Vedi Cina dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Repubblica Popolare Cinese (Prc), fondata nel 1949 dal Partito comunista cinese (Cpc) che la guida da allora, è fra le maggiori potenze a livello internazionale. L’ideologia del Cpc è socialista, ma con ‘caratteristiche cinesi’ e tra le linee guida compaiono non solo i testi fondamentali del marxismo-leninismo, ma anche i contributi dei maggiori leader cinesi: il pensiero di Mao Zedong, le ‘Quattro modernizzazioni’ di Deng Xiaoping, le ‘Tre rappresentanze’ di Jiang Zemin, e la ‘Società armoniosa’ di Hu Jintao. Dal periodo delle concessioni straniere e dell’isolamento successivo alla Guerra di Corea degli anni Cinquanta, la Prc è riuscita a ricostruire una rete di collegamenti internazionali, fino a essere ammessa alle Nazioni Unite (Un) nel 1971 e ottenere il seggio nel Consiglio di sicurezza prima occupato da Taiwan. L’opposizione al riconoscimento internazionale di quest’ultima è stata una delle caratteristiche della politica estera cinese fin dagli anni Cinquanta.
La politica estera di Pechino si basa tradizionalmente sui ‘cinque principi di coesistenza pacifica’. Formulati negli anni Cinquanta e ulteriormente sviluppati attraverso la partecipazioni a eventi come la Conferenza afro-asiatica di Bandung, tali principi prevedono il rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale, la non aggressione reciproca, la reciproca non ingerenza in tutti gli affari interni, e l’uguaglianza, il vantaggio reciproco e la coesistenza pacifica tra i paesi. La prassi con cui Pechino sta tentando di inserirsi nelle questioni internazionali, come in Siria e Libia, è costruita sulla falsariga dell’anti-imperialismo di epoca maoista e mette in luce i due volti con cui si manifesta la Cina odierna: quello conservatore e quello innovatore. Area di intervento privilegiato per la Cina è il Sud-Est asiatico. La partecipazione all’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) e l’adesione alla Cooperazione economica asiatico-pacifica (Apec) rivelano la volontà cinese di porsi come potenza sul piano regionale e avviare collaborazioni economiche di lungo periodo nei paesi in via di sviluppo. Il Mar Cinese Meridionale, però, è teatro di conflitti territoriali per il controllo di aree potenzialmente ricche di fonti energetiche, come le Isole Diaoyu (o Senkaku, de facto controllate dal Giappone sin dal 1895) e le Spratly. Il governo comunista di Pechino rivendica queste zone come ‘storicamente’ cinesi - anche con la creazione di isole artificiali - e questo crea tensioni con più di una nazione limitrofa. L’influenza di Pechino trova poi un limite nei legami economici che gli Usa intrattengono con le più promettenti economie del continente. Dunque i rapporti diplomatici fra Cina e Stati Uniti costituiscono uno dei punti centrali perché la Repubblica Popolare possa presentarsi come attore responsabile e ottenere il consenso della comunità internazionale. La seconda direttrice dell’azione diplomatica cinese punta sull’Asia centrale. Nel 2013, la Prc ha assunto la presidenza di turno della Struttura regionale anti-terrorismo (Regional Anti-Terrorist Structure, Rats) nell’ambito dell’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione (Shanghai Cooperation Organisation, Sco), che riunisce Cina, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan, Russia e Kirghizistan e in cui entreranno India e Pakistan. Nel summit del settembre 2014, Pechino si è impegnata ad ampliare la cooperazione economica con l’Asia centrale, zona non solo di grande importanza per le materie prime, ma anche per la posizione strategica che occupa. Per rafforzare i rapporti con i paesi vicini, nell’autunno 2014 la Cina ha lanciato un ambizioso progetto di cooperazione economica, chiamato ‘Una cintura, una via’ costituito dalla Nuova Via della Seta terrestre e marittima, attraverso l’Asia centrale e il Sud-Est asiatico. La Rats si occupa invece dei problemi dell’integralismo islamico, altro tema caldo per la Cina, soprattutto nella regione autonoma uigura dello Xinjiang. Sempre nello stesso summit, Xi Jinping ha voluto rafforzare la stabilità regionale con l’avvio di programmi anti-estremismo religioso e anti-terrorismo.
L’impegno cinese in Africa può invece essere considerato tradizionale: la Cina lo ha assunto fin dagli anni Sessanta. Dalla concorrenza con l’Unione Sovietica e dalla proposizione di un ideale comune costituito dal terzomondismo, si è passati a una politica di relazioni commerciali scevra da venature politiche. Dai paesi africani provengono principalmente materie prime: la Cina vi esporta invece i suoi prodotti a basso costo, costruisce infrastrutture e investe nei servizi. I principali paesi interessati sono Angola, Ghana, Sudan e Zimbabwe.
La classe politica di governo della Repubblica Popolare Cinese proviene dal Cpc che, attraverso un congresso nazionale, elegge ogni cinque anni un comitato centrale, nel quale siedono le personalità più influenti del paese. All’interno del comitato centrale, oltre ai principali uffici del partito, vengono designate due commissioni ristrette che riuniscono coloro che ricoprono le maggiori cariche nello stato, il Politburo (composto da 25 membri) e il suo Comitato permanente (composto invece da sette membri). Il leader nazionale occupa per convenzione tre incarichi: segretario generale del Cpc, presidente della Prc e della Commissione militare centrale (Cmc), un organo che dirige l’esercito.
Quanto alla struttura dello stato, le quattro Costituzioni della Cina (1954, 1975, 1978, 1982) hanno posto l’Assemblea nazionale del popolo come supremo organo legislativo, composto da una sola camera, i cui rappresentanti vengono eletti in più turni e provengono dalle province, dalle regioni autonome, dalle municipalità autonome, dalle regioni amministrative speciali (Sar), dall’esercito e dalle minoranze nazionali. Eletta per un mandato di cinque anni, l’Assemblea si riunisce una volta all’anno, ma elegge un comitato permanente presieduto dal segretario generale del Cpc. L’Assemblea ratifica la carica di primo ministro del consiglio di stato, nominato dal presidente della Repubblica, e i componenti del comitato permanente dell’Assemblea, nominati dal premier e investiti dal presidente. Il consiglio di stato costituisce il potere esecutivo ed è composto da premier, vicepremier, consiglieri di stato e ministri.
Con il 18° Congresso nazionale del Cpc, tenutosi nel novembre 2012, è stato nominato Xi Jinping alla guida del partito e, nel marzo 2013, la 12° Assemblea nazionale del popolo ha nominato Li Keqiang primo ministro. Si tratta della quinta generazione di politici cinesi comunisti. Dopo la prima generazione di Mao Zedong e Zhou Enlai, Deng Xiaoping, che formalmente non assunse mai la guida del partito, promosse sia l’apertura controllata al mercato sia una nuova classe politica, rappresentata da Hu Yaobang e Zhao Ziyang. Il rallentamento del programma di riforme e le proteste di piazza Tiananmen nel 1989 preannunciarono il passaggio alla terza generazione, quella di Jiang Zemin, Li Peng e Zhu Rongji, che promosse lo sviluppo della produzione economica, la ricerca di un maggiore consenso politico e una crescita culturale ed educativa. Le riforme furono estese nel nuovo millennio con un’attenzione alle disuguaglianze economiche da Hu Jintao e Wen Jiabao, la cui formazione ingegneristica ha dato un’impronta più tecnica all’amministrazione dello stato.
Al vertice del sistema giudiziario si trova una corte suprema che, secondo la Costituzione, dovrebbe essere del tutto indipendente pur mantenendo il principio della leadership del Cpc. A livello amministrativo, la Cina è divisa in ventidue province, cinque regioni autonome, quattro municipalità e due regioni amministrative speciali (Hong Kong e Macao).
Con circa 1,3 miliardi di persone, quasi un quinto della popolazione mondiale, la Cina è lo stato più popoloso del pianeta. Per controllare il fenomeno, il Partito comunista ha avviato una politica di pianificazione delle nascite, secondo la quale ogni coppia può avere un solo figlio, fatta eccezione per i parti gemellari, le minoranze etniche, le famiglie rurali e i genitori che, a loro volta, erano entrambi figli unici. Il modello fu introdotto nel 1978, sulla base di alcune teorie demografiche allora ritenute applicabili; tuttavia, gli sbilanciamenti che ha generato ne hanno messo in discussione la validità, fino a portare alla sua abolizione nel 2015.
Il rapporto tra lavoratori e pensionati mostra una tendenza negativa: dall’attuale ‘cinque a uno’ a ‘due a uno’ nel 2030, per un tasso di fecondità (1,67 nel 2014) e un tasso demografico (0,5% nel 2014) fra i più bassi al mondo. Inoltre, la legge del figlio unico ha portato a forti squilibri nella distribuzione del rapporto maschi-femmine alla nascita: secondo dati del 2013, in Cina nascono 118 bambini ogni 100 bambine, dato molto distante dalla media mondiale di 105 bambini ogni 100 bambine.
La Cina è divisa fra popolazione rurale (45,6% nel 2014) e popolazione urbana (54,4%), una proporzione che è regolata da un sistema di registrazione abitativa (hukou) e dalle complesse procedure per vendere le terre coltivabili. Il sistema dell’hukou regola anche l’accesso a servizi quali la sanità e l’istruzione e limita la mobilità all’interno della Cina: l’hukou determina anche quindi i diritti dei milioni di migranti che ogni anno si spostano dalle campagne verso le città per lavorare, rendendo de facto migranti dei cittadini di seconda classe. Questo problema ha portato nel 2014 il governo a rilassare parzialmente le norme riguardanti la registrazione abitativa eliminando la distinzione tra residenti urbani e rurali, ma questo resta tuttora uno dei settori che necessitano pià urgententemente di una riforma.
La popolazione cinese è altamente alfabetizzata (95,2%, dato che sale oltre il 99% se si considera la popolazione sotto i 30 anni), ma nel 2010 soltanto il 12% della popolazione aveva conseguito una laurea, per la serrata selezione imposta per accedere all’università. Negli ultimi anni il governo ha investito fortemente sul sistema accademico: primo passo, nel 1995, il ‘progetto 211’ per aumentare gli istituti scientifici del paese.
La Prc è considerata uno stato plurinazionale grazie alla presenza di numerose minoranze. Oltre all’etnia degli han (il 92% della popolazione nel 2015), esistono 55 minoranze ufficialmente riconosciute dal governo, che corrispondono a quasi 110 milioni di persone. Alcune minoranze risiedono in zone almeno nominalmente autonome, che prevedono la presenza di un membro del gruppo etnico locale ai vertici dell’amministrazione, ma che sono comunque sottoposte all’autorità del Cpc. Il rapporto fra gli han e le altre etnie non è però sempre pacifico e ha dato origine a diversi conflitti, come quelli nello Xinjiang e nel Tibet. Il governo cinese riconosce e autorizza cinque religioni: buddismo, taoismo, islam, protestantesimo e cattolicesimo. Nel corso degli anni Cinquanta le comunità religiose sono state spinte a formare associazioni che, da un lato, facilitano il controllo governativo e, dall’altro, tendono all’autocefalia (classico esempio è la Associazione patriottica cattolica cinese, che non risponde alla Chiesa cattolica romana).
Secondo molte ricerche, la maggior parte della popolazione cinese è atea o agnostica e non aderisce a nessun credo; e anche per quanto riguarda il resto della popolazione prevale comunque un approccio alla religione sincretico e relativamente poco intenso: non è insolito, per esempio, per un cristiano cinese ispirarsi anche ai precetti buddisti e taoisti. Infine, una grande importanza culturale ricopre il confucianesimo, una filosofia morale e politica che ha esercitato un’enorme influenza sul pensiero cinese moderno e tradizionale. Tuttavia, il confucianesimo non va assolutamente confuso con una dottrina religiosa ed è, anzi, una delle basi dell’ateismo e del materialismo cinese.
La libertà di espressione in Cina trova oggi un campo critico di applicazione in internet: i suoi 674 milioni di utenti (ottobre 2015) costituiscono il più grande bacino di internauti al mondo. L’accesso a siti sensibili o potenzialmente sensibili è però limitato dal cosiddetto Great Firewall del governo. L’utilizzo di network privati e il fenomeno dei microblog, per superare le restrizioni, hanno comunque permesso di esprimere critiche al partito e avere un ampio seguito. Nel corso del 2013, il governo di Xi Jinping ha inasprito le misure contro le personalità più in vista della rete e le ha giustificate come prassi di cybersecurity. La necessità di interazione delle imprese con il mondo esterno è limitata da questo controllo stringente ed è probabile che il problema dovrà essere affrontato.
In un’ottica più generale, nel 2015 si è registrata una stretta sui cosiddetti ‘avvocati dei diritti umani’, con numerosi arresti. Anche nelle accademie universitarie si è verificata una crescente pressione contro chi veniva accusato di promuovere i valori occidentali a discapito della dottrina di partito. Xi Jinping ha avviato nel 2013 una campagna anti-corruzione, dall’impatto talmente forte da contrarre i consumi del mercato del lusso. Questa campagna, vista da alcuni come un regolamento di conti all’interno del Cpc, ha portato nell’estate 2014 all’arresto per corruzione e, nel giugno del 2015, alla condanna all’ergastolo della ‘tigre’ Zhou Yongkang, uno degli uomini più influenti del Cpc: è stato, questo, lo scandalo politico di maggiore portata dall’arresto di Bo Xilai e avrà certamente delle conseguenze importanti nel panorama politico dei prossimi anni.
Per quanto riguarda la condizione femminile, la situazione sembra conoscere un graduale cambiamento: sei cinesi sono nella classifica delle donne più ricche del mondo. Resta grave e diffuso, però, lo sfruttamento della prostituzione, soprattutto nei contesti di recente urbanizzazione.
Il Terzo Plenum del Cpc, tenutosi nel novembre 2013, ha fissato le linee generali della politica economica sotto l’amministrazione Xi-Li. I problemi affrontati sono in larga parte relativi alla necessità di affidare al mercato un ruolo decisivo nell’allocazione delle risorse. Se alle aziende di stato (State Owned Enterprises, Soe) viene garantita, nel comunicato finale, una posizione ‘dominante’ nell’economia socialista di mercato, sono state altresì annunciate nuove norme per favorire una competizione meno vincolata dagli aiuti centrali. Resistenze all’interno del partito da parte di chi detiene rendite economiche hanno però frenato la riforma delle Soe, che viene ciclicamente annunciata, senza raggiungere ancora risultati sostanziali.
La crisi mondiale è stata avvertita parzialmente anche dalla Cina, il cui pil nel 2008-09 è calato di 5 punti percentuali rispetto al 2007. Alla fine del 2014 si è registrato un tasso di crescita di solo il 7,3% e per il 2015 si prevede una crescita attorno al 6,8%, mentre l’obiettivo del partito è mantenerla sopra il 7%.
Il proposito di creare un mercato fondiario libero, che rivoluzionerebbe la struttura attuale di registrazione delle famiglie richiesta dallo stato, non soltanto favorirebbe l’urbanizzazione, ma cambierebbe il volume delle entrate delle amministrazioni locali, che attualmente gestiscono la compravendita dei terreni agricoli. I funzionari locali sono stati aspramente criticati in Cina per il modo in cui hanno allocato i fondi derivanti dal boom economico. L’analisi del rapporto fra debito e ricavi rivela che il più alto indebitamento è delle Soe e di quelle non quotate. Il rapporto finale del Plenum indica la leva finanziaria, la lotta alla corruzione e il miglioramento degli organismi di controllo fra gli obiettivi più urgenti. Le riforme annunciate sono indirizzate a trasformare il nucleo del modello di sviluppo da un modello ad economia guidata da investimenti ed esportazioni ad uno basato sui consumi interni. Le esportazioni, punto nevralgico dell’economia cinese, in calo per la crisi internazionale, hanno ricominciato a crescere nel 2012 (+34,6%). La politica finanziaria cinese ha caratteristiche specifiche dato che la maggior parte delle riserve estere (45%, secondo le stime) sono state investite nel debito statunitense (1600 miliardi). È il risultato di una politica di svalutazione del renminbi sul mercato dei cambi attraverso l’acquisto di dollari, poi riconvertiti in titoli di stato degli Usa, il principale paese di destinazione delle merci cinesi nel 2014. Fino al 2012 era l’Unione Europea a rappresentare il riferimento più importante per le esportazioni: il legame era cresciuto parallelamente all’exploit dell’economia asiatica. Si tratta in realtà di un fenomeno limitato: soltanto il 2,6% degli Fdi (investimenti diretti all’estero) in Europa provengono dalla Prc. Un elemento sensibile riguarda gli investimenti esteri della Cina nel Sud-Est asiatico. In particolare, tali investimenti si rivelano una forma di competizione con le direttive della Regional Comprehensive Economic Partnership e della Trans-Pacific Partnership. Non vengono però sottovalutate scommesse più ampie, sebbene in contesti definiti: è il caso del ruolo cinese nei Bric e nello sviluppo della ‘Via della Seta del Ventunesimo secolo’.
Con la crescita economica si è avuto un parallelo aumento della domanda di energia che, secondo dati del 2013, viene fornita per il 68% dal carbone e per il 16% dal petrolio. La Cina è il principale produttore di carbone al mondo (49,5% del totale nel 2013) ed è anche il primo paese per emissioni di anidride carbonica. Il governo, attraverso il XII Piano quinquennale (2011-15), ha destinato circa 330 miliardi di dollari a investimenti finalizzati all’ottimizzazione energetica e ha fissato l’obiettivo generale di produrre il 30% dell’elettricità con fonti non fossili e ridurre, per unità di pil, il consumo energetico del 16% e le emissioni di anidride carbonica del 17%. Questa politica è inoltre destinata a protrarsi nel medio e lungo periodo, tanto che verrà riconfermata nel 13° Piano quinquennale (2016-2020). L’International Energy Agency (Iea) stima che nel 2035 la domanda di energia della Prc sarà più alta di quella statunitense del 70% circa.
Nel complesso, il paese produce meno energia di quanta ne consumi, un fattore che ne potrebbe influenzare le relazioni con i paesi esportatori. Le modalità di produzione non sembrano destinate a mutare nel breve periodo: l’Economist Intelligence Unit prevede un aumento del consumo di carbone del 35% per il 2020. La produzione petrolifera, pur essendo in stabile crescita fin dagli anni Ottanta, non è in grado di soddisfare il consumo interno che, a partire dal 2008, ha registrato i più alti tassi di crescita degli ultimi decenni. Secondo le previsioni dello Iea, la Repubblica Popolare è destinata a diventare il più grande importatore mondiale al netto dell’estrazione locale.
Nonostante la rilevanza del gas sia ancora relativamente limitata, il rapporto fra domanda e produzione è cambiato fra il 2006 e il 2007 in favore della prima. Ciò ha costretto Pechino ad aumentare la capacità dei rigassificatori e a importare gas, principalmente da Kazakistan e Turkmenistan attraverso la Central Asia-China Gas Pipeline, completata nel 2009, che passa attraverso lo Xinjiang. Inoltre sono stati avviati importanti progetti per la realizzazione di gasdotti dalla Russia che dovrebbero cominciare ad essere operativi nel 2018.
L’Esercito popolare di liberazione è l’ala militare del Cpc ed è sottoposto al controllo della commissione militare centrale. Si ramifica in quartier generali, comandi regionali, guarnigioni speciali per le regioni amministrative speciali e accademie per gli studi strategici e la formazione del genio. Secondo Transparency International, la Cina è uno dei paesi meno trasparenti in questo ambito. Il budget per la difesa della Prc è secondo solo a quello degli Stati Uniti e cresce ogni anno a ritmi superiori al 10%. Sin dalle origini, per la gestione dell’esercito si sono fronteggiate due visioni: una favorevole alla formazione politica, cioè quella maoista e predominante, e un’altra improntata alla professionalizzazione delle truppe. Nel 2015 è stato pubblicato un ‘Libro bianco’ sull’impiego diversificato delle forze armate della Cina; inoltre, Xi Jinping ha annunciato la riduzione di 300.000 effettivi dal personale delle forze armate. Formalmente, i principi cardine della difesa cinese sono rimasti uguali fin dagli anni Cinquanta: la salvaguardia dell’integrità territoriale del paese, in ossequio al diritto di ciascun popolo di autodeterminarsi liberamente, e l’assicurazione di un contesto pacifico per lo sviluppo socio-economico. Il documento cita anche i pericoli esistenti per la Cina e parte dall’area pacifico-asiatica, nella quale Pechino ha la maggior parte dei suoi contenziosi aperti. I ciclici annunci sull’aumento delle spese militari cinesi vengono accolti con preoccupazione dalle altre potenze dell’area. Le lacune da colmare, tuttavia, non sono poche: la necessità di modernizzare apparecchiature e strutture; le difficoltà nella gestione delle aziende responsabili dello sviluppo della sicurezza; la poca incisività del soft power cinese nel Sud-Est asiatico. L’ambito delle minacce avvertite dai cinesi riguarda principalmente l’accesso alle risorse.
La Cina è molto attiva nel cosiddetto land grabbing: nel 2013 ha stretto con l’Ucraina un contratto cinquantennale per lo sfruttamento di terre agricole di alta qualità. L’isolamento diplomatico, un altro problema ricorrente nella storia della Prc, si scontra ancora con la volontà di guadagnare prestigio, un obiettivo di lungo periodo che ha spinto i cinesi a contribuire in senso ‘anti-imperialista’ alle decisioni internazionali riguardanti Libia, Siria e Iran.
Il concetto di non interferenza è stato portato agli estremi anche per le dispute nel Mar Cinese Meridionale con Brunei, Corea del Sud, Filippine, Giappone, Malaysia, Taiwan e Vietnam. I contrasti con il Giappone per il possesso delle Isole Diaoyu (Senkaku) hanno mantenuto alta la tensione nell’area: nel novembre 2013, la Cina ha stabilito una zona di identificazione aerea sovrastante l’area contesa che si intreccia alla corrispettiva area giapponese stabilita nel 1965. Anche per questo, negli ultimi anni, la flotta è stata oggetto di particolari investimenti e l’inaugurazione della portaerei Liaoning, la prima della Cina, è stata salutata con entusiasmo. La crescita militare cinese, pur nelle difficoltà di gestione economica, ha incrementato il mercato delle armi.
Oggi la Cina è il terzo esportatore mondiale di armi con una crescita del 143% tra i periodi 2005-2009 e 2010-2014. Nel settembre 2013, la Cina ha vinto la gara per realizzare lo scudo missilistico della Turchia, un affare da 4 miliardi di dollari, e ha annunciato future proposte commerciali nel campo aeronautico. L’opposizione a qualsiasi forma di interventismo chiarisce l’idea di Pechino sulle aree interne popolate da etnie diverse.
Il Tibet, di fatto indipendente dal 1912 al 1950 grazie alla mediazione del Regno Unito, è una regione autonoma. I tibetani, però, rivendicano la piena indipendenza da Pechino. Dalle Olimpiadi del 2008 si moltiplicano i casi di auto-immolazione dei dissidenti, cui il Cpc ha reagito restringendo le possibilità di accesso alla regione e aumentando il controllo. La regione autonoma uigura dello Xinjiang è abitata da popolazioni di origini turche, di cui gli uiguri formano la maggioranza, ed è stato teatro di rivendicazioni indipendentiste anche violente dal 2009, attribuite al Movimento islamico per il Turkestan Orientale. Dopo l’estate del 2013, caratterizzata da un gran numero di arresti, nel novembre dello stesso anno un’auto è esplosa in piazza Tiananmen poco prima del plenum. Secondo le autorità cinesi, si è trattato di un attentato terroristico legato ai gruppi indipendentisti uiguri. A loro sono stati attribuiti, oltre a questo episodio, i 30 morti e 143 feriti della stazione ferroviaria di Kunming (marzo 2014). Xi Jinping ha annunciato in risposta la linea dura dello stato.
L’Isola di Taiwan, chiamata anche Formosa, ha offerto rifugio al governo nazionalista del Guomindang, guidato da Chiang Kai-shek, che fu sconfitto nel 1949 durante la guerra civile cinese. L’isola ha quindi preso il nome di Repubblica di Cina (Roc). All’epoca, il governo comunista si astenne dal conquistare l’isola con la forza per la presenza della VII flotta statunitense. La rivendicazione delle ‘legittime pretese’ della Cina continentale ha poi costituito uno dei temi più duraturi della propaganda comunista: durante la Guerra fredda, i paesi aderenti al blocco occidentale riconoscevano il governo di Taipei, seguendo l’esempio statunitense, mentre quelli legati all’Urss sostenevano Pechino. Per questo, nelle trattative di normalizzazione dei rapporti, la classe dirigente del Cpc ha posto sin dagli anni Cinquanta come precondizione l’interruzione dei rapporti con Taiwan. Dai contrasti di quel periodo si è passati a rapporti molto più distesi con Pechino. Il presidente Ma Ying-jeou, esponente del Guomindang eletto nel 2008 e rieletto nel 2012, è un fautore del riavvicinamento. Una tappa importante di questo percorso è stata il ‘1992 Consensus’, un incontro informale fra rappresentanti di entrambi i paesi che hanno convenuto sull’esistenza di una sola Cina in termini culturali, al di là delle differenze politiche. L’evento si inseriva in una serie di tentativi di ridurre la tensione esistente nello Stretto di Taiwan, specialmente in relazione alle ripercussioni internazionali delle repressioni di Piazza Tiananmen e alla contemporanea necessità cinese di aprirsi al mondo negli anni Novanta. Una seconda tappa è costituita dallo storico accordo per un framework di cooperazione economica, fortemente voluto nel 2010 dal presidente Hu Jintao. Nonostante la conciliante volontà politica e a dispetto della crescita economica di cui anche la Roc ha potuto beneficiare, l’evento è stato accompagnato dalle proteste di parte della popolazione taiwanese, che rivendica una propria identità politica e culturale. La situazione internazionale di Taiwan è per certi versi delicata. Attualmente, Taiwan è riconosciuta da Belize, Burkina Faso, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Kiribati, Isole Marshall, Nauru, Nicaragua, Palau, Panamá, Paraguay, Repubblica Dominicana, Saint Kitts e Nevis, São Tomé e Príncipe, Isole Salomone, Swaziland, Tuvalu e dal Vaticano. Un passo avanti è stato rappresentato, il 7 novembre 2015, dall’incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e il suo omologo taiwanese Ma Ying-jeou a Singapore.
La Cina è sempre stata uno snodo fondamentale della politica estera degli Usa fin dal periodo del conflitto coreano (1950-53). La normalizzazione diplomatica (1972) e l’apertura al mercato (1979) non sono bastate a controbilanciare lo shock delle repressioni di piazza Tiananmen (1989), che hanno spinto il presidente George H. W. Bush a sospendere gli scambi diplomatici di alto livello. L’utilizzo di portavoce segreti ha comunque preservato la via della conciliazione con l’adesione all’Apec nel 1991 e al Trattato di non proliferazione nel 1992. L’atteggiamento critico degli Stati Uniti si è mantenuto sotto l’amministrazione di Bill Clinton che, però, mentre rendeva pubbliche dichiarazioni sulla brutalità del regime cinese, è arrivata a istituire una linea diretta Washington-Pechino nel 1998. Con George W. Bush si è giunti a un’integrazione non soltanto strategica, relativa a temi come i programmi nucleari di Iran e Nord Corea, ma anche economica: il Senior Dialogue (2005) e lo Strategic Economic Dialogue (2006-08), confluiti nello Strategic and Economic Dialogue (2009) con l’elezione di Barack Obama. In questo lento processo di avvicinamento, gli obiettivi generali per la Prc sono stati la costruzione di un buon rapporto con la più influente potenza mondiale e l’ottenimento di un consenso utile al progresso economico attraverso vari accordi di scambio e, soprattutto, con il simbolico ingresso nel Wto (2001). Gli Stati Uniti hanno cercato di equilibrare in proprio favore la situazione asiatica e, in particolare, di ricondurre alle norme internazionali un attore come la Cina, che ancora propugnava il criterio multipolare della ‘terza via’. Durante il summit del gennaio 2011 sui problemi che hanno seguito il referendum per l’indipendenza del Sud Sudan che coinvolgeva Cina e Usa, si è avuta evidenza della complementarietà fra le agenzie dei rispettivi paesi incaricate dell’analisi e dell’implementazione delle decisioni politiche. Entrambe le burocrazie hanno quindi accettato di organizzarsi secondo un meccanismo articolato che ha consentito la mutua comprensione e una risoluzione morbida degli iniziali contrasti diplomatici. Durante lo stesso summit, Barack Obama e l’allora presidente Hu Jintao hanno potuto ridisegnare i rapporti sino-americani: la programmazione di regolari incontri fra rappresentanti dei due paesi sia per motivazioni diplomatiche, sia per discutere di Africa, America Latina, Asia centrale e meridionale e zona asiatico-pacifica; speciali incontri di dialogo relativi al tema della sicurezza internazionale e dell’anti-terrorismo; uno Strategic Security Dialogue che comprende un’ampia varietà di temi che potrebbero rivelarsi preziosi in versanti meno definiti, specie per le dispute nel Mar Cinese Meridionale. Nel settembre 2015 il presidente Xi Jinping ha compiuto la sua prima visita di stato negli Usa, un viaggio che ha reso evidenti i temi in discussione fra i due paesi: cybersecurity, dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, accordi di libero scambio e contrasto ai cambiamenti climatici. Proprio su questo tema si registra nel 2015 una presa di posizione congiunta dei due paesi a favore della riduzione delle emissioni che fa intravedere un possibile ruolo di leadership globale duale nel prossimo futuro. Tuttavia, gli interessi economici confliggenti mantengono la relazione fra Cina e Usa in un ambiguo stato di ‘amore e odio’ e saranno uno dei tratti principali dello scenario internazionale dei prossimi anni.
A fine settembre 2014 migliaia di persone sono scese in strada a Hong Kong per protestare contro le modalità di scelta per il prossimo capo del governo della regione amministrativa speciale – chiamato Chief Executive ¬ definite da Pechino con una decisione assunta il 30 agosto. Studenti e militanti pro-democrazia hanno occupato il distretto centrale della città per due settimane, chiedendo le dimissioni dell’attuale Chief Executive, CY Leung, e la revisione in senso democratico del sistema elettorale. I manifestanti avevano espresso già ai primi di settembre la volontà di paralizzare il cuore finanziario di Hong Kong, nel quale si trovano gli uffici delle banche internazionali e delle società multinazionali di tutto il mondo, protestando contro quella che ritengono una violazione dei patti concordati in occasione del passaggio di consegne tra Regno Unito e Cina nel 1997. Alle motivazioni puramente politiche si sono aggiunte contestazioni più economiche, contro le crescenti disuguaglianze sociali e l’esorbitante crescita dei costi per i servizi di base. Ribattezzata ‘Umbrella Revolution’ dai media per via dell’uso degli ombrelli per proteggersi dal caldo e dai gas lacrimogeni, la vicenda ha assunto rilevanza internazionale sia per l’importanza che l’hub finanziario ormai riveste e per il quale è fondamentale assicurare stabilità economica e politica, sia perché questa protesta dà voce al malessere generalizzato dei giovani di Hong Kong, che vedono nell’autoritarismo del governo di Pechino il nemico a cui contrapporre un sistema democratico come soluzione di tutti i problemi.
Nel giugno 2015 il LegCo – il parlamento locale – ha respinto la modifica elettorale proposta del governo cinese che prevedeva elezione a suffragio universale del Chief Executive previa selezione dei candidati da parte di una commissione elettorale ristretta. L’opposizione è così riuscita a respingere una proposta che veniva intesa come parziale, ma ora la riforma elettorale sembra congelata almeno fino alle prossime elezioni del 2017.
Nel biennio 2014-2015 la Cina ha avviato due importanti iniziative volte a rivedere la governance finanziaria globale. Nel luglio 2014 i cosiddetti paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) hanno siglato l’accordo di costituzione della Nuova Banca di Sviluppo (New Development Bank, Ndb), una banca internazionale multilaterale con un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari. Inoltre, nel marzo 2015, si sono completate le richieste di adesione all’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), una banca regionale asiatica che avrà sede a Pechino e che viene guidata ad interim dal cinese Jin Liqun. Il capitale iniziale dell’Aiib è di 100 miliardi di dollari e vi hanno aderito come prospective members 52 paesi asiatici e non. La nascita della Banca è stato un successo diplomatico per la Cina che è riuscita a coinvolgere tutte le maggiori economie mondiali tranne Usa, Giappone e Canada, riuscendo così a superare, almeno in questo caso, il tradizionale rapporto fra Stati Uniti e Regno Unito, il primo paese europeo ad aderirvi. Sebbene i cinesi abbiano più volte ribadito che tali iniziative vogliono presentarsi come complementari all’attuale sistema di governance finanziaria, Ndb e Aiib si configurano come diretti concorrenti di World Bank e International Monetary Fund sul piano globale e di Asian Development Bank (a guida giapponese) sul piano regionale.
Le relazioni tra la regione autonoma uigura dello Xinjiang, popolata al 60% da minoranze etniche di origini turche, e la Repubblica Popolare Cinese sono state sempre piuttosto turbolente, segnate negli ultimi decenni da diversi ‘incidenti’, manifestazioni, colluttazioni e veri e propri attacchi terroristici. Nonostante il movimento terroristico separatista non goda dell’appoggio della maggioranza della popolazione, il tentativo di sinizzare la popolazione uigura e la presenza di forti differenze socioeconomiche tra han e uiguri hanno generato una tensione etnica diffusa. Da una parte, il governo cinese sta attuando politiche che minano l’identità culturale uigura – per esempio sostituendo il mandarino all’uiguro come unica lingua per l’istruzione - dall’altra non promuove a sufficienza opportunità educative e lavorative per la popolazione uigura, che in media guadagna meno degli han residenti in Xinjiang. Forse anche per la posizione strategica che lo Xinjiang ricopre a livello nazionale e internazionale, il governo centrale ha sempre avuto un atteggiamento duro con gli uiguri, condannando severamente ogni atto che possa anche lontanamente intaccare l’unità nazionale: significativa è la condanna all’ergastolo per ‘separatismo’ dell’accademico Ilham Tothi, sostenitore di una maggiore autonomia culturale dello Xinjiang. Molti analisti occidentali hanno notato la differenza con cui il governo centrale tratta gli uiguri rispetto all’altra minoranza musulmana in Cina, gli hui, che sono invece pienamente integrati nella cultura e nella vita cinese.
Approfondimento
Il presidente cinese Xi Jinping è impegnato in una campagna di transizione politica ed economica che sarà cruciale per il futuro della Prc. Dopo trent’anni di crescita a doppia cifra, il modello di sviluppo cinese ha cominciato a mostrare segni di rallentamento. Le autorità di Pechino hanno definito questa nuova fase con tassi di crescita del pil inferiori al passato la ‘nuova normalità’ (New normal) dell’economia cinese. La gestione e l’adattamento a tale modello di sviluppo è al centro delle riforme economiche proposte soprattutto in occasione del Terzo Plenum del Comitato Centrale del Cpc che si è tenuto nell’ottobre 2013. La trasformazione dell’economia cinese prevede la transizione da un’economia basata su investimenti ed esportazioni ad una più orientata ai consumi. Tuttavia, come dimostrato dalle fluttuazioni dei listini di Shanghai e Shenzhen nell’estate 2015, tale transizione è un processo lungo che dovrà inevitabilmente passare per numerosi passi falsi.
Oltre alla promozione di una produzione industriale di beni a maggior valore aggiunto e meno legate a settori ad alta intensità di lavoro a basso costo, la riforma avviata da Xi Jinping deve necessariamente confrontarsi con il rapporto fra Stato e mercato. Le politiche di Deng Xiaoping avviate a partire dalla fine degli anni Settanta hanno gradualmente introdotto il libero mercato nell’economia cinese, ma a tutt’oggi le imprese di Stato (State Owned Enterprises, Soe) continuano ad avere un ruolo determinante, soprattutto nelle aree e nei settori legati all’industria pesante. La riforma delle Soe è stata più volte annunciata, senza però portare ancora degli effetti significativi. In ballo ci sono rendite politiche ed economiche in capo alla dirigenza del Cpc e all’interno dell’amministrazione che frenano le prospettive di cambiamento.
È in un tale contesto che si inserisce la leadership di Xi Jinping. Il segretario del Cpc, in carica dal 2012, è salito al potere come uomo del compromesso in un ticket duale con Li Keqiang - il premier cinese – che però è stato rapidamente oscurato dall’attivismo di Xi. L’azione del segretario è stata quella di accentrare su di sé il potere decisionale grazie alla creazione di una ‘super-commissione’ dedicata alle riforme, ponendo così fine a quel sistema di condivisione del potere con gli altri membri del Comitato permanente del Politiburo sperimentato da Hu Jintao che aveva portato a una riduzione dell’influenza del potere centrale e alla creazione di ‘feudi personali’. Il caso più eclatante è quello dello ‘zar della sicurezza’ Zhou Yongkang - primo ex-membro del Politburo ad essere condannato dai tempi della Banda dei Quattro - che aveva creato una struttura personale con ramificazioni nella sicurezza e nel settore petrolifero. Zhou è considerato la preda maggiore (‘tigre’) della campagna anti-corruzione che ha contraddistinto l’esperienza di governo di Xi e che è destinata a continuare di pari passo con l’implementazione delle riforme economiche. Secondo alcuni analisti la campagna può essere letta in chiave di lotta interna fra fazioni del partito, tant’è vero che coloro che hanno legami col Presidente ne sono risultati immuni. In realtà, la lotta alla corruzione è più probabilmente associata ad un contrasto fra potere centrale e periferico, proprio nell’ottica di implementare le riforme economiche che si sono rese necessarie con il New Normal. Anche le riforme dello stato di diritto presentate in occasione del Quarto Plenum nell’ottobre 2014 possono essere inserite nel tentativo di ridurre la discrezionalità del potere locale sia nei confronti dei cittadini, sia nell’ostacolare le decisioni del centro.
Dunque, gli elementi principali dell’esperienza politica di Xi Jinping come leader della Prc sono individuabili nella volontà di accentrare il potere e di avviare una trasformazione economica di portata storica resasi necessaria dalle circostanze in cui si inserisce il New Normal. Inoltre, Xi Jinping ha dato un ‘volto’ alla sua iniziativa politica coltivando il concetto di ‘Sogno Cinese’, un’idea che combina il nazionalismo dei richiami alla grandezza cinese precedente le guerre dell’oppio e la successiva condizione semi-coloniale della Cina con la prospettiva di una prosperità futura per l’intera nazione. Il Sogno Cinese, infatti, si pone obiettivi di medio e lungo periodo – i cosiddetti ‘2 cento’ – entro i quali acquisire in più fasi una condizione di media e piena potenza. Il riferimento è al centenario della nascita del Cpc che cadrà nel 2021 e a quello della fondazione della Prc nel 2049. Per la fine del decennio l’obiettivo è di diventare una società ‘moderatamente prosperosa’ grazie a risultati attesi quali il raddoppio del pil pro capite del 2010 che si attestava su valori prossimi ai 10.000 dollari. Il proposito per la metà del secolo è invece la piena modernizzazione, diventando così un una nazione completamente sviluppata.
Xi Jinping sta perseguendo tali obiettivi con il sostegno di una politica estera più assertiva, di cui l’iniziativa della Nuova Via della Seta è la manifestazione più evidente. La Cina, infatti, ha bisogno di rafforzare i rapporti con l’estero per garantirsi soprattutto materie prime e risorse energetiche, ma anche per assicurare sbocchi produttivi e commerciali alle proprie imprese che faticano a trovare nell’auspicato, ma ancora insufficiente, aumento dei consumi interni un’alternativa all’avvento del New Normal.
di Filippo Fasulo