Balbo, Cesare
Nacque da Prospero e da Enrichetta Taparelli d’Azeglio il 21 novembre 1789 in Torino, dove sarebbe morto il 3 giugno 1853. Fu storico, scrittore, studioso di politica e uomo politico: l’8 marzo 1848 ‒ su incarico del re Carlo Alberto ‒ formò il primo ministero costituzionale del Regno di Sardegna, che rimase in carica fino al successivo 26 luglio.
Nella sua vasta produzione storico-politica, come nei suoi carteggi, sono frequenti i riferimenti a M., modulati diversamente a seconda dei tempi e del contesto. Il suo giudizio più articolato è compreso nella settima delle Lettere politiche al Signor D*** (Luigi Carlo Farini), datata 6 febbraio 1847, che sarebbe stata pubblicata (non finita) solo nel 1855. In questa lettera, intitolata Dell’educazione politica che i governati possono darsi, B. si interrogava sul contributo che i classici del pensiero politico italiano potevano fornire all’educazione politica dei suoi connazionali.
Il bilancio risultava pessimista, anche limitandosi ai maggiori: nella letteratura politica «noi siamo proprio un nulla, siamo un vano eco che ripete le voci della politica viva, poniamo in scritto ciò che è già un fatto». Come spesso gli capitava, B. avanzava una critica sottilmente dissacratoria delle ‘glorie patrie’ verso cui l’opinione pubblica italiana serbava invece un rispetto reverenziale: in questo caso Dante e Machiavelli.
Il criterio di un tal giudizio era quello che lo aveva guidato anche nelle opere maggiori: il porro unum dell’indipendenza nazionale, da conseguire possibilmente con la cooperazione dei principi dei vari Stati italiani. Definiva «guelfi» gli scrittori che lo avevano avvertito come prioritario, «ghibellini» quelli che avevano continuato a considerare l’Italia come una componente dell’impero e quindi ritenuto auspicabile un intervento diretto dell’imperatore (o, più in generale, di una potenza straniera) nei suoi equilibri. Questo criterio evidentemente condannava l’Alighieri: l’educazione politica dell’Italia «non si rifarà mai, finché non sarà Dante sbalzato dall’altare dove è idolatrato con incredibile stoltezza».
Due secoli dopo, il suo «manifesto ghibellino» aveva trovato una replica nel «contromanifesto, che si potrebbe dir guelfo, di Machiavello». Ma questo non bastava a salvarlo dalla condanna, anzi la rendeva ancora più radicale, in quanto la buona causa dell’indipendenza nazionale era stata inficiata dai suoi limiti di pensiero e dalla sua condotta di vita:
fin d’allora gli scelleratissimi mezzi proposti [...] guastarono la santità dello scopo; fin d’allora un libro [il Principe] tutto tirannia ne’ 15 sedicesimi suoi, non poteva giovare allo scopo di libertà nazionale o indipendenza proposto nell’ultimo sedicesimo; la libertà, l’indipendenza, non si giovano, non s’accomodano di tali mezzi.
Tanto più che M. introduceva un elemento di diffidenza e discordia fra i vari Stati italiani, in quanto privilegiava «le ambizioni particolari di un principe».
Una politica che tenda all’indipendenza deve essere invece «grave, soda, seria, anzi austera, anzi tutta sagrifici ed abnegazione». Si deve basare sull’educazione di un’opinione pubblica aperta ai valori della nuova civiltà liberale, e di sicuro «nulla è opposto a questa nostra civiltà, a questi progressi di pubblicità e di moralità in che viviamo, quanto tutto quel sistema di segretumi, d’invidie, di tradimenti, di violenze e di tirannie». A questa educazione, l’opera di M. non può dare quindi alcun contributo positivo: il giovane italiano, quanto più è «serio, pensatore, preoccupato de’ pensieri di patria, di politica, d’indipendenza», tanto più può ricavarne l’impressione che la politica sia solo quella che trova nelle sue pagine. Ne discendono due possibili atteggiamenti, entrambi funesti: o risolve di «non pensare a politica, a patria, a libertà od indipendenza», insomma di chiudersi nel privato, oppure di «farsi esso pure un Machiavello contro a’ Machiavelli che lo circondano».
Se seguirà il secondo, diverrà presto un settario e un rivoluzionario, perché, nell’incipiente civiltà liberale, il machiavellismo è ormai appannaggio di quella parte. Ma, «alla metà del secolo XIX, troppo morale, troppo civile per ciò», si tratterebbe di una via antiquata. M. insegna «una politica non del secolo XIX ma del XVI», e renderebbe i suoi lettori «cinquecentisti, invece di ottocentisti; non uomini politici del tempo [loro] e progressivi, ma d’un tempo lontano e retrogradi. Non valeva la pena di voler essere, di professar[si] liberali».
Bibliografia: La Lettera settima. Dell’educazione politica che i governati possono darsi (6 feb. 1847) è pubblicata in C. Balbo, Lettere di politica e letteratura edite e inedite, Firenze 1855, pp. 401-15. Per gli studi critici su B. e M. si veda A. Clerici, La storia e la morale. Machiavelli nel giudizio di Cesare Balbo, «Storia e politica», 2011, 3, 1, pp. 64-83, con ampia bibliografia.