capitano
Il termine capitano ha uno specifico rilievo nell’universo semantico machiavelliano, entro il grande tema delle armi (→). L’interesse di M. per il problema del comando di truppe è testimoniato già nella lettera a «Lorenzo del Nero Capitaneo Liburni» del 1° gennaio 1505 (LCSG, 4° t., pp. 31415). Il documento, «pur nella necessaria evocazione di circostanze particolari», rappresenta «in nuce un piccolo trattato su come svolgere efficacemente le funzioni di capitano di una città prossima alla zona di guerra» (Cutinelli-Rendina 2006, p. 121). Esempi contemporanei di ‘buon comando’ prendono forma sin dagli anni delle missioni diplomatiche: nel Rapporto di cose della Magna (1508) l’imperatore Massimiliano è presentato come figura di «perfetto capitano» (Rapporto di cose della Magna, § 46; cfr. Discorso sopra le cose della Magna, § 4).
L’impegno per la definizione del profilo del ‘buon c.’ segue tutto lo svolgimento della riflessione di M., per giungere a incastonarsi perfettamente nel cuore dell’amara descrizione che il primo libro delle Istorie fiorentine offre della realtà politica della penisola (xxxix 6-9). I condottieri e i signori come «il Carmignola», «Francesco Sforza», «Niccolò Piccino allievo di Braccio», «Agnolo della Pergola» – vi si legge – avevano ridotto la guerra «in tanta viltà che ogni mediocre capitano nel quale fusse alcuna ombra della antica virtù rinata gli arebbe con ammirazione di tutta Italia, la quale per sua poca prudenza gli onorava, vituperati».
All’estate del 1520 risale l’operetta biografica Vita di Castruccio Castracani, che M. dedica a un condottiero la cui vicenda poteva ancora fornire spunto a esemplificazioni di arte militare: si pensi alla descrizione della battaglia di Montecatini (ridisegnata su una vittoria di Scipione, da Livio XXVIII 14-15) e di Serravalle (letteralmente inventata da M.).
Nell’orizzonte di un’aspra critica rivolta alle «armi mercennarie», causa prima della «ruina di Italia» (Principe xii 8), M. si sofferma a descrivere la figura del c., che nel caso di un regime monarchico deve identificarsi con il principe; in una repubblica, invece, deve essere un cittadino, perché un condottiero di mestiere aspira solo al suo successo personale:
E’ capitani mercennari o e’ sono uomini eccellenti, o no; s’è sono, non te ne puoi fidare, perché sempre aspireranno alla grandezza propria o con lo opprimere te, che gli se’ patrone, o con lo opprimere altri fuora della tua intenzione; ma se il capitano non è virtuoso, ti rovina per lo ordinario. E se si rispondessi che qualunque arà le arme in mano farà questo, o mercennario o no, replicherrei come l’arme hanno a essere operate o da uno principe o da una republica: el principe debbe andare in persona e fare lui l’offizio del capitano; la republica ha a mandare e’ sua cittadini: e, quando ne manda uno che non riesca valente uomo, debbe cambiarlo; e, quando sia, tenerlo con le leggi che non passi el segno. E per esperienza si vede alli principi soli e republiche armate fare progressi grandissimi, e alle arme mercennarie non fare mai se non danno; e con più difficultà viene alla obbedienza di uno suo cittadino una republica armata di arme proprie, che una armata di arme esterne (xii 10-12).
M. passa quindi in rassegna alcuni condottieri famosi: da Francesco Sforza a Muzio Attendolo, da Giovanni Acuto a Braccio da Montone, sino a Francesco di Bussone, conte di Carmagnola. Seguono – in questo catalogo – Bartolomeo Colleoni, Roberto da Sanseverino, Niccolò Orsini, conte di Pitigliano. Non manca Alberico da Barbiano, conte di Cunio, che fondò la prima compagnia di ventura in Italia (cfr. Istorie fiorentine I xxxiv).
Nel cap. xiv del Principe, M. affronta un altro argomento decisivo: Quod principem deceat circa militiam. Alla luce del concetto secondo il quale «uno principe» non deve avere «altro obietto né altro pensiero né prendere cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra e ordini e disciplina di essa» (§ 1), M. offre precetti al signore che voglia ben governare la «milizia». Innanzitutto egli non deve «mai levare il pensiero da questo essercizio della guerra», e «nella pace» vi si deve «più essercitare che nella guerra». E questo egli può fare «in dua modi», «l’uno, con le opere» e «l’altro, con la mente»:
quanto alle opere, oltre al tenere bene ordinati e essercitati i suoi, debbe stare sempre in su le cacce: e mediante quelle assuefare el corpo a’ disagi e parte imparare la natura de’ siti e conoscere come surgono e’ monti, come imboccano le valle, come iaciono e’ piani, e intendere la natura de’ fiumi e de’ paduli, e in questo porre grandissima cura (§§ 7-10).
Quanto allo «essercizio della mente», il principe deve «leggere le istorie», considerando in esse «le azioni delli uomini eccellenti», e «vedere come si sono governati nelle guerre», esaminando
le cagioni delle vittorie e perdite loro per potere queste fuggire e quelle imitare; e soprattutto fare come ha fatto per l’addreto qualche uomo eccellente che ha preso a imitare se alcuno innanzi a lui è stato laudato e gloriato, e di quello ha tenuto sempre e’ gesti e azioni appresso di sé (§ 14).
I capp. x-xxiii del III libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio costituiscono «una sorta di ‘manuale’ del buon capitano», secondo un’organizzazione tematica che «si direbbe bipartita» (Bausi 1985, p. 119): i capp. x-xviii trattano della condotta del c. in battaglia, mentre i capp. xix-xxiii esaminano i problemi relativi al comportamento del c. nei confronti del proprio esercito e delle popolazioni sottomesse. Il III libro, tuttavia, contiene altri capitoli incentrati sulla figura del c. (xxx, xxxvii, xxxviii, xxxix, xlv e xlviii).
Innanzitutto, anche per il comando delle milizie è fondamentale osservare la «costante lezione delle [cose] antique», da correlare all’«experienza delle cose moderne»: in Discorsi II xvi 20, M. rimprovera ai «capitani di questi tempi» di aver trascurato lo studio e l’imitazione della tattica romana. Questione più spinosa è poi se «sia più da fidare, o in uno buono capitano che abbia lo esercito debole, o in uno buono esercito che abbia il capitano debole». M. ritiene che «si debbe stimare poco» tanto l’una quanto l’altra situazione. E, d’altro canto, se può sembrare ovvio che «più facilmente molti buoni troveranno o instruiranno uno, tanto che diventi buono, che non farà uno di molti» (Discorsi III xiii 12), gli esempi addotti risultano di segno contrastante (§ 13); alla fine, M. rileva come «uno esercito buono sanza capo buono suole diventare insolente e pericoloso» (§ 17) e conclude che sia «più da confidare assai in uno capitano che abbi tempo a instruire uomini e commodità di armargli, che in uno esercito insolente con uno capo tumultuario fatto da lui» (§ 18).
Altro fondamentale requisito del buon c. è la capacità di «assicurare la coesione morale dell’esercito» (Derla 1996, p. 605). In Discorsi III xxxviii, trattando l’argomento Come debba essere fatto uno capitano nel quale lo esercito possa confidare, M. ricorre a una concione di Marco Valerio Corvino riportata da Livio per offrire «parole» che – «considerate bene» – «insegnano a qualunque come ei debbe procedere a volere tenere il grado del capitano»:
Tum etiam intueri, cuius ductu auspicioque ineunda pugna sit; utrum, qui, audiendus dumtaxat, magnificus adhortator sit, verbis tantum ferox operum militarium expers, an qui et ipse tela tractare, procedere ante signa, versari media in mole pugnae sciat. Facta mea, non dieta, vos, milites, sequi volo, nec disciplinam modo, sed exemplum etiam a me petere, qui hac dextra mihi tres consulatus, summamque laudem peperi
allora essi [i soldati] dovevano anche fissare lo sguardo su colui, al comando e con gli auspici del quale entravano in battaglia; sia che si trattasse di un facondo predicatore, piacevole da ascoltare, feroce a parole ma inesperto di guerre, sia di uno che invece sapeva anche scagliare una lancia, avanzare in prima linea, gettarsi nel cuore della mischia. Voi, o soldati [passa al discorso diretto], seguite i miei atti, non le mie parole, aspettate da me non solo ordini, ma anche esempi, da me che con questa destra mi sono conquistato tre consolati e alte lodi (§ 3).
Tra i comandanti moderni che più si avvicinano all’ideale di M. c’è Antonio Giacomini Tebalducci (→), valente c. fiorentino elogiato in Discorsi III xvi 14 come «uno che mostrò come si aveva a comandare agli eserciti» (cfr. anche Discorsi I liii; Decennale II, vv. 31-45 e Nature di huomini fiorentini, ed. Vivanti, pp. 254-55). Egli non ebbe «competitore alcuno» «mentre che si ebbe a fare guerre pericolose», ma quando «si ebbe a fare una guerra» senza rischi (con «assai onore e grado»), «avendosi ad eleggere tre commessari per campeggiare Pisa, e’ fu lasciato indietro» (Discorsi III xvi 15); ne derivò la disonorevole soluzione a cui i comandanti costrinsero Firenze, che «comperò [Pisa],dove la gli poteva avere a forza» (§ 17). È questo il problema delicato del rapporto tra potere politico e condotta della guerra.
Certe disastrose dimostrazioni d’incapacità, offerte nei tempi moderni, devono essere attribuite proprio a un difetto in quel rapporto. Così M. osserva che «le republiche de’ presenti tempi, come è la Viniziana e la Fiorentina [...] se gli loro capitani, provveditori e commessari hanno a piantare una artiglieria, lo vogliono intendere e consigliare» (Discorsi II xxxiii 12). A questo modo di procedere M. contrappone quello dei Romani (§ 4).
D’altro canto, il timore di conferire eccessivo potere ai comandanti è ben motivato. Nell’antica Roma l’eccesso nella «prorogazione» dei comandi (Discorsi III xxiv 10) produsse «il professionismo, il sistema degli eserciti permanenti, la riunificazione stabile del potere politico con quello militare» (Derla 1996, p. 606). Per queste ragioni – passando al piano pratico-operativo – M. raccomandava che le truppe fiorentine dovessero «sempre [...] avere in confuso el loro superiore, e riconoscere un pubblico e non un privato» (La cagione dell’ordinanza, § 35).
Servendosi proprio della figura di un illustre condottiero come Fabrizio Colonna, nell’Arte della guerra M. rilevava che «quello che sopra ogni altra cosa tiene lo esercito unito, è la reputazione del capitano; la quale solamente nasce dalla virtù sua, perché né sangue né autorità la dette mai sanza la virtù» (VI 204). Una virtù esemplata su quella degli antichi Romani doveva pure mostrarsi aperta alle nuove invenzioni, via via richieste dalle concrete congiunture storiche: aperto l’elogio al c. che «sapesse trovare da sé, perché niuno sanza invenzione fu mai grande uomo nel mestiero suo» (VII 191). Alla luce del legame fra arte militare e politica richiamato nel proemio, per giustificare, nel I libro, il sistema della rotazione dei quadri e le limitazioni imposte dal potere politico all’autorità dei comandanti, M. ripete che «una savia republica [...] debbe operare per capi nella guerra i suoi cittadini e a tempo di pace volere che ritornino all’arte loro» (I 106). Il comando spetterà al principe o signore ordinario in un principato, ma – in una repubblica – a un «cittadino» solo «per quel tempo», «altrimenti è difficile fare cosa di buono» (I 137). Non solo, ma «a volere che i capi non facciano disordine, è necessario avere cura che non acquistino sopra di loro [i soldati] troppa autorità» (I 251). Da qui la necessità di esercitare un controllo politico e ‘civile’ su coloro a cui era provvisoriamente affidata la direzione delle «milizie».
Al riguardo, nell’Arte della guerra tornano quasi le stesse parole utilizzate negli scritti riguardanti l’Ordinanza: «conviene provvedere che chi è nato in un luogo, non sia preposto agli uomini descritti in quello, ma sia fatto capo di quelli luoghi dove non abbia alcuna naturale convenienza» (I 253):
Quanto allo accidente, si debbe ordinare la cosa in modo che ciascuno anno i capi si permutino da governo a governo; perché la continua autorità sopra i medesimi uomini genera tra loro tanta unione, che facilmente si può convertire in preiudizio del principe (I 254).
D’altro canto, lo stesso Colonna si propone come esempio di c. che, finita la guerra, è altresì in grado di «consigliare» il «re» nella pace (I 109); e aggiunge: «non debbe [...] alcuno re volere appresso di sé alcuno che non sia così fatto, s’egli è savio e prudentemente si voglia governare» (I 110).
Così, quando si passa al discorso propriamente tattico, M., elogiando la «prudenza» nel c. «prima che si conduca alla zuffa», rifiuta al comandante la responsabilità esclusiva delle decisioni:
la maggiore e la più importante avvertenza che debba avere uno capitano è di avere appresso di sé uomini fedeli, peritissimi della guerra e prudenti, con i quali continuamente si consigli e con loro ragioni delle sue genti e di quelle del nimico (IV 111).
Il fondamentale nesso tra arte militare (che deve farsi, però, anche retorica, capacità di persuasione del c. carismatico, IV 140) e politica non solo era imposto dalla urgenza delle guerre d’Italia, ma era giustificato proprio dalla prospettiva del pensiero politico di M.: «dalla spècola machiavelliana, le guerre d’Italia erano state la tragica epifania di quel pólemos eracliteo, che agitava con perpetuo moto la storia». Diventava, quindi, «un imperativo per la politica non astenersi dal pensare continuamente alla guerra» (Barbuto 2013, p. 202).
Bibliografia: P. Pieri, Guerra e politica negli scrittori italiani, Milano 1975; F. Bausi, I Discorsi di Niccolò Machiavelli. Genesi e strutture, Firenze 1985; J.R. Hale, War and society in Renaissance Europe, 1450-1620, Baltimore 1985 (trad. it. Guerra e società nell’Europa del Rinascimento, 1450-1620, Roma-Bari 1987); L. Derla, Machiavelli: la guerra come opera d’arte, «Aevum», 1996, 70, pp. 597-617; J. Woods-Marsden, Il perfetto capitano. I precetti di Machiavelli e l’iconografia della conquista, in Il ‘Perfetto Capitano’. Immagini e realtà (secoli XV-XVII), Atti dei Seminari di studi Georgetown University-Istituto di studi rinascimentali, Firenze-Ferrara 1995-1997, a cura di M. Fantoni, Roma 2001, pp. 449-59; E. Cutinelli-Rendina, Osservazioni e appunti sulla corrispondenza amministrativa di Niccolò Machiavelli, in Machiavelli senza i Medici (1498-1512). Scrittura del potere. Potere della scrittura, Atti del Convegno, Losanna 2004, a cura di J. J. Marchand, Roma 2006, pp. 117-29; A. Guidi, Un segretario militante. Politica, diplomazia e armi nel cancelliere Machiavelli, Bologna 2009; G.M. Barbuto, Machiavelli, Roma 2013.