina rassegnazione delle plebi ai mali naturali e sociali, il baronaggio poté ridivenire potente e prepotente, mentre il governo vicereale di Spagna e d'Austria abbandonò a sé stessa l'infelice regione. Eppure, proprio in Calabria, afflitta da terremoti e da assalti barbareschi, dalla malaria e dalla siccità, in preda a confusioni di leggi e ad abusi di baroni e di ufficiali regi, senza porti né strade, non solo parecchie popolazioni cittadine si difesero, nel corso del Seicento, dalle infeudazioni, ingaggiando liti secolari o riscattandosi con gravi sacrifizî; ma inoltre il pensiero dei nuovi tempi affonda in essa le sue radici. Telesio, Campanella e Antonio Serra, per tacere di altri, ne sono antesignani. E, restaurata l'indipendenza del regno, in contrasto alla tracotanza feudale, si sviluppò fra le masse un romantico sentimento di fedeltà al re, in cui si volle vedere il difensore degli oppressi, l'unico preside della giustizia e la fonte di ogni bene. In tale sentimento, saldatosi sulla schietta fede religiosa e sulla passione quasi gelosa per la propria terra e per gli aviti costumi, trovarono la loro spiegazione le drammatiche vicende di cui la Calabria fu teatro sulla fine del sec. XVIII e sui principî del sec. XIX. Il cardinale Ruffo vi reclutò buona parte delle sue bande sanfediste (1799); i Francesi vi furono contrastati fino al 1810, con un coraggio che ebbe episodî di valore. Gioacchino Murat, fidente nel ricordo dei benefizî che la regione aveva ricevuto nel decennio francese, pensò che la Calabria lo assecondasse nel suo coraggioso tentativo; ma, sbarcato a Pizzo, restò amaramente disilluso (1815).
Ma le idee da cui e per cui fu possibile il Risorgimento trovarono in Calabria molti e ardenti proseliti, specialmente nel ceto degli intellettuali e dei piccoli proprietarî. Dalle loro fila uscirono, dal 1799 al 1860, martiri generosi, come Antonio Toscano, i Poerio e molti altri. Opera delle logge massoniche istituitevi dal famoso abate Jerocades, furono le varie democratizzazioni del 1799. Ma un terreno più favorevole vi trovò la Carboneria, che da essa pare si sia propagata per le altre provincie del regno; certo, fin dal 1813 si tramava un'insurrezione contro i Francesi. La propaganda mazziniana raccolse di nuovo quelli che si erano assopiti dopo le feroci repressioni del '20 e '21. Nel '44 (v. bandiera, attilio ed emilio) e nel '48, la rivoluzione scoppiò in molti luoghi. Nè la reazione spense i focolari patriottici, che nel silenzio alimentarono quella fioca fiamma, che eruppe all'apparire di Garibaldi e, con la fazione di Soveria Mannelli, gli aprì le porte di Napoli (1860).
Assai infelici erano le condizioni in cui l'Italia unificata trovò la Calabria: tendenza all'asservimento a persone e a clientele locali; analfabetismo; superstizioni e pregiudizi inveterati; strade, traffici e iniziative private per la valorizzazione delle ricchezze regionali, quasi nulle; malaria e povertà economica largamente diffuse; il brigantaggio imperversante per campagne e città. Ci contribuì a diffondere sulla Calabria, attraverso una certa letteratura spicciola, una fama non rispondente a verità poiché il suo popolo, pur tra le gravi manchevolezze dovute al secolare malgoverno, ha saputo conservare le sue particolari, ammirabili virtù. I terremoti del 1905 e del 1908 hanno dato maggior risalto ai bisogni che la regione aveva d'una profonda opera restauratrice e creatrice. Oggi, un insolito fervore di lavoro scuote la Calabria e ne ridesta le sopite energie: creazione d'imponenti bacini idroelettrici, bonifiche di vaste plaghe, costruzione di strade, sistemazione di torrenti, nuove scuole, favore alla produzione, alle industrie e ai traffici paesani. C'è ormai di che sperar bene per l'avvenire di questa regione.
Bibl.: Oltre alle storie generali del Mezzogiorno (Giannone, Pecchia, Capecelatro, Gay, Colletta, Diehl, Chalandon, Amari, Schipa, Croce, Simeoni, Fortunato, ecc.) e quelle particolari sulla Calabria (Barrio, Fiore, Capialbi, Spanò-Bolani, Andreotti, La Fortuna, De Lorenzo, Taccone-Gallucci, Cotroneo, Moscato, Grimaldi, ecc.), si vedano N. Cortese, La Calabria ulteriore alla fine del sec. XVIII, Napoli 1922; O. Dito, La storia calabrese e la dimora degli ebrei in Calabria, Rocca S. Casciano 1916; id., La rivoluzione calabrese del 1848, Catanzaro 1895; F. Lenormant, La Grande Grèce, voll. 3, Parigi 1881-1884; E. Pontieri, I primordi della feudalità calabrese, Milano 1922; id., la Calabria del sec. XV e la rivolta di Antonio Centeglia, Napoli 1924; F. Fava, Il moto calabrese del 1847, Messina 1906; G. Minasi, Le chiese di Calabria dal V al XII sec., Napoli 1896; V. Visalli, I calabresi nel Risorgimento italiano, Torino 1891; L. M. Greco, Annali di Citeriore Calabria dal 1806 al 1811, Cosenza 1872; B. Chimirri, La Calabria e gl'interessi del Mezzogiorno, Milano 1916; C. Pigorini-Beri, In Calabria, Torino 1892.
Arte.
L'arte della Magna Grecia costituisce il fondo dello svolgimento artistico calabrese. Oltre alla colonna arcaica di Capo Lacinio, numerose testimonianze evocano oggi l'arte italiota, i cui maestri, alcuni famosi come Pitagora, lasciavano influssi in tutta la coroplastica reggino-locrese, nei pinakes insigni, nelle decorazioni dei templi di Caulonia, Locri, Crotone, Hipponium, Crimisa, nei bronzi, nelle monete delle città achee o bruzie, anche delle più sommerse, di Terina, di Sibari, di Pandosia, di Lao (musei locali di Reggio, Catanzaro, Gerace, Cotrone, Cosenza; R. Antiquarium di Reggio).
Della conquista romana, rimangono plessi termali, mosaici, brandelli di opus reticolatum perfino nelle muraglie della Rocca bruzia; a Gioiosa Ionica è la gradinata d'un piccolo teatro (secolo I d. C.); un ponte esiste ancora nell'alto Savuto (Scigliano, S. Angelo); a Cirella un austero edificio circolare in mattoni.
Avanzi paleo-cristiani sono stati scoperti a Tropea e a Capo delle Armi; ruderi di supposti mitrei a Papaglionti, presso la zona delle necropoli bruzie di Torre Galli e delle grotti eremitiche del Poro (capo Vaticano). Qualche tardo sarcofago è venuto fuori nelle zone locresi romanizzate. A Copanello (Squillace) i ruderi della chiesetta di S. Martino ricordano umilmente la riscossa artistica intorno ai monasteri fondati da Cassiodoro. Nelle zone monastiche del Mercurion, di S. Nazario, di S. Adriano, di Rossano, sorsero le prime costruzioni basiliane, le chiesuole di carattere bizantino, che spesso imitavano modelli dell'Asia Minore e della Grecia. Dall'Oriente Greco poterono pervenire gli evangeliarî purpurei (sec. VI) di Rossano. Il tipo dei tempietti, fra il X e il XII sec., rimane a Stilo (la Cattolica) e a Rossano (S. Marco), dove lo stesso disegno eleva, su pianta centrale, edifici a cinque cupolette cilindriche, in mattoni o fabbricati con materiale frammentario ricavato da monumenti classici.
Nella greca Siberene (Santa Severina) è del sec. IX il battistero a rotonda. Anche della fase bizantineggiante restano brani di affreschi, a S. Marco di Rossano, a Stilo, a Santa Severina; oltre alla Croce reliquiario d'oro e a smalto del duomo di Cosenza, agli stucchi dell'abbazia di Terreti (Reggio) pur vicini alla fase arabo-normanna. In questa epoca si sviluppano due grandi gruppi di edifizî: le chiese che rappresentano tradizioni greche, coordinantisi all'arte latina dei Normanni, senza smarrire, però, le reminiscenze della classicità nella saldezza dei sistemi murarî nonché in qualche ritmo ornamentale (San Giovanni Vecchio di Stilo, Santa Maria de' Tridetti di Staiti, S. Adriano, il Patirion di Rossano, S. Filomena di Siberene), e le chiese costruite con un evidente influsso romanico e con austerità e pittoricità di linee e di materiali fittili (S. Maria della Roccelletta, di speciale importanza per l'architettura calabrese e il suo cammino verso la Sicilia, tra i secoli XI e XII). Vi è poi una serie di cattedrali di basiliche benedettine (la Trinità di Mileto, l'abbaziale di S. Eufemia, ecc.), edifizî a schema sempre più romarnico, con uso di colonne antiche sostenenti archi di pietra sagomata da rudi maestranze locali: esempio imponente, la cattedrale di Gerace; ed a Tropea le strutture del vecchio duomo con tentativi di miscuglio e di decorazione normanna in lava nera.
Alla stessa progenie di costruttori si devono le prime chiese monastiche latine in Val di Crati ed in tutta la penisola bruzia. Distratta finalmente dalle tradizioni bizantine e rinforzata dalle correnti artistiche di Apulia, l'architettura in Calabria assume compiti più vasti, infervorandosi, verso i primi del Duecento, intorno alla chiesa Madre di Cosenza. Quest'arte cosentina, sensibilizzata in un secondo momento dalle monastiche iconografie e stilizzazioni dei cisterciensi, si ritrova in S. Giovanni in Fiore e poi, ingentilita dai fasci polistili con nodo e con vòlte prettamente gotiche, a S. Maria della Mattina (S. Marco Argentano); essa si amplia in numerosi monumenti della Calabria settentrionale, dal Duecento al Quattrocento.
Intorno a Cosenza, sede ducale dei Durazzeschi, l'arte aveva contatto con le forme angioine di Napoli (S. Maria della Consolazione di Altomonte) e con quelle catalane e aragonesi di Sicilia (Cosenza, Montalto, Tropea, Monteleone, Gerace). Maestranze meridionali paesane elevano edifici conventuali a Cosenza (chiostro assisiate), a Bisignano, Amantea, e particolari di gotica eleganza a Morano, a Rossano, a S. Domenico di Cosenza. E ancora all'arte locale si devono chiostri e portali con interessanti miscugli di romanico e di gotico, a Paola (santuario e convento dei minimi, chiesa agostiniana, ecc.), a Cropani, Caccuri, Fiumefreddo, Cetraro, Montalto, Tropea, Gerace, Scalea, ecc.
Scultura e pittura medievali sono ancora poco note. La prima, allontanatasi tardi dalle forme bizantino-normanne (S. Adriano), ha il monumento di Isabella d'Aragona a Cosenza, la tomba di Ademaro Romano a Scalea, quella del Sangineto ad Altomonte, e pietre tombali, delle botteghe baboccesche e senesi di Napoli, o dei rudi traduttori locali, a Mileto, a Gerace, a Nicotera. L'altra, dopo brevi lembi di pittura romanica a Caulonia (S. Zaccaria), a Paola, a Castrovillari (S . Maria del Castello), a Stilo, porta accenni fiamminghi in piccole tavole di Altomonte, Rossano, e altre icone quattrocentesche.
L'architettura militare è importante: dal Castello di Cosenza, prima saraceno-normanno, poi federiciano e angioino, ai maschi aragonesi di Rocca Imperiale, Castrovillari, Belvedere, Corigliano, Arena, e poi in una serie di fortificazioni regie e feudali della Calabria ulteriore, da Monteleone a Santa Severina, da Cotrone a Reggio.
Pitture e sculture della Rinascenza vennero importate dal Settentrione e dalla Sicilia, fra l'altro alcune belle pale di Bartolomeo Vivarini (Morano Calabro, Zumpano), tavole della scuola di Antonello da Messina e del Resaliba (Reggio, Seminara, Terranova, Catanzaro) e numerose sculture delle botteghe del Laurana, dei Gagini e dei Mazzola. Anche correnti abruzzesi, con Saturnino Gatti, ed umbre con gli stessi monaci - artisti, pittori e intagliatori in legno - recavano decorazioni alle chiese monastiche di tutta la Calabria. Era quella l'epoca in cui energie locali si spingevano anche oltre i monti bruzi.
Le maestranze murarie, dal sec. XVI alla metà del Seicento riprendevano largo respiro, spesso fedeli alle linee arcaiche, nonostante qualche esempio più fine (S. Michele di Monteleone). Rimangono costruzioni cinquecentesche, e specie decorazioni architettoniche in pietra tufacea locale, a Cosenza, a Rogliano, Fiumefreddo, Montalto Uffugo, Terranova di Sibari, Carolei, Serra, ecc.
Il fasto cattolico e vicereale dei secoli XVII e XVIII ricostruiva abbondantemente, dopo alcuni terremoti, in tutta la regione, edifizî monastici e baronali, castelli e abbazie, dalla certosa di Serra S. Bruno al santuario di S. Domenico di Soriano; il barocco spagnolo venne spesso temperato dal senso austero degli artieri locali - di Rogliano, di Cosenza, di Monteleone, di Morano e dintorni, di Fuscaldo, e specialmente di Serra - nei copiosi intagli in pietra e nelle opere decorative lignee, negl'interni sontuosi di Taverna, di Rende, di Cropani, di Rogliano, di Cosenza, dei paesi del Pollino, di Mesuraca, di Catanzaro (oratorî delle confraternite). E industrie magnifiche, come quella dei damaschi e dei velluti di Catanzaro, famosi già all'epoca durazzesca e aragonese, si trovavano alla massima potenza. Nei primi del Seicento si partivano dalle montagne native Francesco Cozza di Stilo, Gregorio e Mattia Preti di Taverna.
La provincia è tutta sparsa di pitture secentesche e settecentesche, imitanti la maniera del Preti. A Monteleone, nel Cosentino, a Fiumefreddo, a Rende, nel Castrovillarese, abbondano le pitture dei paesani, che eccedono nel manierismo giordanesco o del Solimena, inquadrando le loro tele negl'intagli degli artigiani roglianesi e dei serresi. Dopo il terremoto del 1783, la ripresa fu vivace, a Reggio con i primi spunti neoclassici, a Monteleone con le opere di buoni architetti locali (palazzo Di Francia e chiese) e con animatori di studî come Vito Capialbi, e come Emanuele Paparo, pittore camucciniano (quadri nelle chiese e palazzo Gagliardi); con i Morani, architetti a Polistena, verso l'Aspromonte, dove dovevano formarsi i migliori scultori dell'Ottocento, Salvatore Albano, Sorbilli, Rocco Larussa, e quindi i Jerace, Renda, Scerbo; e pittori come Vincenzo Morano, emulo del Mancinelli a Napoli.
Il romanticismo, che aveva suscitato nelle solitudini silane cantori espressivi come il Padula, il Greco, il Julia, suscitava anche tempre vivaci di pittori in tutta la Calabria, dal Mazzìa ai Santoro, dai fratelli Augimeri ad Achille Talarico, da Rosalio Scerbo a Giuseppe Benassai da Reggio. In epoea recente hanno ancora affluito in Calabria opere di artisti italiani: Morelli, Perricci, Andreotti. A ciò si è unita l'opera dello scultore Francesco Jerace e di altri conterranei, che han dato impulso non lieve alla modernità dell'arte in Calabria per cui oggi si forma un libero centro d'istruzione artistica a Reggio (Società Mattia Preti), accanto alla nuova Soprintendenza pel Bruzio e la Lucania ed alla Società Magna Grecia che affrontano i problemi archeologici, specie quello di Sibari e delle zone monumentali più degne di studio.
V. tavv. LXVII-LXX.
Bibl.: V. Capialbi, Opuscoli vari, Napoli 1840; G. Di Marzo, I Gagini, Palermo 1880; id., La pittura in Sicilia, Palermo 1889; Filangieri principe di Satriano, Docum. per le arti e le industrie delle provincie meridionali,Napoli 1891; Ch. Diehl, L'art byzantin dans l'Italie meridionale, Parigi 1894; von Duhn, Cenni su l'arte reggino-locrese, Roma 1913; A. Frangipane, Artisti calabresi del sec. XIX, Bergamo 1913; E. Galli, Attività d. Soprint. Bruzio-Lucana, 1925, Roma 1926; A. Frangipane, C. Valente, La Calabria, Bergamo 1929; A. Frangipane, L'arte in Calabria, Messina s. a.; P. Orsi, Scavi di Calabria (Relazioni Accad. dei Lincei), 1908-1915; id., Le chiese basiliane della Calabria, Firenze 1929; v. anche le raccolte delle riviste: Archivio storico delle prov. meridionali; Napoli nobilissima; Archivio storico della Calabria; Brutium.
Musica.
Numerose sono le raccolte di poesia popolare calabrese, ma scarsissimi i saggi di musica trascritti. Nella Calabria, come nella Sicilia e in genere in tutta l'Italia centro-meridionale, predominano le forme del canto lirico monostrofico: lo stornello (detto anche fiore) e il rispetto. Gli stornelli, dice Mario Mandalari (Raccolta di canti del popolo reggino, Napoli 1881) "ordinariamente si cantano accompagnati dal suono della chitarra battente, mentre i rispetti si accompagnano con la zampogna. Liete brigate di maschere in foggia di cuntruvatori, vanno nel carnevale cantando gli stornelli, e per lo più li improvvisano [cuntruvari]". La classe delle reputatrici, praeficae pretio conductae, va scomparendo a Pizzo e con esse il costume delle nenie.
Ecco alcune battute (in notazione ristretta) di una notevole pastorale per cornamusa, trascritta dal maestro V. Fedeli, autore di uno studio sulle zampogne calabresi, secondo il quale la pastorale stessa avrebbe caratteri greci per la tonalità, che è l'ipofrigia.
Nella raccolta di E. Levi (Canti tradizionali del popolo italiano) sono riprodotte tre ninne nanne: di Borgia, di Radicena, di Stefanacone, trascritte dal maestro Fermo Marini, delle quali riportiamo la seconda, che ci sembra più caratteristica e che è forse più antica, essendo nel 3° modo ecclesiastico (Mi, dominante Do), nel quale modo è scritto il Te Deum.
La cornamusa o zampogna calabrese, strumento che rimonta all'antichità classica, differisce per l'intonazione dai tipi analoghi irlandesi, scozzesi, francesi e tedeschi, ed è affine a quella abruzzese. Essa ha due bordoni, accordati all'ottava, che dànno il sol, e due tubi rispettivamentre a 5 e a 4 buchi, che dànn0 la scala di sol senza accidenti.
H. Berlioz nella sua sinfonia Aroldo in Italia (1834) ne ha imitato l'effetto.
Bibl.: E. Levi, Canti tradizionali del popolo italiano, Firenze 1895; G. Cocchiara, L'anima del popolo italiano, Milano 1929; V. Fedeli, Zampogne calabresi, in Sammelb. der int. Musikgeschichte, XIII (1912).