Vedi Cina dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Cina, formalmente Repubblica Popolare Cinese (Rpc), è ormai riconosciuta come la potenza in maggiore ascesa a livello internazionale, sia sotto il profilo economico, sia da un punto di vista geopolitico. Membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il paese fa parte delle principali organizzazioni internazionali e con l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), nel 2001, ha sancito la sua piena integrazione anche nei meccanismi di governance dell’economia globale.
Nell’ultimo decennio si è registrato inoltre un progressivo coinvolgimento di Pechino nelle organizzazioni multilaterali di carattere regionale, sia tramite una più intensa partecipazione all’attività dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean) (anche grazie all’accordo di libero scambio Cina-Asean), sia nell’ambito dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco), associazione che include, oltre alla Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, ed è finalizzata a contrastare la minaccia terroristica e le spinte separatiste nella regione. Le direttrici della politica estera regionale di Pechino sono dunque essenzialmente due: una muove verso l’Asia centrale, fondamentale per la fornitura di materie prime, e l’altra in direzione del Mar Cinese Meridionale e dell’Asia sud-orientale. In generale, la priorità cinese sembra consistere nel mantenimento della stabilità politica necessaria al perseguimento del proprio sviluppo economico. Tuttavia, considerando che la Cina si colloca in prossimità di alcuni dei nodi più critici nell’attuale panorama geopolitico internazionale, ovvero Afghanistan, Iran e Corea del Nord, il ruolo che il paese potrebbe giocare sul piano regionale – e non solo – appare davvero cruciale.
A livello globale, l’atteggiamento cinese è stato ben definito dal presidente Hu Jintao, il quale in una recente dichiarazione ha sottolineato che la Cina e il mondo sono indispensabili l’una per l’altro. Una forte interdipendenza, dunque, ma soprattutto la consapevolezza dei vertici cinesi di non poter più ricorrere alla retorica della ‘coesistenza pacifica’ e del paese in via di sviluppo. Già nel 2003, in un discorso a Harvard, Wen Jiabao, capo dell’attuale governo, aveva parlato di ‘ascesa pacifica’ per definire il nuovo ruolo della Cina. Tuttavia, nel perseguimento dei propri interessi la Cina è sempre rimasta fedele al precetto del successore di Mao, Deng Xiaoping: nascondere la propria forza ed agire con prudenza. In ciò sta l’essenza del pragmatismo cinese: mentre da un lato il paese si rafforza militarmente e rinnova le proprie rivendicazioni nel Mar Cinese Meridionale lungo i confini con l’India o nei confronti degli isolotti contesi al Giappone, dall’altro non perde occasione per ribadire la natura pacifica della propria crescita.
Più recentemente, e in particolare in coincidenza della crisi economica internazionale, sembra farsi strada una maggiore assertività e una più aperta sfida al primato statunitense. Tali atteggiamenti si sono manifestati, ad esempio, nelle dure reazioni diplomatiche conseguenti all’incontro di Barak Obama con il Dalai Lama (gennaio 2010), così come in quelle che hanno fatto seguito alle forniture da parte degli Stati Uniti di armamenti destinati a Taiwan (febbraio 2010), o, ancora, nelle polemiche seguite alla dichiarazione del segretario di stato, Hillary Clinton, in favore di una soluzione delle dispute territoriali tra gli stati membri dell’Asean che garantisca libertà di accesso e navigazione (ottobre 2010).
di Marta Dassù
Il rapporto fra la superpotenza del 20° secolo, gli Stati Uniti, e la grande potenza del 21° secolo, la Cina, sta assumendo le caratteristiche di un vero direttorio (G2), o si tratta del rapporto bilaterale fra due ‘Grandi’ (2G), condannati a cooperare ma non in grado di garantire nuovi equilibri internazionali?
Nel primo caso, avremmo un ordine oligarchico, co-egemonico; il legame fra le due economie prevarrebbe su tutto. Nel secondo, il sistema internazionale manterrebbe caratteristiche anarchiche, e gli elementi conflittuali della relazione fra i Grandi tenderebbero a prevalere.
Partiamo dal dato essenziale. La relazione fra Stati Uniti e Cina è cruciale non solo in virtù dei numeri (la prima e la seconda economia mondiale, la superpotenza militare e quella demografica), ma anche perché ci troviamo, all’inizio del 21° secolo, a un cambiamento di ciclo, con una Cina in ascesa relativa e con un’America in relativo declino.
Gli Stati Uniti di oggi ricordano agli studiosi anglosassoni la traiettoria dell’Impero britannico, mentre la Cina, dopo un secolo e mezzo di marginalità, sembra avere recuperato la posizione centrale di cui godeva quale ‘Impero di Mezzo’. Il problema è che la storia delle relazioni internazionali indica che i cambiamenti di ciclo – caratterizzati dall’ascesa di una nuova potenza, che sfida l’ordine costituito – sono spesso cambiamenti conflittuali.
Nel caso Cina-America, l’interazione economica è così stretta da creare, almeno a breve termine, un forte interesse reciproco a cooperare. Lo scenario di una nuova ‘guerra fredda’ sull’asse transpacifico sembra per ora da escludere. A dieci anni dal proprio ingresso nel Wto (2001), la Cina ha riserve finanziarie che sfiorano i 2800 miliardi di dollari e che ne fanno il principale creditore estero degli Stati Uniti. Gli USA non possono permettersi una frattura, ma neanche Pechino, che deve difendere i propri investimenti in dollari e che ha negli Stati Uniti un mercato di esportazione decisivo. D’altra parte, la crisi finanziaria del 2008 ha dimostrato che questa relazione squilibrata - la relazione fra una Cina che esporta a basso costo senza consumare e un’America che vive sopra ai propri mezzi senza risparmiare - è giunta all’esaurimento. La Cina, come prevede il nuovo Piano quinquennale, deve spostare la crescita verso la domanda interna; l’America deve aumentare il risparmio e le esportazioni. Ciò determina tensioni che si esprimono nella polemica americana sulla sotto-valutazione dello yuan e in quella cinese sulla necessità di arrivare a un sistema monetario internazionale non più interamente centrato sul dollaro.
Se si consoliderà il G2, Pechino e Washington riusciranno a gestire insieme la transizione graduale verso un sistema monetario ‘multipolare’, che veda accanto al dollaro e all’euro anche una moneta internazionale di riserva della Cina. Altrimenti, le pressioni protezionistiche e il nazionalismo economico aumenteranno sia nel Congresso americano che nella leadership cinese nazionalista e confuciana, prima ancora che comunista. E la rivalità diventerà anche una rivalità di modelli: fra l’impianto dirigista del capitalismo di stato cinese e il ‘Washington Consensus’, a lungo dominante nelle relazioni economiche internazionali.
Sul piano geopolitico, il G2 sembra già destinato a fallire. Dall’avvio dei rapporti diplomatici bilaterali, negli anni Settanta del secolo scorso, Stati Uniti e Cina hanno dovuto gestire la diversità di posizioni rispetto a Taiwan; oggi, la competizione per l’influenza si è allargata all’Asia orientale. Per vari decenni, una Cina interamente dedicata al proprio sviluppo economico ha accettato il dominio militare americano nel Pacifico come un modo indiretto per tenere sotto controllo le velleità del Giappone e della Corea del Sud. Questa logica di ‘basso profilo’ sembra ormai superata: una serie di indicatori - spese militari, rafforzamento della Marina, rivendicazione di interessi vitali nel Mar Cinese Meridionale, influenza di settori dell’Esercito sulla politica asiatica della Cina - sembrano confermare che Pechino aspira a diventare la potenza dominante in Asia orientale, escludendo, più a lungo termine, gli Stati Uniti. Oppure ridimensionandone il peso.
La questione coreana indica i limiti della cooperazione possibile: la Cina ha interesse a controllare le aspirazioni nucleari del regime di Kim Jong Il, ma anche ad evitare una riunificazione tra le due Coree che porti truppe americane alle proprie frontiere. In sintesi, come qualunque potenza in ascesa, la Cina punta ormai a trasferire la propria forza economica in influenza politica. In relazione all’Asia orientale, si tratta di una rivendicazione di potenza abbastanza classica; altrove - in Africa e in America Latina - l’espansione cinese è soprattutto trainata dalle priorità economiche (acquisizione di materie prime e di energia), dalla ricerca di infrastrutture commerciali (anche nel Mediterraneo), e da una forza finanziaria che permette di sostenerla. Solo nei prossimi anni si vedrà quanto il soft power cinese possa soppiantare nel tempo la vecchia influenza americana, fondata sul ‘privilegio’ del dollaro, sulle alleanze militari, sulla superiorità tecnologica e sui valori democratici.
Fra aspettative eccessive in un G2 e fattori di tensione fra i 2G, Stati Uniti e Cina tenderanno, probabilmente, alla ricerca di un compromesso pragmatico ma limitato. Sul breve termine, è questo lo scenario che ha maggiori possibilità di realizzarsi. Il condominio che l’Europa teme non nascerà. Ma se l’Europa non riuscirà a creare le premesse per far parte di chi decide, invece di chi subisce, resterà al tempo stesso vulnerabile e periferica rispetto a un sistema globale con l’asse spostato verso il Pacifico.
Altra direttrice importante, anche se relativamente recente, della politica di respiro globale praticata dalla Cina consiste nel rapporto sempre più stretto con il continente africano, in primis con Angola, Sudan e Zimbabwe, dai quali provengono ingenti quantità di materie prime e verso i quali si dirige un flusso crescente di manufatti, investimenti e aiuti (non sottoposti a condizioni, differentemente da quanto accade con quelli provenienti dalle istituzioni internazionali). L’unica condizione posta da Pechino è l’aderenza alla ‘One-China policy’, funzionale all’isolamento progressivo di Taiwan.
Lo status di Taiwan appare dunque ibrido: da una parte un sistema democratico e una sovranità statuale – de facto – compiuta, dall’altra l’ombra del gigantesco vicino che sorveglia ogni sua mossa e che aspetta l’occasione opportuna per ribaltare lo status quo. Tuttavia, dall’entrata in carica del presidente Ma Ying-Jeou, il cui slogan recita: ‘no all’unificazione, no all’indipendenza, no all’uso della forza’, Taipei si è progressivamente avvicinata alla terra ferma a livello economico e diplomatico, facendo temere a parte della popolazione che un assorbimento economico possa preludere all’annessione politica. Tali preoccupazioni si sono intensificate nel giugno 2010, contestualmente al raggiungimento tra i due paesi dello storico ‘Accordo quadro di cooperazione economica’, fortemente voluto dal presidente cinese Hu Jintao. L’Accordo prevede l’abbattimento dei dazi per il 16% dei prodotti diretti verso la Cina e per il 10% di quelli esportati a Taiwan, oltre alla possibilità per le aziende dell’isola di operare nel settore bancario e in quello assicurativo. Tale accordo, tuttavia, ha anche suscitato lo scetticismo degli Stati Uniti, ovvero l’alleato principale di Taipei e vera garanzia della sua difesa; dagli Stati Uniti proviene infatti oltre il 97% degli armamenti e nel 2011 dovrebbero fornire a Taiwan uno scudo missilistico dal costo di quasi dieci miliardi di dollari.
Taipei appare dunque decisa a difendere la propria autonomia e a prevenire un intervento armato cinese. Gli sviluppi futuri restano però assai incerti.
La Repubblica Popolare Cinese è governata dal Partito comunista cinese (Pcc) fin dalla sua fondazione nell’ottobre del 1949. Nonostante l’Assemblea nazionale del popolo sia sulla carta il principale detentore del potere, il centro decisionale è rappresentato dal Pcc, che supervisiona l’operato sia del legislativo che dell’esecutivo. D’altro canto è all’interno del partito che si compie la carriera dei funzionari pubblici e dei leader, eletti non dalla popolazione cinese, ma dal Congresso nazionale del Pcc che ha luogo ogni cinque anni. L’organo principale del Pcc è il Comitato centrale, che si riunisce in sessione plenaria due volte all’anno, mentre per il resto del tempo il comando è esercitato dal Politburo e dal Comitato permanente del Politburo, il vero cuore del potere cinese, attualmente composto da nove membri. Con 74,2 milioni di iscritti, il Pcc è il primo partito al mondo, anche se in rapporto alla popolazione non supera il 5%. Dopo la scomparsa di Mao Tse-tung nel 1976, Deng Xiaoping ha adottato una politica pragmatica dettata dalla necessità di prendere la strada delle riforme economiche senza tuttavia indebolire il ruolo del Pcc. I due leader che gli sono succeduti, Jiang Zemin e l’attuale presidente Hu Jintao, possono essere entrambi definiti dei tecnocrati, la cui azione è stata diretta innanzitutto a garantire la stabilità interna e la crescita economica; allo stesso tempo, la formazione ideologica resta un criterio imprescindibile. In quest’ottica il controllo del sistema giudiziario e dei mezzi di informazione da parte del Pcc è ritenuto essenziale a salvaguardare l’unità del paese.
Per quanto ferreo, il sistema cinese lascia però lentamente spazio alle nuove generazioni: probabilmente, infatti, gli attuali vice-presidente, Xi Jinping, e vice-premier, Li Keqiang, prenderanno il posto rispettivamente di Hu Jintao e di Wen Jiabao nel corso del prossimo congresso, che si terrà nel 2012. Anche il calo dell’influenza dell’esercito sulla vita politica nell’ultimo decennio differenzia la Cina da altri sistemi autoritari, sebbene il peso dei militari sia ancora notevole nel caso specifico dei rapporti con Taiwan. A livello amministrativo la Cina è divisa in 22 province, cinque regioni autonome, quattro municipalità e due zone amministrative speciali (Hong Kong e Macao). Mentre le province godono di un certo grado di autonomia, Tibet, Guangxi, Xinjiang, Mongolia Interna e Ningxia, ovvero le cinque regioni autonome, sono sotto lo stretto controllo di Pechino, come è stato confermato dalla dura reazione delle autorità alle spinte separatiste provenienti soprattutto dal Tibet e dallo Xinjiang, che negli scorsi anni sono sfociate in manifestazioni di violenza.
Con circa 1,3 miliardi di persone, la Cina è lo stato più popolato al mondo, e ciò rappresenta per il governo tanto un punto di forza quanto una sfida. La popolazione cinese costituisce quasi un quinto di quella mondiale e insieme a quella dell’India raggiungono ben il 37% della popolazione complessiva del pianeta.
Nel 1978 è stata introdotta la politica del figlio unico, in base alla quale le famiglie cinesi sono state costrette ad avere un solo figlio; uniche eccezioni le famiglie che vivono nelle campagne, che possono avere un secondo figlio se il primo è di sesso femminile; le minoranze etniche; i genitori che sono a loro volta figli unici. Pur avendo ridotto il tasso di crescita della popolazione, tale politica ha portato a una maggioranza maschile, dovuta agli aborti selettivi in caso di figlie femmine, e potrebbe portare a maggiori difficoltà riguardo al fenomeno dell’invecchiamento della popolazione. Di rilievo anche l’emigrazione cinese all’estero: vi sono cospicue minoranze cinesi nel sud-est asiatico, in Europa e negli Stati Uniti; recentemente è inoltre aumentata l’emigrazione degli studenti cinesi all’estero.
Situata anch’essa nella Cina occidentale, la regione autonoma dello Xinjiang è parte della Cina dal 18° secolo; gli Uiguri, di origine turca e musulmani, rappresentano qui il 45% della popolazione (gli Han sono il 40%) e rivendicano maggiore autonomia, mentre il governo centrale ha adottato politiche volte a limitarne i diritti. Lo Xinjiang è importante per la produzione di idrocarburi e perché, collocandosi al confine con il Kazakistan, rappresenta una porta verso le risorse del Caspio e dovrebbe diventare zona di transito per il trasporto di gas verso la Cina orientale.
Il 92% della popolazione è costituito da cinesi di etnia Han – l’etnia più diffusa sul pianeta – e vi sono numerose minoranze, tra le quali quella tibetana e quella uigura, la cui presenza è particolarmente rilevante in Tibet e Xinjiang. Il 92% dei cinesi è ateo pur rispettando la tradizione confuciana, che secondo alcuni autori è assimilabile a una religione. Vi sono inoltre minoranze cristiane, buddiste, taoiste e musulmane. Il numero dei credenti continua ad aumentare, sebbene la libertà di religione sia fortemente limitata: il governo riconosce buddismo, islam, taoismo, cattolicesimo e protestantesimo, ma tutti i gruppi religiosi devono essere registrati presso il governo; alcuni gruppi religiosi, inoltre, quali ad esempio il movimento dei Falun Gong, sono formalmente illegali e perseguibili.
Durante gli anni delle riforme la società cinese ha subito profonde trasformazioni. Attualmente le 22 province cinesi sono piuttosto eterogenee: la Cina orientale, in particolare la costa, è densamente abitata, molto urbanizzata e corrisponde alla regione più sviluppata economicamente, anche per le maggiori opportunità di commercio derivanti dal sistema portuale; la Cina occidentale, dove vivono alcune delle principali minoranze etniche, ha invece una popolazione prevalentemente rurale e un’economia più legata all’agricoltura. Lo sviluppo economico continua così ad essere accompagnato da profonde disuguaglianze tra le province, e il miglioramento degli standard di vita cinesi convive con crescenti disparità nella distribuzione del reddito. A fronte di ciò il Pcc persegue una politica volta a creare una società più ‘armoniosa’. Il tasso di alfabetizzazione e quello di scolarizzazione raggiungono rispettivamente il 94% e 99%, anche se il dato delle province continentali è minore rispetto a quelle della Cina orientale. Il livello di istruzione terziaria è in forte espansione: se nel 2000 vi erano 1041 università e istituti, in meno di un decennio questi sono quasi raddoppiati, portando nel 2008 a circa 7 milioni il numero dei laureati, di cui quasi la metà donne. L’accesso all’università è molto competitivo e basato sul merito, e i corsi di laurea più seguiti sono ingegneria e management. Grazie all’ampiezza e alla qualità dell’offerta, il sistema universitario cinese attrae un numero crescente di studenti dall’estero.
La libertà di stampa è fortemente limitata; i media sono controllati dalle autorità che utilizzano mezzi sofisticati e intensificano il controllo per le questioni ritenute più sensibili. Inoltre, il governo cinese monitora le informazioni scambiate su internet, anche se la continua evoluzione della tecnologia e l’enorme volume di comunicazioni lasciano spazio ad alcune aperture che rendono la rete più libera rispetto ai media tradizionali. Nel 2008 il 22,5% della popolazione aveva accesso a internet e il numero è in continuo aumento. Allo stesso tempo, oggi la Cina rappresenta il principale bacino di utenti di internet (298.000.000), superando gli Stati Uniti (230.630.000).