Vedi Cina dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Repubblica Popolare Cinese (Rpc), organizzazione statale che ha raccolto l’eredità della Cina imperiale, è fra le maggiori potenze a livello internazionale. L’ideologia del partito che la governa, il Partito comunista cinese (Pcc), è definita un ‘socialismo dalle caratteristiche cinesi’. Tra le linee guida appaiono il marxismo-leninismo, il pensiero di Mao Zedong, le ‘Quattro modernizzazioni’ di Deng Xiaoping e le ‘Tre rappresentanze’ di Jiang Zemin, ossia i principi dei suoi maggiori leader. Dal periodo delle concessioni straniere e dell’isolamento successivo alla Guerra di Corea degli anni Cinquanta, la Rpc è riuscita a ricostruire una rete di collegamenti internazionali, fino a essere ammessa alle Nazioni Unite (Un) nel 1971 e ottenere il seggio nel Consiglio di sicurezza prima occupato da Taiwan.
L’opposizione al riconoscimento internazionale di quest’ultima è stata una delle caratteristiche della politica estera cinese fin dagli anni Cinquanta. Un’altra linea fondamentale per Pechino è stata la non interferenza. Formulato durante il periodo del bipolarismo Usa-Urss e sviluppato attraverso la partecipazione a eventi come la conferenza di Bandung dei paesi non allineati, questo principio viene oggi declinato contro l’intervento della comunità internazionale nelle questioni interne delle singole nazioni.
La prassi con cui Pechino sta tentando di inserirsi nelle questioni internazionali, come in Siria e Libia, è costruita sulla falsariga dell’antimperialismo di epoca maoista e mette in luce i due volti con cui si manifesta la Cina odierna: quello conservatore e quello innovatore.
L’idea di ‘coesistenza pacifica’, un altro tema cardine, è stata utilizzata agli albori della Repubblica, ma non sembra costituire oggi la chiave della politica estera. Area di intervento privilegiato per la Cina è il Sud-Est asiatico. La partecipazione all’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) e l’adesione alla Cooperazione economica asiatico-pacifica (Apec) rivelano la volontà cinese di porsi come potenza sul piano regionale e avviare collaborazioni economiche di lungo periodo nei paesi in via di sviluppo.
Il Mar Cinese Meridionale, però, è teatro di conflitti territoriali per il controllo di aree potenzialmente ricche di fonti energetiche, come le Isole Diaoyu (o Senkaku, de facto controllate dal Giappone sin dal 1895) e le Spratly. Il governo comunista di Pechino rivendica queste zone come ‘storicamente’ cinesi e questo crea tensioni con più di una nazione limitrofa. L’influenza di Pechino trova poi un limite nei legami economici che gli Usa intrattengono con le più promettenti economie del continente. Per affrontare una sfida del genere la dirigenza comunista dovrà senz’altro approntare una strategia. Dunque i rapporti diplomatici fra Cina e Stati Uniti costituiscono uno dei punti centrali perché la Repubblica Popolare possa presentarsi come soft power e ottenere il consenso della comunità internazionale. La seconda direttrice dell’azione diplomatica cinese punta sull’Asia centrale. Nel 2013, la Rpc ha assunto la presidenza di turno della Struttura regionale antiterrorismo (Rats) nell’ambito dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco), che riunisce Cina, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan e Russia. Il summit di Pechino del 2012 ha visto il governo svolgere un ruolo di primo piano nella Sco, non senza frizioni con Mosca. L’obiettivo era ampliare la cooperazione economica con queste aree, decisive per le materie prime. La Rats si occupa invece dei problemi legati all’integralismo islamico, altro tema caldo per la Cina, soprattutto nella regione dello Xinjiang Uygur.
L’impegno cinese in Africa può invece essere considerato tradizionale: la Cina lo ha assunto fin dagli anni Sessanta. Dalla concorrenza con l’Unione Sovietica e dalla proposizione di un ideale comune costituito dal terzomondismo, si è passati a una politica di relazioni commerciali scevra da venature politiche. Dai paesi africani provengono principalmente materie prime: la Cina vi esporta invece i suoi prodotti a basso costo, costruisce infrastrutture e investe nei servizi. I principali paesi interessati sono Angola, Ghana, Sudan e Zimbabwe.
La classe politica di governo della Repubblica Popolare Cinese proviene dal Pcc che, attraverso un congresso nazionale, elegge ogni cinque anni un comitato centrale, nel quale siedono le personalità più influenti del paese. In questo ambito, oltre ai principali uffici del partito, vengono designate due commissioni, il Politburo (composto da 24 membri) e il Comitato permanente del Politburo (composto invece da sette membri). Il primo riunisce coloro che ricoprono le maggiori cariche nello stato mentre il secondo costituisce il vero e proprio centro decisionale per le questioni di attualità. Il segretario generale del Pcc è a capo del Comitato centrale, del Politburo e del Comitato permanente (Politburo Standing Committee, Psc).
Quanto alla struttura dello stato, le quattro costituzioni della Cina (1954, 1975, 1978, 1982) hanno posto al centro l’Assemblea nazionale del popolo, il supremo organo legislativo, composto da una sola camera, i cui rappresentanti vengono eletti in più turni e provengono dalle province, dalle regioni autonome, dalle municipalità autonome, dalle regioni amministrative speciali (Sar), dall’esercito e dalle minoranze nazionali. Eletta per un mandato di cinque anni, l’Assemblea si riunisce una volta all’anno, ma elegge un comitato permanente presieduto dal segretario generale del Pcc. L’Assemblea ratifica sia la carica di primo ministro del consiglio di stato, nominato dal presidente della repubblica, sia i componenti del comitato permanente dell’Assemblea, nominati dal premier e investiti dal presidente. Il consiglio di stato costituisce il potere esecutivo ed è composto da premier, vicepremier, consiglieri di stato e ministri.
Con il 18° Congresso nazionale del PCC, tenutosi nel novembre 2012, sono stati nominati Xi Jinping alla guida del partito e Li Keqiang alla premiership di governo. Si tratta della quinta generazione di politici cinesi comunisti. Dopo la prima generazione di Mao Zedong e Zhou Enlai, Deng Xiaoping promosse sia l’apertura controllata al mercato sia una nuova classe politica, rappresentata da Hu Yaobang e Zhao Ziyang. Deng non assunse mai la guida del partito. Il fallimento del programma di riforme e le proteste di piazza Tian’anmen nel 1989 preannunciarono il passaggio alla terza generazione, quella di Jiang Zemin e Li Peng, che promosse lo sviluppo della produzione economica, la ricerca di un maggiore consenso politico e una crescita culturale ed educativa (le ‘Tre rappresentanze’ che il partito doveva impersonare). Le riforme furono estese nel nuovo millennio da Hu Jintao e Wen Jiabao, la cui formazione ingegneristica ha dato un’impronta più tecnica all’amministrazione dello stato ed è stata premiata dal boom economico.
Altri importanti uffici per quanto riguarda il governo del paese sono la commissione militare centrale, in genere presieduta dal segretario generale, e il sistema giudiziario, al cui vertice si trova una corte suprema e che, secondo la Costituzione, dovrebbe essere del tutto indipendente. A livello amministrativo, la Cina è divisa in 22 province, cinque regioni autonome, quattro municipalità e due Sar (Hong Kong e Macao).
Con circa 1,3 miliardi di persone, quasi un quinto della popolazione mondiale, la Cina è lo stato più popoloso del pianeta. Per controllare il fenomeno, il Partito comunista ha avviato una politica di pianificazione delle nascite, secondo la quale ogni coppia può avere un solo figlio, fatta eccezione per quanto riguarda parti gemellari, minoranze etniche, famiglie rurali e genitori che, a loro volta, erano entrambi figli unici. Il modello fu introdotto nel 1978, in accordo alle teorie demografiche allora ritenute valide, ma gli squilibri generati hanno messo in discussione il modello. Il rapporto tra lavoratori e pensionati mostra un trend negativo: dall’attuale ‘cinque a uno’ a ‘due a uno’ nel 2030, per un tasso di fecondità (1,58 nel 2011) e un tasso demografico (0,49% nel 2012) fra i più bassi del mondo. Il Pcc sembra in fase di riflessione sui dati e le critiche al modello, e si parla sempre più frequentemente di una riforma della legge del figlio unico.
La Cina è divisa fra popolazione rurale (48,2% nel 2012) e popolazione urbana (51,8%), una proporzione che è regolata da un sistema di registrazione abitativa e dalle complesse procedure per vendere le terre coltivabili. La rigidità delle norme ha prodotto un vistoso fenomeno di clandestinità interna. La conseguente limitata mobilità della popolazione è controbilanciata da un’estesa alfabetizzazione, ma nel 2010 soltanto il 12% della popolazione aveva conseguito una laurea, per la serrata selezione imposta per accedere all’università. Negli ultimi anni, il governo ha investito sul sistema accademico: primo passo, nel 1995, il ‘Progetto 211’ per aumentare gli istituti scientifici del paese.
Le divisioni interne alla Cina riguardano il problema storico delle minoranze. Oltre all’etnia degli Han (il 92% della popolazione nel 2010), esistono 55 minoranze ufficialmente riconosciute dal governo, che corrispondono a circa 105 milioni di persone. Alcune minoranze risiedono in zone autonome, che dovrebbero corrispondere anche ad amministrazioni indipendenti. Il rapporto fra gli Han e le altre etnie non è però sempre pacifico e ha dato origine a diversi conflitti, come quelli in Xinjiang Uygur e Tibet.
Le religioni autorizzate in Cina sono buddismo, cattolicesimo, islam, protestantesimo e taoismo. Nel corso degli anni Cinquanta le comunità religiose sono state spinte a formare associazioni che, da un lato, facilitano il controllo governativo e, dall’altro, tendono all’autocefala. Secondo molte ricerche, la maggior parte della popolazione cinese è atea o non aderisce a un credo. In realtà i dati non sono di così facile lettura perché le caratteristiche culturali dei popoli dell’Estremo Oriente implicano un rapporto con la spiritualità meno intenso ed esclusivo di quello europeo. Un cattolico cinese potrebbe, per esempio, ispirarsi anche ai precetti taoisti. La più diffusa ‘filosofia di vita’ rimane il confucianesimo, che però non è assimilabile a una religione.
La libertà di espressione in Cina trova oggi un campo critico di applicazione in Internet: i suoi 591 milioni di utenti (luglio 2013) costituiscono il più grande bacino nel web al mondo. L’accesso a siti sensibili o potenzialmente sensibili è però limitato dal cosiddetto ‘Great firewall’ del governo. L’utilizzo di network privati e il fenomeno dei microblog, per superare le restrizioni, hanno comunque permesso di esprimere critiche al partito e avere un ampio seguito. Nel corso del 2013, il governo di Xi Jinping ha inasprito le misure contro le personalità più in vista della rete e le ha giustificate come prassi di cybersecurity. La necessità di interazione delle imprese con il mondo esterno è limitata da questo controllo stringente ed è probabile che il problema dovrà essere affrontato.
In un’ottica più generale, i margini concessi al dissenso appaiono ormai troppo stretti per gestire le crescenti proteste, soprattutto contro una corruzione sempre più diffusa. Il tema ha forti ripercussioni sul consenso nazionale dato che, secondo un sondaggio effettuato nel 2010 dal Quotidiano del Popolo, il 91% degli intervistati crede che le famiglie più ricche del paese facciano parte o abbiano legami con la classe politica. Del resto, in Cina è ancora forte la struttura dei rapporti personali (‘guanxi’), che svolge un ruolo cardine nell’economia e nella società, per esempio per garantire i contratti. Xi Jinping ha avviato nel 2013 una campagna anticorruzione, che assomiglia molto a un’edizione aggiornata e corretta delle sedute di autocritica, tipiche della Rivoluzione culturale. In più, ha imposto una moratoria sulla costruzione di edifici governativi.
Per quanto riguarda la condizione femminile, sembra lentamente cambiare: sei cinesi sono nella classifica delle donne più ricche del mondo. Resta grave e diffuso, però, lo sfruttamento della prostituzione, soprattutto nei contesti di recente urbanizzazione.
Il Terzo plenum del Pcc, tenutosi nel novembre 2013, ha fissato le linee generali della politica economica sotto l’amministrazione Xi-Li. I problemi affrontati sono in larga parte relativi alla necessità di affidare al mercato un ruolo decisivo nell’allocazione delle risorse. Se alle aziende di stato (Soe) viene garantita, nel comunicato finale, una posizione ‘dominante’ nell’economia socialista di mercato, sono state altresì annunciate nuove norme per favorire una competizione meno vincolata dagli aiuti centrali. In effetti, soltanto il 3-5% dei capitali investiti tra il 2006 e il 2008 (circa 650 milioni di dollari) ha dato avvio a nuovi settori stabilmente produttivi.
Il calo della crescita del pil nel 2012 (+12,4% sul 2011) rispetto all’annata precedente (+23,4%) indica che la ripresa successiva alla crisi mondiale, avvertita in Cina nel 2009 (+9,6%), segna un processo di allontanamento rispetto ai trend precedenti: attorno al +29% nel 2007 e nel 2008. L’incremento degli stipendi, uno dei fattori dominanti nel 2011, è stato bilanciato dall’aumento dei prezzi del mercato immobiliare. Nel 2013, benché nel periodo antecedente il Terzo plenum si sia verificata una ripresa finanziaria, la Banca mondiale ha continuato a ridimensionare le previsioni di crescita cinese.
Il proposito di creare un mercato fondiario libero, che rivoluzionerebbe la struttura attuale di registrazione delle famiglie richiesta dallo stato, non soltanto favorirebbe l’urbanizzazione, ma cambierebbe il volume delle entrate delle amministrazioni locali, che attualmente gestiscono la compravendita dei terreni agricoli. I funzionari locali sono stati aspramente criticati in Cina per come hanno speso i soldi arrivati con il boom economico. L’analisi del rapporto fra debito e ricavi rivela che il più alto indebitamento è delle società a conduzione statale e di quelle non quotate. Il rapporto finale del plenum indica la leva finanziaria, la lotta alla corruzione e il miglioramento degli organismi di controllo fra gli obiettivi più urgenti.
Le riforme annunciate non sembrano però riguardare il nucleo del modello di sviluppo economico. Lo rivela anche la recente condanna all’ergastolo per corruzione dell’ex membro del Politburo Bo Xilai, che aveva indirizzato la municipalità autonoma di Chongqing verso lo sviluppo dei consumi interni. Le esportazioni, punto nevralgico dell’economia cinese, in calo per la crisi internazionale, hanno ricominciato a crescere nel 2012 (+34,6%). Si prevede che continueranno a farlo nei prossimi anni, ma l’industria e il settore dei servizi non sembrano averne beneficiato. La produzione industriale è stata nel 2013 (7,9%) meno importante rispetto al 2012 (10,3%) per quanto riguarda la produzione del pil. La politica finanziaria cinese ha caratteristiche specifiche dato che la maggior parte delle riserve estere (45%, secondo le stime) sono state investite nel debito statunitense (1,6 migliaia di miliardi). È il risultato di una politica di svalutazione del renminbi sul mercato dei cambi attraverso l’acquisto di dollari, poi riconvertiti in titoli di stato degli Usa, il principale paese di destinazione delle merci cinesi nel 2012.
Fino al 2012 era l’Unione Europea a rappresentare il riferimento più importante per le esportazioni: il legame era cresciuto parallelamente all’exploit dell’economia asiatica. Si tratta in realtà di un fenomeno limitato: soltanto il 2,2% degli ide (investimenti diretti all’estero) in Europa provengono dalla Rpc. Un elemento sensibile riguarda gli investimenti esteri della Cina nel Sud-Est asiatico. In particolare, tali investimenti si rivelano una forma di competizione con le direttive della Regional Comprehensive Economic Partnership e della Trans-Pacific Partnership. Non vengono però sottovalutate scommesse più ampie, sebbene in contesti definiti: è il caso del ruolo cinese nei BRIC.
Con la crescita economica si è avuto un parallelo aumento della domanda di energia che, secondo dati del 2011, viene fornita per il 68% dal carbone e per il 16% dal petrolio. La Cina è il principale produttore di carbone al mondo (49,5% del totale nel 2011) ed è anche il primo paese per emissioni di anidride carbonica. Nonostante l’alto livello di inquinamento, la maggior parte delle politiche ambientaliste vengono ancora implementate a livello locale. Il governo, attraverso il 12° Piano quinquennale (2011-15), ha destinato circa 330 miliardi di dollari in investimenti finalizzati all’ottimizzazione energetica e ha fissato l’obiettivo generale di produrre il 30% dell’elettricità con fonti non fossili e ridurre, per unità di pil, il consumo energetico del 16% e le emissioni di anidride carbonica del 17%. Questa politica è inoltre destinata a protrarsi nel medio e lungo periodo. L’International Energy Agency (Iea) stima che nel 2035 la domanda di energia della Rpc sarà più alta di quella statunitense del 70% circa.
Nel complesso, il paese produce meno energia di quanta ne consumi. Le modalità di produzione non sembrano destinate a mutare nel breve periodo: l’Economist Intelligence Unit prevede un aumento del consumo di carbone del 35% per il 2020. La produzione petrolifera, pur essendo in stabile crescita fin dagli anni Ottanta, non è in grado di soddisfare il consumo interno che, a partire dal 2008, ha registrato i più alti tassi di crescita degli ultimi decenni. Secondo le previsioni dell’eia, la Repubblica Popolare è destinata a diventare il più grande importatore mondiale al netto dell’estrazione locale.
Benché la rilevanza del gas sia ancora limitata, il rapporto fra domanda e produzione è cambiato fra il 2006 e il 2007 in favore della prima. Ciò ha costretto Pechino ad aumentare la capacità dei rigassificatori e a importare gas, principalmente da Kazakistan e Turkmenistan attraverso la Central Asia-China Gas Pipeline, completata nel 2009, che passa attraverso la regione dello Xinjiang Uygur.
L’Esercito popolare di liberazione è l’ala militare del Pcc ed è sottoposto al controllo della commissione militare centrale. Si ramifica in quartier generali, comandi regionali, guarnigioni speciali per le Sar e accademie per gli studi strategici e la formazione del genio. Secondo Transparency International, la Cina è uno dei paesi meno trasparenti in questo ambito.
Ebsco stima che il budget per la difesa sia stato aumentato quasi sette volte dal 2001 al 2013. Sin dalle origini, per la gestione dell’esercito si sono fronteggiare due visioni: una linea favorevole alla formazione politica, cioè quella maoista e predominante, e un’altra improntata alla professionalizzazione delle truppe. Nel 2013 è stato pubblicato un Libro bianco sull’impiego diversificato delle forze armate della Cina. Formalmente, i principi cardine della difesa cinese sono rimasti uguali fin dagli anni Cinquanta: la salvaguardia dell’integrità territoriale del paese, in ossequio al diritto di ciascun popolo di autodeterminarsi liberamente, e l’assicurazione di un contesto pacifico per lo sviluppo socio-economico. Il documento cita anche i pericoli esistenti per la Cina e parte dall’area pacifico-asiatica, nella quale Pechino ha la maggior parte dei suoi contenziosi aperti. Del resto, gli annunci di continui potenziamenti dell’esercito, avvenuti soprattutto durante il 2013, sono stati accolti con preoccupazione dalle altre potenze dell’area.
Le lacune da colmare, tuttavia, non sono poche: la necessità di modernizzare apparecchiature e strutture; le difficoltà nella gestione delle aziende responsabili dello sviluppo della sicurezza; la poca incisività del soft power cinese nel Sud-Est asiatico. L’ambito delle minacce avvertite dai cinesi riguarda principalmente l’accesso alle risorse. La Cina è molto attiva nel cosiddetto land grabbing: nel 2013 ha stretto con l’Ucraina un contratto cinquantennale per lo sfruttamento di terre agricole di alta qualità. L’isolamento diplomatico, un altro problema ricorrente nella storia della Rpc, si scontra ancora con la volontà di guadagnare prestigio al paese, un obiettivo di lungo periodo che ha spinto i cinesi a contribuire in senso ‘antimperialista’ alle decisioni internazionali riguardanti Libia, Siria e Iran. Il concetto di non interferenza è stato portato agli estremi anche per le dispute nel Mar Cinese Meridionale con Brunei, Corea del Sud, Filippine, Giappone, Malaysia, Taiwan e Vietnam. I contrasti con il Giappone per il possesso delle Isole Diaoyu (Senkaku) ha mantenuto alta la tensione nell’area: nel novembre 2013, la Cina ha stabilito una zona di identificazione aerea sovrastante l’area contesa che si intreccia alla corrispettiva area giapponese stabilita nel 1965. Per questo, negli ultimi anni, la flotta è stata oggetto di particolari investimenti e l’inaugurazione della portaerei Liaoning, la prima della Cina, è stata salutata con entusiasmo. La crescita militare cinese, pur nelle difficoltà di gestione economica, ha incrementato il mercato delle armi.
Oggi la Cina è il terzo esportatore mondiale di armi con un giro di affari di 1783 milioni di dollari. Nel settembre 2013, la Cina ha vinto la gara per realizzare lo scudo missilistico della Turchia, un affare da 4 miliardi di dollari, e ha annunciato future proposte commerciali nel campo aeronautico. L’opposizione a qualsiasi forma di interventismo chiarisce l’idea di Pechino sulle aree interne popolate da etnie diverse. Il Tibet, indipendente dal 1912 al 1950 grazie alla mediazione del Regno Unito, è una regione autonoma. I tibetani, però, rivendicano la piena indipendenza da Pechino. Dalle Olimpiadi del 2008 si moltiplicano i casi di auto-immolazione dei dissidenti, che in genere si danno fuoco. Il Pcc ha reagito restringendo le possibilità di accesso alla regione e aumentando il controllo sulla regione. Lo Xinjiang Uygur, anch’esso regione autonoma, è abitato dalla popolazione di origine turca degli Uiguri ed è stato teatro di rivendicazioni indipendentiste, anche violente, dal 2009, attribuite al Movimento islamico per il Turkestan Orientale. Dopo l’estate del 2013, caratterizzata da un gran numero di arresti, un’auto è esplosa in piazza Tian’anmen. Si è trattato di un attentato ‘terroristico’, secondo le autorità cinesi, legato ai gruppi indipendentisti uiguri. A loro sono stati attribuiti l’attentato di piazza Tiananmen, poco prima del terzo Plenum (novembre 2013), e i 30 morti e 143 feriti della stazione ferroviaria di Kunming (marzo 2014). Xi Jinping ha annunciato in risposta la linea dura dello Stato.
di Guido Santevecchi
Un partito-stato con 80 milioni di iscritti, un esercito di 2,3 milioni di soldati, una nazione di oltre 1,3 miliardi di cittadini sono guidati da un uomo nato nel 1953 che rappresenta la ‘quinta generazione’ di leader della Repubblica Popolare Cinese. Quest’uomo, Xi Jinping, è stato eletto segretario generale del partito comunista nel Congresso del 15 novembre 2012 e poi capo dello stato e presidente della commissione militare che controlla le forze armate durante l’Assemblea nazionale del popolo del 14 marzo 2013. Dopo la morte di Mao Zedong nel 1976 e la fine della Rivoluzione culturale, i dirigenti comunisti ribadirono che il potere doveva essere gestito per consenso. E in regole non scritte stabilirono che il ricambio al vertice sarebbe avvenuto ogni dieci anni. Vale a dire ogni due congressi del partito comunista, che normalmente viene convocato ogni cinque anni. La Cina ama ancora i piani quinquennali: Xi Jinping era stato indicato come futuro numero uno nel 2008: ha dovuto aspettare cinque anni nel ruolo di vicepresidente prima di salire l’ultimo gradino della piramide. Dall’Assemblea nazionale del popolo, il 14 marzo 2013, ha ricevuto 2952 voti a favore, con tre astenuti e un solo contrario. Qualcuno dice che il franco tiratore sia stato lo stesso Xi, per segnalare modestia ai compagni e non raggiungere un imbarazzante 100% dei consensi in uno scrutinio a comando: si è fermato al 99,86%. C’è un modo illuminante per descrivere i rapporti di forza all’interno del ristretto gruppo che governa la Cina, il Comitato permanente del Politburo oggi formato da sette membri: ‘A Pechino il presidente prima viene eletto, poi deve candidarsi per il potere’. In Cina è vietato agli iscritti al partito discutere con gli stranieri questioni di politica interna, ma nell’era dell’apertura all’economia di mercato è impossibile anche per un sistema chiuso come quello cinese evitare indiscrezioni e fughe di notizie. E secondo queste voci Xi Jinping è arrivato in cima alla struttura di potere collegiale della Cina tenendo sempre nascoste le sue carte, non svelando mai fino in fondo il proprio pensiero. Un episodio del settembre 2012 fa capire quanto il governo cinese sia geloso dei suoi segreti: a pochi giorni dall’inizio del 18° Congresso del partito che doveva segnare l’inizio della transizione decennale dei poteri, Xi Jinping scomparve. Non partecipò a un colloquio con l’allora segretaria di stato USA Hillary Clinton. Dal 1° settembre e per due settimane non fu citato in alcuna notizia della stampa cinese. Poi, improvvisamente come si era eclissato, ricomparve in una foto distribuita dall’agenzia ufficiale Xinhua il 15 settembre, mentre visitava l’Università di agraria a Pechino. Non è mai stato chiarito che cosa sia successo in quei quindici giorni. Solo voci: una malattia e un intervento chirurgico; addirittura una rissa durante una discussione politica; la versione più accreditata è che, semplicemente, il futuro segretario generale e presidente della Repubblica Popolare Cinese si fosse stirato i muscoli della schiena mentre nuotava o forse giocava a pallone. Subito dopo la nomina, il presidente ha cominciato a parlare molto in pubblico, a farsi vedere dalla gente. Ha lanciato una campagna contro la corruzione promettendo di «schiacciare le mosche e combattere le tigri», riferendosi ai piccoli burocrati e agli alti burocrati. Ha richiamato i valori del maoismo, ordinando ai dirigenti del partito di seguire la «linea di massa». In un vertice tenuto con il presidente americano Barack Obama in California nel giugno del 2013, il leader cinese ha detto che «insieme Stati Uniti e Cina possono costruire un nuovo modello di relazioni tra due grandi paesi». In effetti Pechino ha segnalato di voler assumere un ruolo più incisivo in campo internazionale. Ma la nuova dirigenza ha segnalato soprattutto determinazione nel proseguire sulla strada della crescita economica, passando dalla fase della grande industrializzazione a quella di una distribuzione del reddito più equilibrata. La transizione decennale del potere si è forse conclusa tra il 9 e il 12 novembre del 2013, nel corso del plenum del comitato centrale del partito, tenutosi in gran segreto in un albergo di Pechino gestito dall’esercito: lo stesso nel quale nel 1978 Deng Xiaoping aveva lanciato la prima apertura all’economia di mercato. Oltre a promettere una nuova fase di riforme economiche e sociali, come l’allentamento della legge che per 33 anni ha imposto alle famiglie cinesi di avere un figlio solo (salvo poche eccezioni per le minoranze etniche e la popolazione rurale), il plenum ha annunciato la costituzione di un Consiglio per la sicurezza nazionale. Una struttura che dovrebbe riunire sotto la guida del presidente Xi Jinping i vertici della difesa, degli esteri e delle finanze della Repubblica Popolare. Il nuovo Consiglio di sicurezza nazionale cinese sembra ispirato al National Security Council che serve i presidenti degli Stati Uniti. Uno sviluppo che secondo le prime analisi eleverebbe definitivamente Xi Jinping al di sopra dei compagni del Comitato permanente del Politburo del partito comunista.
L’Isola di Taiwan, chiamata anche Formosa, ha offerto rifugio al governo nazionalista del Guomindang, guidato da Chiang Kai-shek, che fu sconfitto nel 1949 durante la guerra civile cinese. L’isola ha quindi preso il nome di Repubblica di Cina (ROC). All’epoca, il governo comunista si astenne dal conquistare l’isola con la forza per la presenza della VII flotta statunitense. La rivendicazione delle ‘legittime pretese’ della Cina continentale ha poi costituito uno dei temi più duraturi della propaganda comunista: durante la Guerra fredda, i paesi aderenti al blocco occidentali riconoscevano il governo di Taipei, seguendo l’esempio statunitense, mentre quelli legati all’URSS sostenevano Pechino. Per questo, nelle trattative di normalizzazione dei rapporti, la gerenza del PCC ha posto sin dagli anni Cinquanta come precondizione l’interruzione dei rapporti con Taiwan. Dai contrasti di quel periodo si è passati a rapporti molto più distesi con Pechino. Il presidente Ma Ying-jeou, esponente del Guomindang eletto nel 2008 e rieletto nel 2012, è un fautore del riavvicinamento. Una tappa importante di questo percorso è stata il ‘1992 Consensus’, un incontro informale fra rappresentanti di entrambi i paesi che hanno convenuto sull’esistenza di una sola Cina in termini culturali, al di là delle differenze politiche. L’evento si inseriva in una serie di tentativi di ridurre la tensione esistente nello Stretto di Taiwan, specialmente in relazione alle ripercussioni internazionali delle repressioni di Piazza Tian’anmen e alla contemporanea necessità cinese di aprirsi al mondo negli anni Novanta. Una seconda tappa è costituita dallo storico accordo per un framework di cooperazione economica, fortemente voluto nel 2010 dal presidente Hu Jintao. Nonostante la conciliante volontà politica e a dispetto della crescita economica di cui anche la ROC ha potuto beneficiare, l’evento è stato accompagnato dalle proteste della popolazione taiwanese, che rivendica una propria identità politica e culturale. La situazione internazionale di Taiwan è per certi versi delicata. Attualmente, Taiwan è riconosciuta da Belize, Burkina Faso, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Kiribati, Isole Marshall, Nauru, Nicaragua, Palau, Panamá, Paraguay, Repubblica Dominicana, Saint Kitts e Nevis, São Tomé e Príncipe, Isole Salomone, Swaziland, Tuvalu e dal Vaticano.
La Cina è sempre stata un snodo fondamentale della politica estera degli USA fin dal periodo del conflitto coreano (1950-53). La normalizzazione diplomatica (1972) e l’apertura al mercato (1979) non sono bastate a controbilanciare lo shock delle repressioni di piazza Tian’anmen (1989), che hanno spinto il presidente George H. W. Bush a sospendere gli scambi diplomatici di alto livello. L’utilizzo di portavoce segreti ha comunque preservato la via della conciliazione con l’adesione all’APEC nel 1991 e al Trattato di non proliferazione nel 1992. L’atteggiamento critico degli Stati Uniti si è mantenuto sotto l’amministrazione di Bill Clinton che, però, mentre rendeva pubbliche dichiarazioni sulla brutalità del regime cinese, è arrivata a istituire una linea diretta Washington-Pechino nel 1998. Con George W. Bush si è giunti a una integrazione non soltanto strategica, relativa a temi come i programmi nucleari di Iran e Nord Corea, ma anche economica: il Senior Dialogue (2005) e lo Strategic Economic Dialogue (2006-08), confluiti nello Strategic and Economic Dialogue (2009) con l’elezione di Barack Obama. In questo lento processo di avvicinamento, gli obiettivi generali per la RPC sono stati la costruzione di un buon rapporto con la più influente potenza mondiale e l’ottenimento di un consenso utile al progresso economico attraverso vari accordi di scambio e, soprattutto, con il simbolico ingresso nel WTO (2001). Gli Stati Uniti hanno cercato di equilibrare in proprio favore la situazione asiatica e, in particolare, di ricondurre alle norme internazionali un attore come la Cina, che ancora propugnava il criterio multipolare della ‘terza via’. Durante il summit del gennaio 2011 sui problemi che hanno seguito il referendum per l’indipendenza del Sud Sudan che coinvolgeva Cina e USA, si è avuta evidenza della complementarietà fra le agenzie dei rispettivi paesi incaricate dell’analisi e dell’implementazione delle decisioni politiche. Entrambe le burocrazie hanno quindi accettato di organizzarsi secondo un meccanismo articolato che ha consentito la mutua comprensione e una risoluzione morbida degli iniziali contrasti diplomatici. Durante lo stesso summit, Barack Obama e Hu Jintao hanno potuto ridisegnare i rapporti sino-americani: la programmazione di regolari incontri fra rappresentanti dei due paesi sia per motivazioni diplomatiche, sia per discutere di Africa, America Latina, Asia centrale e meridionale e zona asiatico-pacifica; speciali incontri di dialogo relativi al tema della sicurezza internazionale e dell’antiterrorismo; uno Strategic Security Dialogue che comprende un’ampia varietà di temi che potrebbero rivelarsi preziosi in versanti meno definiti, specie per le dispute nel Mar Cinese Meridionale. Sul versante economico, gli USA hanno rappresentato un modello di riferimento per la Cina negli ultimi anni. Con l’accesso al WTO, per esempio, la dirigenza comunista favorevole alla riforma finanziaria ha potuto soddisfare i requisiti necessari, separando le SOE dal contesto burocratico che era loro connaturato. La situazione si è modificata nel 2008-09 con la crisi finanziaria, che ha cambiato l’idea dell’economia americana come fondamentalmente sana e vincente. Si è avviato in Cina un vero dibattito sul modello economico del futuro. L’interdipendenza dei due sistemi è però ancora vigente: la Cina è il primo partner per gli Stati Uniti nelle importazioni dal 2007 e terzo per le esportazioni dal 2005.
La Trans-Pacific Partnership (TPP) rappresenta un accordo commerciale, ancora in fase di negoziazione, che coinvolgerebbe Australia, Brunei, Cile, Canada, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam con gli Stati Uniti come paese leader. Gli incontri a porte chiuse fra i rappresentanti di questi paesi, iniziati nel 2010, rappresentano una sfida con la Cina. La proposta americana nel Sud-Est asiatico costituirebbe un elemento di competizione con la RPC, che da parte sua ha proposto una serie di investimenti nell’ottobre 2013 durante i viaggi di Li Keqiang e Xi Jinping in Brunei, Indonesia, Malaysia, Thailandia e Vietnam. Durante i vertici ASEAN e APEC dello stesso periodo, le proposte riguardanti una banca di sviluppo e un sistema di accordi bilaterali hanno rivelato un carattere regionale in netto contrasto con l’iniziativa d’oltreoceano. La Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), le cui concertazioni sono cominciate a fine 2012, comprenderebbe paesi che, contemporaneamente, partecipano alle discussioni sulla TPP: Australia, Brunei, Giappone, Malaysia, Nuova Zelanda, Singapore e Vietnam. La capacità della Cina di proporre termini migliori ai suoi partner dovrà però passare attraverso elementi estranei alla finanza, soprattutto da una più conciliante visione geopolitica circa le rivendicazioni territoriali per i siti potenzialmente ricchi di energia nel Mar Cinese Meridionale.
BRIC è l’acronimo coniato dalla banca Goldman Sachs per indicare Brasile, Russia, India e Cina, le economie che dovrebbero essere le maggiori del mondo nel 2050. Tra queste, la Cina rappresenta il mercato più ampio: secondo Oxford Analytica, nel periodo 2000 Pechino rappresentava il 70% della crescita totale dei BRICS rispetto all’economia globale. Nel 2012, gli scambi con gli altri membri hanno mostrato i maggiori indici di crescita. Durante il summit del 2013 in Sud Africa si è parlato della creazione di una banca per lo sviluppo, che dovrebbe investire soprattutto in infrastrutture e creare un fondo comune anticrisi. Una simile organizzazione vedrebbe la Cina, destinata a versare un contributo meno significativo sul PIL, in posizione dominante. Ciò potrebbe avere importanti ripercussioni se, in un secondo momento, fosse seguita da maggiori scelte di decision making sulle politiche da adottare. Il prossimo summit, previsto in Brasile, si inserisce in uno scenario di promettente crescita degli investimenti esteri della Cina in Sud America.