Clemente IX
vita
di Luciano Osbat
Giulio Rospigliosi nacque a Pistoia il 27 gennaio 1600 da Girolamo e Maria Caterina Rospigliosi (Debitori e creditori di Girolamo di Milanese Rospigliosi e del figliuol suo Girolamo 1595-1617, in Pistoia, Archivio Rospigliosi-Pallavicini, ms. A/494, c. 412; e in A.S.V., Arch. Rospigliosi, 1388, fasc. 10).
I Rospigliosi erano originari di Milano da dove s'erano mossi nel sec. XII - secondo alcuni biografi per sfuggire alle persecuzioni di Federico Barbarossa - per stabilirsi in Toscana a Lamporecchio, tra Pistoia ed Empoli, alle pendici del monte Albano sul versante prospiciente la val di Nievole, dove acquistarono poderi e boschi e costruirono una casa di campagna. L'attività agricola fu ben presto affiancata dall'esercizio del commercio e dell'industria (lana, panni, spezie, appalti di tasse comunali), iniziato quando i Rospigliosi diventarono proprietari di abitazioni e laboratori a Pistoia, nel primo quarto del sec. XIV. E furono proprio queste ultime arti a dare loro fama, ricchezze e prestigio: ebbero corrispondenti in molti centri italiani e stranieri, furono investiti di cariche pubbliche a Pistoia, ottennero uffici di importanza rilevante nel comando delle armi pontificie con papa Martino V e poi con Paolo III, dai primi anni del XIII secolo furono insigniti di titoli nobiliari e più tardi accolti tra i Cavalieri dell'Ordine di Malta. Ma ancora fino a tutta la prima metà del sec. XVIII la famiglia continuò a produrre ed a commerciare la lana, a lavorare la terra, a trarre da tali attività la ricchezza.
Giulio fu battezzato il 28 gennaio 1600, nella chiesa di S. Ilario (Pistoia, Archivio della Curia vescovile, Q. 12, Libro dei nati e battezzati dal 1595 al 1600), a pochi passi da quella casa ov'era nato, acquistata dal padre nel 1571 e più tardi entrata nelle proprietà immobiliari dell'Opera di S. Iacopo. Alcuni anni dopo la famiglia si trasferì nel palazzo Ammannati, in piazza S. Spirito, già di un altro ramo dei Rospigliosi.
Dopo aver fatto i primi studi a Pistoia e ricevuto la tonsura e i due primi ordini minori (1609-1610) da Alessandro del Caccia, vescovo di quella città, il 16 marzo 1614 il Rospigliosi partì per Roma. Fu affidato ai Padri gesuiti del Seminario romano, per la sua prima formazione letteraria (con Famiano Strada, storico e scrittore di oratoria) e filosofica. Nel 1618, o l'anno successivo, si portò a Pisa per completare gli studi di filosofia e per quelli di teologia e diritto. Nel 1623 ebbe l'incarico di lettore straordinario di filosofia; l'anno successivo si laureò in "filosofia sacra" e in teologia. Tra i suoi maestri pisani, i documenti di famiglia e i suoi biografi ricordano in particolare i giuristi Nicola Ansaldo e Stefano de Castro, Francesco Acarisio e Turno Pinoccio che, visti gli interessi ben presto emersi nel giovane per le lettere, non dovettero lasciare un'orma profonda nella sua formazione. Più importante fu l'insegnamento di Paganino Gaudenzio per le lettere latine e greche. Conclusa l'esperienza pisana, il Rospigliosi ritornò a Roma per intraprendere la carriera ecclesiastica.
Le lettere del Rospigliosi ai familiari sono una testimonianza di eccezionale rilievo per conoscere l'itinerario seguito da un giovane esponente di una famiglia della nobiltà comunale e popolana per affermarsi nel composito e difficile mondo romano dominato dalla presenza della Curia pontificia e dall'amplissimo ruolo che questa svolgeva per i destini finanziari di così gran numero di famiglie che vi si rivolgevano con l'obiettivo di acquistare maggior potenza o forse di far fortuna. I modelli più evidenti che i Rospigliosi potevano tener presenti erano numerosi: in primo luogo i Medici e poi gli Aldobrandini, i Borghese, i Ludovisi e da ultimo i potenti Barberini avevano allargato e talvolta costruito la loro fortuna sulle carriere curiali dei loro esponenti che erano state coronate dalla tiara pontificia. Altre esperienze meno fortunate, ma pur sempre positive, avevano caratterizzato la storia di famiglie che avevano saputo far fruttare le rendite di alcuni uffici della Curia per consolidare i loro patrimoni.
La protezione e i buoni uffici di un personaggio e di una famiglia già potente erano stati il punto di partenza delle carriere in Curia: i Rospigliosi si affidarono ai Barberini e collocarono il giovane Giulio alla corte di Antonio Barberini, detto il cardinale di S. Onofrio dal titolo ricevuto al momento della nomina nel Collegio cardinalizio nel 1624. È probabile che la decisione di mandare il giovane chierico a Roma per tentare la carriera di Curia - fatto del tutto nuovo nella tradizione della famiglia - sia dipesa da suggerimenti ricevuti in tal senso dalla corte dei Medici. Ciò sembrerebbe plausibile tenendo conto che i Rospigliosi avevano già avuto e avranno successivamente loro esponenti nel seguito dei granduchi e che esisteva già da tempo una favorevole considerazione a corte di questi abili mercanti pistoiesi. Ben presto però il Rospigliosi seppe conquistarsi la fiducia dell'intera famiglia Barberini e la simpatia del pontefice che ne apprezzò la sensibilità artistica e lesse con interesse i suoi primi componimenti poetici. I lunghi anni passati alla corte dei Barberini (dal 1624 al 1644) furono impiegati nel lavoro degli uffici di Curia che via via fu chiamato ad occupare, nell'approfondimento della sua vocazione letteraria e nella partecipazione sempre più impegnata alla vita culturale e mondana di Roma, infine in una attenta e continua considerazione delle necessità della sua famiglia che valutò sempre più importanti e prioritarie delle sue vicende personali, almeno sino alla sua nomina al cardinalato.
Alla fine del 1630 il cardinale di S. Onofrio gli fece sapere che lo stava appoggiando per fargli ottenere la Segreteria della Congregazione dei Riti; era "uno impiego da farsi conoscere e tirarsi avanti" ma soprattutto, per il Rospigliosi, significava l'ingresso in prelatura (B.A.V., Vat. lat. 13362, cc. 1-2v).
Su questo passo, gravoso per l'investimento di denaro che avrebbe richiesto, egli richiamò l'attenzione della madre e di suo fratello Camillo, al quale aveva affidato l'amministrazione del patrimonio familiare: riteneva opportuno "a mettermi in Prelatura perché altrimenti veggo che manifestamente si getta via il tempo e la spesa; e credo che metterà per conto di spendere tanto più, perché almeno si potrà havere qualche speranza di tirarsi avanti". Però, dopo avere dettagliatamente esposto le spese necessarie per organizzare una corte di otto o dieci persone, per affittare una casa dignitosa, per gli arredi, per la mensa (arrivava a prevedere spese per 2.000 scudi annui), rimetteva ai suoi parenti ogni decisione: "E però ho caro, che voi con gli altri consideriate bene il tutto, perché siamo a tempo a fare e non fare, non essendomi io impegnato con alcuno. E massime quando i Padroni non me ne dessero occasione, io potrei benissimo continuare senza fare novità. E insomma ogni risoluzione dependerebbe dal nostro arbitrio" (ibid., c. 4). I suoi familiari videro i vantaggi dell'ingresso in quella carriera e così lo aiutarono.
Il Rospigliosi fu nominato alla Segreteria dei Riti nel 1631; nel 1632 fu chiamato nel Capitolo di S. Maria Maggiore da Francesco Barberini, che dal 1629 ne era divenuto l'arciprete, e nello stesso anno entrò tra i referendari delle due Segnature. Nel 1633 gli stessi familiari lo rimproverarono però per aver rifiutato il governo di Fermo e di Loreto, ma il Rospigliosi ebbe presto modo di mostrare che la migliore politica era quella di saper attendere fiduciosi ciò che la provvidenza e l'intervento dei suoi protettori avrebbero prodotto. Nell'estate del 1635 infatti poteva comunicare di essere stato nominato segretario dei Brevi ai principi, uno dei più considerevoli impieghi che potesse ottenere un prelato a Roma per la dimestichezza che portava con il papa e per le prospettive che apriva negli sviluppi della carriera. Rospigliosi poté acquistare quell'ufficio, venale, grazie all'appoggio dei Barberini, i quali vedevano in lui non solo il fedele servitore ma anche l'intelligente realizzatore delle direttive del gruppo dirigente nella Curia di Urbano VIII. Quel posto di responsabilità era già stato di Lorenzo Magalotti e di Giovanni Ciampoli.
Nel 1641 ebbe l'incarico di consultore canonista nella Penitenzieria apostolica, nel 1642 fu vicario del Capitolo di S. Maria Maggiore, nel 1643 fu sigillatore della Penitenzieria subentrando nel ruolo ad Emilio Altieri, il futuro Clemente X (ivi, Vat. lat. 13364, c. 276). Nell'estate dello stesso anno circolarono le prime voci a riguardo di una sua nomina ad una Nunziatura e la nomina giunse di fatto nella primavera del 1644: la sede era Madrid.
È questo uno dei momenti decisivi nella vita del Rospigliosi; nell'agosto 1643, scrivendo allo zio e al fratello a proposito della ventilata promozione, si era mostrato scettico: "Poiché oltre al non havere io talento né merito per essere adoprato in un posto di quella sorte, è certo che la congiuntura de' tempi non mi è punto favorevole, sì che Nostro Signore sia per applicar l'animo ad avvantaggiare le mie conditioni [...] un presupposto a parer mio quasi impossibile" (ibid., 29 agosto 1643, c. 303r-v); "per questo e per molte altre ragioni tengo questa per una cosa tanto lontana, come se si trattasse che io fussi per andare nell'Indie" (ibid., cc. 299v-300). Le dure controversie che avevano caratterizzato i rapporti tra Roma e Madrid per tutto il decennio precedente rendevano la Nunziatura nella capitale spagnola un impiego adatto ad un abile diplomatico o ad un carattere deciso, a seconda della piega che potevano prendere gli eventi. Non era un caso che i nunzi che lo avevano preceduto fossero stati uomini senza dubbio di notevole rilevanza (il Facchinetti e il Panciroli), tanto da meritare entrambi la dignità cardinalizia il 13 luglio 1643. E il Rospigliosi non credeva di scorgere in sé le caratteristiche né dell'uno né dell'altro. Inoltre l'accenno alla sfavorevole "congiuntura de' tempi" nella lettera citata fa pensare che egli temesse d'essere stato dimenticato dai suoi "padroni": le ultime nomine cardinalizie (1641 e 1643) avevano premiato alcuni parenti e stretti collaboratori della casa - come Francesco Maria Macchiavelli, Francesco Adriano Ceva, Fausto Poli, Antonio Giori - e persone inoltre che avevano avuto lunga consuetudine di rapporti di lavoro con lui e che occupavano posizioni non più rilevanti della sua nella Curia. Con tutto ciò il Rospigliosi, da quella che a detta dei più sembrava essere l'ultima promozione fatta dal papa, considerate le sue precarie condizioni di salute, si era visto lasciato da parte e compensato solo con un incarico minore (sigillatore della Penitenzieria) che dava sì poco lavoro e non era amovibile ma dava anche poco frutto.
Nelle lettere ai familiari, in questi anni, sono sempre numerosi gli accenni agli intensi rapporti che coltivava con diversi personaggi ecclesiastici ed ai servizi che prestava loro nella prospettiva di migliorare ulteriormente la propria posizione: tutta la sua parentela e le comuni risorse sembrano essere mobilitate a perseguire tale obiettivo. Le lettere divengono una lunga elencazione di prestazioni eseguite o da compiere, sia che si tratti degli omaggi di frutti della natura che da Lamporecchio venivano inviati a Roma in continuazione per lo stesso pontefice, gli altri Barberini, alcuni tra i cardinali di Curia, sia invece che si riferisca alle commissioni eseguite o ai lavori fatti per questo o quel prelato, questa o quella famiglia nobile su raccomandazione di quei personaggi illustri. Non vi è grande entusiasmo né intensa partecipazione nel Rospigliosi quando parla di queste cose: sembra piuttosto che voglia giustificarsi presso la famiglia dimostrando di compiere tutti quei passi che sarebbe logico prevedere debbano portare ad una congrua rimunerazione dei capitali investiti. Ma non vi è nemmeno fastidio: egli è consapevole del proprio ruolo di cortigiano, onesto, solerte, capace, fidato, ma cortigiano. Una lettera dell'aprile 1641, sempre diretta a Camillo e dedicata all'educazione di Girolamo (primogenito di Camillo, che aveva fatto venire a Roma), dice chiaramente di queste sue vedute: "Girolamo ha assai giuditio, e buon talento; ma però ha più del novitio, che del cortigiano, et è avverso con certa freddura, e con qualche trascuraggine, come S.V. può vedere dal suo non saper scrivere due righe d'una lettera; e se stesse cento anni in seminario, non si toglierà mai via da quella pigritia, né imparerà a saper dettare quattro parole [...]. Per quello che concerne l'imparare in Seminario si può fare profitto nella Dottrina ma fuori di questo è più tosto un disimparare certa gentilezza nel vivere, e certo spirito nel trattare" (ivi, Vat. lat. 13263, cc. 230-31). Sono proprio quella "certa gentilezza nel vivere" e quel "certo spirito nel trattare" che stanno alla base del suo modello di un uomo di Curia, scrupoloso nel lavoro ma delicato nell'animo, immerso nel clima culturale e salottiero della Roma dei Barberini, già noto non solo nella cerchia dei "padroni" e dei loro amici ma in tutta Roma e fuori per le composizioni poetiche e per i primi riusciti tentativi di libretti per drammi musicali. Quando la notizia della sua promozione alla Nunziatura diventa ufficiale, le lettere dirette a Pistoia sono lunghe e frequenti e trattano di due argomenti: le somme cospicue necessarie a finanziare il trasferimento suo e della sua corte (oltre venti persone si muoveranno con lui da Roma ed altre ne dovrà assumere a Madrid), l'acquisto del mobilio, degli arredi, della biancheria, delle carrozze e dei cavalli (queste ultime incombenze saranno eseguite direttamente in Spagna), gli approvvigionamenti per la mensa almeno per il primo anno; il secondo argomento è la descrizione minuziosa di tutte le suppellettili, gli arredi, la biancheria che dovrà essere acquistata, che non si ferma all'indicazione della quantità ma scende a discutere sulla qualità dei tessuti, i colori, le decorazioni, gli accostamenti tra la tappezzeria della nuova dimora e la biancheria e i mobili delle stanze. La somma di cui prevede d'aver bisogno è non meno di 10.000 scudi (che alla resa dei conti fatta alla fine del primo biennio a Madrid saranno diventati il doppio) e conta in cinque o sei anni di restituire quanto gli sarà stato anticipato. Il Rospigliosi, facendo questi calcoli, è abbastanza prudente e tiene conto di quanto sia mutata la rendita di quell'ufficio nell'ultimo periodo, soprattutto dopo la sollevazione della Catalogna e la rivolta del Portogallo.
Il 25 marzo 1644, in apertura di lettera, la comunicazione di un evento collegato alla sua nuova funzione: "Piacendo a Dio Benedetto celebrerò dimattina la mia prima Messa nella quale haverò particolare memoria della Signora Madre e di tutti gli altri di casa; per soddisfare almeno in questa parte alle mie obbligazioni la dirò nella cappella di S.ta Maria Maggiore" (ivi, Vat. lat. 13364, c. 428). Il 29 marzo 1644 fu consacrato vescovo e gli fu assegnata la sede titolare di Tarso. Lasciò Roma alla fine di aprile, si imbarcò a Civitavecchia per raggiungere Genova. Qui si unì a lui un altro figlio di Camillo, Giacomo, che avrebbe fatto parte del suo seguito insieme con Girolamo; imbarcatosi nel porto ligure, giunse a Denia il 1° di giugno, a Valencia la settimana successiva, il 2 luglio fu presentato al re a Fraga ai confini con la Catalogna, intorno al 20 luglio raggiunse Madrid, da dove il 24 luglio del 1644 iniziò a scrivere sia ai suoi familiari sia alla Segreteria di Stato. Il 29 luglio, a Roma, spirava Urbano VIII e per la Curia romana e i Barberini iniziava un periodo di rivolgimenti profondi, che dovevano produrre conseguenze anche per molti dei loro amici e protetti.
I rapporti tra Roma e Madrid, all'interno di un quadro caratterizzato dalle rivendicazioni della corte spagnola per un controllo sempre più ampio sulle istituzioni ecclesiastiche, subivano il riflesso degli sviluppi di avvenimenti economici e politici di grande rilievo che toccavano la Spagna: la grave crisi commerciale, finanziaria e demografica, particolarmente acuta nel ventennio centrale del secolo; i tentativi insurrezionali in Catalogna e in Portogallo, il progressivo indebolirsi dell'autorità centrale accelerato da complotti e da ostilità prodotti dall'aristocrazia non castigliana; infine la guerra dei Trent'anni. A proposito di quest'ultimo avvenimento, Urbano VIII aveva fatto il possibile per mantenersi neutrale nel conflitto tra le potenze cattoliche, provocando così le accuse della Spagna di essere partigiano della Francia. Ora però il papa lavorava attivamente per procurare la pace e la sua opera, pur se non agevolata, non era nemmeno pregiudizialmente ostacolata. La rivolta della Catalogna, appoggiata direttamente dalla Francia, aveva trovato il pontefice pronto ad intervenire per riportare la pace, sconsigliando Parigi dal proseguire nella politica espansionistica ai danni della Spagna. Quella del Portogallo, nonostante le proteste di sottomissione e di obbedienza del sovrano pretendente Giovanni IV, lo trovò prudente di fronte alle richieste di quel Regno di un riconoscimento ufficiale, e deciso a negare alla Spagna la sconfessione degli artefici del sollevamento. Il 1642 era stato un anno di accese polemiche tra Francia, Portogallo e Spagna a Roma e si era concluso con l'irrigidimento di tutte le parti nei confronti del pontefice. Il 1643 era stato ricco di avvenimenti importanti per tutti: a Madrid era finita l'epoca di Gaspar de Guzmán, conte-duca di Olivares; la Francia, dopo aver perso Richelieu, era rimasta senza sovrano per la morte di Luigi XIII. Sembrava aprirsi la prospettiva di un allentamento della crisi internazionale, anche per la presenza a Parigi di un Consiglio di reggenza, ma nel maggio dello stesso anno la grave sconfitta dell'esercito spagnolo a Rocroi significò la caduta di quel sistema militare che aveva sostenuto la potenza spagnola per tanto tempo e il paese, senza esercito e senza guida, non seppe trarre alcun profitto dalla crisi istituzionale in Francia. Nei rapporti con Roma l'allontanamento dell'Olivares - secondo alcuni il principale artefice della politica giurisdizionalistica - aveva portato a relazioni più cordiali pur se nessuna delle controversie ancora in piedi aveva avuto soluzione.
In questo clima comincia la missione del Rospigliosi. Il suo impegno costante è nel senso di favorire in ogni modo gli sforzi di Innocenzo X e del nuovo segretario di Stato, Giovanni Giacomo Panciroli, per il raggiungimento della pace. La corrispondenza tra Madrid e Roma è una continua testimonianza del lavoro in quella direzione e lo stesso dicono i registri delle lettere scambiate tra il Rospigliosi e Fabio Chigi, allora nunzio straordinario a Münster e poi ad Aquisgrana, e quelli con N. Guidi di Bagno, nunzio a Parigi. A Madrid accanto al Rospigliosi, a sostenere la causa della pace, vi erano gli ambasciatori di Venezia (Girolamo Giustiniani prima e Pietro Basadonna poi), interessata a chiudere il lungo conflitto in Europa per organizzare, come pensava ancora possibile, un fronte comune contro il pericolo turco nel Mediterraneo e ancor più nei Balcani. La corte spagnola non era in grado di provocare un deciso avvio delle trattative per la pace, sia perché farlo avrebbe significato dare atto alla Francia della sua superiorità in campo militare sia perché non erano del tutto svanite le speranze di consolidare prima la situazione all'interno per poter trattare su di un piano di maggiore autorevolezza. Fu così che i preliminari, iniziati nei primi mesi del 1645, si trascinarono stancamente e la pace tra Francia e Spagna sembrava sempre di più allontanarsi.
Nella primavera 1645 un incidente diplomatico turbò i rapporti tra Roma e Madrid. Nicolò Montero, agente dell'episcopato portoghese a Roma, fu assalito dalle guardie dell'ambasciatore spagnolo Juan Velasco de la Cueva, conte di Sirvela, alcuni dei suoi accompagnatori feriti, il suo maestro di casa ucciso. Si manifestava così l'intolleranza di alcuni ambienti spagnoli contro l'atteggiamento conciliante di Innocenzo X nei confronti di Giovanni IV di Portogallo che attendeva da Roma un riconoscimento ufficiale al suo diritto a sedere su quel trono.
Il Rospigliosi interpose i suoi uffici presso Filippo IV e ottenne che il Sirvela fosse richiamato in patria. Un altro intervento molto apprezzato a Roma, in particolare dai Pamphili, fu la nomina di Camillo Pamphili, cardinal nepote, ad arcidiacono del Capitolo di Toledo. Questi due avvenimenti giovarono moltissimo al Rospigliosi che fu confermato nel suo ufficio, nonostante l'ostilità di Innocenzo X per i Barberini e per le loro creature, fino al termine del secondo triennio, nel 1652.
La fiducia del pontefice e l'apprezzamento del re per la sua missione non furono sufficienti però a produrre risultati apprezzabili per un miglioramento delle relazioni tra Roma e Madrid. Ciò dipese da eventi di grande importanza che trovarono Spagna e Curia vaticana su fronti diversi e talvolta contrapposti. È il caso della rivolta di Napoli, che provocò il risentimento della corte di Madrid perché Innocenzo X non aveva accettato di schierarsi decisamente al suo fianco e l'arcivescovo Ascanio Filomarino e il nunzio in quel Regno, Emilio Altieri, addirittura avevano assunto posizioni ostili alla Spagna. È il caso del riavvicinamento di Innocenzo X alla Francia del Mazzarino per oggettiva convergenza di interessi, che provocava continue rimostranze a Madrid.
Nel settembre 1652 fu nominato il successore del Rospigliosi: era Francesco Gaetani, arcivescovo di Rodi e nipote del cardinale Pamphili. Giulio aveva discusso in numerose lettere con il fratello le modalità del suo rientro in Italia. Tornando a Roma avrebbe desiderato recuperare gli "assegnamenti" di cui godeva prima dell'incarico diplomatico. Se non ci fosse riuscito, affermava, pur di non "affaticare" più le casse familiari, era disposto addirittura a lasciare la Corte e a ritirarsi dalla carriera. La possibilità di essere destinato ad una sede vescovile, anche di grande rilievo, lo allarmava: aveva confidato molte volte al fratello di avere addirittura "repugnanza a soggetar[si] a obligo di una cura d'anime" e di stimare "che ne meno [gli] torn[asse] conto anche per quello che [avrebbe perduto] a Roma" (ivi, Vat. lat. 13365, cc. 261, 263). Nel 1652, ancora, così scriveva, sempre a Camillo: "Non posso credere che N.S. [il papa] fusse mai per astringermi a ricevere un vescovato e quando per altro si compiacesse di volermi far gratia d'una chiesa e lasciasse, come sarebbe verisimile, a mio arbitrio l'accettarla o no, stimo che nessuno mi consiglierebbe a lasciare in Roma maggior entrate senz'obligo di cura d'anime per diminuire in altra parte la rendita e crescere il debito della cura pastorale; onde per nessun conto mi pare che mi convenisse far questo cambio" (ivi, Vat. lat. 13366, cc. 407-10v). Il suo obiettivo era tornare in Curia e lì fondare il nuovo corso della sua carriera. Ai primi di gennaio 1653 il Rospigliosi lasciò Madrid, ripartendo per Roma.
Di ritorno dalla Spagna, dopo aver soggiornato in Toscana per un breve periodo, giunse a Roma all'inizio dell'estate del 1653. Tra i suoi incarichi precedenti, conservava quelli di sigillatore nella Penitenzieria e di canonico di S. Maria Maggiore che non gli assicuravano un reddito sufficiente a far fronte al tenore di vita che il suo rango ormai gli imponeva. Non vedeva possibilità di nuovi impieghi in Curia e perciò pensava seriamente di ritirarsi a vivere a Pistoia per non caricare la famiglia di altre spese quando l'aggravarsi delle condizioni di salute di Innocenzo X lo consigliò a trattenersi a Roma ancora per qualche mese. L'indomani della morte del papa, i cardinali lo nominarono governatore di Roma in sostituzione di monsignor Arimberti, chierico di Camera, messo a quel posto per volontà dei Pamphili appena sei mesi prima (era del tutto inusuale, se non straordinario, che quella carica, di nomina papale, venisse attribuita nel corso di una vacanza pontificia). Inoltre affidarono al nipote Giacomo, che lo aveva seguito a Roma facendosi apprezzare come uomo di lettere oltre che esperto canonista, l'incarico di pronunciare l'orazione De eligendo pontifice in apertura di conclave. La nomina di Fabio Chigi al pontificato (Alessandro VII), avvenuta il 7 aprile 1655, segnò una nuova svolta decisiva nella vita del Rospigliosi. Tra i primi provvedimenti presi dal papa, che lo aveva conosciuto fin dal 1629 e aveva apprezzato il lavoro da lui svolto a Madrid, fu quello di nominarlo segretario di Stato, chiamandolo ad occupare il posto che lo stesso Chigi aveva tenuto con tanto equilibrio e perizia dal 1651 al 1655.
La scelta fu salutata favorevolmente dalla gran parte del Collegio cardinalizio che nel Rospigliosi aveva avuto modo di valutare la fedeltà (i Barberini e i loro fautori), la prudenza (il partito spagnolo), l'atteggiamento favorevole (Mazzarino in particolare e il partito francese). Al fratello Camillo, che si era premurato di conoscere quali ulteriori mete questo prestigioso incarico potesse rendere possibili, il Rospigliosi ormai ricco di esperienza e come sempre attento a non creare pericolose illusioni rispondeva assicurando "Vostra Signoria che non penso in alcun modo a avanzamenti maggiori perché considero, che per molti rispetti possono essere lontanissimi, e che nelle cose della Corte non si cammina mai con certezza di quello che habbia da essere movendo bene spesso all'improvviso mille accidenti impensati. E però la vera è rimettersi alla disposizione di Dio benedetto e non far disegno alcuno sopra cose incerte come veramente non lo fo [...]" (ivi, Vat. lat. 13367, c. 90).
Se, come tutto fa pensare, il Rospigliosi si riferiva al cardinalato, "l'avanzamento" non era poi affatto lontano: il primo Concistoro destinato alla creazione di nuovi cardinali vide il Rospigliosi promosso, col titolo di S. Sisto, insieme ai nipoti del papa, Flavio Chigi e Antonio Bichi, ed al suo intimo amico, il gesuita Francesco Sforza Pallavicini (9 aprile 1657).
Camillo Rospigliosi probabilmente intendeva conoscere se, in seguito all'incarico di segretario di Stato, la famiglia poteva augurarsi uffici più prestigiosi e proficui (gli ambiti di questa funzione erano ancora non ben definiti, la sua importanza quale fonte di rendite molto limitata, il prestigio che comportava non da tutti riconosciuto) e se addirittura, seguendo il percorso del Chigi, non si poteva auspicare che il Rospigliosi giungesse al pontificato. E questi, al di là della professione di prudenza nella corrispondenza, si soffermò su quell'auspicio abbastanza a lungo se si spinse fino a sollecitare l'appoggio francese in vista di un futuro conclave (il che turbò gli ottimi rapporti con il papa), dato che già era certo di quello spagnolo.
Gli storici hanno sottolineato, nella gestione dell'alto incarico affidatogli, la sua laboriosità, la condotta incensurabile, la simpatia che sapeva conquistarsi nel difficile ambiente curiale e nella composita società romana. Il ruolo di Rospigliosi nel rielaborare la figura del segretario di Stato, processo già iniziato peraltro quando l'incarico fu ricoperto da Fabio Chigi negli ultimi anni di Innocenzo X, fu rilevante. Niccolò Sagredo, ambasciatore veneziano, nel 1661 scriveva come il papa ricevesse ogni sera Rospigliosi che gli leggeva, fermandosi "a passo a passo" la rubrica dei "negozi". Alessandro VII si soffermava sui punti che lo interessavano, ma se non intendeva rispondere taceva, e allora Rospigliosi riprendeva la lettura con l'abituale, e particolare, ritmo. Il cardinale Flavio Chigi, sempre presente, non apriva mai bocca. Nel 1664, è sempre un legato veneto che lo testimonia, Rospigliosi era anzi così efficiente e autorevole da divenire odioso al papa: sembrava destinato a succedergli e ad Alessandro VII pareva che "con occhio invidioso gli [andasse] minorando ogni giorno la vita" (Le relazioni della Corte di Roma, II, pp. 234, 269). Rospigliosi fece parte del gruppo dei più stretti collaboratori di Alessandro VII con i cardinali Sacchetti, Corrado, Borromeo, il Pallavicini e l'Oliva della Compagnia di Gesù, Virgilio Spada della Congregazione dell'Oratorio; ma più che esperto consultato, fu partecipe delle accademie letterarie che si tenevano alla presenza del papa e dei sempre più frequenti incontri con letterati, poeti, artisti, studiosi di ogni paese che caratterizzarono ancora la vita della Corte, soprattutto dopo l'arrivo a Roma di Cristina di Svezia. La morte di Alessandro VII, il 22 maggio 1667, dopo alcuni mesi di malattia, aprì un periodo di interregno assai breve che si concluse con l'elevazione del Rospigliosi al pontificato avvenuta la sera del 20 giugno.
La scelta del Rospigliosi non aveva serie alternative: erano a suo favore la Spagna e anzitutto la Francia, i cardinali di Urbano VIII guidati da Antonio Barberini e molti di coloro che lo erano divenuti successivamente, perché con tutti il Rospigliosi aveva saputo stabilire una grande cordialità di rapporti e con nessuno era giunto a drammatici confronti e rotture. Erano in primo luogo con lui i cardinali appartenenti alla fazione detta dello "squadrone volante" (alla cui guida erano i potenti curiali Decio Azzolini e Pietro Ottoboni), che volevano slegare lo Stato pontificio dal soffocante abbraccio delle grandi potenze europee; al fianco degli "squadronisti", e con un ruolo assai attivo presso la corte di Francia, era la regina Cristina di Svezia. I Medici, che avevano avuto una parte così importante nel determinare l'elevazione di Alessandro VII (senese) non solo dall'esterno ma anche dall'interno del conclave grazie alla presenza dei due cardinali Carlo e Gian Carlo, in quest'occasione non ebbero gran voce in capitolo perché i due erano morti nel 1663 e nel 1666. Dati però gli ottimi rapporti tra i Rospigliosi e i Medici e la grande cura che il neoeletto aveva posto nel mantenere viva e nello sviluppare la relazione con la famiglia granducale, è lecito concludere che lo avrebbero appoggiato in vista delle favorevoli conseguenze che potevano derivarne, mentre si sa che influirono sui conclavisti in tal senso agendo dall'esterno. La diplomazia francese ascrisse all'intervento di Luigi XIV il merito dell'elezione del Rospigliosi, quasi a voler ridurre la funzione dei cardinali riuniti in conclave ad una mera presa d'atto di decisioni che erano state assunte a Parigi. La grave tensione che aveva caratterizzato i rapporti tra Roma e Parigi negli ultimi anni del pontificato di Alessandro VII (gli incidenti a Roma tra la guardia corsa pontificia e il personale dell'ambasciata francese nel 1662, l'occupazione di Avignone e del Contado Venassino, il voto della Sorbona e del Parlamento di Parigi sugli articoli gallicani e la loro condanna nel 1665, il trattato di Pisa del 1664 che ampliava l'influenza francese in Italia, la legazione di Flavio Chigi per offrire solenne riparazione al re di Francia nello stesso anno) s'era esaurita solo con la soggezione della Sede apostolica alle direttive politiche di Luigi XIV, come si era visto in occasione della bolla Regiminis apostolici del 15 febbraio 1665, voluta dal re per ricondurre sotto il suo controllo l'intero episcopato francese lacerato per le diverse posizioni sul problema del giansenismo. In questa situazione, il Collegio dei cardinali intese, con la scelta del Rospigliosi, sperimentare la buona disposizione della corte francese nei confronti del prescelto e la vasta conoscenza dei problemi e i modi accattivanti di questo per giungere ad un compromesso nei rapporti tra le due corti meno gravoso ed umiliante per Roma ed a posizioni meno rigide nei confronti dei vescovi francesi.
Il Rospigliosi assunse il nome di Clemente IX a significare il suo impegno per la pace nella Chiesa e per quella tra le nazioni. La sua elezione fu salutata con favore dalla Curia romana e dall'intera città che, in lui, vedevano un uomo giusto ed equilibrato. La sua incerta salute (una grave malattia lo aveva colpito sul finire del 1666 e lo aveva costretto per lunghi mesi a non poter uscire di casa, cfr. B.A.V., Vat. lat. 13367, passim) non faceva prevedere però un lungo pontificato e forse proprio per questo C. non portò grandi cambiamenti nella direzione degli uffici della Curia e nella stessa Corte pontificia, ad eccezione di alcuni posti di responsabilità per la realizzazione dei suoi progetti. Gli artefici principali della sua elezione, Decio Azzolini e Pietro Ottoboni, furono, in ordine, segretario di Stato e prodatario. Emilio Altieri fu suo maestro di Camera. Nei confronti dei suoi parenti non si discostò molto dalla linea che aveva seguito sino ad allora: la sua carriera ecclesiastica era l'occasione per un investimento sicuro da parte della famiglia che però non avrebbe dovuto contare se non sulle rendite collegate agli incarichi ricoperti. La stessa cosa accadde per suo fratello e i suoi nipoti fatti venire a Roma nell'estate del 1667 (con la facoltà di rimanervi solo per la durata del pontificato!) e posti a capo di uffici certamente importanti ma non più fonte di rapidi e spettacolari arricchimenti.
Il fratello Camillo fu nominato generale dell'armata pontificia, suo figlio Tommaso fu castellano di Castel S. Angelo, l'altro figlio Vincenzo capitano generale delle galere, Giacomo - già al seguito di C. in Spagna e poi internunzio a Bruxelles - fu cardinale e collaborò nella esecuzione delle direttive papali in politica estera senza assumere l'importanza e conseguire le ricchezze che in passato avevano accompagnato la qualifica di "cardinal nepote" che lo zio gli riconobbe. Camillo, nel 1669, ricevette dal papa la donazione di tutta la sua quota dell'eredità paterna e materna. Inoltre si giovò di elargizioni che gli permisero di consolidare la sua posizione patrimoniale, acquistando nuovi immobili a Pistoia ed avviando la costruzione della villa Rospigliosi (o villa di "Spicchio" dal nome della località) presso Lamporecchio, nucleo principale della proprietà fondiaria della famiglia. Tutto ciò però non sarebbe comunque valso a fare dei Rospigliosi una delle prime famiglie della nobiltà romana se non fosse intervenuto l'imparentamento con la ricca famiglia genovese dei Pallavicini, per mezzo del matrimonio di Giambattista (figlio di Camillo), nominato dallo zio generale di Santa Romana Chiesa, con Camilla Pallavicini, nipote del cardinale Francesco Sforza Pallavicini ed erede delle signorie di Colonna e Gallicano nel Lazio. Il cardinale Lazzaro Pallavicini, già decano dei chierici della Camera apostolica ed elevato alla porpora da C., istituì una primogenitura a favore di Giambattista Rospigliosi e gli trasmise il cognome dei Pallavicini. La moderazione di C. nei confronti della sua famiglia è stata considerata come un primo deciso intervento contro il nepotismo che aveva fatto la fortuna dei Barberini, dei Pamphili e dei Chigi (per risalire solamente alle vicende appena trascorse). Una più attenta considerazione dei rendiconti dei pagamenti effettuati dal tesoriere generale e dai tesorieri segreti porterebbe a dire che il pontefice tollerò o subì l'iniziativa del fratello Camillo ma ancor di più dei nipoti Giacomo e Vincenzo, i quali, in due anni di pontificato, seppero trarre da queste fonti diverse decine di migliaia di scudi ciascuno, cioè somme che il "nepotista" Alessandro VII, nello stesso periodo, si era ben guardato dall'assegnare. La valutazione non completamente positiva della gestione delle entrate pontificie trova conferma anche quando si consideri la grande generosità dimostrata dal papa nei confronti dei cardinali e della sua famiglia di Corte, la disinvolta utilizzazione dei denari del tesoro pontificio per opere di completamento delle maggiori basiliche romane, l'assenza di un preciso indirizzo alla politica finanziaria dello Stato (che andasse oltre provvedimenti di sicura popolarità come la riduzione della tassa sul macinato), le risorse impegnate a favore dei Veneziani per la difesa di Candia.
Il breve pontificato di C. non permise che si delineasse una precisa caratteristica di governo della Chiesa e dello Stato pontificio. L'aver mantenuto in vita gran parte della struttura della Curia precedente portò come conseguenza che molti degli impegni assunti fossero la logica prosecuzione di processi avviati durante il pontificato di Alessandro VII. Rimase viva l'attenzione ai pareri dei cardinali riuniti in Congregazione, anche su questioni particolari, e quella ai suggerimenti dei suoi più vicini collaboratori. Di suo, C. portò una posizione ferma sulla lotta contro i Turchi (tema che lo aveva appassionato sin dai tempi della sua nunziatura a Madrid), una maggiore arrendevolezza invece sul problema dei giansenisti e del conflitto con l'episcopato francese. Si possono individuare come momenti significativi per il governo della Chiesa, oltre a quelli già accennati, i provvedimenti per la vita della Curia, gli interventi per le missioni, le canonizzazioni. Nel governo dello Stato, si segnalarono le decisioni per nuove opere edilizie, le nomine cardinalizie, i provvedimenti fiscali e finanziari.
Con la costituzione Iniuncti dell'11 aprile 1668, C. provvide a riorganizzare la Congregazione sullo stato dei Regolari che, da Innocenzo X, aveva avuto il compito di sovraintendere alla vita dei conventi sia per quanto riguardava la disciplina sia per la loro organizzazione economica. Il "motu proprio" In ipsis pontificatus nostris primordiis del 6 luglio 1669 venne a costituire un nuovo dicastero, la Congregazione delle Indulgenze e delle Reliquie, che aveva il compito di procedere all'esame di tutte le indulgenze concesse dalla Sede apostolica e delle reliquie conservate nei luoghi di culto, per giudicare sull'autenticità delle prime e delle seconde oltre a provvedere alle nuove richieste che provenivano a Roma da ogni parte del mondo cattolico. C. provvide a precisare i doveri e i limiti alle attività consentite ai missionari con una bolla che porta la data del 17 giugno 1669: in particolare l'accento veniva posto sui compiti di natura pastorale che dovevano essere preminenti e sul divieto ad esercitare attività e traffici commerciali eccettuato il caso di assoluta impossibilità a procurarsi altrimenti il necessario per vivere. Il divieto, seppur riferito specificatamente nella bolla ai sacerdoti in territori di missione, era da intendersi valido nei confronti di chiunque fosse entrato nell'ordine ecclesiastico. Sempre in tema di indicazioni per l'esemplarità della vita dei cristiani vanno considerate le canonizzazioni di Pietro de Alcantara e di Maria Maddalena de' Pazzi, avvenute nella primavera del 1669, e la beatificazione di Rosa da Lima, l'anno precedente.
Il nome di C. è legato essenzialmente a due avvenimenti che lo videro assumere posizioni di grande responsabilità e importanza per la vita della Chiesa: la guerra di Candia e la "pace clementina".
Creta, ultimo grande possedimento veneziano in Oriente, era stata sottoposta ad un lunghissimo assedio da parte delle armate turche che aveva portato alla quasi completa occupazione del territorio: rimaneva ancora la città di Candia ormai devastata dai continui assalti ma ancora difesa dalle soldatesche veneziane e da mercenari provenienti da ogni parte d'Europa. Il papa, approfittando di una pausa della contesa tra Francia e Spagna seguita alla guerra di Devoluzione, riuscì ad ottenere l'impegno delle due potenze, dell'Impero, di alcuni Stati tedeschi e italiani, oltre che della stessa Venezia e ad organizzare due spedizioni, nella primavera-estate 1668 e in quella del 1669. Nonostante il comando dell'impresa fosse stato assunto da Vincenzo Rospigliosi, nipote del papa, le diffidenze e le aperte ostilità all'interno del corpo di spedizione impedirono che la superiorità navale delle forze cristiane producesse consistenti risultati. La situazione militare precipitò contemporaneamente al ritiro delle truppe francesi. Il 6 settembre 1669 i Veneziani sottoscrissero la resa della guarnigione e consegnarono l'isola ai vincitori. La Sede apostolica, oltre alle estenuanti trattative diplomatiche, si era impegnata con la concessione di somme gigantesche ai Veneziani ed agli altri partecipanti alla guerra, raccolte attraverso la vendita di beni ecclesiastici, la concessione di speciali giubilei, il versamento di somme tratte direttamente dalle riserve pontificie.
In seguito alla pubblicazione da parte di Alessandro VII della Regiminis apostolici del 15 febbraio 1665 che esigeva da tutti i vescovi e gli ecclesiastici francesi la sottoscrizione di un formulario di accettazione della posizione romana sul problema del giansenismo, bolla sollecitata da Luigi XIV e da lui imposta al clero per riaffermare la funzione del re di guida e di controllore della Chiesa di Francia, il fronte degli oppositori si era ridotto ad un nucleo piccolo ma agguerrito e che trovò alleati ben presto in ambienti di corte e in altri ecclesiastici che avevano sottoscritto il formulario con molte riserve. C., che già negli anni del suo predecessore aveva avuto fama d'essere assai più conciliante sulla questione, imboccò la strada di una soluzione pacificatrice e raggiunse l'obiettivo pur se a prezzo di rinunce abbastanza ampie sul piano politico e disciplinare.
Le trattative furono condotte a Parigi dal nunzio Niccolò Bargellini e dal ministro Hugues de Lionne, valutate a Roma da una Congregazione speciale di cardinali e dallo stesso pontefice. Il vero artefice di quella che fu definita la "pace clementina" fu però il Lionne che, agendo da intermediario tra l'episcopato, la corte di Luigi XIV e il Bargellini, convinse quest'ultimo d'aver ottenuto la più completa sottomissione a Roma dei vescovi ribelli quando invece la loro obbedienza era intrisa di riserve e di proposizioni ambigue ed equivoche. Il 2 febbraio 1669 C. inviò un breve ai vescovi di Alet, Pamiers, Angers e Beauvais nel quale manifestava la benevolenza della Santa Sede nei loro confronti fondata sulla sincerità della loro obbedienza e sottomissione a Roma. Il documento, chiamato appunto "pace clementina", fu salutato in Francia con incredibile favore perché rispondeva al progetto della corte di ottenere un ammorbidimento da parte del papa che poteva significare una nuova manifestazione della grande influenza che Luigi XIV esercitava sulla Corte pontificia e sullo stesso Clemente IX. A Roma, accanto ad una certa soddisfazione degli ambienti ufficiali per la pacificazione ottenuta, si registrò ben presto che l'opinione pubblica delle corti europee aveva interpretato la "pace" come un segno di debolezza della Chiesa di fronte alle pressioni di Luigi XIV e si vigilò per cogliere tutte le occasioni che si sarebbero offerte per riaprire l'argomento.
I provvedimenti che riguardarono la vita dello Stato pontificio e la città di Roma ebbero assai minore risonanza e limitati effetti di quelli presi in politica estera e in materia ecclesiastica.
Roma vide decorato ponte S. Angelo da dieci angeli, opera del Bernini o realizzati su suoi disegni, che simboleggiavano momenti della Passione di Cristo. Nella basilica di S. Maria Maggiore iniziarono i lavori per la nuova tribuna, ancora su progetto del Bernini (completata, al tempo di Clemente X, da Carlo Rainaldi con numerose modifiche). Il Collegio cardinalizio fu in parte rinnovato dalle nomine effettuate sul finire del 1667 (Giacomo Rospigliosi, Sigismondo Chigi, Leopoldo de' Medici), nell'estate 1669 (Luis Emanuel Portocarrero ed Emmanuel de La Tour, duca d'Albret), e alla vigilia della morte (Carlo Cerri, Lazzaro Pallavicini, Francesco Nerli, Niccolò Acciaiuoli, Buonaccorso Buonaccorsi, Emilio Altieri, Giovanni Bona): le scelte furono dettate dal nepotismo (per sé e per i propri sostenitori), dai condizionamenti diplomatici e da quelli della stessa Corte pontificia, assai più che dai meriti riconosciuti o dai servizi resi alla Sede apostolica, con l'unica eccezione del Bona. Gli interventi di politica economica attuati durante il pontificato (riduzione di alcuni pesi fiscali su generi di largo uso, facilitazioni allo sviluppo del commercio dei grani, alle manifatture che lavoravano lana e seta) non incisero minimamente nella crisi sempre più grave che affliggeva lo Stato e che, nei momenti di carestia o di congiuntura internazionale negativa, diventava spesso drammatica. Né, a migliorare la condizione dei vagabondi e dei disoccupati che affollavano Roma, fu sufficiente la grande generosità che segnò ogni giornata di questo breve pontificato. Le condizioni di salute di C. si aggravarono improvvisamente nell'autunno 1669. Nella notte tra il 25 e il 26 ottobre era stato colto da un attacco apoplettico ma si era prontamente ripreso. Un secondo attacco, più grave, sopravvenne nella notte tra il 28 e il 29 novembre: il leggerissimo miglioramento dei giorni successivi consentì la nomina dei nuovi cardinali, dei responsabili di alcuni uffici di Curia, delle legazioni e di alcune sedi episcopali. Vi fu chi vide del torbido in tutto ciò: per una anonima scrittura il papa, "non potendo [per la sua] corporal indispositione continuare la signatura [...] di tante suppliche solite spedirsi per la Dataria", investiva dell'incarico Azzolini e Ottoboni, specificando, per quel che riguardava gli uffici venali, che potevano venderli "per qualsivoglia prezzo che essi o uno di essi giudicheranno convenienti" (Datariae varia, in A.S.V., Fondo Carpegna, 20, cc. 14-6); altre fonti testimoniano invece che il prodatario Pietro Ottoboni e il segretario di Stato Azzolini vennero accusati di aver forzato la volontà dell'inabile papa in questi drammatici frangenti. Poi vi fu una nuova ricaduta e il 9 dicembre 1669 il papa morì accompagnato dalle preghiere e dal rimpianto dei suoi familiari e della sua Corte. È sepolto a S. Maria Maggiore (monumento di C. Rainaldi, 1671).
opere
di Raoul Meloncelli
L'opera poetica del Rospigliosi, manifestatasi prevalentemente nella produzione di drammi per musica, assume un ruolo determinante nell'evoluzione del teatro musicale romano che, soprattutto per iniziativa dei Barberini, fu favorito dall'apertura dei primi teatri destinati alla rappresentazione di spettacoli di prosa, poesia e musica, il cui fine era quello di divertire e sbalordire il pubblico con grandiosi allestimenti scenici "per il piacere e l'edificazione dei soli principi laici ed ecclesiastici" (F. Abbiati). Il mecenatismo dei Barberini, al cui servizio il Rospigliosi era passato sin dal 1624, grazie anche all'apertura del teatro annesso al loro palazzo alle Quattro Fontane, contribuì alla definitiva affermazione del teatro musicale a Roma; il dramma per musica, dopo le esperienze di S. Landi con La morte di Orfeo e di F. Vitali con L'Aretusa, ancora legate agli ideali dei primi drammi fiorentini, andò assumendo gradualmente una nuova fisionomia determinata sia dal gusto spettacolare della scenografia barocca sia dall'esigenza di un rinnovamento delle strutture più specificatamente musicali individuabile nei tentativi - peraltro già abbozzati nella Catena d'Adone di D. Mazzocchi - di "alleviare il tedio del recitativo" con "molte altre mezz'arie sparse per l'opera" (ibid.). L'opera che più d'ogni altra corrispose ai nuovi ideali tanto da essere considerata uno dei più significativi esempi del teatro musicale romano delle origini su libretto del Rospigliosi, fu il S. Alessio (musica di S. Landi, scenografie di G.L. Bernini), che dopo una prima rappresentazione del marzo 1631 allestita da Taddeo Barberini nel suo palazzo ai Giubbonari, fu prescelta per l'inaugurazione del teatro Barberini avvenuta il 21 febbraio 1632.
Con il S. Alessio il dramma per musica, allontanandosi dal recitativo rigido dei primi modelli fiorentini, venne ad assumere un nuovo significato acquistando caratteri sempre più nettamente musicali. Lo stesso soggetto agiografico, liberandosi delle monotone e manierate movenze del dramma mitologico pastorale, offrì nuove possibilità di caratterizzazione psicologica dei personaggi che, considerati nella loro dimensione umana, si aprivano a più efficaci situazioni drammatiche; vennero peraltro sfruttati per la prima volta spunti veristici d'intonazione popolareggiante mediante l'introduzione di personaggi comici come parte integrante dell'intreccio che nella struttura generale dell'opera contribuivano a predisporre con estrema naturalezza alla successione di arie, duetti ariosi, cori e intermezzi strumentali. Questa molteplicità di aspetti, in cui il tragico si mescola al comico in un rapido susseguirsi di situazioni contrastanti, costituirà lo schema d'un genere di spettacolo che dal teatro di palazzo Barberini passerà poi sulle scene veneziane rimanendo pressoché inalterato per oltre un secolo; tali elementi innovatori furono sapientemente individuati dal Rospigliosi che, sfruttando la varietà delle situazioni drammatiche nel contrasto tra i personaggi seri, ove predomina un tono moralistico di edificazione religiosa, e i personaggi comici, generalmente secondari, considerati nella loro dimensione umana, diede libero sfogo alla sua innata "vis comica", riuscendo nelle opere più tarde a contemperare le varie correnti stilistiche del teatro contemporaneo. Tra l'altro fu il primo a rendere, mediante le espressive risorse d'un linguaggio realistico e discorsivo, le più sottili sfumature psicologiche dei personaggi che, con un'efficace utilizzazione del dialetto, acquistavano una vivacità realistica che infrangeva le strutture più convenzionali del precedente teatro musicale. I libretti del Rospigliosi, senza dubbio tra i migliori tra quelli messi in musica nell'ambito dell'opera romana del Seicento, soprattutto dopo le ancor disordinate esperienze di G. Cicognini, A. Matthei e G. Tronsarelli, contribuirono a dare un'impronta determinante a quello stile concordemente indicato come romano. Il fine ultimo della sua aspirazione poetica continua ad essere l'edificazione spirituale, e in questo senso si allineò alle finalità della librettistica teatrale secentesca influenzata dall'ambiente riformistico, ma l'intento moralistico è ottenuto mediante una sapiente utilizzazione di tutti gli elementi teatrali che vivacizzano l'azione con gli accorgimenti più suggestivi ed efficaci; muovendosi inoltre da una innata sensibilità corale, il Rospigliosi si esprime a suo agio soprattutto nella commedia, ove una piccola folla di personaggi minori, tratti dalla vita di ogni giorno e dalla commedia dell'arte, offre il destro alla caratterizzazione di situazioni vivaci, realistiche e non convenzionali che animano la vicenda e contribuiscono al rinnovamento del linguaggio teatrale anche in virtù d'una briosa parlata popolare che conferisce interesse e vivacità al recitativo.
La commistione di serio e di comico, presente del resto nei drammi spirituali e nell'oratorio del Seicento, acquista nel Rospigliosi una più consapevole e definita dimensione psicologica, colorandosi di caratteristiche spettacolari soprattutto nell'opera di genere profano, come ad esempio in Erminia sul Giordano (musica di Michelangelo Rossi, teatro Barberini, 5 febbraio 1633), in cui il Rospigliosi sacrificò parte delle sue ambizioni poetiche alle esigenze del fastoso spettacolo barocco. Dopo un ulteriore avvicinamento alla tematica d'ispirazione religiosa e di edificazione spirituale rappresentate dalla S. Theodora (presentata sempre al teatro Barberini nel 1636 forse con musica di V. Mazzocchi) e dal S. Bonifatio (fatta rappresentare dal cardinale Francesco Barberini nel palazzo della Cancelleria nel 1638 con musica di V. Mazzocchi), fu la volta del Chi soffre speri, versione ampliata di una precedente commedia variamente indicata con il titolo de Il Falcone o Fiammetta (tratta dal Decamerone di Boccaccio, V, 9ª) che dopo la prima rappresentazione avvenuta nel 1637 con musica del Mazzocchi fu ampliata nelle parti comiche da Marco Marazzoli e rappresentata nel 1639 sempre a palazzo Barberini. In quest'opera, che viene considerata il primo esempio di commedia musicale, riassumendo e contemperando le varie tendenze del teatro comico contemporaneo sulle quali vennero a sovrapporsi gli influssi delle macchinose e romanzesche strutture del teatro di Pedro Calderón de la Barca, ulteriormente approfondite dopo il soggiorno in Spagna come nunzio apostolico, il Rospigliosi sottolineò la sua vena comica approfondendo gli elementi realistici tratti dalla vita contemporanea oltre che dalla commedia dell'arte; l'opera, oltre ad essere il primo modello teatralmente efficace di commedia musicale, riveste un particolare significato storico poiché forse per la prima volta vi compare la netta distinzione tra recitativo e aria, e vi predomina un vivace e scorrevole ritmo verbale favorito dall'uso del dialetto, la cui efficacia espressiva emerge soprattutto nelle scene corali e in special modo in quelle della "Fiera di Farfa", che può essere considerata un sorprendente e realistico squarcio di vita. Nel 1642, dopo la commedia L'innocenza difesa (musica di V. Mazzocchi, carnevale 1641), il Rospigliosi tornò all'opera spettacolare e grandiosa con Il palazzo incantato d'Atlante ovvero La guerriera amante (tratta dalla Gerusalemme liberata, con musica di L. Rossi e scenografie di A. Sacchi). L'opera, rappresentata il 22 febbraio a palazzo Barberini e interpretata dal celebre sopranista Loreto Vittori, riproponeva aspetti spettacolari e romanzeschi tratti dal teatro spagnolo con un "particolare gusto per il macchinoso e il sorprendente" che, unitamente allo "stile della cantata applicata al teatro" (F. Abbiati), contribuì a determinare il carattere e lo stile dell'opera romana.
Dopo un periodo di silenzio il Rospigliosi tornò al teatro con la commedia Dal male il bene (da No siempre lo peor es cierto di Pedro Calderón de la Barca): scritta su invito del cardinale Carlo Barberini per le nozze di Maffeo Barberini con Olimpia Giustinian, con musica di A.M. Abbatini (primo e terzo atto) e M. Marazzoli (secondo atto), fu rappresentata nel 1653 per la riapertura del teatro Barberini. L'opera, con cui veniva ad essere più compiutamente e organicamente configurata la struttura dell'opera comica, presentò per la prima volta, oltre ai concertati finali, una particolare forma di recitativo secco scaturito dal parlare animato e vivace tipico del dialogo comico affidato ai personaggi secondari che fornivano alla commedia l'elemento burlesco e umoristico sottolineato da una parlata realistica d'intonazione popolare. Seguì nel 1654 un altro lavoro d'ambientazione spagnola (musica di M. Marazzoli) e nel 1656 l'esperienza sacro-moraleggiante de La vita umana ovvero Il trionfo della pietà (ultima opera rappresentata a teatro Barberini in onore di Cristina di Svezia, musica di M. Marazzoli e scenografie del Grimaldi). Nel 1668, dopo l'ascesa al soglio pontificio, C. concludeva la sua attività drammatica con La comica del cielo ovvero La Baltasara (musica di A.M. Abbatini, scenografie di G.L. Bernini, rappresentata nel palazzo Rospigliosi). L'opera, considerata il capolavoro di C. e comunque la più complessa e composita delle sue realizzazioni teatrali, riassumeva, nella fusione della commedia barberiniana con la struttura spettacolare del dramma sacro barocco, le varie esperienze dell'opera romana giunta al culmine delle sue possibilità scenico-musicali con una felicità di intuizioni che rappresentano non soltanto un punto d'arrivo nella produzione di C. ma uno dei momenti più significativi nella storia del teatro barocco. Autore dei drammi La Datira, L'Adrasto, La Sofronia e degli oratori Isacco e Gioseffo, scrisse la cantata Lamento d'Arione e varie poesie apparse in raccolte dell'epoca. I suoi libretti, ad eccezione del Chi soffre speri (Roma 1639, Stamperia della Rev. Camera apostolica), sono tutti inediti e si ricavano dalle partiture.
fonti e bibliografia
La fonte principale per la ricostruzione della sua vita (con attenzione particolare alla personalità, alla carriera ecclesiastica, ai rapporti con la famiglia) è il complesso delle Lettere famigliari, già nell'Archivio Rospigliosi-Pallavicini e ora nella B.A.V., Vat. lat. 13362-13367. Qui ancora si trovano i testi delle lettere del fratello Camillo a lui dirette (13358-13361) e dei nipoti Girolamo, Giacomo, Vincenzo, Felice dirette anche a diversi; la raccolta dei suoi testi manoscritti per il teatro (13333-13356, 13536, 13599) e delle sue composizioni poetiche insieme con i testi teatrali (Poesie sacre e profane, 13538; Poesie morali e profane, 13539). Nell'A.S.V. è confluito ciò che è rimasto dell'Archivio Rospigliosi-Pallavicini, dopo l'incendio del 1925: si compone di circa tremila pezzi, quasi tutti di età successiva al pontificato di Clemente IX. Di notevole interesse, tra quelli che lo riguardano, alcuni volumi di corrispondenza a lui diretta (per gli anni 1627-1666, Arch. Rospigliosi, 1223-1228; per gli anni 1642-1689, anche diretta a familiari, i mss. 1385-1386), altri contenenti minute di lettere durante la sua permanenza alla Segreteria dei brevi e alla Segreteria di Stato (1181-1199 e 1210-1222). Sempre all'A.S.V. la "Fede di nascita" di Giulio Rospigliosi (Arch. Rospigliosi, 1388, nr. 10) e poi il fondo Segr. Stato, Spagna, che testimonia l'attività svolta a Madrid (voll. 88-104/A) e le direttive emanate dalla Segreteria di Stato. Ancora sullo stesso periodo vi sono copie e registri di lettere alla Biblioteca Fabroniana di Pistoia (voll. 133-134; 169, 176) e altre che si riferiscono agli anni della Segreteria di Stato (voll. 136-142). Sui rapporti tra Giulio Rospigliosi e Fabio Chigi, nel Fondo Chigi della B.A.V., A.III.56/2. Le direttive di politica estera della sua gestione della Segreteria di Stato sono nelle sezioni corrispondenti alle varie Nunziature. Indicazioni preziose sugli anni del suo pontificato sono nei diari di Fulvio Sernanzio e Pietro Paolo Bona, maestri delle cerimonie (Vat. lat. 12334-12335 e 12338). In B.A.V., Barb. lat. 5316, cc. 202 ss. è riportata l'anonima scrittura satirica Il colloquio delle volpi. Discorso fatto tra li Sign. Cardinali Ottoboni ed Azzolini la sera delli Quattro [8 e 12] Decembre 1669, che risulta assai utile, malgrado le forzature, per ricostruire gli equilibri curiali e l'atmosfera degli ultimi momenti del pontificato Rospigliosi.
Il materiale archivistico citato è per larga parte non utilizzato dalla più attendibile e più ampia tra le ricostruzioni biografiche edite, quella di L.von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, XIV, 1, Roma 1961, pp. 541-627. Indicazioni molto sommarie in L. von Ranke, Storia dei papi, I, Firenze 1965, pp. 839 ss. Prima di queste, due le biografie utili pur se largamente incomplete: A. Fabroni, Clementis IX vita, in Vitae Italorum doctrina excellentium, qui Saeculis XVII et XVIII floruerunt, II, Pisa 1778, pp. 1-196; G. Beani, Clemente IX (Giulio Rospigliosi pistoiese). Notizie storiche, Prato 1893.
Il "Bullettino Storico Pistoiese" ha dedicato diversi articoli a G. Rospigliosi tra i quali si segnalano P. Turi, Clemente IX e Pistoia (68, 1966, pp. 108-18); P. Brezzi, La personalità e l'opera di Giulio Rospigliosi (69, 1967, pp. 3-17); S. Ferrali, Giulio Rospigliosi sacerdote (71, 1969, pp. 99-110). Ancora su Pistoia e i Rospigliosi cfr. J.M. Fioravanti, Memorie storiche della città di Pistoia, Lucca 1758, pp. 464-70; V. Capponi, Biografia pistoiese o notizie della vita e delle opere dei Pistoiesi illustri nelle scienze, nelle lettere, nelle arti, per azioni virtuose, per la santità della vita ec. dai tempi più antichi fino a' nostri giorni, Pistoia 1878, pp. 336-42; G. Beani, La Chiesa Pistoiese, dalla sua origine ai tempi nostri, ivi 1883, pp. 162 s.; D. Herlihy, Pistoia nel Medioevo e nel Rinascimento, Firenze 1972, pp. XX, XXXII s., 246, 272 ss.; A. Chiappelli, S. Carlo Borromeo e Pistoia. Ricordi storici, Pistoia s.d., passim.
Sui passi della sua carriera curiale v. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche nel secolo XVII. I vescovi veneti fra Roma e Venezia, Bologna 1993, ad indicem; G.V. Signorotto, Lo 'squadrone volante': i cardinali 'liberi' e la politica europea nella seconda metà del XVII secolo, in La Corte di Roma tra Cinque e Seicento. "Teatro" della politica europea, a cura di Id.-M.A. Visceglia, Roma 1998, ad indicem.
Gli anni del pontificato sono stati studiati essenzialmente per gli aspetti della politica estera che lo hanno caratterizzato; i rapporti con Luigi XIV sono stati analizzati da Ch. Gérin, Louis XIV et le Saint-Siège, II, Paris 1894, pp. 179-390; P. Sonnino, Louis XIV's View of the Papacy, Berkeley 1966; R. Darricau, Les relations de Louis XIV et du Saint-Siège d'après l'Histoire des négociations des ministres du Roi à la Cour de Rome de Jean Yves de Saint-Prez, s.n.t.; Id., Une heure mémorable dans les rapports entre la France et le Saint-Siège: le Pontificat de Clément IX, "Bullettino Storico Pistoiese", 71, 1969, pp. 73-98.
Sulla guerra contro i Turchi cfr. Ch. Gérin, Le Pape Clément IX et l'expédition des Français à Candia en 1669, Paris 1879; Ch. Terlinden, Le Pape Clément IX et la guerre de Candie (1667-1669), Louvain 1904; M. Petrocchi, La politica della S. Sede di fronte alla invasione ottomana, Napoli 1955.
Sempre interessanti le osservazioni contenute nei rapporti dei diplomatici della Repubblica di Venezia, anche per gli anni della Nunziatura spagnola e per quelli del pontificato; cfr. Relazione di Spagna di Girolamo Giustinian ambasciatore a Filippo IV dall'anno 1643 al 1649, in Le relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo, a cura di N. Barozzi-G. Berchet, ser. I, Spagna, I, Venezia 1856, pp. 123-90; Relazione di Spagna di Pietro Basadonna ambasciatore a Filippo IV dall'anno 1649 al 1653, ibid., pp. 191-226; sia il Giustinian sia il Basadonna furono inviati come ambasciatori a Roma negli anni in cui vi fu il Rospigliosi prima come segretario di Stato e poi come pontefice, cfr. Le relazioni della Corte di Roma lette al Senato dagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo, a cura di N. Barozzi-G. Berchet, ser. III, Italia, Relazioni di Roma, I-II, ivi 1877-79, passim.
La situazione finanziaria della Corte pontificia, in rapporto alle spese militari, è stata studiata da G. Lutz, Das päpstliche Heer im Jahre 1667. Apostolische Kammer und Nepotismus, römisches Militärbudget in der frühen Neuzeit, "Archivum Historiae Pontificiae", 14, 1976, pp. 169-217, e, ancora dello stesso, in una prospettiva più ampia, cfr. Zur Papstfinanz von Klemens IX. bis Alexander VIII. (1667-1691), "Römische Quartalschrift für Christliche Altertumskunde und Kirchengeschichte", 74, 1979, pp. 32-90.
Per quel che riguarda l'attività poetica del papa, v.: A. Ademollo, Il melodramma italiano e Clemente IX (Rospigliosi), "Opinione", 1879, nr. 276; Id., I teatri di Roma nel secolo decimosettimo, Roma 1880, pp. 10, 20, 65, 72 ss., 89, 98 s., 113, 115, 117, 137, 163, 237; I. Sanesi, Poesie musicali di G. Rospigliosi, Pistoia 1894; G. Canevazzi, Papa Clemente IX poeta, Modena 1900; H. Goldschmidt, Studien zur Geschichte der italienischen Oper im 17. Jahrhundert, I, Leipzig 1901, pp. 4, 37 s., 47, 59, 71, 88 ss., 96, 144; A. Solerti, Gli albori del melodramma, I, Palermo 1904, pp. 129-32; D. Alaleona, Papa Clemente IX poeta, "Bullettino della Società Filologica Romana", 7, 1905, pp. 71-84; F. Salza, Drammi inediti di G. Rospigliosi, poi Clemente IX, "Rivista Musicale Italiana", 14, 1907, pp. 473-508; U. Rolandi, La prima commedia musicale rappresentata a Roma nel 1639, "La Nuova Antologia", 16 ottobre 1927, pp. 523 ss.; Id., Il libretto per musica attraverso i tempi, Roma 1951, pp. 45, 48, 57, 214 s.; S. Reiner, Collaboration in "Chi soffre speri", "The Music Review", 22, 1961, pp. 265-82; F. Abbiati, Storia della musica, II, Milano 1967, pp. 13 s., 16, 30, 193; Storia dell'opera, I-III, Torino 1977: I, 1, pp. 186, 189, 191, 196, 198 ss.; I, 2, p. 7; III, 1, pp. 323, 442, 448; III, 2, pp. 19-23, 36, 42, 89; R. Cristofori, Le opere teatrali di G.C. Rospigliosi, "Studi Romani", 27, 1979, pp. 302-16; Enciclopedia dello Spettacolo, VIII, Roma 1961, s.v. Rospigliosi Giulio, coll. 1213 ss.; H. Kühner, G. Rospigliosi, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart, XI, Kassel 1963, coll. 927 s.; W. Kapp, Das Barberini-Theater und die Bedeutung der römischen Kultur unter Urban VIII.: Versuch einer literaturhistorischen Einordnung des Schaffens von Giulio Rospigliosi, "Literaturwissenschaftliches Jahrbuch", 26, 1985, pp. 75-100; B. Brumana, Il Tasso e l'opera nel Seicento: Una "Gerusalemme interrompue" nella Comica del ciclo di Rospigliosi-Abbatini, in Tasso, la musica, i musicisti, Firenze 1988, pp. 137-64; D. Romei, Il papa 'comico'. Sui melodrammi di Giulio Rospigliosi (Clemente IX), "Paragone", 41, 1990, nr. 482, pp. 43-62; F. Hammond, The Artistic Patronage of the Barberini and the Galileo Affair, in Music and Science in the Age of Galileo, a cura di V.A. Coelho, Boston 1992, pp. 67-89.
Per quel che riguarda le opere, va considerato come il suo primo lavoro edito di un certo impegno sia probabilmente il Discorso del sig. Giulio Rospigliosi sopra l'Elettione di Urbano VIII, in F. Bracciolini, L'elettione di Urbano VIII, Roma 1628, pp. 484-93. A Roma, nel 1625, erano apparsi i Sonetti ed epigrammi per la cappella Nolfi di Fano, in Poesie di eccellentissimi autori in lode della famosissima cappella del Sig. Guido Nolfi eretta nel duomo di Fano, e, sempre a Roma, nel 1629 la Canzone, sonetti e cantata per le nozze di Taddeo Barberini e D. Anna Colonna, in Componimenti poetici di vari Autori nelle nozze di [...]. I testi per il teatro rimasero inediti ad eccezione di Dal male il bene, ivi 1654.
V. anche Lexikon für Theologie und Kirche, II, Freiburg 1994³, s.v., col. 1224; The Dictionary of Art, XXVII, New York-London 1996, s.v., coll. 727 s.