CARLOMAGNO, re dei Franchi e dei Longobardi, imperatore romano
Nacque, ignoriamo dove, probabilmente il 2 aprile del 742. Era il primogenito di Pipino il Breve, re dei Franchi, e di Bertrada, figlia di Cariberto conte di Laon. Nulla sappiamo della giovinezza. Compare nella storia nel gennaio del 754, quando il padre lo inviò incontro al papa Stefano II, che dall'Italia si recava presso di lui a Ponthiou, per chiedere aiuto contro i Longobardi. Dal papa fu, col fratello minore Carlomanno, consacrato re il 28 luglio 754, nella basilica di Saint-Denis. Per gli anni seguenti, scarsi sono i ricordi del principe. Nel 760 e nel 762 interviene ad alcune donazioni monastiche di Pipino; nel 761-62 segue il padre nella guerra d'Aquitania; nel 763 ha dal padre la concessione di alcuni comitati. I papi nella corrispondenza con Pipino ne ricordano regolarmente i figli come re e colleghi; però nulla sappiamo di una qualche partecipazione di Carlo al governo. Venuto a morte, il 24 settembre 768, il re Pipino, Carlo e Carlomanno assunsero il governo del regno, accettando la divisione paterna: al primo l'Austrasia e la Neustria a nord dell'Oise, al secondo la Neustria a sud dell'Oise, la Borgogna, la Gozia, l'Alamannia, la Turingia; indivisa l'Aquitania. Carlo fu incoronato il 9 ottobre a Noyon. Le relazioni dei due re erano fin d'ora non buone. È possibile che Carlomanno non fosse soddisfatto della ripartizione, come dice Eginardo, che attribuisce al giovane principe sentimenti bellicosi, mentre C. avrebbe sopportato con mansuetudine e senza adirarsi l'invidia del fratello. Qualche motivo di discordia fu certo offerto dalla questione aquitanica. Approfittando dei cambiamenti del regno, verso il 769 scoppiò in quella regione una nuova insurrezione sotto un Hunald, forse padre del duca Waifer, ucciso negli anni precedenti nella repressione di re Pipino. I due re franchi, nel convegno di Duasdives (Poitou), decisero una concorde spedizione; ma poi Carlomanno si disinteressò delle cose e C. rimase solo. L'esercito di C. costrinse tuttavia Hunald ad abbandonare l'Aquitania e a rifugiarsi in Guascogna presso quel duca Lupo; l'avanzata franca superò assai presto la Dordogna e Lupo fu costretto a consegnare il ribelle.
Anche gli affari d'Italia provocarono dissensi fra i due fratelli. Molto abilmente Carlomanno già nel 768 o nel 769 riuscì ad affermare la sua superiorità in Roma, appoggiando uno dei capipartito, il primicerio Cristoforo. Ma nel 770 anche C. accennò ad occuparsi dell'Italia; la regina madre Bertrada trattò con Desiderio, re dei Longobardi, per un duplice matrimonio franco-longobardo. C. avrebbe sposato una delle figlie di Desiderio; Adelchi, il principe ereditario longobardo, avrebbe sposato Gisela, sorella dei re franchi. L'opposizione vivacissima del papa Stefano III non impedì che il primo matrimonio avvenisse. Ma i rapporti dei due fratelli non migliorarono. Il 4 dicembre 771 Carlomanno improvvisamente morì. Carlo, da Valenciennes, dove aveva tenuto una dieta, invase gli stati del fratello, e a Corbény (Laon) fu riconosciuto dai vescovi e conti austrasici. La vedova di Carlomanno, con i due figli e un gruppo di fedeli, non riconobbe l'usurpazione e si rifugiò presso la corte longobarda.
Intervento in Italia. - Intanto Desiderio, re dei Longobardi, che aveva indubbiamente riportato una vittoria diplomatica con l'aver dato in isposa la figlia Desiderata al re Carlo, sicuro dell'alleanza franca, nel febbraio del 771 era comparso sotto Roma, e s'era inteso con Stefano III promettendogli le terre contestate dell'Esarcato e del Ducato, e accordandogli aiuti contro i suoi avversarî, Cristoforo primicerio dei Notai, e suo figlio Sergio, tesoriere, che dopo avere sfruttato anni prima l'amicizia longobarda, ora si appoggiavano ai Franchi. Il partito longobardo, capitanato dal cubiculario Paolo Afiarta, riuscì a eliminare gli avversarî e a dominare la città e il papa; Desiderio, raggiunto il suo scopo, dimenticò tosto le promesse fatte a Stefano III. Egli contava su C. per tenere a freno Carlomanno; ma s'ingannò, che C. già nel 771 ripudiò la sposa longobarda. Eginardo dichiara che i motivi dell'atto erano incerti; si può pensare tanto a motivi privati (sterilità), quanto a motivi politici (malcontento per la politica romana di Desiderio). Certo è che il re longobardo, colpito nel suo onore, diventò terribile nemico del franco, e accordò ospitalità alla vedova e ai partigiani di Carlomanno. Il nuovo papa Adriano I, successo a Stefano III (3 febbraio 772), si affrettò ad accostarsi a re C., approfittando dell'errore di Desiderio. Questi infatti aveva ripreso l'occupazione dell'Esarcato, e avanzatosi con un esercito fino a Viterbo, pretendeva che il papa riconoscesse i figli di Carlomanno come re dei franchi e li incoronasse.
Adriano I, dopo essersi liberato dei fautori di Desiderio, inviò per mare i suoi ambasciatori in Francia a chiedere aiuto; in seguito a tale passo C. mandò due commissarî a Roma per avere idee chiare sulla situazione. La relazione ricevuta consigliò C. a intervenire prima presso Desiderio, offrendogli 14.000 solidi d'oro per l'abbandono delle terre richieste dal papa. Il rifiuto longobardo ebbe come immediata conseguenza la guerra. Infatti si trattava per C. di difendere non soltanto la Chiesa, ma la stessa unità del suo regno, minacciata dalle rivendicazioni dei figli di Carlomanno sostenute da Desiderio. È dubbio però che, nel 773, C., attraversando le Alpi, avesse una lucida visione del da farsi e si proponesse la conquista del regno longobardo.
Le forze franche furono radunate a Ginevra, da dove partirono nel giugno due colonne: una, sotto lo stesso re, attraversò le Alpi al Cenisio, l'altra, sotto il conte Bernardo, zio del re, passò per il S. Bernardo. Falliti gli ultimi tentativi di un accordo pacifico, C. iniziò l'attacco delle chiuse di Val Susa, cioè degli sbarramenti che esistevano nella valle al confine, presso Avigliana. La resistenza che Desiderio aveva preparato fallì, o perché C. inviò un reparto ad attaccare i Longobardi sul fianco, aggirandoli per una stretta valle, o perché i Longobardi furono costretti a ritirarsi per la minaccia dell'esercito del conte Bernardo, che scendeva lungo la Dora Baltea. Le forze regie si concentrarono in Pavia sotto Desiderio, e in Verona sotto Adelchi. Senza difficoltà avvenne l'occupazione dei territorî aperti e delle varie città: non sicure sono le notizie dei cronisti posteriori circa una resistenza longobarda a Brescia; così pure sono forse leggendarî i ricordi di una battaglia tra Franchi e Longobardi presso Mortara. Le forze franche ebbero ben presto ragione di Verona: Adelchi solo si salvò, rifugiandosi prima in territorio bizantino e poi a Costantinopoli. Pavia invece oppose una lunghissima resistenza, e C., dopo essersi attardato tutto l'inverno nell'accampamento sotto le mura della forte città, si recò nella primavera del 774 a Roma a celebrarvi la Pasqua (13 aprile). Solo al suo ritorno Pavia si arrese (giugno 774). C., che aveva catturato a Verona la famiglia del fratello Carlomanno, fece prigioniero a Pavia Desiderio e lo inviò in Francia in un monastero. Il re C. si considerò come erede della tradizione regia longobarda e già il 5 giugno 774, in un diploma a favore dell'abbazia di Bobbio, s'intitolò Rex Francorum et Langobardorum. Egli si fermò a Pavia tutto il giugno e il luglio per sistemare la nuova organizzazione dello stato italiano, quindi, lasciativi suoi rappresentanti come presidio, riprese la via del Nord. Il 10 settembre era già a Lorsch. Non sappiamo di misure violente prese da C. contro l'elemento longobardo; probabilmente non ve ne fu bisogno, poiché tutti piegarono il capo davanti al trionfatore.
Il patriziato romano. - C. era già stato conosciuto, con il fratello, come patricius Romanorum sin dal tempo della sua consacrazione regia, nel 754. Quando nel 774 egli si recò a Roma, il papa lo accolse con il cerimoniale precedentemente usato per gli esarchi e i patrizî bizantini. Il 6 aprile con grande solennità C. procedette a quella donazione all'Apostolo (promissio donationis), che fu giudicata e ritenuta come conferma della donazione fatta da Pipino a Stefano II a Quierzy nel 754, e che stando al testo, peraltro molto discusso, del biografo di Adriano nel Liber pontificalis, comprendeva tutto l'esarcato, le provincie bizantine di Venezia e d'Istria, i ducati di Spoleto e di Benevento, la Tuscia longobarda, parte dell'Emilia, della Venezia longobarda, la Corsica. Il diploma originale fu deposto nella tomba di S. Pietro e la copia nell'archivio romano.
Partito C., in diverse parti della penisola si manifestarono dissensi e sintomi d'insofferenza del nuovo regime. Le pretese del papa Adriano di sfruttare il diploma di donazione in tutta la sua ampiezza, urtarono contro analoghe pretese dell'arcivescovo di Ravenna, desideroso d'imporre la sua dominazione nell'ex-esarcato di Bisanzio. Adriano ripetutamente si rivolse a re C., lagnandosi della debolezza dei funzionarî regi: peggio adesso che al tempo dei re longobardi. Più grave ancora era il malcontento nelle regioni longobarde, dove la deposta dinastia non aveva perduto tutte le sue aderenze. Nel 775 Adelchi, con l'appoggio del governo bizantino, parve organizzare un tentativo di restaurazione longobarda: suo alleato era il cognato Arechi, principe di Benevento; nel Nord contemporaneamente avveniva la ribellione di Rotgaudo, duca del Friuli. Anche il duca di Spoleto, Ildebrando, e Regimbaldo duca di Chiusi, parevano complici della grande cospirazione longobarda. C. inviò in Italia un'ambasceria a visitare i duchi, per sorprenderne le intenzioni: poi, quando il pericolo si aggravò, scese rapidamente in Italia al principio del 776. Sconfisse il duca del Friuli e occupò Treviso, punì con condanne a morte, esilî, prigionie, confische di beni i colpevoli della congiura; si assicurò della fedeltà, sostituendo nei posti di comando funzionarî franchi a quelli longobardi, e lasciando in varie città presidî franchi. Dopo due mesi di soggiorno nell'Italia superiore, C. ritornò oltralpe senza recarsi a Roma.
Solo alla fine del 780 si decise a riprendere la via dell'Italia. Sua intenzione era di far consacrare dal papa i due figli Carlomanno e Ludovico. La cerimonia avvenne nella Pasqua del 781 (15 aprile); Carlomanno era stato battezzato la vigilia col nome di Pipino e il papa ne era stato il padrino. A lui fu assegnato il regno d'Italia; a Ludovico quello di Aquitania. Con Adriano I il re si occupò di varî problemi politici: l'atteggiamento sospetto di Tassilone, duca di Baviera, l'ostilità di Arechi, principe longobardo di Benevento, i rapporti con la corte imperiale di Costantinopoli. Per il papa era importante in modo speciale che si risolvesse la questione di Arechi, atteggiatosi del tutto a sovrano indipendente, che aspirava a estendere la sua dominazione nella Campania a danno delle pretese papali. Ma nel maggio del 781 C. abbandonò Roma e fece ritorno in Francia.
Rapporti con Benevento. - L'atteggiamento ostile di Arechi spinse C. a scendere in Italia nel 787. Arechi si affrettò a inviargli a Roma il figlio Romualdo con ricchi doni, protestando di essere disposto a compiere tutte le volontà del re; ma le trattative fallirono, e, spinto dal papa, C. si decise a una spedizione contro Benevento, conducendo seco come ostaggio o prigioniero il figlio di Arechi. Quando l'esercito franco giunse a Capua, Arechi corse a rifugiarsi a Salerno, e poi riaprì le trattative di pace, offrendo ostaggi e fedeltà. Le trattative parvero esser riuscite: Arechi e tutti i Beneventani giurarono fedeltà a C. Ritornato a Roma, il re fece donazione al papa di molte terre e nel Beneventano e in Tuscia. Risalì quindi a Pavia; radunò molti nobili longobardi ed esiliò i più pericolosi di essi in Francia. Nel luglio era già a Worms. Tuttavia Benevento diede ancora da fare a C. Infatti il successore di Arechi, Grimoaldo, che era stato per un certo tempo come ostaggio in Francia, non tardò a riprendere una politica ostile, e vana riuscì una spedizione militare inviata contro di lui, al comando di Pipino e di Ludovico (792). La guerra proseguì poi fino all'812, anno in cui il principe di Benevento s'indusse a un riconoscimento meramente formale della supremazia franca.
La lotta contro i Musulmani di Spagna. - Domata definitivamente l'Aquitania, l'attenzione di C. si rivolse alla penisola iberica, assorbita allora nel mondo musulmano. Un recente storico di C., il Halphen, pensa che C. avesse in mente di conquistare la Spagna, ma è affermazione discutibile, così come è discutibile se il re franco volesse dare veramente alla guerra un carattere religioso. La condotta di C. verso gli Arabi di Spagna prosegue evidentemente quella del padre Pipino, che nel 759 aveva ottenuto la sottomissione del governatore arabo di Barcellona, e più tardi aveva avuto rapporti cordiali con il califfo di Cordova. C. organizzò una spedizione in Spagna nel 778; forse lo seducevano le promesse del governatore arabo di Barcellona, ribellatosi al califfo di Cordova. Nel sec. IX si pensò che C. fosse stato sollecitato dai cristiani sudditi dei Saraceni; ma la voce, raccolta negli Annales Mettenses, è molto dubbia.
La spedizione fu preparata da C. a Chasseneuil (Poitou), dove si era stabilito con la corte. Dopo la Pasqua (19 aprile), due eserciti scesero a sud; l'uno con le forze borgognone, italiane e bavaresi, l'altro attraverso i Pirenei per St.-Jean-Pied-de-Port e Pamplona. La meta comune era Saragozza: ma l'assedio fu uno scacco completo e C. dovette ritirarsi. La retroguardia, nell'attraversare il passo di Roncisvalle, fu assalita da bande di Guasconi e massacrata: vi perì fra gli altri Rolando (Orlando) marchese di Bretagna. Gli affari di Germania vietarono a Carlo di riprendere il progetto spagnolo; e lasciò che se ne occupassero i suoi comandanti delle provincie meridionali. Si combattè negli anni seguenti coi Saraceni della costa mediterranea e nel 785 fu occupata Gerona; nel 797 fu presa Huesca, nell'801 Barcellona, nell'811 Tortosa. Gli Arabi sentivano potente l'influsso di C.; nel 797 ‛Abd Allāh, figlio dell'emiro ‛Abd ar-Raḥman I, cercò di rovesciare dal trono il nipote al-Ḥakam con l'appoggio di C., il cui aiuto andò a implorare ad Aquisgrana. Nel 798 C. sostenne i cristiani di Galizia e di Asturia nella conquista di Lisbona; nel 799 avvenne la conquista delle Baleari. A coronamento della sua politica spagnola negli ultimi anni del sec. VIII C. organizzò militarmente la Marca spagnola fra i Pirenei e l'Ebro, con capitale Barcellona.
Le guerre contro i Sassoni. - L'attività militare di C. in Germania e le conquiste che ne derivarono hanno un'importanza di prim'ordine nella storia della civiltà europea. Nel sec. VIII il regno franco si sentiva minacciato dalle popolazioni sassoni; a sventare il pericolo non erano bastati gli effimeri successi di Pipino. C. volle invece risolvere definitivamente il problema della sicurezza al confine nord-orientale e in trent'anni di guerre occupò tutti i territorî dei Sassoni fra il Mare del Nord e l'Assia, l'Ems e l'Elba, oltre alla regione sulla destra dell'estuario dell'Elba, corrisponaente all'odierno Holstein meridionale. Anche in questo caso è difficile dire se l'opera di C. fu il metodico svolgimento di un unico piano - tale è l'affermazione di Eginardo - o invece la conseguenza di necessità imposte e create dagli avversarî. Già nel 772 C. combatté contro la tribù turbolenta degli Engri. Ma, assente C. dal Reno nel periodo 773-774 per gli avvenimenti d'Italia, i Sassoni ripresero liberamente le loro incursioni, specie in Turingia. Ritornato dall'Italia nell'autunno del 774, C. da Düren (fra Aquisgrana e Colonia) nell'estate nel 775 mosse verso nord-est: in una campagna di appena tre mesi sottomise gli Ostfali e gli Engri; punì, in seguito, i Vestfali che avevano massacrato i presidî franchi della linea del Weser, quindi si ritirò. Ma nel 776 la situazione si aggravò. C. con un grande esercito si avanzò sino alla Lippe; alle sorgenti del fiume tenne una dieta, a cui intervennero varî capi sassoni a promettere pace e a consegnare ostaggi. Forse allora avvennero i primi battesimi di Sassoni. Si ricostruì Eresburg e sulla Lippe fu fondata la città-forte di Karlesburg o Karlstadt. Ma la rottura dei patti, e nuovi eccidî di presidî franchi costrinsero C. a ricomparire in Sassonia già nel 777. A Paderborn tenne in quello stesso anno una grande dieta, in cui, con l'intervento di molti vescovi e abati, si presero importanti decisioni per la conversione dei nuovi sudditi; C. convinto di avere stabilita la pace potè scendere al confine spagnolo a preparare la spedizione del 778. Ma varî capi tribù sassoni, specie Vestfali, rifugiatisi presso i Dani, organizzarono una violenta ripresa d'armi. Widukind portò le sue tribù in territorio franco sino a Fulda e a Colonia, saccheggiando e distruggendo. C., respinto a Saragozza, quando gli giunse la notizia degli avvenimenti di Germania, si portò con rapidità sul Reno. Gli anni seguenti, salvo il breve soggiorno in Italia nel 781, furono dedicati alla lotta contro i Sassoni; e furono anni di lotta asprissima. Quasi certamente appartiene al 785 il capitolare De partibus Saxoniae, contenente terribili provvedimenti. Il cristianesimo fu ora imposto come riconoscimento di sudditanza; fu condannato a morte chi rifiutasse il battesimo. Finalmente, nel 785 lo stesso Widukind e suo genero Abbi presero il battesimo: con ciò rimanevano ribelli solo i paesi situati fra l'estuario dell'Elba e quello del Weser, e la Nordalbingia, a nord dell'Elba.
Si ebbero in seguito nuove insurrezioni, nuove spedizioni punitive contro i Sassoni, nel 792, 793, 795, 796, 797, 798, 799, ma solo nell'804 la pacificazione della Sassonia poté dirsi un fatto conpiuto, quando C., traversato nuovamente il Reno con l'esercito, fece implacabilmente deportare tutti gli abitanti, e ripartire quei territorî tra i Franchi e gli Abodriti, loro alleati.
Rapporti con i Bavari e gli Avari. - Pur ridotti già da Pipino sotto il protettorato dei Franchi, i Bavari nutrivano ancora vive tendenze all'indipendenza. Il duca Tassilone aveva sposato Liutperga, figlia di Desiderio re dei Longobardi; e i due principi pare mirassero a una politica solidale di difesa contro l'invadenza franca. Il crollo improvviso del regno longobardo isolò la Baviera, ma vi determinò un ancor più vivo senso di avversione contro C. Per molti anni i rapporti restarono tesi, peggiorando poi dopo il 781: pare che Tassilone tramasse contro C., d'accordo con il cognato Arechi, principe di Benevento, e che si fosse procurata l'alleanza degli Avari. Nel 787, al ritorno dall'Italia, C. assalì la Baviera da diverse parti si avanzò sino alla Lech. Tassilone dovette cedere e dare ostaggi; costretto ad apparire davanti al vincitore, venne arrestato e chiuso nell'abbazia di Jumièges. La Baviera fu occupata militarmente e governata da conti franchi. Più tardi, nel 794, C. volle legittimare il proprio dominio: Tassilone comparve al sinodo di Francoforte e fu costretto ad abdicare solennemente a favore del re dei Franchi.
Ma C. dovette esaminare allora la situazione creata dalla vicinanza degli Avari, pericolosi sempre, sebbene non avessero più la potenza del secolo precedente. Come si sia aperto il conflitto, che dopo quello sassone fu il più grave, non è chiaro: forse C. volle colpire gli Avari per l'alleanza accordata a Tassilone e tramutatasi in un attacco in Italia e in Baviera, fallito per il pronto intervento di C. che aveva ricacciati gl'invasori in disordine nel Danubio.
Nel 790 comparve a Worms davanti a C. un'ambasceria avarica, ma nulla si concluse e nel 791, in primavera, a Ratisbona, C. e il figlio Ludovico attesero a preparare una grande spedizione. Le forze franche furono divise in tre corpi: a nord del Danubio, al comando del conte Teoderico, zio di C., e del regio camerario Maginfredo; a sud al comando del re; lungo il fiume vi erano corpi bavaresi, con una flottiglia per rifornimenti. Dall'Italia poi un altro esercito, inviato dal giovane re Pipino, penetrò nella Pannonia e sconfisse gli Avari il 23 agosto. Gli eserciti franchi furono pronti per la spedizione solo al principio del settembre.
Gli Avari avevano eretto fortificazioni sulle due rive del Danubio; a nord, sul Kamp, a sud nel Wienerwald. Ma il formidabile attacco li costrinse a ritirarsi senza accettare battaglia. C. si avanzò per il Wienerwald, oltre la Raab, e, devastando tutta la regione, andò a mettere il campo a Sabaria (Sawar), alla confluenza della Raab e del Danubio. Vi attese l'esercito della riva sinistra; poi la stagione troppo avanzata lo costrinse a ritornare a Ratisbona.
L'attacco di C., se non diede subito grandi risultati, colpì però nel suo prestigio l'impero avarico. C. affidò al figlio Pipino l'incarico di continuare la lotta contro gli Avari. Nel 795 lo stesso accampamento del Khagan, situato fra il Tibisco e il Danubio, il cosiddetto anello, venne occupato e spogliato dei tesori raccolti in quasi tre secoli di piraterie. Parte degli Avari si disperse, parte si sottomise e accettò il battesimo. Nel 796 gli Avari superstiti si ribellarono; Pipino riprese l'offensiva e distrusse questa volta l'anello. Così scomparve l'impero avarico.
Difesa del confine a nord e a nord-est e difesa dei mari italiani. - Verso il 778-780 C. si preoccupò di assicurare il dominio franco sulla penisola bretone, che ancora sfuggiva all'autorità diretta della monarchia. Riuscì con le armi ad assoggettarla almeno esteriormente; più tardi, nel 786, i Bretoni insorsero, e fu necessario riprendere le armi; finalmente nel 799 una nuova spedizione li costrinse a riconoscersi sudditi del re.
Sulla fine del secolo le coste franche dal Mare del Nord al golfo di Guascogna vennero afflitte dalle incessanti scorrerie dei Dani, detti comunemente Normanni (v.). Il re normanno Götrikfried si vantava di voler conquistare la stessa Aquisgrana. Nell'800, C. si recò a ispezionare tutta la frontiera oceanica, organizzando la difesa dei porti e degli estuarî fluviali; ma solo nell'811 riuscì a far pace col successore di Götrik, pur non tralasciando di interessarsi della difesa delle coste.
Provvedimenti di difesa furono presi dai due figli di C., Ludovico di Aquitania e Pipino d'Italia, per assicurare le coste dalle scorrerie degli Arabi; nell'806 e negli anni seguenti, si ebbero varie spedizioni in Corsica, in Sardegna e nell'isola di Pantelleria.
Il rinnovamento dell'Impero romano. - Le imprese di C. avevano portato il confine franco dalla Turingia al Mare del Nord e all'Elba, al Tibisco e al Danubio, all'Ebro; le Baleari, le isole italiane e la penisola italiana sino a Roma dominavano il Mediterraneo occidentale. Longobardi, Bavari, Sassoni, Bretoni, erano stati assorbiti; la potenza del re franco era da tutti riconosciuta. Il califfato di Baghdād, quello di Cordova, l'Impero bizantino, erano incapaci di qualsiasi offensiva, sebbene la posizione geografica li assicurasse nella loro immobilità. Certo la zona più notevole delle conquiste franche era la Germania: e ora si poteva parlare di unità politica di tutte le genti gemmaniche. Ma la conquista dell'Italia impresse all'attività politica di C. un indirizzo nuovo. La visione di Roma nei tre viaggi del 774, del 776 e del 781 fece sull'animo di C. un'impressione grandissima: il re franco sentì il fascino di Roma, e fu attratto verso la tradizione romana. Gli scrittori che vivevano a contatto con la corte franca, come Alcuino e Angilberto, chiamarono C. non più soltanto David, ma Costantino, Teodosio, Giustiniano. C. si atteggiava a vero e solo capo della cristianità (princeps populi christiani). La sua vittoriosa difesa della fede gli appariva come una sacra missione assegnatagli dalla Divinità, che aveva ritirato la sua protezione dal decadente Impero bizantino, incapace di reggere davanti agli Arabi, sconvolto dalle lotte interne.
Quando nel 795 scomparve il papa Adriano I, l'alleato della lotta contro i Longobardi, il clero romano elesse papa, nonostante l'opposizione dell'aristocrazia locale, un funzionario della curia, Leone III. Questi si affrettò a mandare a C. il verbale dell'elezione, perché ne constatasse la legalità; e gli scrisse dichiarazioni di obbedienza e di fedeltà. Il re spedì a Roma Angilberto, abate di Saint-Riquier, con l'ordine di ammonire il papa a tenere vita onesta, a osservare i canoni, a governare virtuosamente la Chiesa. Assunse dunque C. un atteggiamento come di sovrano verso suddito. E nella lettera reale, che Angilberto avrebbe dovuto consegnare a Leone III, C., augurandosi di avere con lui quella concordia che aveva avuta col predecessore suo, gli prometteva di difendere la Chiesa romana, così esprimendosi: "A me spetta di difendere la Chiesa dagli empî e dai pagani; a te di pregare per ottenere a me la vittoria sui nemici". Era già la concezione della missione divina di proteggere e dirigere la Chiesa.
La situazione del vescovo di Roma rispetto a C., peggiorò nel 799. Una fazione di nobili romani, parenti del defunto Adriano I, ordì una congiura contro Leone III; durante una processione il papa venne assalito, ferito (25 aprile), internato nel convento di S. Erasmo, di dove a stento poté scampare in S. Pietro. Infine sotto la protezione di Winigi, duca di Spoleto, Leone III partì prima per Spoleto, poi raggiunse il re al campo di Paderborn.
Le idee dominanti della corte francese ci sono svelate da una lettera di Alcuino a C. (giugno 799). Nella decadenza del papato e dell'impero (d'Oriente, dove governava, per usurpazione, una donna) invitta rimane la monarchia franca, governata da C., da Cristo stesso stabilito quasi rettore del popolo romano, superiore al papato e all'impero, più eccellente per potenza, più illustre per sapienza, più sublime per dignità. "Solo in te, dice Alcuino a C., riposa la salvezza della Chiesa di Cristo". Partendo da questi principî C. provvide a far ricondurre in Roma il papa, sotto la protezione dei suoi rappresentanti. Nella Pasqua dell'800, ebbe a Saint-Riquier un convegno con Angilberto e Alcuino; quindi, ritornato in Aquisgrana, convocò una dieta nell'agosto a Magonza; e là annunciò il suo viaggio imminente in Italia. C. comparve in Italia nell'autunno, accompagnato dal figlio primogenito Carlo. Pipino re d'Italia gli andò incontro; a Ravenna fu decisa una spedizione per Benevento. Il re, che scendeva per la via Flaminia, trovò a Mentana Leone III che poi ritornò in città per preparare il solenne ricevimento. Entrato solennemente in Roma il 24 novembre, il 1° dicembre C. presiedette un'assemblea di prelati, ecclesiastici, dignitarî laici, per esaminare le accuse fatte a Leone III; questi, per essere assolto, dovette sottoporsi all'umiliazione di giurare pubblicamente la sua innocenza (23 dicembre). Dopo Natale, C. sentenziò sui Romani che avevano cospirato contro il papa: condannati a morte, vennero graziati ed esiliati in Francia.
La mattina del Natale, C., con tutta la corte, intervenne ai solenni riti in S. Pietro. Dopo la messa Leone III, avanzatosi davanti al trono del re, s'inginocchiò compiendo l'adorazione dell'antico cerimoniale imperiale. Quindi, alzatosi, depose sul capo di C. il diadema imperiale; così incoronò pure il figlio Carlo. Frattanto i presenti pronunciarono la triplice acclamazione rituale "A Carlo Augusto, coronato da Dio, grande e pacifico imperatore, vita e vittoria". Così risuscitava per opera di Carlo l'antico Impero romano d'occidente. I critici moderni hanno formulato riguardo all'atto del Natale 800, varie teorie: e specialmente discussa è stata la frase di Eginardo che la cosa fosse avvenuta nesciente domino Karolo. Fu da alcuni ritenuta asserzione non rispondente a verità, anzi una tarda scusa diplomatica per giustificare l'accaduto davanti alla corte di Costantinopoli; altri supposero che Leone III avesse teso quasi un tranello a Carlo; altri ancora che si fosse preparata l'incoronazione del principe Carlo, e che per sorpresa fosse stato incoronato poi il re. In realtà, tutto porta a pensare che l'incoronazione sia stato un atto lungamente meditato e preparato.
C. rimase a Roma fino alla Pasqua dell'801 (7 aprile), occupato nel riordinamento del governo di Roma e dell'Italia. Poi si avviò lentamente a nord. Presso Ivrea si aggiunsero al corteo imperiale gli ambasciatori del califfo di Baghdād, Hārūn al-Rashīd, e del governatore di Kairwan, con ricchi doni, che gli annunciarono il prossimo ritorno dell'ebreo Isacco, quattro anni prima inviato da C. a Baghdād con due ambasciatori, che erano morti nel viaggio. L'imperatore raggiunse poi Aquisgrana e vi si fermò a lungo.
Relazioni con l'Impero d'Oriente. - Dopo la conquista dell'Italia i rapporti fra C. e la corte di Costantinopoli erano stati aspri: per alcuni anni l'Impero aveva appoggiato apertamente gl'intrighi del profugo Adelchi e del principe di Benevento Arechi. Poi l'imperatrice Irene acconsentì a cordiali relazioni: venne persino progettato il matrimonio fra il giovane Costantino VI e Rotrude figlia di C.; una missione greca si stabilì alla corte franca per educare la principessa nella lingua e nei costumi orientali. Ma in seguito erano sorti nuovi conflitti; l'incoronazione di C. a Roma portò infine a contrasto aperto. Infatti a Costantinopoli non era stata mai abbandonata la dottrina dell'unità dell'impero, e gl'imperatori bizantini avevano sempre proclamato i loro diritti anche sull'Occidente. Era quindi naturale che la cerimonia in S. Pietro apparisse ai loro occhi come un'usurpazione. Pare che vi siano state dapprima trattative dirette fra C. e Irene: un matrimonio dei due imperatori avrebbe eliminato ogni dissenso. Ma nell'802 Irene fu sbalzata dal trono e il successore Niceforo riprese un atteggiamento di ostilità verso C. Vi fu un periodo di lotta aperta nell'Adriatico; nell'805 i Franchi sottomisero le coste della Venezia e dell'Istria, da cui furono però ricacciati nell'806; nell'810 si ripresero le trattative fra C. e Niceforo; nell'812 l'accordo fu conchiuso: C. venne riconosciuto come imperatore, ma Venezia, l'Istria, la Dalmazia rimasero all'Impero bizantino. Ambasciatori bizantini si recarono ad Aquisgrana per la cerimonia solenne del riconoscimento di C. come imperatore. Così l'atto dell'800 acquistò legittimità; d'ora innanzi vi furono due imperi, quello d'Oriente e quello d'Occidente.
L'attività guerresca di C. negli ultimi anni. - Dopo l'800 C., pur non disinteressandosi delle cose di guerra, incaricò più spesso delle operazioni militari i figli e i generali. Si trattò quasi sempre però di misure di assestamento dei confini più importanti: nell'801 l'assedio e la presa di Barcellona; contemporaneamente le operazioni contro i Sassoni Nordalbingi; in Italia la guerra contro i Longobardi di Benevento, con l'occupazione di Chieti, Ortona, Lucera. Nell'803 C. tenne la regolare dieta annuale, nel luglio, a Magonza; poi si recò in Baviera, a Ratisbona, ad attendere il ritorno dell'esercito inviato nei paesi avarici, ritornando ad Aquisgrana solo a Natale; nell'804, dopo Pasqua, partì per la Germania e andò ad accamparsi sull'Elba, a Hollenstaedt, di dove varie colonne partirono per reprimere le insurrezioni scoppiate nei varî paesi. Nell'805 il primogenito Carlo fu inviato in spedizione contro i Boemi, nell'806 contro i Sorabi e i Boemi. Negli anni seguenti l'imperatore attese ai provvedimenti contro i Dani: l'ultima spedizione militare a cui C. partecipò fu quella dell'810, nell'811 si recò solo a Boulogne, centro della flotta contro i Normanni, ritornando poi lungo la Schelda ad Aquisgrana.
La morte. - L'ultimo atto politico di C. è l'incoronazione del figlio Ludovico (il Pio) come imperatore, nel settembre 813. Sebbene da varî anni sofferente di podagra, zoppicante e costretto a usare il bastone, si recò ancora come era solito da molti anni, alla caccia. Ritornò ad Aquisgrana nel novemhre: depresso, si dedicò alla preghiera, alla lettura dei libri sacri. Ma nel gennaio successivo fu colto da grande febbre, e dopo sette giorni di malattia morì (28 gennaio 814). Fu sepolto nella sua cappella palatina di Aquisgrana. La sua tomba fu aperta da Ottone III (1000) e poi da Federico Barbarossa (1165) e da Federico II (1215).
Caratteri dell'impero di C. - C. portò a compimento il programma per tre secoli perseguito dalla monarchia merovingica: l'unificazione, per opera dei Franchi, di tutte le tribù germaniche. Questa costruzione, che sarebbe stata di per sé grandissima, venne consacrata dall'incoronazione imperiale e immedesimata nella stessa società europea cristiana. L'impero di C. è la repubblica romana: la comunione morale religiosa di tutti i popoli affratellati nella fede cristiana. La missione da Dio assegnata a C. è di fare regnare la pace cristiana, operando in modo ch'essa si propaghi quanto più è possibile, inserendo i popoli che vi aderiscono nell'unità statale e imperiale. Le violenze, le crudeltà, i massacri delle varie guerre venivano legittimati, consacrati come compiuti in omaggio a un precetto divino. Questa concezione religiosa e civile domina C. dopo l'incoronazione dell'800. Ai grandi capitolari generali emanati da Aquisgrana nell'802, C. prepose un ampio preambolo, vero proclama ai popoli suoi, invitandoli alla giustizia, alla pace, alla pietà. Era l'idealizzazione dell'impero romano, il regno della pace e della giustizia; era la conquista di nuovi più alti criterî di governo. Elemento essenziale della politica di C. è l'accordo con la Chiesa. L'imperatore esercita sulla società ecclesiastica la massima protezione; tutto il clero è sorvegliato e appare alle dipendenze del monarca. Questi ordina che tutti gli ecclesiastici siano esaminati nella loro cultura e dottrina; prende parte alle discussioni teologiche, dimostrando di avere notevole capacità d'intendere problemi e assimilare idee; con Gheibald, vescovo di Liegi, discute sul battesimo, e raccomanda che nessuno vi sia ammesso che non sappia recitare il Pater e il Credo; invia ambasciatori al papa per deliberare circa il testo del Credo; ordina che gli studî letterarî nei conventi siano fatti con cura, e che il senso della Scrittura divina possa essere facilmente penetrato; ordina di restaurare le chiese in rovina; abolisce la liturgia gallica e adotta la romana. Nel 769 C. aveva già inviato una commissione di dodici vescovi al sinodo romano; nel 792 raduna a Ratisbona un sinodo per le lotte contro l'adozionismo (v.), e vi fa esaminare le teorie e i libri di Felice vescovo d'Urgel; nel 793 tiene un nuovo sinodo a Francoforte, dove vengono i legati di Adriano I: nuovamente vi si discute l'adozionismo, si esaminano i canoni del non lontano sinodo di Nicea a favore delle immagini, e si decreta contro le immagini stesse.
In genere, nonostante qualche isolata protesta, la Chiesa accettò la situazione di subordinazione all'imperatore; i vescovi acconsentirono a umiliarsi, ad accusarsi di negligenza, di pigrizia, ad affermare la necessità di dipendere dall'imperatore.
Spartizione degli stati. - Già da molti anni C. aveva assegnato ai figli Pipino e Ludovico il governo dell'Italia e dell'Aquitania. Solo però nella dieta nell'806, a Diedenhofen, l'imperatore annunciò la definitiva divisione degli stati. Pipino ebbe l'Italia, la Baviera e l'Alemannia a sud del Danubio; Ludovico ricevette la Borgogna, l'Aquitania e la Guascogna; Carlo ebbe la Francia austrasica e neustrica, parte della Borgogna, la Frisia, la Sassonia, la Turingia, e con ciò una posizione infinitamente più considerevole che non i fratelli. Erano presi nell'atto di divisione dei provvedimenti per il caso della premorienza di qualcuno; nulla invece decise C. per l'impero. La divisione fu approvata da papa Leone III e venne imposto ai sudditi l'obbligo di giurare fedeltà ai voleri dell'imperatore. Nel settembre dell'813, scomparsi Pipino (810) e Carlo (811), l'imperatore convocò una solenne dieta ad Aquisgrana, e col consenso dei presenti incoronò l'unico figlio che gli restasse, Ludovico, imperatore. Due anni prima, nell'811, C. aveva redatto un atto per la ripartizione dei suoi beni mobili, che ci è conservato da Eginardo; voleva poi fare un testamento per disporre a favore dei figli illegittimi, ma non fece a tempo.
Il governo. - C. governa assistito da un gruppo di consiglieri, che formano il sacrum palatium del monarca. Per gli ecclesiastici C. pare si procurasse il consenso della Chiesa; per avere presso di sé l'arcivescovo Angehamno egli chiese il consenso di papa Adriano, per avere il vescovo Ildeboldo si rivolse a un sinodo, che acconsentì per l'identico motivo: propter utilitates ecclesiasticas. Secondo Incmaro, presso l'imperatore vi erano sempre tre consiglieri eminenti, coi quali discutere di ogni affare urgente. Altissima autorità avevano l'arcicappellano di corte, che dirigeva il clero della corte; il conte di palazzo, che dirigeva i servizî giudiziarî; l'arcicancelliere che dirigeva la cancelleria dove numerosi notai e scrivani attendevano alla compilazione dei diplomi e delle lettere. Ogni anno, in maggio o nell'estate, si riuniva attorno a C. l'assemblea generale (placitum generale) dei suoi fedeli (nell'autunno si raccoglieva una seconda assemblea più ristretta di grandi laici ed ecclesiastici): ivi si comunicavano disposizioni legislative, ordini per la spedizione militare dell'anno, provvedimenti finanziarî e giudiziarî. Il monarca era in relazione con le popolazioni per mezzo del conte e del vescovo che ha importanza statale. Italia, Baviera, Aquitania e Stato della Chiesa, hanno una posizione speciale di autonomia. Anteriormente all'800 C. organizza un nuovo ufficio amministrativo, quello dei missi o ispettori; poi divide lo stato in vere circoscrizioni, dette missatica, comprendenti un vario numero di comitati. Ciascuna zona è affidata a due missi, uno laico (conte), uno ecclesiatico (vescovo). Le zone di confine, secondo la tradizione romana, sono considerate come zone militari (marche). C. utilizza per gli uffici la classe aristocratica, giovandosi molto dei vincoli personali e feudali ormai prevalenti.
Attività legislativa. - La legislazione dello stato carolingio rappresenta un notevole, e forse l'unico sforzo di C., per dare assetto di stabilità al grande organismo risultante dalle sue conquiste. Sostanzialmente domina ancora il diritto personale delle varie popolazioni, la secolare consuetudine cristallizzatasi ora nelle varie leggi nazionali. Ma C., più nettamentc che non Pipino, sente i bisogni nuovi che risultano da questo affratellamento di varî popoli sotto un solo governo, sotto una sola religione. A questi bisogni provvede il monarca nelle diete annuali, in cui vengono promulgati i decreti o capitolari. I capitolari carolini sono un'ottantina. Hanno vario carattere: vi è la legge e vi è il semplice ordine diretto a funzionarî. I capitolari sono generali o particolari, secondo che riguardano tutto lo stato o solo una parte di esso. I più importanti sono quelli dell'802, che rispecchiano la coscienza imperiale di C. Secondo Eginardo. C. avrebbe progettato di rimediare alle deficienze delle leggi franche, correggendole e aggiungendo quel che mancava, togliendo quello che differenziava le une dalle altre. Ma certo non dovette pensare a una vera unificazione della legislazione generale dell'impero.
La famiglia imperiale. - Agl'inizî del suo regno C. subì notevolmente l'influsso della madre Bertrada, donna energica e dotata di buone qualità politiche, morta dopo il 783. Ebbe poi una famiglia numerosa. Già prima del 770 egli era sposato con una Imiltrude, franca, da cui ebbe un figlio, Pipino il gobbo. Per considerazioni politiche sposò nel 770 Desiderata, che ripudiò già nel 771; si unì allora in matrimonio con una nobile sveva, la giovanissima Ildegarda, che morì di parto il 30 aprile 783, in età di appena 25 anni. In dodici anni aveva dato a C. 4 figli e 5 figlie: Carlo, Pipino, Ludovico e Lotario (morto nel 779); Adelaide, Rotrude, Berta, Gisela, e un'altra. Ancora nel 783 C. sposò a Worms Fastrada, figlia del conte Radolfo, di famiglia franca austrasica. Da essa C. ebbe due figlie, Teoderada e Iltrude. Fastrada era donna dura, anzi ci è detta crudele; Eginardo l'accusa di essere stata causa di grave malcontento in Germania e di aver determinato la ribellione di Hardrad, duca di Turingia, che nel 785 si propose di uccidere C. e chiamare i Germani a indipendenza. Più tardi, nel 792, una nuova congiura fu tentata da Pipino il gobbo, il figlio di C. e d'Imiltrude, forse perché malcontento per la sua condizione d'inferiorità rispetto ai figli d'Ildegarda. Anche di questa ribellione Eginardo dà la colpa a Fastrada, che avrebbe distolto C. dalla sua benigna natura. Pipino riunì attorno a sé una quantità di personaggi franchi con l'intenzione di uccidere il padre e impadronirsi del trono. La congiura fu scoperta da un longobardo, Fardulfo, che per ricompensa ricevette da C. l'abbazia di Saint-Denis. Pipino il gobbo e i suoi complici furono giudicati nella dieta di Ratisbona: Pipino fu chiuso nell'abbazia di Prüm dove morì nell'811, gli altri furono variamente puniti.
Morta Fastrada a Francoforte, nel 794, C. passò allora a nuove nozze con Liutgarda, nobile sveva, che non gli diede figli e morì già il 4 giugno 800 a Tours dove aveva accompagnato C.
Numerose furono le concubine dell'imperatore: Madelgarde, madre di Rotilde, Gerwinda, madre di Adaltruda, Regina, madre di Drogone e di Ugo, Adalinda, madre di Teodorico. C. curò che i figli avessero studî liberali, pur non dimenticando le consuetudini franche: cavalcare, esercitarsi nelle armi e nella caccia. I due figli, Carlo e Pipino, diedero gravi dispiaceri all'imperatore per le loro discordie: il primo morì il 4 dicembre 811, il secondo era scomparso l'8 luglio 810, lasciando varî figli: Bernardo, Adelaide, Atula, Gundrada, Bertaide, Teoderada, amatissimi dall'avo.
Titoli di Carlomagno. - Il primo e il principale titolo, che era una novità, è quello: Gratia Dei rex Francorum vir inluster. Dopo la conquista dell'Italia si disse: Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum. Verso il 775 cadde l'espressione vir inluster, ma C. lo sostituì con l'altro di patricius Romanorum, che lasciò nell'800. Dopo l'800 usò questa solenne dicitura: In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, Karolus serenissimus augustus a Deo coronatus magnus pacificus imperator Romanum gubernans imperium, qui et per misericordiam Dei, rex Francorum et Langobardorum. (da notare la formula Romanum gubernans imperium, adottata certo, invece dell'altra Romanorum imperator, per non urtare maggiormente Bisanzio). Così nei documenti, come segno manuale, alla croce di Pipino, C. sostituì il monogramma, innovazione di tipo romano.
C. usò due sigilli: nei documenti della cancelleria reale un sigillo ovale, formato da una gemma romana col busto di un imperatore e la scritta: Christe, protege Karolum regem Francorum; nei documenti giudiziarî un altro sigillo ovale, una gemma col busto di Giove Serapis senza scritta. Il sigillo, spesso ricordato, avente la scritta: Renovatio Romani Imperii, è dubbio se sia di C., piuttosto che di Carlo il Calvo o di Carlo il Grosso.
Nel protocollo del capitolare dell'801 C. usa l'espressione anno consulatus autem nostri primo, con la corrispondenza impero-consolato. La corona d'oro dedicata da C. nella basilica di Aix aveva l'iscrizione Karolus princeps. Le monete di C. portano il busto imperiale e la leggenda: dommus Karolus imperator augustus rex Francorum et Langobardorum, come gl'imperatori dell'alto impero romano. La testa è laurata e il busto è coperto dal paludamentum romano. Il termine di Magnus già compare nell'iscrizione funebre ed è usato pochi anni dopo da Nitardo: Karolus hone memorie et merito Magnus imperator ab omnibus nationibus vocatus.
Ritratto di Carlomagno. - Il grande imperatore così ci è descritto dal suo segretario Eginardo: alto, robusto, testa rotonda, naso grosso, faccia rotonda, ventre prominente. Negli ultimi anni zoppicava. Il famoso musaico del triclinio del Laterano in Roma, in cui è raffigurato C., non ci dà elementi sicuri sulla sua figura fisica, perché nell'aspetto attuale è rifacimento del sec. XVIII. Un altro musaico, fatto eseguire da Leone III nella basilica di S. Susanna, andò distrutto nel 1595, e ne abbiamo solo tarde copie del sec. XVI-XVII. Molto discussa è la statuetta di Metz che raffigura C. a cavallo, ora al museo Carnavalet di Parigi. Era temperante nel cibo e nel bere, e detestava l'ubbriachezza. Si imponeva frequenti diete. Negli ultimi anni amava durante i pasti sentir leggere. Solo nelle solennità acconsentì a indossare l'abbigliamento romano, mentre usuale era l'abbigliamento franco. Disdegnava il lusso non solo per sé, ma anche per i suoi cortigiani. Amava la caccia: dopo l'800 soprattutto usò cacciare a lungo o nelle Ardenne o nei Vosgi.
L'opera di Carlomagno. - In Francia e in Germania dal sec. IX al sec. XV vi fu come un culto per C.; un antipapa, Pasquale III, approvò anzi a richiesta di Federico Barbarossa, gli onori dell'altare; nel sec. XVIII il cardinale Lambertini, poi papa Benedetto XIV, nei suoi studi canonistici fu del parere che all'imperatore si potesse rendere il culto dovuto ai beati. Certo C. fu una delle più grandi figure che la storia ricordi: spirito illuminato e pratico, versatile, sinceramente religioso, ottimo guerriero e abile uomo di stato, felice nella scelta dei collaboratori. Sotto di lui l'alto Medioevo diede quanto ebbe di meglio in fatto di organizzazione amministrativa e politica. Non solo egli aveva vittoriosamente contenuto le minacce dei popoli orientali contro l'Occidente europeo, e nel mondo occidentale cristiano aveva definitivamente attratto la Germania; ma per opera sua lo stato si era mosso verso l'ideale di un dominio universale, e tanta parte dell'antico impero romano era stata richiamata ad unità politica e religiosa. Senza dubbio la costruzione sociale e statale formatasi sotto C. era assai imperfetta, e scomparsa la sua vigorosa personalità non resse all'azione delle troppe forze centrifughe; ma anche quando l'organismo creato da lui sarà andato in frantumi, l'idea del potere imperiale superiore ad ogni altro, da C. riportata nel campo dell'azione e della teoria, non si spegnerà e si manterrà nell'Occidente europeo per tutto il Medioevo e per buon tratto dell'Età moderna (v. impero).
Le fonti. - Il biografo contemporaneo di C., notissimo, è Eginardo (Vita Karoli Magni, edizione Holder-Egger, in Scriptores rerum Germanicarum, 6ª ed., Hannover 1911, ristampa 1927; Eginhard, Vie de Charlemagne, ed. e trad. da L. Halphen, Parigi 1923, in Les classiques de l'histoire de France au moyen-âge). L'altra fonte narrativa fondamentale è costituita dagli Annales Laurissenses maiores (ed. Pertz, in Monum. Germ. Hist., Scriptores, I, Hannover 1826; oggi però occorre rifarsi all'ed. data da M. Kurze sotto il titolo Annales regni Francorum inde ab a 741 usque ad a. 829, in Scriptores rerum Germanicarum, Hannover 1895).
Segue una serie di altre cronache, estremamente succinte per lo più, che possono raggrupparsi in questo modo: al gruppo degli Annali di Lorsch appartengono gli Annales Laureshamenses (in Mon. Germ. Hist., Script., I, Hannover 1826); gli Annales Mosellani (ib., XVI); il Fragmentum Chesnianum (ib., I), i quali tutti sino al 785 sono copie dello stesso testo, probabilmente redatto nell'abbazia di Lorsch (donde la denominazione). Al gruppo degli Annali di Murbach, appartengono gli Annales Nazariani, gli Annales Alamannici, gli Annales Guelferbytani (tutti in Mon. Germ. Hist., Script., I), che si ricollegano al monastero di Murbach. Nel gruppo degli Annali di Salisburgo rientrano gli Annales Maximiani (in Mon. Germ. Hist., Script., XIII), gli Annales Juvavenses maiores, gli Annales Juvavenses minores, gli Annales Sancti Emmerammi maiores (ib., I); in parte, forse, anche gli Annales Xantenses (in Script. Rerum German. 1909). E ricordiamo inoltre gli Annales Laurissenses minores, in Mon. Germ. Hist., I (ora, sotto il titolo Chronicon Laurissense breve, in Neues Archiv, XXXVI, 1911); gli Annales Sancti Amandi (Mon. Germ. Hist., Script., I); gli Annales Petaviani (ib.); gli Annales Mettenses priores (ed. da B. V. Simson, in Script. Rerum German., Hannover 1905); gli Annales Fuldenses (ed. da M. Kurze, in Script. Rerum German., Hannover 1891).
Inoltre il fantasioso Monachus Sangallensis, De gestis Karoli Magni, ed. di F. Jaffé, Monumenta Carolina, in Bibliotheca Rerum Germanicarum, IV, Berlino 1867, pp. 628-700. E per i rapporti con l'Italia e il papato, Liber pontificalis, ed. Duchesne, II, Parigi 1892.
L'origine e i rapporti, complicati, di queste fonti tra di loro hanno costituito l'oggetto di varie ricerche: ricordiamo qui M. Kurze, Über die karolingischen Reichsannalen von 748-829 und ihre Überarbeitung, in Neues Archiv, XIX, XX, XXI (1893-95); id., Die karolingischen Annalen bis zum Tode Einhards, Berlino 1913; G. Monod, Études critiques sur les sources de l'histoire de Charlemagne, Parigi 1898 (in Bibliothèque de l'École des Hautes Études, 119); H. Wibel, Beiträge zur Kritik der Annales regni Francorum in der Annales d. Einhardi, Strasburgo 1902; infine, e con acuta analisi, L. Halphen, in Revue historique, 124, 125, 126, 128 (1917-1918) (studî ripubblicati poi, con altri, nel volume Études critiques sur l'histoire de Charlemagne, Parigi 1921).
Tra le fonti documentarie sono fondamentali E. Mühlbacher, Die Regesten des Kaiserreichs unter den Karolingern (751-918), 2ª ed., Insbruck 1908; id., Die Urkunden der Karolinger, I, in Mon. Germ. Hist., Diplomata, Hannover 1906. Inoltre, i Capitularia regum Francorum, ed. da A. Boretius, in Mon. Germ. Hist., Leg., II; i Poetae Latini, aevi carolini ed. da E. Dümmler, in Mon. Germ. Hist., Berlino 1881-84; i Concilia aevi karolini, ed. da A. Werminghoff in Mon. Germ. Hist., Leg., III, voll. 2. Per la corte, Hincmar, De ordine palatii, ed. M. Prou, Parigi 1884.
Bibl.: Fondamentale rimane tuttora l'opera, cronologicamente condotta, di S. Abel-B. Simson, Jahrbücher des fränkischen Reichs unter Karl dem Grossen, I, 2ª ed., Lipsia 1888; II, Lipsia 1883 (nei Jahrbücher der deutschen Geschichte). Utile è poi il recente volume di K. Heldmann, Das Kaisertum Karls des Grossen. Theorien und Wircklichkeit, Weimar 1928. Ricco di notizie e corredato di ampia bibliografia è l'articolo Charlemagne di H. Leclercq, in Dictionnaire d'arch. chrétienne et de liturgie di F. Cabrol e H. Leclercq, Parigi 1913, III, i, coll. 656-803, cui F. Cabrol fa seguire l'articolo Charlemagne et la liturgie, coll. 807-825. Ottima la trattazione di E. Mühlbacher, Deutsche Geschichte unter den Karolingern, Stoccarda 1896. V. inoltre F. Kampers, Karl der Grosse. Die Grundlegung der mittelalterlichen Kultur und Weltanschauung, Magonza 1910; C. Hampe, Carlo Magno, trad. di A. Bortolini, Venezia 1928. Sulle relazioni col fratello Carlomanno: M. Lintzel, Karl der Grosse und Karlmann, in Hist. Zeitschrift, CXL (1929). Sull'incoronazione: W. Ohr, Die Kaiserkrönung Karls des Gr., Tubinga 1903; L. Himmerlseich, Die Kaiserkrönung Karls des Gr. im Jahre 800, Monaco 1919; L. Halphen, Étude critiques sur l'histoire de Charlemagne, cit. Impossibile citare la ricchissima bibliografia relativa alle donazioni carolinge ai papi; potrà essere consultata quella data in materia nell'appendice al cap. XVIII del vol. II, della Cambridge Medieval History, p. 801 segg., Cambridge 1923. Per i rapporti con Leone III: Ch. Bayet, L'élection de Léon III. La révolte des Romains en 799 et ses conséquences, in Ann. de la Faculté des lettres de Lyon, 1883, p. 173 segg. V. anche A. Kleinclausz, L'empire carolingien, ses origines et ses transformations, Parigi 1902; e P. E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, Lipsia 1929, I, p. 12 segg. Per l'azione svolta verso il principato di Benevento: F. Hirsch, Papst Hadrian I., und das Fürstenthum Benevent, in Forsch. zur deut. Gesch., XIII (1873), p. 35 segg.; E. Robiony, Le guerre dei Franchi contro i principi di Benevento, Napoli 1901; R. Poupardin, Études sur l'histoire des principautés lombardes de l'Italie méridionale, Parigi 1907. Per le guerre contro i Sassoni, oltre a L. Halphen, Études critiques cit., cfr. W. Kentzler, Karls des Grossen Sachsenzüge, in Forschungen zur deutschen Geschichte, XI e XII (1871-72). Per le relazioni con l'impero d'Oriente: A. Gasquet, L'empire byzantin et la monarchie franche, Parigi 1888. Per le imprese di Spagna: R. Basset, Les documents arabes sur l'expedition de Charlemagne en Espagne, in Revue histor., LXXXIV (1904), p. 286 segg.; Barrau-Dihigo, Deux traditions musulmanes sur l'expédition de Charlemagne en Espagne, in Mélanges d'histoire du Moyen-Âge offerts à F. Lot, Parigi 1925. Si veda anche H. Pirenne, Mahomet et Charlemagne, in Rev. Belge de philos. et d'histoire I (1922), p. 77 segg. Intorno al presunto protettorato di Carlo Magno in Terra Santa: L. Brehier, La situation des chrétiens de Palestine à la fin du VIIIe siècle, et l'établissement du protectorat de Charlemagne, in Moyen-Âge, s. 2ª XXI (1919), p. 67 segg.; A. Kleinclausz, La légende du protectorat de Charlemagne sur la Terre Sainte, in Syria (1926). Di utile lettura: De La Roncière, Charlemagne et la civilisation maritime au IXe siècle, in Moyen-Âge, s. 2ª I (1897). Per la leggenda di Carlomagno: G. Rauschen, Die Legende Karls des Grossen in 11. und 12. Jahrhundert, Lipsia 1890; F. De Mely, Légende de Charlemagne, in Bull. de la Soc. nat. des antiquaires de France, 1923, p. 159 segg. Per il culto di Carlomagno, vedi l'articolo relativo di F. Cabrol, nel Dictionnaire d'arch. et de liturgie cit., III, i, 1913, col. 803 segg.
Sulle istituzioni dell'impero carolingio, oltre a Fustel de Coulanges, Histoire des institutions politiques de l'ancienne France: Les transformations de la royauté pendant l'époque carolingienne, Parigi 1892, v. il lavoro fondamentale, di H. Brunner, Deutsche Rechtsgeschichte, II, Lipsia 1892; e anche G. Waitz, Deutsche Verfassungsgeschichte, 2ª ed., Berlino 1880-86, III e IV. Per la vita economica, Inama-Sternegg, Deutsche Wirtschaftsgeschichte bis zum Schluss der Karolinger periode, 2ª ed., 1909; e specialmente A. Dopsch, Die Wirtschaftsentwicklung d. Karolingerzeit, voll. 2, 2ª ed., Vienna 1921-22; id., Wirtschaftliche u. Soziale Grundlagen d. europäischen Kultrentwicklung aus der Zeit von Caesar bis auf Karl den Grossen, 2ª ed., Vienna 1923-24 (parzialmente contro L. Halphen, Études critiques cit.). Per la storia religiosa, A. Hauck, Kirchengeschichte Deutschlands, II, 3ª ed., 1904, e H. v. Schubert, Geschichte d. christlichen Kirche im Frühmittelalter, Tubinga 1921.
La vita intellettuale alla corte di Carlomagno.
Si discute da gran tempo se il risorgimento letterario carolino, intimamente connesso all'opera intrapresa da C. per rafforzare col prestigio di una grande cultura il rinnovato impero cristiano e romano, tragga le sue origini dall'Italia, ovvero vada ricondotto alla cosiddetta prerinascenza anglosassone. Impostato in questo modo, entro termini, cioè, cosi rigidi, il problema sarà sempre insolubile, perché dai fautori dell'influsso della Gran Bretagna e dell'Irlanda si troveranno sempre, nella nuova civiltà carolina, caratteri che ci riporteranno alla cultura anglosassone (p. es. l'uso di servirsi fra i dotti di nomi accademici, come Davide per lo stesso imperatore, Orazio Flacco per Alcuino, Beseleel per Eginardo, Lucia per Gisela la sorella di C., ecc., e l'abitudine d'impartire l'insegnamento grammaticale e letterario per via di domande e risposte presentate quasi in forma di enigmi); mentre da altri studiosi potranno sempre essere invocati, in favore dell'Italia, parecchi argomenti, come la riforma liturgica o il tipo di scrittura detto carolina, o altro ancora. La verità è che il rinnovamento degli studî alla corte di C. non è più anglosassone che italiano, né viceversa, se lo consideriamo nel suo complesso. Elementi di derivazione settentrionale e meridionale si fusero e assunsero una nuova forma, la cui novità sta soprattutto in questo, che la cultura uscì dal clero per propagarsi fra i laici. Incominciata, sulla guida degli Anglosassoni, in favore delle scuole parrocchiali e abbaziali, la riforma non si limitò a combattere l'"ignoranza di coloro che dovevano insegnare e predicare la legge di Dio" (capitolare del 769), ma si estese a tutta la corte e fece sentire i suoi effetti molto al di là della Scuola palatina (diretta dal 782 al 796 da Alcuino e poi, sino alla morte dell'imperatore, da Amalario). Se Alcuino(v.) era inglese, Paolo Diacono e Pietro da Pisa erano venuti dall'Italia, Agobardo dalla Spagna, Leidrada dalla Baviera. Teodulfo era goto, nato in Italia. Borgognone era Ansegiso, austrasiano il celebre Eginardo. Inoltre, la riforma carolina non si presenta in una forma sistematica, cioè con lineamenti ben chiari e precisi. Gli atti di questa riforma furono spesso isolati (come osservò già il Goizot nella sua Histoire de la civilisation franåaise); tanto che si potrebbe dire che fossero via via provocati, con continuo fervore, da nuove necessità e da nuove esigenze, ma non preordinati, né preparati con spirito consequenziario. L'idea centrale e vitale della riforma risulta tuttavia limpidissima ed è che il significato della cristianità dell'impero (quale troviamo potentemente espresso nel libro preferito del circolo o "accademia" imperiale, la Città di Dio di S. Agostino) doveva farsi più pregnante e profondo - e qui risiede il carattere principale della cultura carolina, - con l'intensificarsi della conoscenza del mondo classico. La Bibbia e i classici: ecco i due sostegni della riforma di Carlomagno.
Alcuino (o, come egli usava chiamarsi, Albino) aveva seguito a Roma il suo maestro Aelberto e lo aveva coadiuvato nella ricerca "di qualcosa di nuovo in fatto di libri e di studî" (Si quid forte novi librorum seu studiorum - Quod secum ferret, reperiret in illis, in De sanctis Euboricae urbis, vv. 1457-8), anticipando di più secoli i viaggi degli umanisti. Accolto l'invito di C., egli presto divenne il consigliere più ascoltato e insieme il maestro del re e spiegò una portentosa attività sia per il rinnovamento degli studî, sia per gli orientamenti dell'imperatore contro l'eresia e in favore della Chiesa. In corte e fuori (p. es. a Tours, dove aprì nell'abbazia una scuola degna di ospitare i maggiori maestri dell'impero) egli fu sempre il ministro amȧto e fedele dell'imperatore, l'amico affettuoso della famiglia imperiale (si vedano i suoi versi indirizzati alla sorella dell'imperatore, la badessa Gisela e p. es.: Tu mihi dulcis amor, semper soror inclita, salve, o all'imperatore medesimo). A lui si dové probabilmente la divisione delle sette arti in Trivio e Quadrivio, e da lui si propagò per la Francia e fuori un nuovo fervore scolastico alimentato sia con il suo insegnamento diretto, sia con i suoi manuali. Diede opera a scrivere trattati di morale (De virtutibus et vitiis; De ratione animae) e compose, per difendere l'indirizzo speculativo dell'insegnamento impartito a C., uno dei suoi libri più fortunati, un vero, sebbene rudimentale, sistema di teologia dogmatica (De fide Trinitatis), che molto contribuì alla sua fama. Commentò la Bibbia, scrisse anche vite di santi, compose epigrammi, epitaffî, enigmi, ecc., e fu un consumato verseggiatore, esperto della metrica latina, eccellente conoscitore di Virgilio e Ovidio, nonché di altri poeti della latinità. Ad Alcuino è a buon diritto attribuito il più antico dei dibattiti derivati dall'egloga latina e coltivati con tanta fortuna durante il Medioevo: il Certamen veris et hiemis. Nel suo maggior poema (sopra la storia della sua città natale, York o Euborica), come in tutti gli altri suoi componimenti poetici, ricorrono numerose reminiscenze virgiliane e ovidiane. La poesia ricomincia con lui a trattare cose profane, assumendo argomenti antichi e nuovi. E tutto ciò con lindezza e con senso squisito della tecnica. Quale collaboratore, infine, egli sia stato di C., quanti consigli abbia dato su materia politica, religiosa, scientifica al suo allievo e sovrano, quale influsso abbia esercitato in corte e quale posto eminente gli spetti nello svolgimento della civiltà nell'alto Medioevo, sono cose che risultano in particolare dal suo epistolario, che è uno dei più ricchi e preziosi fra quelli lasciatici dall'età di mezzo. La sua inportanza nella storia della diffusione della cultura carolina appare in tutto il suo rilievo, se pensiamo agli sviluppi della sua attività fuori di Francia, per opera soprattutto di uno dei suoi maggiori allievi, Rabano Mauro, fondatore nel monastero di Fulda di una celebre scuola ispirata agl'insegnamenti del maestro della Scuola palatina.
Il circolo letterario di C., il cui corifeo fu dunque Alcuino, s'illustrò dei nomi di molti insigni maestri. Ricorderemo l'abate Fardulfo longobardo, che ci ha lasciato pochi e brevi componimenti poetici latini; Angilberto, fondatore di una biblioteca nell'abbazia di Saint-Riquier, autore di un poema in esametri, in cui è descritta la corte carolina; Nasone; Ibernico; Beonovino; Walafrido Strabone; Abalardo; Wala e Smaragdo, commentatore di Donato, per non ricordare di nuovo alcuni dotti (filosofi teologi e letterati) citati qui sopra. Degni, però, di essere idealmente collocati a fianco di Alcuino, sono Teodolfo e Paolo Diacono. Il primo di questi due fu il più abile verseggiatore di quell'età, riconosciuto dai poeti e grammatici del suo tempo come espertissimo, tanto da far testo nell'arte metrica. La sua poesia dipende, soprattutto, da quella di Venanzio Fortunato e non è scevra d'imitazioni da Virgilio, Ovidio e Prudenzio, ma è pittorica ed elegante.
Paolo Diacono fu un altro di coloro che portarono la letteratura nel mondo laico. In questa rivendicazione consiste, come sappiamo, uno dei caratteri più salienti della rinascenza carolina, della quale, anche per questa ragione, Paolo fu uno dei maggiori rappresentanti. Chiamato in corte nel 782, vi insegnò il greco ed erudì in questa lingua gli ecclesiastici che seguirono Rotrude, figlia di C., a Costantinopoli. Scrisse parecchi poemetti d'occasione, ispiratigli, per via diretta o indiretta, dall'imperatore. Si tratta di risposte a epistole poetiche indirizzategli, in nome di C., dal maestro Pietro di Pisa. La corrispondenza, insomma, si svolge in realtà fra Paolo e C., or seria e grave (come quando Paolo impetra la libertà per suo fratello imprigionato), ora ironica e faceta (come quando C. si diverte a coprire Paolo di lodi ed elogi esagerati, comparandolo a Omero, a Virgilio, a Orazio, a Tibullo). Corrispondenza assai significativa, perché vale a mostrarci un aspetto della vita di corte e ci prova come la poesia fosse considerata un ornamento e uno spasso, quasi fossimo nelle aule lussuose dei signori italiani del sec. XV.
Resta a parlare dello storico di C., cioè di Eginardo, autore di quella Vita Karoli, della quale è superfluo vantare l'importanza. Per questa sua Vita, Eginardo ha attinto alle raccolte ufficiali degli atti carolini ancora accessibili a noi e non ha fatto opera originale se non nelle parti che non concernono né la guerra né la diplomazia. Le sue affermazioni hanno bisogno, non di rado, di un rigoroso controllo, ma la sua biografia riveste sempre un grande valore, anche come testimonianza dei progressi compiuti in quell'età dalla prosa latina narrativa.
Ma di tutti questi personaggi più notevoli, si tratta a suo luogo (v. alcuino; eginardo; paolo diacono; teodolfo).
La riforma di C. si svolse sotto l'influśso della Chiesa; ma la sua efficacia andò al di là della classe dei letterati, degli ecclesiastici e degli alti feudatarî e raggiunse il popolo. Teodolfo, interprete fedele degli spiriti di quella riforma, ordinava ai preti di aprire scuole nei borghi e nelle campagne per istruirvi i fanciulli. "Coloro (diceva, ripetendo le parole di Daniele) che avranno educato molti nella giustizia, risplenderanno come stelle per tutta l'eternità".
Bibl.: B. Hauréau, Charlemagne et sa cour, Parigi 1868; J. B. Müllinger, The School of Charles the Great, Londra 1877; A. Ebert, Histoire de la littérature du moyen-âge en Occident, trad. dal tedesco, II, Parigi 1884, p. 17 segg.; M. Manitius, Gesch. d. lat. Lit. des Mittelalters, I, Berlino 1914; A. Boinet, La miniature carolingienne, Parigi 1913: E. Dümmler, Poetae latini aevi carolini, in Mon. Germ. Hist., Poet. latinorum medii aevi, I, 1881; II, 1894; C. Beck, Mittellateinische Dichtung, Berlino 1927 (raccolta di poesie dell'età carolina); C. Conderc, Les enluminures des manuscripts du moyen-âge de la Bibliothèque Nationale, Parigi 1927; n. s., I (1928); C. Halphen, Les Barbares des grandes invasions aux conquêtes turques du XI siècle, 2ª edizione, Parigi 1930. Di quest'opera si veda il capitolo III e la relativa bibliografia a pp. 256-58, 262.