Clemente VIII
Ippolito Aldobrandini nacque a Fano (provincia di Pesaro e Urbino) il 24 febbraio 1536 da Silvestro e Lisa Deti. Il padre, noto giureconsulto fiorentino costretto all'esilio per i suoi sentimenti antimedicei, occupava in quel momento la carica di sostituto del vicelegato nella città marchigiana; passato al servizio del duca di Ferrara, prima, e di quello di Urbino, poi, soltanto nel 1548 conseguiva, grazie alla protezione del cardinale Alessandro Farnese, la carica di avvocato concistoriale a Roma.
Della prima giovinezza di Ippolito si ignora quasi tutto: nonostante la mancanza di notizie, non v'è però motivo di dubitare che egli seguisse il padre nelle varie tappe del suo esilio. Date le non brillanti condizioni finanziarie della famiglia, sembra che fosse ancora una volta l'intervento del cardinale Farnese a permettere al giovane Aldobrandini di intraprendere gli studi universitari. Anche intorno a questo capitolo della sua vita le notizie pervenuteci sono incerte e contraddittorie: dalla documentazione presentata all'epoca della sua ammissione in Rota si ricava comunque che studiò legge a Padova, Perugia e Bologna.
L'esordio nella carriera ecclesiastica avvenne sotto Pio V, il quale, sin dai primi anni del suo pontificato, aveva dimostrato una particolare benevolenza nei confronti della famiglia Aldobrandini: dapprima avvocato concistoriale, Ippolito venne nominato auditore del camerlengo nel 1568 e, quindi, nell'ottobre 1569, auditore di Rota al posto del fratello Giovanni, a sua volta promosso al vescovato di Imola e poi al cardinalato. Oltre alla protezione del pontefice - protezione che egli aveva saputo meritarsi anche con la sua vita esemplare ed i suoi costumi irreprensibili - il trentenne auditore di Rota godette della fiducia e dell'amicizia del giovane cardinal nepote Michele Bonelli, il quale, in particolare, lo volle con sé, in qualità di segretario, quando, nel 1571, fu nominato legato "a latere" in Spagna e Portogallo. L'ambasciatore spagnolo, nel riferire la notizia al proprio sovrano, aggiungeva che Aldobrandini aveva fama di "letrado y moço virtuoso" e che sarebbe stato uno dei consiglieri più ascoltati del legato (Zúñiga a Filippo II: Roma, 3 luglio 1571, in L. Serrano, pp. 372-76). A quest'ultimo, Pio V aveva affidato una non facile missione: in Spagna, egli doveva trattare con Filippo II l'applicazione di alcune clausole del trattato di lega antiturca da poco concluso, rassicurarlo che la concessione del titolo granducale a Cosimo I di Toscana non mirava a pregiudicare i diritti e l'autorità del re Cattolico e cercare di appianare le controversie di giurisdizione nei domini spagnoli d'Italia; in Portogallo, il legato aveva l'incarico di convincere il re ad aderire alla lega e di favorire la conclusione del progetto matrimoniale tra il sovrano e Margherita di Valois. A missione iniziata, Pio V decise poi di inviare Bonelli anche in Francia allo scopo di indurre Carlo IX ad entrare nella lega e di ottenere il suo consenso alle nozze tra Margherita e Sebastiano di Portogallo. Il legato e il suo seguito partirono da Roma il 30 giugno 1571, diretti a Madrid; giunti nella capitale spagnola il 30 settembre, vi si fermarono fino al 18 novembre, per poi riprendere il viaggio verso Lisbona, ove arrivarono il 3 dicembre. Venticinque giorni più tardi, essi ripartivano alla volta di Blois, che raggiungevano il 7 febbraio 1572. Dopo un soggiorno di venti giorni alla corte francese, Bonelli prendeva la via del ritorno, per concludere il suo viaggio a Roma il 4 aprile.
Le fonti finora note non consentono di accertare con esattezza quale parte effettiva Aldobrandini svolse nei negoziati, anche se la documentazione frammentaria venuta recentemente alla luce sembra indicare che il suo ruolo a fianco del legato fu tutt'altro che marginale. La missione di Bonelli si risolse in un sostanziale fallimento, soprattutto perché né in Spagna né in Francia egli poté raggiungere gli obiettivi che gli erano stati prefissati. Per Aldobrandini, comunque, essa rappresentò un'occasione per uscire dall'angusto ambiente della Curia romana e per venire a contatto con i maggiori problemi politico-ecclesiastici del momento.
Con la morte di Pio V, avvenuta nel 1572, sfumarono le brillanti prospettive di carriera che l'appoggio papale sembrava dischiudere al trentaseienne auditore di Rota. Durante tutto il pontificato di Gregorio XIII, Aldobrandini rimase nell'ombra a svolgere le sue funzioni di giudice, senza che gli si presentasse alcuna occasione per emergere. A questo periodo risale la sua scelta definitiva per il sacerdozio: egli, che fino a quel momento aveva evidentemente ricevuto soltanto la tonsura, prese, tra il 24 novembre e il 31 dicembre 1580, gli ordini minori e maggiori e celebrò, il 1° gennaio successivo, la sua prima messa.
In seguito a quali circostanze, all'età di quarantaquattro anni, fosse giunto a questa decisione, non è noto: il fatto, però, che fosse già da tempo penitente di Filippo Neri e la circostanza che gli ordini gli fossero stati conferiti dall'arcivescovo di Firenze Alessandro de' Medici - da un prelato, cioè, anch'egli particolarmente vicino al futuro santo e alla sua cerchia - paiono legittimare la supposizione che in Aldobrandini la scelta del sacerdozio sia stata frutto di un travaglio interiore maturato sotto l'influenza spirituale di Neri. È certo, comunque, che con questo egli mantenne, da cardinale e da papa, stretti rapporti improntati a sentimenti di affetto, ma anche di venerazione, come certa è la predilezione sempre manifestata per i padri dell'Oratorio, tra i quali doveva scegliere i propri confessori, Giovanni Paolo Bordini prima, Cesare Baronio poi.
La svolta decisiva nella sua carriera ecclesiastica doveva verificarsi nel 1585, allorquando, morto Gregorio XIII, nell'aprile di quell'anno veniva innalzato al soglio pontificio, con il nome di Sisto V, il cardinale Felice Peretti. Quali fossero stati i rapporti di Aldobrandini con Peretti prima della sua elezione non si sa: certo è che egli doveva essere ben conosciuto e stimato dal nuovo papa, perché una delle prime nomine che questi compì dopo la sua incoronazione fu la designazione di Aldobrandini alla carica di datario. Con questa nomina, avvenuta il 15 maggio 1585, Sisto V mirava evidentemente a mettere in vista Aldobrandini ai fini di una successiva elevazione a maggiori dignità, come effettivamente avvenne sette mesi più tardi. Il 18 dicembre dello stesso anno, infatti, il papa gli conferiva la porpora in quella che, dopo la nomina del cardinal nepote, fu di fatto la prima promozione cardinalizia del pontificato. Così, nel giro di pochi mesi, l'oscuro auditore di Rota era giunto ai vertici della gerarchia ecclesiastica. La sua carriera risultava tanto più sorprendente quanto meno noto era il suo nome al di fuori degli ambienti della Curia romana: fino a quel momento, infatti, non si era segnalato né per singolari doti di carattere, né per particolari opere d'ingegno, né per significative esperienze acquisite in campo politico o religioso. Soltanto alla stima e alla protezione del pontefice, oltre che alla propria reputazione di uomo pio e virtuoso, egli doveva l'alta posizione raggiunta. Le favorevoli disposizioni di Sisto V nei suoi confronti venivano successivamente riconfermate allorquando, il 12 giugno 1586, Aldobrandini riceveva la nomina a sommo penitenziere. Ma la prima vera occasione per misurarsi con problemi di più ampia portata e, nello stesso tempo, per acquistare una più vasta notorietà, doveva concretarsi con la designazione come legato "a latere" in Polonia nel 1588.
Nel dicembre 1586 era morto il re di Polonia Stefano Báthory. Alla notizia della sua scomparsa numerosi principi avevano avanzato la propria candidatura al trono: la maggior parte, però, non aveva reali possibilità di successo, sicché la lotta venne presto circoscritta ai due pretendenti che potevano seriamente aspirare ad essere eletti, il principe ereditario di Svezia, Sigismondo Vasa, e l'arciduca Massimiliano d'Asburgo. Nello scontro armato tra le opposte fazioni che si sviluppò nel corso del 1587, Sigismondo ebbe la meglio sull'avversario, che fu fatto prigioniero. Sebbene propendesse per il candidato imperiale, Sisto V fu costretto a riconoscere lo stato di fatto e decise perciò di intervenire per riportare la pace nel paese mediante l'invio di un legato "a latere". Per tale incarico, il pontefice aveva inizialmente pensato al cardinale Alessandro Farnese, il quale ricopriva la carica di cardinale protettore di Polonia: ma questi aveva rifiutato perché ammalato ed aveva suggerito di affidare la missione ad Aldobrandini. Il papa aveva accolto il suggerimento, non solo perché era anch'egli convinto che quest'ultimo possedesse tutti i requisiti per portare a termine con successo la missione, ma anche perché giudicava che i vincoli che legavano Aldobrandini alla propria persona e la conseguente posizione d'indipendenza in cui si trovava rispetto alle contrapposte fazioni del Sacro Collegio lo mettessero in grado di svolgere efficacemente la sua opera di mediazione a nome della Santa Sede. È quanto il papa aveva avuto cura di sottolineare nella lettera con la quale annunciava a Filippo II la nomina del legato, ove notava come Aldobrandini fosse "persona di lettere [...], di nobiltà [...], di giuditio e di esperientia [...] et quello che più importa, non interessata, salvo nel servitio di Dio N.S." (Sisto V a Filippo II, Roma, 25 maggio 1588, in Die Nuntiatur am Kaiserhofe, p. LXXVI n. 1).
Nominato nel Concistoro segreto del 23 maggio 1588, il cardinale ricevette la croce benedetta di legato quattro giorni dopo ed il 1° giugno si mise in cammino. Strada facendo, incontrò ad Innsbruck l'arciduca Ferdinando, a Linz l'arciduca Mattia, e a Vienna l'arciduca Ernesto; dopo aver rinunciato a recarsi a Praga dall'imperatore, per non destare la diffidenza di Sigismondo, si diresse verso Cracovia dove, accolto dal re, fece il proprio ingresso solenne il 27 luglio. Le trattative si rivelarono subito difficili, anche perché l'onnipotente cancelliere Zamoyski, che intendeva sfruttare la posizione di vantaggio conseguita da Sigismondo con la vittoria, si dimostrò poco incline ai compromessi: in particolare, rifiutò di concedere la liberazione immediata di Massimiliano, liberazione che, viceversa, la corte imperiale poneva come condizione preliminare all'apertura delle trattative. Per superare il punto morto, Aldobrandini si recò a Praga, dove riuscì a convincere Rodolfo II ad accettare le richieste polacche di restituzione della città di Lubowla, occupata dalle truppe asburgiche durante il conflitto, e a consentire l'invio di una delegazione, che insieme con i commissari della parte avversa e sotto la presidenza del legato, avrebbe elaborato i termini della pace. Questa fu conclusa il 9 marzo 1589, dopo laboriose trattative. Il timore che l'accordo non ricevesse la ratifica di Rodolfo II, che tardava a pronunciarsi, costrinse quindi Aldobrandini ad interrompere il viaggio di ritorno in Austria, ad Admont presso Bruck, agli inizi di aprile, e ad inviare un membro del suo seguito a Praga. Superate anche le ultime reticenze dell'imperatore, il legato poté riprendere la strada per Roma, ove giunse il 27 maggio. Si concludeva così una missione che, nonostante le numerose difficoltà, era stata coronata da pieno successo: l'operato del cardinale fu pubblicamente elogiato da Sisto V, il quale volle testimoniargli la propria soddisfazione, conferendogli il titolo commendatizio dell'abbazia delle Tre Fontane presso Roma. L'esito brillante della missione, nonché le qualità di abile ed accorto negoziatore, di cui il cardinale aveva dato prova nel corso di essa, valsero inoltre a segnalarlo all'attenzione degli osservatori diplomatici e a farlo conoscere al di fuori degli ambienti della Corte pontificia. A partire da questo momento, egli verrà perciò annoverato tra le personalità di maggior rilievo del Collegio cardinalizio.
Dopo il suo rientro a Roma, Aldobrandini riprese la sua normale attività di cardinale di Curia: alle sue incombenze come sommo penitenziere si erano nel frattempo aggiunti gli impegni connessi con la sua appartenenza alla Congregazione per la Segnatura di Grazia - tra i membri della quale venne ascritto dalla bolla di riforma della Curia romana del 22 gennaio 1588 -, alla commissione cardinalizia incaricata di preparare la nuova edizione delle Decretali, che cominciò a riunirsi a partire dal luglio 1589. Nell'autunno di quell'anno, Sisto V prese in considerazione la possibilità di mandare Aldobrandini legato in Francia, ove la situazione si era gravemente deteriorata dopo l'assassinio di Enrico III: la sua candidatura dovette però essere scartata a seguito dell'opposizione della Spagna, che voleva per quella missione un porporato di sentimenti apertamente filospagnoli, e che ottenne i suoi scopi con la nomina del cardinale Enrico Caetani.
Il 27 agosto 1590 moriva Sisto V: dato che Aldobrandini veniva annoverato tra i membri più autorevoli del Sacro Collegio e dato che i vincoli che lo legavano alla memoria del defunto pontefice gli garantivano l'incondizionato appoggio del cardinal nepote Alessandro Peretti e dei porporati che aderivano alla sua fazione, il suo nome non poteva non figurare nella rosa dei papabili. Di fatto, però, la sua candidatura aveva poche probabilità di successo, dal momento che la Spagna - la quale controllava il partito più forte - pur non osteggiandolo apertamente, non intendeva schierarsi a suo favore: l'ambasciatore spagnolo Olivares riteneva infatti che Aldobrandini fosse segretamente appoggiato dal granduca di Toscana, i cui sentimenti filofrancesi erano a tutti noti, e ciò bastava per rendere sospetto il cardinale. Dato il peso che la Spagna esercitava sul conclave, la scelta finì con il cadere su uno dei candidati di Filippo II, il cardinale Giambattista Castagna, che prese il nome di Urbano VII. Durante il suo brevissimo pontificato - Urbano VII regnò infatti soltanto dodici giorni, tra il 15 ed il 27 settembre 1590 - Aldobrandini venne chiamato a fare parte della Congregazione cardinalizia istituita dal papa per studiare la riforma della Dataria, il cui funzionamento dava luogo da tempo a generali lamentele.
Nel conclave che ebbe luogo alla morte di papa Castagna, non essendosi verificati mutamenti nei rapporti di forza tra i partiti, la posizione dei singoli candidati si presentava identica a quella di tre settimane prima. Anche questa volta, nei giorni successivi alla chiusura del conclave, avvenuta la sera del 6 ottobre 1590, il cardinale Peretti fece ogni sforzo per procurare l'elezione di Aldobrandini, ma il tentativo fallì per gli stessi motivi della volta precedente. Dopo quella di Aldobrandini, varie altre candidature furono tentate, senza però che alcuno dei cardinali proposti ottenesse la prescritta maggioranza dei due terzi. Di fronte al pericolo che il conclave si eternizzasse, Filippo II, che tanto più temeva una lunga sede vacante quanto maggiore era il bisogno che aveva in quel momento dell'appoggio papale alla sua politica di intervento armato in Francia, decise di allargare la rosa dei cinque candidati sostenuti dalla Spagna, aggiungendovi altri tre nomi, tra cui quello di Aldobrandini. A favore della sua inclusione aveva giocato la circostanza che dalle notizie trapelate sull'andamento iniziale del conclave l'Olivares si era convinto che in realtà il granduca non appoggiava Aldobrandini, ma, al contrario, lo osteggiava, sicché era venuto a cadere l'unico motivo di diffidenza degli Spagnoli nei suoi confronti. La lettera del sovrano, datata 5 dicembre 1590, giunse però troppo tardi: lo stesso giorno in cui Filippo II la firmava, il Sacro Collegio, ponendo termine ad un conclave durato due mesi, aveva trovato l'accordo sul nome di uno dei candidati spagnoli, il cardinale Niccolò Sfondrati, che prendeva il nome di Gregorio XIV.
Sotto il nuovo pontefice la posizione di Aldobrandini non mutò granché. Confermato membro della Congregazione della Dataria, che Gregorio XIV volle mantenere in vita, fu, nell'agosto 1591, chiamato a far parte della Congregazione cardinalizia incaricata di studiare il problema dell'investitura del feudo pontificio di Ferrara: dato, infatti, che il duca Alfonso II d'Este era privo di discendenti diretti, si trattava di stabilire se l'investitura potesse essere rinnovata a favore di uno dei suoi parenti, o se il feudo dovesse tornare alla Santa Sede, secondo la disposizione generale contenuta nella bolla De non infeudandis di Pio V. La maggioranza dei cardinali era contraria ad una deroga alla bolla, e fra essi fu proprio Aldobrandini il porporato che si segnalò come il più acerrimo sostenitore della devoluzione del feudo alla Santa Sede. Dinnanzi all'opposizione della Congregazione, il papa - che pure era favorevole al rinnovo, tanto che aveva già fatto predisporre un "motu proprio" in questo senso - desistette dai suoi propositi e confermò le disposizioni della bolla di Pio V il 4 ottobre successivo.
Fu questo l'ultimo atto di governo di Gregorio XIV: morì dopo breve malattia nella notte tra il 15 ed il 16 ottobre 1591. Nel conclave che si riunì dieci giorni più tardi Aldobrandini entrava con maggiori possibilità di successo, posto che, a differenza delle due volte precedenti, ora godeva dell'appoggio della Spagna. In base alle istruzioni di Filippo II, però, la fazione spagnola doveva dargli i suoi voti soltanto dopo che fosse stata tentata senza successo l'elezione di uno dei cardinali che gli erano stati anteposti nella lista del 5 dicembre 1590. Fra questi, vi era il cardinale Giovanni Antonio Facchinetti, sul cui nome convergevano, dopo due soli giorni di conclave, i suffragi del Sacro Collegio. Ma anche il regno di Innocenzo IX, come quello dei suoi due predecessori, era destinato ad essere di breve durata. La sua morte, sopraggiunta il 30 dicembre successivo, dopo appena sessantadue giorni di pontificato, riapriva per le quarta volta in meno di un anno e mezzo il problema della successione pontificia.
Anche in questa occasione, essendo rimasti sostanzialmente immutati i rapporti di forza in seno al Sacro Collegio, era la Spagna a decidere le sorti dell'elezione: tra i candidati di Filippo II, il porporato che alla vigilia del conclave sembrava avere le maggiori probabilità di riuscita era il cardinale Giulio Antonio Santori. Questi poteva infatti contare, oltre che sull'appoggio spagnolo, anche su quello del cardinale Peretti, nonché dei partiti veneziano e fiorentino. Ciononostante l'esito del conclave rimaneva incerto, perché Santori, a motivo del suo carattere duro ed intransigente, si era creato numerosi oppositori all'interno del Sacro Collegio ed era quindi da prevedersi che alcuni porporati si sarebbero dissociati dalle rispettive fazioni di appartenenza al momento di dargli il voto. Le previsioni della vigilia furono confermate sin dal giorno successivo alla chiusura del conclave, avvenuta la sera del 10 gennaio 1592.
Allorquando, la mattina del giorno 11, il cardinale Lodovico Madruzzo, che capeggiava la fazione spagnola, tentò di procedere alla elezione di Santori per acclamazione, un gruppo di sedici cardinali guidati da Marco Sittico Altemps abbandonava la cappella Paolina, ove si celebrava l'elezione, e si ritirava nella cappella Sistina. Sebbene ad essi si fosse, poco più tardi, unito anche il cardinale Ascanio Colonna, al Santori rimaneva ancora la possibilità di essere eletto attraverso regolare scrutinio, purché tutti i cardinali rimasti nella cappella Paolina - fra i quali vi era anche Aldobrandini - gli avessero confermato il proprio voto. Lo spoglio delle schede rivelò, invece, che nel segreto dell'urna quattro di essi gli avevano negato i propri suffragi. Nei giorni seguenti, i tentativi per eleggere Santori furono ripetuti, ma senza successo; neanche gli altri candidati spagnoli proposti successivamente - Marcantonio Colonna, Gallio, Paleotti e lo stesso Madruzzo - ottennero migliori risultati. In queste condizioni il conclave minacciava di prolungarsi indefinitamente, con il rischio, per gli Spagnoli, che finisse con il prevalere qualcuno dei porporati da essi avversati: già uno di questi, il cardinale Antonio Maria Salviati, aveva, il giorno 26, conseguito il più elevato numero di voti. Il cardinale Madruzzo ritenne pertanto che fosse giunto il momento di prendere in considerazione la candidatura di Aldobrandini, che sin dai primi giorni aveva raccolto voti che, col tempo, erano andati man mano crescendo: il 24 gennaio aveva ottenuto un numero di suffragi uguale a quello di Santori ed il 28 aveva superato tutti gli altri candidati con diciassette voti. L'accordo rapidamente raggiunto tra Madruzzo e Peretti consentiva quindi ad Aldobrandini di essere eletto all'unanimità nel pomeriggio del 30 gennaio 1592. Peso determinante nella sua elezione aveva avuto il sostegno datogli dalla Spagna, dopo che erano falliti i tentativi di eleggere uno degli altri candidati di Filippo II. Ma ciò che gli Spagnoli ignoravano era che anche il granduca di Toscana aveva appoggiato la candidatura di Aldobrandini: consapevole, però, del fatto che se si fosse pronunciato apertamente in favore di quest'ultimo la diplomazia spagnola si sarebbe insospettita, Ferdinando I si era preoccupato di lasciare intendere che il candidato non era di suo gradimento, mentre, in realtà, sin dall'ottobre 1590 aveva dato ordine ai suoi rappresentanti a Roma di favorirlo, ove se ne fosse presentata l'occasione.
Il nuovo pontefice - che aveva preso il nome di Clemente VIII - fu consacrato vescovo tre giorni dopo l'elezione e incoronato solennemente il successivo 9 febbraio. Al momento del suo innalzamento al soglio pontificio, Aldobrandini non aveva compiuto i cinquantasei anni, età che per un papa veniva considerata ancora giovanile. Di statura superiore alla media, dotato di un fisico resistente - se si eccettua la gotta di cui soffriva sin dall'epoca del suo cardinalato - era un lavoratore instancabile. Amava occuparsi personalmente di ogni cosa, tanto da fare dire all'ambasciatore veneziano G. Dolfin, nel 1598, che il papa "tutto vuol sapere, tutto leggere e tutto ordinare" (Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Alberi, ser. II, IV, Firenze 1857, p. 455). Anche quando gli attacchi del suo male lo costringevano a letto, continuava a concedere udienze e ad attendere al disbrigo degli affari più importanti. La costante applicazione non suppliva però alla mancanza di quelle doti di rapidità d'intuito e di prontezza di decisione che erano state tipiche del suo protettore Sisto V: nella lentezza e nella cautela con le quali normalmente procedeva, si rifletteva, oltre che un tratto caratteristico della sua personalità, anche la sua mentalità di giurista, che lo portava ad analizzare, sino nei particolari più minuti, le questioni da trattare, a studiarne i precedenti e a soppesarne lungamente le possibili soluzioni, dopo aver ascoltato il parere degli esperti e l'opinione dei suoi collaboratori più fidati. Dietro questa ponderatezza e questa eccessiva scrupolosità si celavano una natura ansiosa ed un temperamento emotivo che improvvisi scatti di collera e momentanei cedimenti alla commozione talvolta tradivano. Pur con i suoi difetti, nel complesso, C. si dimostrò all'altezza dei suoi compiti, anche perché, a dispetto della sua indecisione, una volta presa una risoluzione era capace di portarla avanti con fermezza e coerenza; inoltre, benché animato dall'ardente desiderio di compiere sino in fondo la sua missione, sapeva valutare realisticamente le sue effettive possibilità d'azione e regolarsi di conseguenza. Come era conscio delle proprie responsabilità, così era anche intimamente compreso della propria dignità: di qui, l'importanza da lui attribuita alle forme ed il puntiglio con il quale usava trattare le questioni nelle quali riteneva fossero in gioco l'autorità ed il prestigio della Santa Sede. Ma il lato della sua personalità che maggiormente colpì i contemporanei e che è indispensabile tenere presente per poter valutare gli orientamenti generali del suo pontificato fu la sua profonda e sincera pietà. Celebrava ogni mattina la messa e si confessava ogni sera; durante la giornata, si ritirava volentieri in meditazione e in preghiera nella sua cappella. Si sottoponeva a digiuni rigorosi, in particolare il venerdì, giorno in cui non prendeva altro che pane ed acqua. Destò stupore a Roma, le prime volte, vedere il papa seguire a piedi nudi le processioni, o salire, in ginocchio e scalzo, la Scala santa. Durante il suo pontificato, compì più di centosessanta volte la visita delle Sette chiese, mentre, nel solo anno giubilare 1600, si recò per ben sessanta volte a lucrare l'indulgenza nelle quattro basiliche maggiori.
Se con la sua pietà e la sua vita esemplare C. suscitava l'ammirazione generale, non poche critiche gli procurò il troppo amore per i parenti. Questa fu la sua maggiore debolezza: egli, che anche da papa aveva mantenuto un tenore di vita relativamente modesto, diede invece prova, nei confronti dei parenti, di una prodigalità eccessiva. E non solo nei confronti dei due nipoti ecclesiastici, Pietro Aldobrandini e Cinzio Passeri Aldobrandini, che furono colmati di favori, ma anche nei confronti del nipote laico Gian Francesco, cui le successive donazioni papali garantivano già nel 1598 l'ingente rendita annua di 60.000 scudi, ai quali si aggiunsero poi, tra il 1600 e il 1601, altre elargizioni sui proventi della Camera apostolica per complessivi 190.000 scudi.
Dei due nipoti ecclesiastici - entrambi elevati alla porpora il 17 settembre 1593 - quello che fu più stretto collaboratore di C. fu Pietro. Agli inizi del pontificato, i due cugini erano stati insediati insieme al vertice della Segreteria papale e investiti della sovrintendenza dello Stato pontificio. Se quest'ultima incombenza doveva essere esercitata da essi congiuntamente, le loro competenze nelle materie politico-ecclesiastiche erano state invece suddivise dal pontefice in modo che a Cinzio toccò occuparsi degli affari riguardanti la Germania, la Svezia, la Polonia, la Transilvania, la Svizzera e l'Italia; a Pietro quelli relativi alla Francia, alla Spagna e al Ducato di Savoia. Tale ripartizione dei compiti doveva, nelle intenzioni del pontefice, sancire la posizione di assoluta parità dei due nipoti: di fatto, però, Pietro, più giovane, ma anche più dotato del cugino - il quale, peraltro, si era reso impopolare con la spigolosità del suo carattere e la sua mancanza di tatto -, venne rafforzando sempre di più la propria posizione, fino a conquistarsi la piena ed esclusiva fiducia di Clemente VIII. In epoca imprecisata, ma certamente anteriore al novembre 1598, Pietro finì col concentrare nelle proprie mani i poteri e le funzioni del cardinal nepote, anche se Cinzio continuò ad essere formalmente responsabile della propria sezione della Segreteria.
Nel valersi della collaborazione dei nipoti, e di quella di Pietro in particolare, il papa non aveva però inteso delegare loro un effettivo potere decisionale, né rinunciare a seguire da vicino il disbrigo degli affari, com'era nel suo carattere. Durante tutto il suo pontificato, C. continuò a leggere personalmente e ad annotare la corrispondenza in arrivo, a scrivere di proprio pugno lettere ufficiali, dispacci e persino minute di brevi, nonché a riservarsi su ogni questione la decisione finale. Questa tendenza accentratrice doveva fatalmente portare, sul piano più generale del governo della Chiesa, ad un sostanziale esautoramento del Concistoro come organo senatoriale: sebbene qualche voce isolata, come quella del cardinale Gabriele Paleotti, si fosse levata per rivendicare al Collegio cardinalizio il suo ruolo tradizionale, C., accentuando un indirizzo già emerso sotto i pontificati precedenti, finì col relegare il Concistoro ad un ruolo di mera ratifica delle decisioni prese dal papa al di fuori di esso.
Il problema più urgente che C. si trovò a dover affrontare all'inizio del suo pontificato fu quello della ricerca di una soluzione alla crisi religiosa e dinastica che travagliava la Francia. Dopo l'assassinio di Enrico III, avvenuto nel 1589, pretendente al trono era divenuto il calvinista Enrico di Navarra. In quanto eretico recidivo, questi era stato però da Sisto V scomunicato e dichiarato inabile a regnare sin dal 1585, motivo per cui gli aderenti alla Lega cattolica rifiutavano di riconoscerlo come sovrano legittimo. Dopo la scomparsa dell'ultimo dei Valois, il Navarra aveva chiesto di poter abiurare e di essere riammesso nel seno della Chiesa, condizioni necessarie per essere riconosciuto re da tutti i Francesi. Spettava quindi alla Santa Sede prendere una decisione in materia, ma nonostante la gravità della situazione francese, nel 1592, la questione non era stata ancora risolta. Agli inizi del suo regno, C. aveva assunto un atteggiamento estremamente guardingo: benché fosse consapevole che negare l'assoluzione rischiava di compromettere definitivamente le sorti del cattolicesimo in Francia, lo spingevano alla prudenza sia il sospetto che la richiesta di assoluzione fosse esclusivamente dettata da considerazioni di carattere politico, sia le sorti incerte della guerra in corso tra seguaci del Navarra ed aderenti alla Lega sostenuti da Filippo II, che non consentivano di scartare a priori la possibilità di una vittoria delle forze cattoliche e, di conseguenza, sconsigliavano di prendere decisioni affrettate suscettibili di deteriorare gravemente i rapporti con la Spagna, con l'unica potenza, cioè, sul cui appoggio la Santa Sede potesse in quel momento contare.
Inizialmente, quindi, il papa assunse una posizione che non poteva che rassicurare Filippo II: il giorno stesso della sua incoronazione (9 febbraio), C. rinnovò a favore del sovrano - al quale aveva scritto in precedenza una calorosa lettera autografa - le tre "grazie" del "subsidio", dell'"excusado" e della "cruzada"; nell'autunno, poi, mentre da un lato accoglieva affabilmente una delegazione venuta a Roma a nome del principale candidato cattolico al trono, il duca di Mayenne, dall'altro decideva di non ricevere il marchese di Pisany, Jean de Vivonne, che il Navarra gli aveva inviato con pieni poteri per trattare il suo ritorno alla Chiesa.
Il progressivo consolidarsi della posizione politica e militare di Enrico, l'abiura da lui pronunciata, senza attendere le decisioni della Santa Sede, il 25 luglio 1593, nonché la sua incoronazione a re di Francia il 27 febbraio 1594, seguita dal suo ingresso trionfale in Parigi, il 22 marzo, dovevano indurre C. ad un cauto mutamento di rotta rispetto alla linea precedentemente seguita. Già nel novembre 1593, dopo qualche esitazione, aveva accettato di ricevere un nuovo inviato di Enrico, il duca di Nevers, pur precisando che lo riceveva come privato e non già come rappresentante del Navarra. Questi primi contatti non diedero, per allora, esito, anche perché il duca non era latore di alcuna richiesta di assoluzione, ma era soltanto incaricato di prestare obbedienza a nome del principe. Il Nevers dovette perciò riprendere la via del ritorno, nel gennaio 1594, senza avere ottenuto nulla. L'incoronazione e la successiva entrata a Parigi del sovrano erano però destinate a mutare radicalmente la situazione: Enrico IV era ormai di fatto re di Francia e di ciò la Santa Sede non poteva non tenere conto. C., sebbene continuasse a nutrire dubbi sulla sincerità della conversione, si convinse che i tempi erano ormai maturi per l'apertura di trattative ufficiali con i rappresentanti del re, al quale fece conoscere le sue nuove disposizioni di spirito attraverso il cardinale Gondi.
La diffidenza delle due parti doveva ulteriormente ritardare l'epilogo della vicenda: se, infatti, il papa dubitava dei reali sentimenti di Enrico IV, questi, dal canto suo, aveva finito col convincersi che il papa gli fosse inesorabilmente ostile. Le trattative, avviate dapprima, nel dicembre del 1594, attraverso un ecclesiastico francese residente a Roma, Arnauld d'Ossat, entrarono nella fase decisiva con l'arrivo nella Città Eterna, il 12 luglio 1595, del rappresentante ufficiale di Enrico IV, il vescovo eletto di Évreux, Jacques Davy du Perron. Esse si conclusero rapidamente ed il 17 settembre successivo i due ecclesiastici francesi, in veste di procuratori del sovrano, pronunciavano l'abiura pubblica e ricevevano dal pontefice l'assoluzione. Alla rapida conclusione dell'ultima fase dei colloqui aveva contribuito direttamente C., il quale, in una visione realistica della situazione, aveva capito che era necessario impedire che le trattative si trascinassero; scavalcando il Concistoro - i pareri dei singoli cardinali furono uditi dal papa in udienze private - egli aveva assunto una posizione accomodante: aveva rinunciato ad un atto formale di riabilitazione del re, atto che questi considerava incompatibile con la sua asserita posizione di legittimo sovrano, ed aveva accettato il principio che la pubblicazione dei decreti tridentini potesse avvenire in Francia con l'omissione di quelle disposizioni la cui applicazione fosse ritenuta suscettibile di turbare la tranquillità del Regno; aveva ottenuto, per contro, formali garanzie sulle questioni che gli stavano più a cuore, come l'educazione religiosa dell'erede al trono, il ristabilimento del culto cattolico e la restituzione dei beni ecclesiastici usurpati.
La riconciliazione di Enrico IV rappresenta indubbiamente l'avvenimento principale del pontificato di Clemente VIII. Con la sua decisione, lungamente meditata, il papa aveva conseguito un duplice successo: sul piano religioso, aveva salvato le sorti del cattolicesimo in Francia ed aveva posto le premesse per l'avvio della riforma tridentina, che i torbidi delle guerre di religione avevano fino ad allora impedito di attuare; sul piano politico, aveva svincolato la Santa Sede dalla soggezione alla Spagna ed aveva restituito al papato quella posizione di equidistanza tra le potenze cattoliche che esso aveva perduto nei decenni precedenti. Per ottenere questi risultati ci erano voluti tre anni: ma se la lentezza con la quale il papa aveva maturato la sua decisione aveva suscitato qualche critica - soprattutto da parte della Repubblica veneta che, nel 1594, dietro i suggerimenti dell'intraprendente gesuita A. Gagliardi, aveva preso in considerazione la possibilità di interporre la propria mediazione tra Francia, Spagna e Santa Sede -, va rilevato che la gradualità e la flessibilità della politica di C. gli avevano consentito di giungere all'assoluzione senza provocare una rottura o un peggioramento delle relazioni con la Corona spagnola.
Nell'insieme, dopo il 1595, i rapporti tra Francia e Santa Sede andarono sempre migliorando, anche se i risultati che il pontefice si riprometteva dalla riconciliazione di Enrico IV si ebbero piuttosto in campo politico che in campo religioso. Sebbene il sovrano avesse mantenuto l'impegno di restaurare il culto cattolico - che, intorno al 1600, era stato già ripristinato in trecento città ed in un migliaio di parrocchie, oltre che, parzialmente, nel Béarn -, C., a dispetto delle ripetute pressioni, non poté mai ottenere la pubblicazione in Francia dei decreti tridentini, né riuscì ad impedire che con l'editto di Nantes del 30 aprile 1598 Enrico IV concedesse la libertà di culto agli ugonotti. La promulgazione dell'editto risvegliò anzi nel papa i sospetti circa la sincerità della conversione del re e ciò spiega un certo irrigidimento da parte sua verso la politica ecclesiastica del sovrano: rifiutò di estendere il diritto di nomina previsto nel concordato del 1516 ai vescovati di Metz, Toul e Verdun, ritardò la conferma di alcune nomine vescovili o, addirittura, la negò, come nel caso del curato di St-Eustache, René Benoist, che Enrico IV aveva nominato alla diocesi di Troyes sin dal 1593 e che C. non volle mai preconizzare vescovo, perché lo sapeva autore di una traduzione della Bibbia che era stata condannata. Nonostante questi punti di attrito, l'azione del papa registrò un successo con il rientro in Francia dei Gesuiti, che ne erano stati cacciati agli inizi del 1595 sotto l'accusa - peraltro infondata - di essere stati gli ispiratori del fallito attentato di Jean Chastel contro Enrico IV (27 dicembre 1594). Nel 1603, dietro le reiterate istanze del papa, il re acconsentì ad emanare un editto che autorizzava il ritorno della Compagnia, sia pure con qualche condizione restrittiva, tra cui l'obbligo del giuramento di fedeltà. Nonostante il parere contrario del generale dei Gesuiti C. Acquaviva, C., più realista, considerò il provvedimento accettabile: i fatti gli avrebbero dato ragione, perché in seguito il sovrano mitigò le restrizioni originarie e favorì in vari modi la Compagnia.
Di maggiore rilevanza furono i risultati che, sul terreno politico, C. poté conseguire dopo l'assoluzione di Enrico IV. Quali vantaggi dovesse procurare alla Santa Sede la possibilità di avvalersi, in alternativa a quello spagnolo, dell'appoggio della Francia, lo si poté constatare in occasione del recupero del Ducato di Ferrara. Il 27 ottobre 1597 moriva senza discendenza diretta il duca Alfonso II d'Este: alla notizia della sua scomparsa, C., che già da cardinale si era risolutamente pronunciato a favore della devoluzione del Ducato, rivendicò subito i diritti della Santa Sede. Essi furono però ignorati da Cesare d'Este, discendente di un ramo della famiglia la cui legittimità non era stata comprovata, il quale, avendo già ottenuto l'investitura per i feudi imperiali di Modena e Reggio, non esitò ad occupare Ferrara preparandosi a difenderla. Il conflitto non poteva non avere una risonanza internazionale: ma mentre la Spagna assumeva una posizione neutrale, Enrico IV, invece, si schierò apertamente a fianco del papa, al quale offrì anche il proprio appoggio militare. Isolato diplomaticamente, colpito dalla scomunica papale fulminata contro di lui il 22 dicembre, minacciato dall'esercito che la Santa Sede stava armando in Romagna, Cesare fu costretto a cedere ed il 12 gennaio 1598 rinunciava ad ogni pretesa su Ferrara. Per sottolineare l'importanza dell'avvenuto recupero, C. volle prendere personalmente possesso della nuova provincia, ove soggiornò tra il maggio ed il novembre del 1598.
La posizione di equidistanza assunta dalla Santa Sede tra le due maggiori potenze cattoliche doveva anche consentire a C. di interporsi come mediatore nel conflitto franco-spagnolo.
La conclusione di una pace durevole tra le due maggiori potenze cattoliche stava particolarmente a cuore al pontefice. In primo luogo era convinto che la cessazione delle ostilità contro la Spagna avrebbe permesso a Enrico IV di concentrare i suoi sforzi nella repressione del calvinismo e nella restaurazione del cattolicesimo in tutto il Regno. In secondo luogo, la riconciliazione tra i due sovrani avrebbe reso possibile la loro partecipazione con uomini e denaro alla lotta contro il Turco, che rappresentò durante l'intero pontificato uno degli obiettivi prioritari della politica papale. Sin dagli inizi del 1596, C. aveva fatto sondare le intenzioni di Filippo II al riguardo; pochi mesi più tardi, prima ancora di conoscere la risposta del sovrano spagnolo, aveva incaricato il cardinale Alessandro de' Medici, che veniva inviato in Francia in veste di legato "a latere", di compiere un passo analogo presso Enrico IV. La coraggiosa iniziativa diplomatica di C. sembrò inizialmente essere destinata all'insuccesso. La perdita di Amiens da parte della Spagna (25 settembre 1597) e il conseguente ammorbidimento delle posizioni spagnole, nonché l'efficace azione del legato, affiancata dall'abile opera mediatrice svolta da un inviato papale straordinario, il generale dei Francescani Osservanti Bonaventura Secusi da Caltagirone, consentì un avvicinamento delle contrapposte posizioni. Poterono così essere avviate formali trattative, agli inizi del febbraio 1598, a Vervins. Svoltesi sotto la presidenza del cardinale Medici, come rappresentante del papa, esse si conclusero il 2 maggio successivo con la firma della pace.
Il trattato di Vervins lasciava aperta una vertenza, quella relativa al Marchesato di Saluzzo, che Carlo Emanuele I di Savoia aveva occupato durante la guerra franco-spagnola e che ora, valendosi dell'appoggio della Spagna, rifiutava di restituire alla Francia. Un articolo della pace di Vervins, alle cui trattative aveva partecipato anche un rappresentante del duca di Savoia, prevedeva esplicitamente che la controversia sarebbe stata rimessa all'arbitrato del papa, il quale si sarebbe dovuto pronunciare nel termine di un anno. Inizialmente la mediazione pontificia non diede alcun esito, perché non fu possibile trovare una soddisfacente soluzione di compromesso: dopo il fallimento delle due prime fasi dei negoziati, che C. aveva seguito da vicino, la contesa sfociò anzi in guerra aperta, culminata, nell'agosto 1600, con l'occupazione francese della Savoia. La gravità della situazione spinse quindi il pontefice, dopo aver sentito il parere dei cardinali in udienze separate, a decidere l'invio di un legato nella persona di Pietro Aldobrandini. Questi, partito da Roma il 26 settembre, ebbe colloqui, nell'ottobre, con Carlo Emanuele I, nel novembre e dicembre con Enrico IV a Chambéry e Lione. Nel corso delle complesse trattative, il legato si tenne in stretto contatto epistolare con il papa: finalmente, dopo essere state più volte sul punto di fallire, esse giunsero a conclusione ed il 17 febbraio 1601 veniva firmato il trattato di Lione, in base al quale la Savoia conservava Saluzzo e cedeva alla Francia i propri territori sulla riva destra del Rodano, versando, nel contempo, una indennità di 100.000 scudi.
Così, in due tappe successive, C. era riuscito a riportare la pace nell'Europa cattolica e a consacrare quella posizione supra partes della Santa Sede che istituzionalmente le competeva: si trattava di un risultato tanto più rilevante in quanto la riconciliazione di Enrico IV, come si è già accennato, non ebbe ripercussioni negative sui rapporti tra Spagna e Santa Sede. Ciò non toglie, però, che, sia prima, sia dopo il 1595, le invadenze del potere regio nell'ambito della giurisdizione ecclesiastica in Spagna e nei domini spagnoli d'Italia procurassero a C. non poche preoccupazioni. Particolarmente sensibile a questi problemi per via della sua formazione giuridica, il papa non mancò mai di intervenire per difendere la libertà e l'immunità ecclesiastica, anche se seppe contemperare la fermezza sulle questioni di principio con l'esigenza di impedire che le controversie finissero con l'intorbidare i rapporti con la Corona. Questo atteggiamento moderato è evidenziato chiaramente dal modo in cui il papa affrontò gli accesi conflitti che, tra il 1595 ed il 1600, si verificarono a Milano tra il cardinale F. Borromeo e le autorità laiche: pur senza mancare di sostenere le ragioni dell'arcivescovo, nel dicembre del 1596, in una delle fasi più critiche degli scontri, avocò a sé la questione, assolse, quindi, nell'aprile successivo, i magistrati colpiti dalle censure ecclesiastiche, e si fece poi promotore, negli anni seguenti, di ben quattro tentativi di composizione delle contrapposte rivendicazioni, tentativi che, pur esaurendosi in sterili negoziati, contribuirono però a far decrescere la tensione. Ad allontanare ogni elemento di grave turbativa C. teneva in modo particolare, perché era consapevole che solo sulla base di una stretta intesa tra Spagna e Santa Sede poteva essere garantita la pace in Italia e, in generale, in Europa, pace che fu una delle sue costanti preoccupazioni. Attraverso il mantenimento dell'intesa con la Spagna e della pace tra gli Stati cattolici, egli sperava inoltre di poter indurre Filippo II e, dopo di lui, Filippo III, a mobilitare una parte delle loro forze nella lotta contro gli infedeli. Su quest'ultimo punto, non poté ottenere nulla: l'invio a Madrid, nel 1593, dell'auditore della Camera apostolica C. Borghese, e, nel 1594, del suo stesso nipote Gian Francesco, nonché le successive sollecitazioni attraverso i nunzi non diedero alcun esito concreto.
Quelle di Milano non furono comunque le uniche controversie del pontificato. Già nel 1593, la pubblicazione dei quaderni delle Cortes del 1588-1590 - nei quali venivano legittimate alcune tipiche violazioni della giurisdizione ecclesiastica, come i "recursos de fuerza" - aveva suscitato le proteste di C., il quale poté soltanto ottenere la promessa che le disposizioni contestate sarebbero state eliminate nelle successive edizioni. Alla fine di quello stesso anno, originarono altre tensioni: il rinnovo della prammatica sui titoli, con la quale la Corona, tra le altre disposizioni, regolava unilateralmente l'uso dei titoli ecclesiastici; gli impedimenti frapposti alla pubblicazione della bolla papale De largitione munerum del 19 luglio 1594 che proibiva ai regolari di fare o di ricevere donativi; il divieto agli ecclesiastici di presentare ricorsi dinnanzi alla Rota romana; il rifiuto di riconoscere, nel 1597, veste di nunzio al collettore di Portogallo F. Taverna, il quale, a seguito di un conflitto sorto con il Capitolo della cattedrale di Lisbona, fu costretto, nell'aprile 1598, ad abbandonare il paese. Dinnanzi a questi episodi e ad analoghi incidenti verificatisi nei domini spagnoli d'Italia, C. mantenne un atteggiamento fermo ma misurato, rivolto a non esasperare la sensibilità della corte di Madrid e a non pregiudicare il raggiungimento di quei fini che gli stavano più a cuore. Preoccupazioni analoghe guidarono, dopo i trattati di Vervins e di Lione, gli interventi del papa diretti a prevenire l'insorgere di motivi di conflitto tra Spagna e Francia attraverso la composizione degli incidenti diplomatici che turbarono le relazioni tra i due paesi in quegli anni, in particolare la scoperta, nell'agosto del 1602, della cospirazione contro Enrico IV ordita dal Biron, il quale aveva avuto contatti con il governatore spagnolo di Milano, conte di Fuentes.
Se con il richiamo alla moderazione e con la sua instancabile opera di mediazione C. difese con successo la causa della pace, egli non poté però impedire che, alla fine del pontificato, i rapporti con la Spagna subissero un certo deterioramento. Ciò avvenne in seguito all'arrogante condotta del nuovo ambasciatore spagnolo, il duca di Escalona, che era giunto a Roma nel novembre del 1603. Già con la sua albagia e con la sua mancanza di tatto, questi si era reso inviso alla Corte pontificia; nell'agosto 1604, poi, non aveva esitato a schierarsi, con l'intervento delle famiglie dell'aristocrazia romana devote alla Spagna, dalla parte del cardinale Farnese in un conflitto in materia d'asilo nel quale questi aveva apertamente sfidato l'autorità del cardinale Aldobrandini. Questa indebita interferenza del diplomatico spagnolo irritò C., che ne chiese esplicitamente il richiamo e che assunse, poi, un atteggiamento più rigido di fronte alle violazioni della giurisdizione ecclesiastica verificatesi nell'ottobre a Napoli. La morte, di lì a poco, del papa impedì però che la situazione si aggravasse.
Un altro settore delicato al quale il pontefice dedicò speciale attenzione fu quello dei rapporti con l'Inghilterra: da un lato, cercò di favorire il rafforzamento e la coesione interna della comunità cattolica inglese; dall'altro prese - seppure senza successo - tutte le iniziative diplomatiche suscettibili di assicurare in qualche modo l'avvenire del cattolicesimo nell'isola.
Per quanto riguarda l'opera svolta a favore della comunità cattolica inglese, C. si interessò particolarmente ai problemi connessi con il reclutamento e la formazione del clero: concesse le bolle di conferma dei Seminari inglesi di Valladolid e Siviglia, rispettivamente nel 1592 e nel 1594; nel 1597, dettò norme miranti ad introdurre un controllo più severo sui seminaristi inglesi che conseguivano il dottorato all'estero senza avere i requisiti richiesti; impose una riforma disciplinare al Seminario inglese di Roma, i principi della quale furono, poi, nel 1599, estesi a tutti i Seminari inglesi di Spagna e delle Fiandre; infine, nel 1601, fondò il Seminario scozzese di Roma. In quegli anni, inoltre, si adoperò con esiti positivi per sedare i conflitti interni che travagliavano la comunità cattolica, divisa tra i fautori di una politica filospagnola ispirata dai Gesuiti ed i sostenitori di una politica a carattere nazionale che facevano capo al clero secolare.
Sul terreno diplomatico, C. si adoperò attivamente nel tentativo di favorire una soluzione del problema della successione di Elisabetta I quanto più conforme possibile agli interessi del cattolicesimo. All'inizio del suo pontificato, il papa aveva dimostrato una certa apertura verso il principale pretendente, Giacomo VI di Scozia, il quale, benché protestante, sembrava disposto ad ammettere la restaurazione del cattolicesimo nei suoi Stati. In realtà, il sovrano non aveva la minima intenzione di concedere la libertà di culto ai cattolici, come apparve evidente di lì a poco, quando, il 12 novembre 1593, emanò un editto contro di essi: l'unico obiettivo da lui perseguito era infatti quello di mantenersi nei migliori rapporti possibili con la Santa Sede, per timore che C. potesse addivenire nei suoi confronti ad un atto formale di scomunica, a seguito del quale avrebbe perduto ogni appoggio dei cattolici. Per raggiungere il suo scopo senza allarmare Elisabetta I e l'opinione pubblica protestante, Giacomo VI non esitò a seguire una spregiudicata politica basata sulla simulazione e sull'inganno, politica che ebbe per risultato di alimentare nel pontefice speranze che si sarebbero poi rivelate del tutto infondate.
Le esperienze fatte agli inizi del pontificato indussero comunque il papa ad assumere un atteggiamento più cauto di fronte ai numerosi messaggi che Giacomo gli fece giungere tra il 1595 ed il 1600: C. non mancò mai di accogliere benevolmente gli inviati, ma si astenne dal prendere qualsiasi impegno per il futuro. Egli, del resto, non aveva ancora scartato la possibilità di appoggiare la candidatura di un pretendente cattolico: dapprima, nell'estate del 1600, quella del cardinale Odoardo Farnese, come discendente dei Lancaster; poi, dopo che, nel febbraio 1601, la Spagna ne aveva avanzato ufficialmente le pretese al trono, quella dell'infanta Isabella Clara Eugenia. Né a favore del primo, né, poi, a favore della seconda, egli volle però impegnarsi a fondo, in quanto era convinto che nessun candidato potesse sperare nel successo se non fosse stato gradito anche alla Francia, il che non era il caso del Farnese, e, ancor meno, dell'infanta. Egli perciò intendeva adoperarsi per la designazione di un pretendente cattolico che beneficiasse dell'appoggio di entrambe le Corone. I suoi sforzi, al riguardo, dovevano presto rivelarsi vani, perché Enrico IV, per timore che l'Inghilterra potesse passare nella sfera d'influenza spagnola, finì col convincersi che fosse più conforme agli interessi della Francia dichiararsi a favore del sovrano scozzese.
Frattanto i contatti che, tra il 1601 ed il 1602, quest'ultimo aveva provveduto a riallacciare con la Santa Sede, non più direttamente, ma attraverso la moglie Anna di Danimarca - la quale, dopo il suo matrimonio, aveva abbracciato il cattolicesimo -, ebbero per effetto di indurre C. a sperare nuovamente nella conversione del sovrano ed a promettere appoggi e sussidi se fosse stata garantita l'educazione cattolica del principe ereditario. Ma le attese del papa andarono una seconda volta deluse. Alla morte di Elisabetta I, nel 1603, il re di Scozia non aveva dato alcun segno di volersi fare cattolico; il fatto, poi, che la sua ascesa al trono di Inghilterra non avesse incontrato alcuna opposizione spinse il papa a riconsiderare la sua politica inglese ed a correggerne l'indirizzo: pur senza escludere l'eventualità della conversione del re - che anzi un nuovo messaggio della regina, nel corso del 1604, gli farà credere prossima -, concentrò i suoi sforzi nel tentativo di ottenere un regime di tolleranza a favore dei cattolici. Per raggiungere questo scopo, il pontefice non tralasciò nulla: esercitò pressioni sui principi cattolici affinché intervenissero in tal senso presso Giacomo I; acconsentì all'invio di un agente del nunzio in Francia alla regina Anna, nell'estate del 1603; autorizzò il nunzio stesso a mantenere contatti segreti con l'ambasciatore inglese a Parigi. Tutte queste iniziative dovevano rivelarsi inutili: C. morì senza essere riuscito a migliorare in nulla la situazione dei cattolici inglesi.
Negli affari d'Irlanda, C. adottò una linea analoga a quella seguita per l'Inghilterra: si astenne da iniziative che avrebbero potuto aggravare i contrasti tra i cattolici - anche qui divisi tra i seguaci del ribelle O'Neill, che godeva dell'appoggio della Spagna, e gli "old English" leali alla Corona - ed evitò di schierarsi apertamente a favore del partito spagnolo per non allarmare Enrico IV. I fatti dovevano poi dimostrare quanto la prudenza di C. fosse stata opportuna: nella fase decisiva della sollevazione, soltanto una piccola parte dei cattolici si dimostrò disposta a seguire O'Neill, il quale, nonostante lo sbarco di un corpo di spedizione spagnolo, doveva subire una definitiva sconfitta nella battaglia di Kinsale (23 settembre 1601).
Fonte costante di preoccupazione fu per il papa la complessa situazione dell'Impero, resa peraltro ancor più difficile dalla presenza sul trono imperiale di un sovrano eccentrico ed indeciso quale Rodolfo II. Difendere le posizioni cattoliche, ove erano minacciate dai protestanti, e restaurare la fede romana ovunque fosse possibile furono i principali obiettivi della politica tedesca di Clemente VIII. Si trattava innanzi tutto di impedire che nella corte imperiale prendessero il sopravvento gli esponenti della nobiltà protestante. Risultati in questa direzione si ebbero però soltanto nel 1599, con il nunzio F. Spinelli, il quale ottenne la sostituzione con due cattolici del filoprotestante vicecancelliere Zelinsky e del presidente della Camera imperiale Hofman. Il rafforzamento delle posizioni cattoliche supponeva però anche la soluzione del problema della successione imperiale: al momento dell'ascesa al trono di C., Rodolfo II non aveva ancora proceduto all'elezione del re dei Romani, in mancanza della quale sussisteva il pericolo che, dopo la morte dell'imperatore, riuscisse a salire sul trono un protestante. Sull'urgenza di addivenire rapidamente alla designazione, C. aveva insistito, sin dall'autunno 1592, nei colloqui avuti con il barone H. von Cobenzl, inviato a Roma da Rodolfo II per chiedere l'aiuto papale nella guerra contro il Turco; ma nonostante tutte le pressioni esercitate sia personalmente, sia attraverso nunzi e legati "a latere", sia per il tramite di altri principi cattolici, il papa non riuscì mai ad ottenere che Rodolfo II prendesse una decisione circa la propria successione.
Su altre questioni, l'azione del papa diede migliori risultati. Se egli non poté impedire che, nel febbraio 1593, i protestanti acquisissero una parte della diocesi di Strasburgo, ottenne, invece, che nella Dieta di Ratisbona non venissero ammessi gli amministratori protestanti delle diocesi secolarizzate e che fossero confermate le norme relative al "reservatum ecclesiasticum" contemplato dalla pacificazione di Augusta. Altri successi si registrarono con il ristabilimento del cattolicesimo ad Aquisgrana e con l'ottenimento di una decisione della Camera imperiale mediante la quale, nel 1602, l'abate Balthazar von Dernbach veniva reintegrato nel possesso dell'importante abbazia di Fulda dopo ventisei anni di esilio. All'instancabile azione di stimolo ed incoraggiamento di C. si dovette anche l'appoggio che il duca Guglielmo V, in Baviera, e l'arciduca Ferdinando, nell'Austria centrale, diedero all'opera di restaurazione e di difesa del cattolicesimo.
In altre zone geografiche dell'Europa centrale e settentrionale la politica di C. non condusse a risultati di rilievo. Nei riguardi della situazione dei Paesi Bassi, il papa si dimostrò, sin dai primi anni del pontificato, favorevole ad una tregua con i ribelli, nella speranza che il diminuito impegno militare e finanziario della Spagna in quell'area le avrebbe poi consentito di assecondare la politica antiottomana della Santa Sede. Pur essendo quindi fautore di una soluzione armistiziale, C. non volle però assumere ruolo di mediatore per timore di essere, in tale veste, costretto ad avallare concessioni ai protestanti. Un atteggiamento meno passivo egli assunse invece di fronte alla questione della successione sul trono di Svezia che, dopo la morte di Giovanni III Vasa, era passato (1593) a Sigismondo III Vasa, re di Polonia. C., che conosceva Sigismondo dall'epoca della sua legazione in Polonia, intravide la possibilità di un ritorno della Svezia al cattolicesimo; ma nonostante l'aiuto diplomatico e finanziario della Santa Sede, Sigismondo deluse le aspettative del papa, perché non riuscì a piegare la tenace opposizione degli influenti ambienti protestanti ai due tentativi che, tra il 1593 ed il 1598, fece per restaurare il cattolicesimo. Migliori risultati ottenne invece il sovrano in Polonia, con la sua politica di repressione del protestantesimo e di sostegno alle forze cattoliche, in particolare ai Gesuiti: ma se, con ciò, C. vide coronato da successo il suo interessamento per i progressi della Controriforma in Polonia, senza esito rimasero invece i suoi tentativi di indurre Sigismondo ad aderire al suo tanto vagheggiato progetto di lega antiturca.
In effetti, la sconfitta del Turco fu uno degli obiettivi costantemente, quasi ossessivamente, perseguiti dal papa durante l'intero arco del suo pontificato. Pur senza staccarsi dall'indirizzo tradizionale della politica papale - la quale, dopo Lepanto, mirava a promuovere imprese militari destinate a contrastare, non più sul mare, ma sul fronte terrestre, l'espansionismo ottomano nel tentativo di riconquistare le regioni balcaniche, nonché, possibilmente, di liberare Costantinopoli - C. si impegnò in questo settore con un dinamismo e una continuità che non hanno riscontro nell'opera dei suoi predecessori, da Gregorio XIII in poi. Gli studi più recenti hanno infatti messo in evidenza il carattere più marcatamente offensivo della sua politica antiturca. Nulla fu da lui lasciato intentato. Le ripetute pressioni nei confronti dei principi cattolici affinché sostenessero con uomini o con sussidi in denaro lo sforzo bellico delle truppe imperiali; i molteplici passi diplomatici - estesi anche ai Principati acattolici dell'Europa orientale, Russia compresa - per giungere alla formazione di una lega antiottomana tra Stati cristiani; l'invio di corpi di spedizione pontifici nel 1595, nel 1598 e nel 1601; l'elaborazione di piani diretti a provocare sollevazioni tra le popolazioni cristiane oppresse dell'Ungheria, della Bulgaria e dei Balcani; la ricerca di contatti con lo scià di Persia allo scopo di giungere all'apertura di un secondo fronte; l'appoggio, infine, dato alle trattative segrete intavolate, dal 1599, con il rinnegato cristiano Sinan pascià Cigala (Scipione Cicala) per indurlo alla diserzione sono iniziative che attestano la costante attenzione dedicata da C. al problema ottomano. Questo suo particolare interesse si spiega, da un lato, con la convinzione che la debolezza dell'Impero turco offrisse in quel momento ottime possibilità di successo, dall'altro, con l'importanza prioritaria che, sotto il profilo religioso, egli attribuiva alla lotta contro gli infedeli, anche rispetto a quella contro gli eretici.
L'azione di C. si risolse però in un sostanziale fallimento: alla formazione della lega non fu possibile giungere per il rifiuto delle principali potenze cattoliche di aderirvi; i contributi finanziari e l'invio di truppe consentirono di raggiungere, tra il 1598 ed il 1601, qualche effimero successo che la disorganizzazione dell'esercito imperiale e l'inettitudine dei suoi alti comandi dovevano presto vanificare; i contatti con lo scià e con Sinan pascià Cigala non produssero alcun risultato concreto. L'insuccesso della politica antiturca di C. si deve indubbiamente al fatto che egli sottovalutò l'importanza dei motivi che trattenevano i singoli Stati cattolici dall'aderire al suo progetto di lega: i tradizionali rapporti di alleanza della Francia con il sultano; l'impegno militare della Spagna nei Paesi Bassi; l'interesse della Repubblica veneta a non pregiudicare i rapporti commerciali con la Porta; il timore, infine, di Sigismondo III di Polonia che la spedizione contro i Turchi potesse esporre il Regno al pericolo delle mai sopite pretese asburgiche, da un lato, e delle ostilità del nemico tradizionale della Polonia, la Moscovia, dall'altro.
Per quanto riguarda l'amministrazione dello Stato pontificio, durante il pontificato di C. si andò accentuando quella tendenza al rafforzamento del potere centrale di fronte alle amministrazioni periferiche che già si era manifestato sotto Sisto V. A spingere C. a proseguire la politica del suo predecessore fu la necessità di porre rimedio, sin dagli inizi del pontificato, alla situazione disastrosa delle finanze locali. Ciò fu fatto con la bolla Pro commissa nobis del 15 agosto 1592, con cui veniva riordinata l'organizzazione comunale e venivano disciplinati i suoi rapporti con gli organi centrali. Al fine di sovraintendere all'applicazione della bolla, C. creò, il 30 ottobre successivo, un'apposita Congregazione cardinalizia detta del Buon Governo.
Sotto C., il rafforzamento del potere centrale avvenne pure attraverso una politica antisignorile: il 25 giugno 1595, infatti, egli creava una Congregazione allo scopo di porre un freno alla vita dispendiosa di molti esponenti della nobiltà e, nel contempo, di tutelare gli interessi dei loro creditori. Alla Congregazione, i cui poteri giurisdizionali furono ulteriormente allargati nel 1599, fu affidato il compito di curare l'esecuzione delle sentenze pronunciate contro i baroni morosi, anche mediante la vendita all'incanto dei loro beni e senza tenere conto di eventuali vincoli di fidecommesso.
Alla politica di risanamento delle finanze locali non corrispose invece un miglioramento della situazione finanziaria generale. Sotto C., la passività del bilancio andò aumentando soprattutto come conseguenza della sua politica estera: basti pensare che, nel 1598, le somme fino a quel momento spese per la guerra contro il Turco ammontavano a 1.500.000 scudi d'oro, cui si aggiunsero, in quello stesso anno, 150.000 scudi moneta spesi per il recupero di Ferrara. Al deficit il papa fu costretto a far fronte con sempre più frequenti ricorsi al prestito pubblico - sotto il suo pontificato furono creati quattordici nuovi Monti e fu elevato il capitale di sette già esistenti - e con un incremento della pressione fiscale che, nel 1600, risultava più che triplicata rispetto al primo quarto del secolo. In campo economico, la politica di C. diede risultati modesti. I provvedimenti a favore dell'agricoltura, il controllo sulla circolazione dei cereali e le misure volte a colpire la speculazione sulle derrate alimentari non valsero a eliminare le carenze dell'approvvigionamento annonario dello Stato pontificio e di Roma, in particolare. Un certo stimolo al commercio fu ottenuto, per contro, con le disposizioni a favore dell'industria tessile, con i lavori effettuati nei porti di Civitavecchia e di Terracina e con la riattivazione delle saline di Cervia. Sul terreno sociale, C. affrontò innanzi tutto il problema del brigantaggio: nel 1593, fece assoldare due celebri capitani delle guerre di Fiandra, C. Celsi e F. Delfini, cui affidò la lotta contro i banditi che infestavano lo Stato. I risultati non furono immediati ma, già intorno al 1600 (cfr. G. Botero, cit. in J. Delumeau, II, p. 583), sembra che il fenomeno del banditismo fosse in netta regressione. Con particolare severità, poi, vennero puniti sotto C. i delitti comuni, in particolare quelli commessi da esponenti della nobiltà, come attesta il caso tristemente celebre dei Cenci. I rigori della giustizia non migliorarono però la situazione in modo sensibile, né maggiori risultati ottennero i provvedimenti presi dal papa per garantire l'ordine pubblico, quali il rinnovo, nel 1592, della proibizione dei duelli, le misure contro gli eccessi durante il carnevale o l'obbligo imposto alle prostitute romane di risiedere in un quartiere speciale della città.
Rispetto allo straordinario fiorire dell'edilizia e dell'arte durante il pontificato di Sisto V, le iniziative prese in questi campi da C. appaiono di minore rilevanza. Apparentemente, egli non aveva quello spiccato interesse per l'arte tipico del suo predecessore: in lui prevalsero sempre le preoccupazioni religiose e ciò spiega come, soprattutto nella fase iniziale del pontificato, egli non rivolgesse eccessiva attenzione ai problemi artistici. Soltanto con l'approssimarsi dell'Anno santo del 1600 - la cui celebrazione fu da lui particolarmente curata - C. diede un certo impulso ai lavori edilizi e di decoro artistico, alcuni dei quali dovevano poi proseguire negli anni successivi. Nei primi anni, il papa si limitò ad ultimare le opere iniziate da Sisto V. I lavori principali riguardarono i Palazzi Capitolini, il proseguimento del nuovo Palazzo Vaticano - nel quale, tra il 1603 e il 1604, P. Brill e i fratelli Alberti decoreranno la sala Concistoriale e la sala Clementina -, la copertura della cupola di S. Pietro, la sua decorazione interna ad opera del pittore prediletto di C., il Cavalier d'Arpino, e l'erezione del nuovo altare della Confessione affidata a Giacomo della Porta. Al complesso delle opere avviate in vista dell'anno giubilare appartengono invece i lavori di abbellimento della cappella Clementina in S. Pietro, eseguiti sotto la direzione di Cristoforo Roncalli, artista probabilmente noto al papa per i lavori precedentemente eseguiti in S. Maria in Vallicella. In occasione dell'Anno santo fu inoltre realizzata la decorazione pittorica degli altari delle navate minori, con tele eseguite da vari artisti, fra cui Roncalli, ispirate al tema del trionfo di s. Pietro: alla concezione di questo programma iconografico, destinato a rappresentare l'esaltazione del papato trionfante, ebbe probabilmente parte anche il Baronio. Per S. Giovanni in Laterano - dove C. in persona aveva, nel 1596, commissionato ad A. Ciampelli i due affreschi nella sacrestia dei canonici raffiguranti il Martirio di s. Clemente e S. Clemente fa scaturire l'acqua - fu elaborato un vasto progetto di cui la cappella del Sacramento, la decorazione pittorica del transetto ad opera del Cavalier d'Arpino e l'organo nuovo rappresentano la parte effettivamente portata a compimento. Un capitolo a sé stante dell'attività edilizia di C. è poi rappresentato dalla costruzione della villa Aldobrandini a Frascati - il suo luogo di villeggiatura preferito - che fu affidata a della Porta e, dopo la morte di questi, nel 1602, a Carlo Maderno. I lavori della villa furono completati con la sistemazione dei giardini e l'erezione del ninfeo con i suoi giochi d'acqua. Più significativi, per una migliore comprensione della personalità di C., sono i suoi interessi culturali. Benché l'amicizia e la protezione accordata a Tasso rivelino un certo gusto per la letteratura, l'attenzione del papa fu prevalentemente rivolta allo sviluppo delle scienze ecclesiastiche: non a caso le opere più importanti che gli furono dedicate sono i tomi IV-VIII degli Annales ecclesiastici di Baronio e il volume IV del De Controversiis Fidei di Bellarmino. C. appoggiò inoltre la prosecuzione della stampa delle opere di s. Bonaventura e di s. Gregorio Magno, promosse la pubblicazione degli scritti di s. Atanasio, incoraggiò il progetto di edizione dei decreti dei concili generali intrapresa dal cardinale Santori. Oltre a queste iniziative, il pontefice fece riorganizzare l'archivio di Castel S. Angelo con il proposito di raccogliervi i fondi archivistici della Santa Sede ed arricchì la Biblioteca Vaticana con numerosi acquisti di libri e manoscritti. Cure particolari, infine, dedicò all'Università romana, facendovi chiamare illustri studiosi, quali il botanico e fisiologo A. Cesalpino, il medico G. de Angelis, il filosofo platonico F. Patrizi, già suo condiscepolo nell'Università di Padova.
Il pontificato di C. è passato alla storia soprattutto per i successi conseguiti in campo politico, come la riconciliazione di Enrico IV, il recupero di Ferrara, la mediazione nelle paci di Vervins e di Lione; altrettanto, se non più importante, è l'azione da lui svolta in campo religioso. Sebbene si tratti di un aspetto della sua opera che non è stato ancora adeguatamente studiato, la continuità e la sistematicità dell'impegno con il quale C. affrontò i problemi della vita interna della Chiesa, e, in particolare, la sua instancabile azione volta ad imprimere nuovo slancio all'attuazione del programma tridentino, dovevano richiamare alla mente dei contemporanei, più che l'opera dei suoi immediati predecessori, quella di Pio V. A prescindere, però, dalla validità dell'accostamento, rimane che la costante sollecitudine dedicata dal papa al governo della Chiesa indica come, alla stregua di Pio V, anche in lui le preoccupazioni di carattere strettamente religioso abbiano avuto preminenza su quelle politico-ecclesiastiche, il che, del resto, appare in armonia con la sua fisionomia spirituale e con la sua formazione, avvenuta in un ambiente permeato dagli ideali della riforma cattolica quale fu, per eccellenza, quello della Vallicella.
Sin dall'inizio del pontificato, C. aveva espresso la convinzione che "il maggior beneficio c'ha ricevuto la Chiesa di Dio da molt'anni in qua, ognuno sa che è stata la celebrazione del Concilio di Trento e l'osservatione delli suoi decreti" (istruzioni per C. Caetani, inviato nunzio in Spagna, Roma 27 ottobre 1592, pubblicate in A. Borromeo, Istruzioni generali e corrispondenza ordinaria dei nunzi: obiettivi prioritari e risultati concreti della politica spagnola di Clemente VIII, in Das Papsttum, p. 208). A questa radicata convinzione doveva ispirarsi l'instancabile azione del pontefice indirizzata a ottenere la ricezione dei decreti conciliari laddove, come in Francia, non fossero ancora stati pubblicati, ovvero la loro esatta applicazione ovunque gli paresse che ne fosse disattesa la rigorosa osservanza. E che l'impegno a proseguire l'opera di rinnovamento ecclesiale il papa intendesse viverlo anche in prima persona, secondo l'ideale episcopale postridentino, apparve subito evidente, allorquando, pochi mesi dopo l'elezione, indisse la visita pastorale di Roma. Convinto che una duratura azione di riforma dovesse partire dalla restaurazione della disciplina ecclesiastica e persuaso che in ciò Roma dovesse servire d'esempio alla cristianità, C. diede inizio alla visita generale delle chiese della città nel giugno 1592. La visita si protrasse fino al 1600 e venne poi parzialmente ripetuta nel 1602-1603. Essa fu compiuta personalmente dal papa, il quale svolgeva le sue mansioni di visitatore con l'abituale scrupolosità: particolare attenzione dedicava, oltre all'esame di edifici e suppellettili sacre, all'accertamento della preparazione e della moralità del clero; chi era giudicato non idoneo veniva inesorabilmente rimosso, come accadde allo stesso suffraganeo del cardinale vicario, il vescovo di Minori Giovanni Amato, che fu privato dell'ufficio e sospeso per sei mesi dall'esercizio del ministero sacerdotale.
C. era però convinto che, tra il clero, i più bisognosi di riforma fossero gli Ordini religiosi e ciò spiega il motivo per cui, nel corso della visita, egli riservava alle comunità di regolari un trattamento più severo di quello riservato al clero secolare: compariva di solito la mattina presto, senza preavviso, e visitava personalmente le singole celle, giungendo sino ad ispezionare gli armadi individuali per verificare che non vi si conservassero cibarie, denaro o altri oggetti vietati. La conoscenza diretta dei problemi delle comunità di regolari di Roma e la costatazione dello stato di decadimento della vita religiosa in alcune di esse servirono a C. da stimolo per l'avvio di un più vasto tentativo di riforma. La convinzione del papa che la situazione del clero regolare romano fosse sintomatica di una crisi più generale e che i rimedi imposti nella Città Eterna potessero essere validi anche per il resto della Chiesa è evidenziata dal fatto che in uno dei decreti generali del 1599 si trovano recepite, talvolta anche testualmente, alcune disposizioni che figurano nel decreto del 4 ottobre 1592 riguardante il convento romano dei SS. Apostoli. Alcune norme a carattere generale emanate da C. agli inizi del pontificato - come quelle relative ai casi riservati ed alla confessione al superiore o quelle che introducevano, per i religiosi, il divieto di ricevere e fare regali - attestano come, sin dai primi anni, il papa fosse animato dalla volontà di restaurare la disciplina ecclesiastica in tutta la Chiesa. Tali provvedimenti, però, altro non erano se non i prodromi di una riforma globale cui diede l'avvio, a partire dal 1599, con la serie dei decreti generali. Anche se tali decreti non sono giunti sino a noi nella stesura originale - essi furono riuniti e sistematizzati soltanto nel 1607 -, è certo che nelle intenzioni di C. erano destinati a rappresentare il nucleo centrale di una riforma generale, perché in più di un caso viene specificato che le norme hanno carattere transitorio, in attesa di un regolamento organico e definitivo dell'intera materia. A tale regolamento, per ragioni rimaste ignote, non si giunse; ciò nonostante, con i suoi decreti, C. aveva disciplinato gli aspetti più importanti della vita religiosa: fondazione di nuovi monasteri e conventi, ammissione e formazione dei novizi, professione religiosa, amministrazione del patrimonio, poteri dei Capitoli e dei superiori. Benché, allo stato attuale degli studi, sia impossibile stabilire quali effetti concreti ebbero questi provvedimenti, va però sottolineata l'importanza della legislazione clementina, perché essa servirà da base all'opera dei pontefici successivi.
La rilevanza dell'azione di C. nei riguardi del clero regolare è, del resto, testimoniata anche dal fatto che su un totale di trecentosettantasei costituzioni apostoliche emanate durante il suo pontificato, circa un quarto concerne i religiosi. Sancì la creazione di nuove Congregazioni, tra le quali quelle dei Trinitari Scalzi e degli Agostiniani Riformati; accordò il riconoscimento ad alcuni Ordini recenti, come i Chierici della Madre di Dio ed i Chierici della Dottrina Cristiana; per altri, dettò norme volte a favorirne lo sviluppo e la diffusione: è questo il caso dei Chierici Regolari delle Scuole Pie (Scolopi), dei Ministri degli infermi (Camilliani) e dei Cappuccini. Alla Compagnia di Gesù impose, nel 1594, alcune modifiche delle costituzioni allo scopo di comporre tensioni interne che si erano manifestate sin dagli anni precedenti.
La restaurazione della disciplina ecclesiastica supponeva anche un'azione efficace nei riguardi del clero secolare, azione che non poteva svolgersi se non attraverso l'episcopato: di qui le cure particolari che il pontefice dedicò alla scelta dei vescovi. La preoccupazione di promuovere alle sedi episcopali soltanto soggetti veramente meritevoli, C. la evidenziò sin dal primo anno del pontificato con l'istituzione di un'apposita Congregazione dell'Esame dei vescovi, cui assegnò il compito di accertare che i candidati all'episcopato dell'Italia e delle isole adiacenti avessero i requisiti richiesti. Il papa, comunque, si sforzò sempre di fare cadere la sua scelta su persone veramente meritevoli: anche se per la sua lentezza nel decidere talune sedi rimasero a lungo vacanti, non v'è dubbio che a C. si debbono le nomine di alcune delle figure più rappresentative dell'episcopato postridentino, come Francesco di Sales a Ginevra, C. Bascapé a Novara, F. Borromeo a Milano, F.M. Tarugi ad Avignone.
Il miglioramento del livello generale dell'episcopato italiano che si registrò sotto il pontificato Aldobrandini non si riscontra in uguale misura nel resto dell'Europa cattolica, ove la maggior parte delle nomine era di patronato dei principi oppure competeva ai singoli Capitoli. Ciò non significa che il papa tralasciasse di esercitare un controllo sulle designazioni: lo doveva imparare a sue spese Enrico IV, il quale si vide rifiutare la conferma di alcune nomine, non solo nel caso già ricordato del Benoist, della cui ortodossia C. aveva motivo di dubitare, ma anche in quelli in cui il candidato non aveva i requisiti richiesti, come si verificò nel 1604, allorquando il re pretese di nominare alla diocesi di Lodève un bambino di quattro anni.
Oltre a controllare le nomine, il papa si preoccupava di spingere i prelati al pieno adempimento dei loro doveri pastorali. Sotto questo profilo, egli svolse un'azione di stimolo capillare e indefessa, sia per il tramite dei nunzi sia direttamente con lettere ai singoli vescovi o agli episcopati di alcuni paesi, come fece nell'estate del 1596 con una serie di brevi indirizzati ai vescovi spagnoli. Se, all'occasione, sapeva mostrarsi severo verso gli inadempienti, mantenne invece un atteggiamento più duttile nei confronti dei vescovi delle aree in cui il cattolicesimo era a contatto con i protestanti. Così si limitò ad inviare richiami all'indegno arcivescovo di Salisburgo, D. von Reitenau, ma si astenne dal prendere provvedimenti più energici per non correre il rischio che il prelato finisse col secolarizzare la diocesi, come si diceva che avesse l'intenzione di fare; nei riguardi del discusso e mondano arcivescovo di Colonia, Ernesto di Baviera, usò un metodo differente: provvide alla nomina di un coadiutore nella persona di un suo congiunto, Ferdinando di Baviera. La soluzione si dimostrò felice, perché il nuovo coadiutore, anche dietro le pressioni di C., iniziò la visita pastorale e riunì, nel 1598, un sinodo diocesano.
Significativa, per penetrare lo spirito e i metodi seguiti dal papa nella sua azione nei confronti dell'episcopato, è la risposta che diede alle critiche contenute in un memoriale scritto, nell'ottobre 1600, da Bellarmino. In tale memoriale, il cardinale, con grande franchezza e libertà, rimproverava al papa, tra le altre cose, di avere lasciato alcune diocesi troppo a lungo vacanti e di non aver colpito con sufficiente severità taluni abusi in materia di residenza e di traslazione di diocesi. C., pur riconoscendo la fondatezza delle critiche, rispose sottolineando come non sempre la situazione contingente consentisse il ricorso ai metodi forti e come la lotta contro certi abusi rischiasse di generare mali peggiori di quelli che si volevano eliminare. Se, dunque, il papa si lasciò talvolta guidare da una valutazione realistica delle singole situazioni, certo è che, grazie alle sue costanti cure, si registrò un generale miglioramento dell'impegno pastorale dei vescovi, in particolare nelle zone in cui la situazione era più deteriorata, come nell'Impero e nei domini ereditari della casa d'Asburgo. Tali risultati furono da lui ottenuti anche affiancando l'azione dei prelati con quella dei nuovi Ordini: così, ad esempio, ottenne dall'arciduca Ferdinando l'erezione di collegi dei Gesuiti a Lubiana, nel 1597, e a Klagenfurt, nel 1604; per suo diretto interessamento, inoltre, si ebbe l'invio dei Cappuccini a Innsbruck, nel 1593, e a Praga nel 1599, da dove poi l'Ordine si diffuse in altre città dell'Impero.
Particolare rilevanza assumono, nell'ambito del programma clementino di attuazione della riforma tridentina, le edizioni della Vulgata e dei principali libri liturgici portate a termine sotto il pontificato Aldobrandini. Subito dopo la sua elezione, C. aveva deciso di sottoporre a revisione il testo della Vulgata di Sisto V, il cui valore scientifico era stato da più parti contestato: di conseguenza, mentre, da un lato, sin dal febbraio 1592, faceva ritirare gli esemplari già distribuiti della Bibbia sistina, dall'altro, affidava ai cardinali Borromeo e Valier e al padre Toledo il compito di preparare una nuova edizione. I lavori della commissione furono ultimati a tempo di primato: il 28 aprile 1592, infatti, fu consegnato al papa il nuovo testo. C., pur consapevole delle imperfezioni che esso ancora conteneva, lo fece dare alle stampe agli inizi di settembre per non ritardare ulteriormente un'edizione che si attendeva da quasi cinquant'anni. Nel dicembre successivo uscirono, pertanto, i primi esemplari: così, per la prima volta, la Chiesa veniva dotata di un testo ufficiale della Bibbia.
Negli anni successivi, le attenzioni di C. furono dedicate alla revisione dei principali libri liturgici. Nel 1596 fece pubblicare il Pontificale romano, seguito, nel 1600, dal Cerimoniale dei vescovi; quindi, nel 1602, era la volta del Breviario romano, la cui revisione era stata dal papa affidata ad una commissione della quale facevano parte i cardinali Baronio, Bellarmino e Antoniano; infine, nel 1604, usciva la nuova edizione del Messale, pure essa preparata con il concorso di Baronio e di Bellarmino. Con l'edizione ufficiale della Bibbia e con l'attuazione della riforma liturgica, C. aveva portato a compimento l'opera auspicata dal concilio, e, nel contempo, conferito coesione ed uniformità ad un settore importante della vita della Chiesa.
Ulteriore contributo al processo di sistematizzazione sarebbe dovuto venire dalla codificazione delle numerose costituzioni pontificie emanate dopo la pubblicazione delle Clementine, e non comprese, quindi, nel Corpus iuris canonici. A tale scopo, un progetto era stato avviato, sin dal 1589, per iniziativa di Sisto V e C., da cardinale, aveva fatto parte della commissione incaricata di prepararne l'edizione. Sotto il suo pontificato, i lavori proseguirono alacremente, anche se la raccolta fu pronta per la stampa soltanto nel 1598. Benché, come giurista, l'iniziativa gli stesse particolarmente a cuore, C. finì col rinunciare a pubblicare quello che sarà poi noto come il Liber septimus Decretalium: oltre a considerazioni di carattere tecnico, a spingere il papa a questa decisione ebbe peso determinante il timore che le norme contenute nella raccolta potessero essere considerate dai sovrani cattolici lesive dei diritti statali e dar quindi adito ad una recrudescenza dei conflitti giurisdizionali.
Se, com'è ovvio, le preoccupazioni del papa furono prevalentemente rivolte ai problemi della Chiesa latina, non per questo si disinteressò delle Chiese orientali. Anche in tale settore, la sua opera fu rivolta a stimolare la vita religiosa, accentuando, sia pure nel rispetto dei riti particolari di ogni Chiesa, il controllo della Santa Sede su di esse. In questa tendenza si inseriscono l'invio dei Gesuiti a Chio, nel 1598, e a Nasso, nel 1600, nonché la nomina, nel 1596, di un altro gesuita, G. Dandini, a visitatore apostolico dei maroniti del Libano. Particolare attenzione C. accordò alla situazione dei cattolici di rito greco dell'Italia meridionale: aumentò la dotazione del loro collegio romano e creò, nel 1593, un'apposita Congregazione incaricata di studiare i problemi specifici degli Italo-albanesi. Come frutto dei lavori di questa Congregazione si ebbe la nota istruzione del 13 agosto 1595, con la quale furono eliminati alcuni abusi relativi all'osservanza del digiuno e all'amministrazione dei sacramenti. Inoltre, in quello stesso anno, con una decisione innovatrice rispetto alla pratica seguita fino ad allora, C. affidò il compito di effettuare le ordinazioni sacerdotali dei Greci d'Italia ad un vescovo di rito bizantino residente a Roma e direttamente soggetto all'autorità pontificia al di fuori di una gerarchia ecclesiastica particolare.
Oltre che per i problemi delle Chiese orientali, C. dimostrò particolare sensibilità anche per quelli dei rapporti con i cristiani separati. In questo settore, egli doveva infatti conseguire un duplice successo con la riunione a Roma dei copti e dei ruteni. Poco dopo la sua elezione, il papa aveva dimostrato il suo interesse per la Chiesa copta, riallacciando i contatti che si erano già avuti durante i pontificati di Gregorio XIII e di Sisto V con il patriarcato di Alessandria, ove, nel marzo 1592, inviava un nunzio nella persona di G.B. Vecchietti. La missione ebbe pieno esito, di modo che, nel giugno 1594, arrivarono a Roma tre rappresentanti del patriarca Gabriele e del "commus" di Alessandria Giovanni per prestare obbedienza al pontefice. C. accolse paternamente gli inviati, ma ritenne che essi non fossero muniti dei poteri sufficienti e pretese che gli impegni da essi sottoscritti fossero confermati dal patriarca e dal "commus"; tardando a venire la ratifica, accettò in via provvisoria la professione di fede e l'atto di obbedienza dei delegati durante una cerimonia svoltasi il 15 gennaio 1595, nel corso della quale egli si astenne dal prendere la parola per non conferire ufficialità all'atto. La ratifica, sollecitata da C. mediante una seconda missione di Vecchietti, avvenne soltanto due anni più tardi e fu compiuta da una nuova delegazione copta nel corso di una solenne cerimonia svoltasi nel palazzo del Quirinale alla presenza dei cardinali il 25 giugno 1597. L'unione non era però destinata a durare a lungo, perché dissensi intervenuti in seno alla Chiesa copta e la successiva scomparsa, nel 1603, del patriarca Gabriele, dovevano condurre ad un nuovo allontanamento da Roma sotto il pontificato di Paolo V.
Definitiva fu invece la riunione dei ruteni di Polonia. Nel 1595, i principali prelati ruteni, spinti dal desiderio di promuovere il rinnovamento religioso della loro Chiesa, si erano adunati in sinodo a Brest-Litovsk ed avevano deciso di staccarsi dal decaduto patriarcato di Costantinopoli per riunirsi a Roma. Due di loro, il vescovo di Vladimir, Pociej, e quello di Luck, Terlecki, furono inviati al papa con l'incarico di trattare l'unione sulla base dei termini stabiliti nei decreti del concilio di Firenze. Giunti a Roma il 15 dicembre di quello stesso anno, essi furono ricevuti con grande benevolenza da C., il quale sottopose le loro richieste all'esame della Congregazione dell'Inquisizione. Le discussioni approdarono rapidamente ad uno sbocco positivo, di modo che, il 23 dicembre 1595, i due prelati furono ammessi a pronunciare la solenne professione di fede.
Determinante, ai fini della rapida conclusione delle trattative, era stato l'atteggiamento conciliante e realistico del papa: rifacendosi al principio, sancito dal concilio di Firenze, dell'unità dottrinale nella diversità dei riti, C. aveva richiesto l'accettazione, oltre che di quelli fiorentini, anche dei decreti del concilio di Trento, ma aveva invece rinunciato ad imporre quegli obblighi che incontravano le più forti resistenze dei ruteni, come quelli del celibato ecclesiastico e dell'adozione del calendario gregoriano; egli aveva inoltre attribuito il diritto di confermare e consacrare a nome del papa i vescovi al metropolita, il quale, per contro, doveva chiedere alla Santa Sede la conferma della propria elezione. L'unione con Roma fu poi ratificata nel 1596 da un sinodo riunitosi a Brest-Litovsk.
All'apertura verso i cristiani separati corrispose, sotto il pontificato Aldobrandini, una spinta ancor più dinamica e penetrante verso i popoli da evangelizzare. L'importanza attribuita da C. all'attività missionaria e la sua volontà di stimolarla e coordinarla sono palesate dalla sua iniziativa di istituire, nel 1599, una Congregazione cardinalizia "super negotiis Sanctae Fidei et Religionis Catholicae", nota poi con la più breve denominazione "de Propagatione Fidei" o "de Propaganda Fide". Benché la documentazione rimasta sull'attività di questa Congregazione sia estremamente scarsa, appare però chiaro che la sua istituzione rispondeva ad una concezione tipicamente controriformistica dell'attività missionaria, dal momento che le competenze della Congregazione si estendevano non soltanto ai territori da evangelizzare, ma anche alle aree europee passate alla Riforma.
Sin da prima della creazione della Congregazione, C. aveva però rivolto la propria attenzione ai problemi missionari. Durante tutto il suo pontificato si interessò ai progressi dell'evangelizzazione nell'America Latina, appoggiando l'instancabile azione dei Gesuiti in Cile ed in Perù, favorendo lo sviluppo dell'Università di Messico ed elevando a rango di università il collegio dei Domenicani di Puebla, sostenendo l'opera della Chiesa in difesa degli Indios, in particolare degli Araucani del Cile. Analoghe attenzioni furono rivolte dal papa alle missioni in Estremo Oriente: nelle Filippine, ove, nel 1595, creò la provincia ecclesiastica di Manila, favorì in ogni modo lo sforzo missionario dei Gesuiti e dei Domenicani; si preoccupò di sovvenire ai bisogni finanziari dei seminari e delle chiese del Giappone; seguì con interesse i progressi del cattolicesimo in Cina, dando la sua approvazione ai metodi missionari ivi introdotti dal padre Matteo Ricci. Allo scopo di dare maggiore impulso all'evangelizzazione di questi due paesi, revocò, nel 1600, il privilegio di Gregorio XIII che la riservava ai soli Gesuiti e autorizzò tutti gli Ordini mendicanti ad inviarvi i loro missionari. Al personale interessamento di C. si deve anche l'invio dei primi missionari in Persia, che fu raggiunta dagli Agostiniani nel 1602; a loro rinforzo, il pontefice inviò poi, nel 1604, i Carmelitani Scalzi, i quali giunsero però a destinazione, dopo un viaggio di tre anni e mezzo, soltanto sotto Paolo V.
In linea con le preoccupazioni religiose di C. e direttamente ispirato da esse è anche il maggior impegno con il quale, sotto il suo pontificato, venne attuata la lotta contro l'eresia, specialmente attraverso la Congregazione dell'Inquisizione, ai cui lavori il papa partecipava personalmente una volta alla settimana. Attestano questo accresciuto rigore la proibizione, sin dai primi anni, del Talmūd e degli altri libri ebraici, in contrasto con l'atteggiamento più tollerante mantenuto in materia da Sisto V; il divieto posto nel 1596 ai sudditi degli Stati italiani di risiedere nei luoghi in cui non fosse esercitato il culto cattolico, ed i provvedimenti che proibivano ai forestieri provenienti da paesi acattolici di soggiornare in Italia; la conferma delle bolle di Paolo IV contro quanti celebravano la messa o amministravano i sacramenti senza essere ordinati e contro quanti negavano il dogma della Trinità. Lo attesta, soprattutto, la ripresa, a partire dal 1595, delle condanne capitali per eresia, che furono più di trenta nel decennio successivo, tra cui quella, nel 1600, di Giordano Bruno, l'estradizione del quale C. aveva ottenuto dalla Repubblica veneta sin dal 1593. In questa stessa tendenza di maggiore severità si inserisce anche, nel 1596, la pubblicazione del nuovo Indice dei libri proibiti. Una sua prima stesura era stata approntata sin dal 1593 sulla base della revisione dell'Indice sistino, che era rimasto inedito. Ma le proteste che l'ampiezza delle proibizioni contenute nel nuovo Indice aveva suscitato e delle quali si era fatto autorevole portavoce l'ambasciatore veneziano Paolo Paruta, egli stesso uomo di lettere, spinsero C., anche dietro il parere di Baronio, ad ordinarne il rifacimento. Completato nel corso dei tre anni successivi, esso fu pubblicato il 27 marzo 1596.
Più che dall'Indice stesso, l'accresciuto rigore della censura ecclesiastica risulta evidente dalla Instructio allegata ad esso: se, per un verso, in luogo della proibizione totale di determinate opere, veniva ammessa la possibilità di correzione ("expurgatio") di singoli passaggi, dall'altra tale correzione veniva resa obbligatoria non solo per le proposizioni ereticali, ma anche per i passaggi riguardanti le superstizioni, profezie e divinazioni, per quelli che contenevano offese al clero o attacchi alla libertà, immunità e giurisdizione ecclesiastiche, per quelli di carattere lascivo o corredati da illustrazioni oscene. Inoltre, per la prima volta, veniva imposto ai librai il giuramento di osservare l'Indice e di non ammettere nelle loro corporazioni persone sospette d'eresia. All'atto pratico, C., pur di ottenere la pubblicazione dell'Indice si dimostrò disposto a moderare le norme della Instructio, come fece in quello stesso 1596 a favore della Repubblica veneta, le cui autorità si erano rifiutate di applicare le nuove disposizioni.
Un capitolo del pontificato di C. che attesta la sua preoccupazione per la tutela dell'ortodossia è quello che riguarda una delle più accese controversie teologiche del secolo, la cosiddetta controversia De Auxiliis. La pubblicazione, nel 1588, della Concordia liberi arbitrii del gesuita Luis de Molina aveva dato l'avvio a vivaci discussioni sul problema, che il concilio di Trento non aveva affrontato direttamente, del rapporto tra grazia e libero arbitrio in ordine alla giustificazione e alla salvezza. L'opera di Molina, peraltro in linea con una posizione dottrinale già manifestatasi nell'ambito della Compagnia di Gesù, tendeva a sottolineare la libertà e la piena responsabilità dell'uomo nel raggiungimento della salvezza. Questa tesi fu da alcuni teologi considerata incompatibile con la dottrina tomistica, in particolare dai Domenicani, che ne erano i maggiori interpreti, i quali, invece, esaltavano l'influsso determinante della grazia. La questione diede luogo in Spagna ad accesi dibattiti: il rumore che essi avevano suscitato giunse fino a Roma e indusse C. ad intervenire. Il 5 luglio 1595 fece comunicare al nunzio a Madrid che egli avocava a sé la questione, mentre, contemporaneamente, ordinava alle parti di illustrare per iscritto le loro posizioni e di inviare gli incartamenti a Roma. Iniziava così una travagliata vicenda di cui C. non avrebbe visto l'epilogo. Benché alla fine del 1597 la documentazione richiesta non fosse ancora giunta a Roma, il papa incaricò una speciale commissione di esaminare le tesi contenute nella Concordia liberi arbitrii. La commissione pronunciò un giudizio negativo il 13 marzo 1598; siccome, però, nel frattempo erano giunti gli incartamenti attesi, il papa le impose di riesaminare il giudizio alla luce del nuovo materiale. La commissione tornò a riunirsi ed il 12 novembre confermò la precedente censura.
Frattanto, il clima polemico tra i due opposti schieramenti - i Gesuiti da un lato, i Domenicani, con il loro più autorevole teologo, Domingo Báñez, dall'altro - si era andato surriscaldando. Nella speranza di poter comporre la controversia evitando una formale condanna dell'opera, C. decise di cambiare procedura e di tentare una conciliazione tra le opposte tesi attraverso un dibattito tra le parti, tentativo che, dopo qualche risultato iniziale, finì col fallire. Il pontefice fu perciò costretto a tornare al procedimento censorio iniziale: allargò la composizione della commissione e la incaricò di riesaminare la censura del 1598 che era stata contestata dai Gesuiti in quanto colpiva alcune proposizioni che non erano di Molina. I lavori iniziarono nell'aprile 1600 e si conclusero nel luglio seguente con una nuova condanna, poi confermata dopo un ulteriore esame imposto da C., il 6 agosto 1601. I censori furono poi ricevuti in udienza dal papa che, al termine di un'ampia discussione, si convinse che il giudizio contro Molina era fondato. Ciò nonostante egli esitava a pronunciare una condanna, da un lato, perché riteneva che una questione così delicata richiedesse un esame più approfondito, dall'altro, perché temeva le conseguenze che avrebbe potuto produrre un provvedimento pontificio su una controversia che ormai non divideva più soltanto due Ordini rivali, ma interi settori della Chiesa. Una via d'uscita gli fu suggerita dal gesuita Gregorio di Valencia: riaprire le discussioni in sedute presiedute dal papa stesso. C. inaugurò così una nuova fase dei dibattiti che iniziarono il 20 marzo 1602 e che sarebbero poi proseguiti, nei tre anni successivi, per altre sessantasette sedute, durante le quali il pontefice assunse effettivamente la direzione delle discussioni. Era lui che fissava le questioni da esaminare e che dava la parola agli oratori; nel corso dei dibattiti interveniva personalmente, sia facendo domande sia esponendo il proprio pensiero. Dal modo in cui C. impostò l'esame delle tesi di Molina appare evidente che egli desiderava soprattutto chiarire se, e in che misura, quest'ultimo si discostava dalla dottrina di s. Agostino, da lui considerata il punto di riferimento obbligato dell'ortodossia cattolica. L'apertura di una nuova fase dei dibattiti e l'ampiezza data alla discussione attestano chiaramente la ripugnanza di C. a definire con un verdetto l'intricata controversia. In tale ripugnanza non si manifestava soltanto un tratto tipico della sua personalità; vi si rifletteva anche il timore che una condanna delle tesi moliniste potesse indurre la Compagnia a respingere la decisione papale. In questa sua convinzione C. fu confermato quando, nel marzo 1602, gli giunse notizia che nel collegio gesuita di Alcalá erano state difese alcune tesi, una delle quali aveva per titolo: Non est de fide hunc numero hominem, v.g. Clementem Octavum, esse Summum Pontificem. Egli ne rimase scandalizzato e per mezzo del nunzio fece punire i colpevoli: con ciò l'incidente fu chiuso, ma a lui rimase il sospetto che i Gesuiti preparassero gli argomenti dottrinali per respingere una eventuale condanna papale. Questa non doveva però venire. Quando, agli inizi del febbraio 1605, le discussioni si erano praticamente esaurite e la decisione veniva data per imminente, C. ebbe un colpo apoplettico, dal quale non doveva più riprendersi: morì, infatti, a Roma il 3 marzo 1605.
Tentare di offrire una valutazione complessiva del pontificato di C. è impresa tutt'altro che agevole, dal momento che, dopo il volume a lui dedicato da Pastor, non si è avuta alcuna biografia del papa, né esaurienti monografie sugli aspetti più salienti della sua opera. Pur non consentendo, quindi, l'attuale stato degli studi di formulare un giudizio storico criticamente articolato, si può però fare qualche considerazione di carattere generale. Innanzi tutto, appare evidente che il pontificato Aldobrandini non si salda con un bilancio interamente attivo: pesano negativamente su di esso il fallimento della politica inglese e antiturca (specialmente quest'ultima, che comportò esborsi enormi senza alcuna contropartita), il progressivo dissesto delle finanze pontificie, la mancata soluzione della controversia sulla grazia. Ciò premesso, non si può fare a meno di rilevare come, per il resto, questi insuccessi siano ampiamente compensati dagli esiti positivi della sua azione, in particolare, il riacquisto, da parte della Santa Sede, della posizione di equidistanza tra le potenze cattoliche dopo la riconciliazione di Enrico IV, la conseguente opera di pacificazione, il nuovo slancio dato all'attuazione del programma tridentino, il recupero delle posizioni cattoliche in Francia e nell'Impero. Su questa valutazione complessivamente positiva della sua opera concorda, sia pure con accenti diversi, tutta la storiografia da Ranke in poi. Recentemente è stata proposta da R. Mols una interpretazione diversa che, pur muovendo da un giudizio positivo del pontificato, tende a mettere in risalto i difetti personali del papa e ad attribuire di conseguenza i suoi successi al concorso di fattori esterni e all'opera dei collaboratori. Si tratta indubbiamente di un argomento sottile, perché per C., come del resto per chiunque abbia occupato posti di alta responsabilità, è spesso difficile stabilire quale sia stata l'effettiva portata della sua azione personale. Nel caso specifico, però, se è chiaro che, in alcuni casi, C. non fece altro che portare a compimento programmi avviati dai suoi predecessori o ratificare decisioni ed iniziative promosse dall'apparato curiale, dai collaboratori o dai rappresentanti all'estero, risulta difficile convincersi che un papa che riservava a sé ogni decisione, che leggeva personalmente i dispacci e li postillava, che scriveva di proprio pugno lettere e minute di brevi, non abbia dato un'impronta personale alla propria opera. Lo studio delle fonti originali sembra infatti indicare che nei suoi successi, come nei suoi fallimenti, meriti e responsabilità siano da attribuire a C. stesso.
fonti e bibliografia
L'unica opera d'insieme sulla figura e sul pontificato di C. rimane, a tutt'oggi, L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, XI, Roma 1929, la quale è basata su di un'ampia ricerca archivistica e bibliografica: ad essa si rinvia per i riferimenti alle fonti ed alla letteratura più antica.
Per quanto riguarda la biografia di C. prima dell'assunzione al pontificato, fonte preziosa e non ancora utilizzata è il diario di un anonimo ecclesiastico al suo servizio, diario che si conserva manoscritto nell'A.S.V., Fondo Borghese, ser. IV, 145/145 A/145 B; altre notizie si ricavano da F. Parisi, Della epistolografia [...], Roma 1787, pp. 39-40, 72-88; P.B. Visconti, Città e famiglie nobili e celebri dello Stato pontificio, III, ivi 1848, pp. 151-67; R. de Hinojosa, Los despachos de la diplomacia pontificia en España, I, Madrid 1896, p. 201; Correspondencia diplomática entre España y la Santa Sede durante el pontificado de S. Pio V, a cura di L. Serrano, IV, ivi 1914, pp. 375-76, 522 n. 1; E. Cerchiari, Capellani papae et Apostolicae Sedis auditores causarum Sacri Palatii apostolici [...], II, Romae 1920, p. 109; C. Hirschauer, La politique de St. Pie V en France (1566-1572), Paris 1922, ad indicem; H. Hoberg, Die Antrittsdaten der Rotarichter von 1566 bis 1675, "Römische Quartalschrift für Christliche Altertumskunde und Kirchengeschichte", 48, 1953, p. 215; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, Milano 1863-66, s.v. Aldobrandini, tav. 2; per i rapporti di C. con Filippo Neri, sia prima, sia dopo l'elezione v. Il primo processo per s. Filippo Neri, a cura di G. Incisa della Rocchetta-N. Vian, IV, Città del Vaticano 1963, ad indicem; C. Gasbarri, Varietà filippine, "Ecclesia", 5, 1947, pp. 252-55; L. Ponnelle-L. Bordet, Saint Philippe Néri et la société romaine de son temps (1515-1595), Paris 1958, pp. XLIV-XLV; A. Cistellini, San Filippo Neri, l'Oratorio e la Congregazione oratoriana, I-III, Brescia 1989, ad indicem; V. Frajese, Tendenze dell'ambiente oratoriano durante il pontificato di Clemente VIII, "Roma Moderna e Contemporanea", 3, 1995, nr. 1, pp. 57-80; sulla legazione in Polonia: A. Theiner, Vetera Monumenta Poloniae et Lithuaniae gentiumque finitimarum historiam illustrantia, III, Romae 1863, pp. 59-84, 124-32; L.Voltolini-Mathaus, Die Legation des Cardinals Hippolyt Aldobrandini nach Polen [...], "Bessarione", ser. II, 8, 1904-05, pp. 294-310; Nuntiaturberichte aus Deutschland [...], ser. II, Die Nuntiatur am Kaiserhofe, II, a cura di J. Schweitzer, Paderborn 1912, ad indicem; V. Meysztowicz, Antonii Martinelli relatio de Hippolyti Aldobrandini legatione in Polonia, "Antemurale", 12, 1968, pp. 29-42; J.W. Wos, La legazione diplomatica in Polonia del cardinale I. Aldobrandini in una lettera di Emilio Pucci, "Rinascimento", ser. II, 10, 1970, pp. 219-34; per il conclave: A. Borromeo, España y el problema de la elección papal de 1592, "Cuadernos de Investigación Histórica", 2, 1978, pp. 175-200 (per i refusi, v. l'Errata corrige, ibid., 3, 1979).
Numerose sono le fonti date alle stampe dopo la pubblicazione del volume del Pastor; oltre ad alcune più specifiche, che verranno menzionate a suo luogo, qui ci limitiamo a ricordare le più importanti, e cioè gli atti delle Nunziature: Correspondance d'Ottavio Mirto Frangipani, Premier Nonce de Flandre, II-III, a cura di A. Louant, Rome-Bruxelles 1932-42; Epistulae et acta nuntiorum apostolorum apud imperatorem, III, Epistulae et acta Iohannis Stephani Ferrerii, I, 1, a cura di Z. Kristen, Pragae 1944; Indices de la Correspondencia entre la nunciatura en España y la Santa Sede durante el reinado de Felipe II, a cura di J. Olarra Garmendia-M.L. Larramendi, II, Madrid 1949, pp. 326-579; Litterae nuntiorum apostolorum historiam Ucrainae illustrantes, a cura di A.G. Welykyi, I-II, Romae 1959: I, pp. 327-41; II, pp. 5-252; Correspondencia [...], durante el reinado de Felipe III, a cura di J. Olarra Garmendia-M.L. Larramendi, I, ivi 1960; II, ivi 1962, pp. 9-263; Correspondance du nonce en France Innocenzo del Bufalo, évêque de Camerino (1601-1604), a cura di B. Barbiche, ivi-Paris 1964; La nunziatura a Praga di Cesare Speciano (1592-1598), a cura di N. Mosconi, I-IV, Brescia 1966 (a proposito della quale v. però anche i rilievi critici di G. Lutz, Die Prager Nuntiatur des Speciano [...], "Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken", 48, 1968, pp. 369-81); Nuntius Ottavio Mirto Frangipani, a cura di B. Roberg, I-III, München-Paderborn-Wien 1971-83; Die Hauptinstruktionen Clemens' VIII. für die Nuntien und Legaten an den europäischen Fürstenhöfen, 1592-1603, I-II, a cura di K. Jaitner, Tübingen 1984. Ad integrazione di questi due ultimi volumi, v. i saggi contenuti in Das Papsttum, die Christenheit und die Staaten Europas, 1592-1605. Forschungen zu den Hauptinstruktionen Clemens' VIII., a cura di G. Lutz, ivi 1994.
Per l'organizzazione delle Segreterie pontificie e della Curia romana durante il pontificato: N. Del Re, La Curia romana [...], Roma 1970, ad indicem; H. Jaschke, Das "persönliche Regiment" Clemens' VIII. Zur Geschichte des päpstlichen Staatssekretariats, "Römische Quartalschrift für Christliche Altertumskunde und Kirchengeschichte", 65, 1970, pp. 133-44; M. Laurain-Portemer, Absolutisme et népotisme. La surintendance de l'État ecclésiastique, "Bibliothèque de l'École des Chartes", 131, 1973, pp. 508-11; K. Jaitner, Il nepotismo di Clemente VIII (1592-1605): il dramma del cardinale Cinzio Aldobrandini, "Archivio Storico Italiano", 146, 1988, pp. 57-93; per i rapporti di C. con il Concistoro e, più in generale, per gli avvenimenti dei primi anni del suo pontificato, v. P. Prodi, Il card. Gabriele Paleotti, II, Roma 1967, ad indicem; per l'assoluzione di Enrico IV ed i rapporti con la Francia: Lettres de Henri IV, a cura di B. Barbiche, Città del Vaticano 1968, ad indicem; B. Barbiche, Lettres originales de Henri IV à Clément VIII [...], in Miscellanea in onore di monsignor M. Giusti, I, ivi 1978, pp. 35-71; G. Cozzi, Gesuiti e politica sul finire del '500. Una mediazione di pace tra Enrico IV, Filippo II e la Sede apostolica, "Rivista Storica Italiana", 75, 1963, pp. 475-537; R. De Maio, Alessandro Franceschi e il card. Pierre Gondi nella riconciliazione di Enrico IV, in Mélanges E. Tisserant, VI, Città del Vaticano 1964, pp. 313-56 passim; per il recupero di Ferrara: A. Gasparini, Cesare d'Este e Clemente VIII, Modena 1960; B. Barbiche, La politique de Clément VIII à l'égard de Ferrare, "Mélanges d'Archéologie et d'Histoire", 74, 1962, pp. 289-328; sull'intervento di C. nelle paci di Vervins e di Lione, cfr.:J.L. Cano de Gardoqui, La cuestión de Saluzzo en las comunicaciones del Imperio español (1581-1601), Valladolid 1962, passim, in partic. pp. 33 ss., 126 ss.; A.E. Imhof, Der Friede von Vervins, 1598, Aarau 1966, ad indicem; A. Borromeo, Clément VIII, la diplomatie pontificale et la paix de Vervins, in Autour du traité de Vervins. Guerre et paix en Europe (fin XVIe-début XVIIe siècle), Colloque international, Vervins 1er-3 mai 1998 (in corso di stampa); per i rapporti con la Spagna, oltre al vecchio, già citato, R. de Hinojosa, Los despachos, pp. 347-423, v.: J.L. Cano de Gardoqui, España y los estados italianos independientes en 1600, "Hispania", 23, 1963, pp. 527, 531, 533 s., 536 s., 544, 546-53; Id., La "conspiración de Biron" (1602), Valladolid 1970, ad indicem; A.D. Wright, Federico Borromeo and Baronius, Reading 1974, passim; A. Borromeo, Le controversie giurisdizionali tra potere laico e potere ecclesiastico nella Milano spagnola sul finire del Cinquecento, in Atti dell'Accademia di San Carlo - Inaugurazione del IV Anno Accademico, Milano 1981, pp. 53 ss.; Id., Il card. Cesare Baronio e la Corona spagnola, in Baronio storico e la Controriforma. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Sora 6-10 ottobre 1979, a cura di R. De Maio-L. Giulia-A. Mazzacane, Sora 1982, pp. 57 ss.; sulla politica di C. negli affari d'Inghilterra, ed in particolare nella questione della successione al trono: L. Hicks, Sir Robert Cecil, Father Parsons and the Succession, 1600-1601, "Archivum Historicum Societatis Iesu", 24, 1955, pp. 115-17, 121, 127-29, 131 ss.; Id., The Embassy of Sir Anthony Standen in 1603, II-IV, "Recusant History", 5, 1959-60, pp. 185 ss.; 6, 1961-62, pp. 163 ss.; 7, 1963-64, pp. 52 ss.; A.J. Loomie, Toleration and Diplomacy. The Religious Issue in Anglo-Spanish Relations 1603-1605, Philadelphia 1963, ad indicem; Id., Philip III and the Stuart Succession in England, 1600-1603, "Revue Belge de Philologie et d'Histoire", 43, 1965, pp. 492, 501, 503-05, 507, 509-13; J. Bossy, Henry IV, the Appellants and the Jesuits, "Recusant History", 8, 1965-66, pp. 82, 84-6, 97; B. Barbiche, La nonciature de France et les affaires d'Angleterre au début du XVIIe siècle, "Bibliothèque de l'École des Chartes", 125, 1967, pp. 399-429 passim; sull'atteggiamento di C. verso la ribellione in Irlanda: J.J. Silke, Hugh O'Neill, the Catholic Question and the Papacy, "The Irish Ecclesiastical Record", ser. V, 104, 1965, pp. 68-70, 72-8.
Sull'azione di C. nei riguardi dell'Impero, non si sono avuti studi recenti: qualche indicazione si può però ricavare da C. Pérez Bustamante, España y el Imperio en los comienzos del siglo XVII, "Boletín de la Real Academia de la Historia", 154, 1972 pp. 494 ss.; R.J.W. Evans, Rudolf II and his World, Oxford 1973, ad indicem.
Per la politica antiturca: O. Halecki, Le projet de Ligue anti-ottomane à la fin du XVIe siècle, in Académie des inscriptions et belles-lettres. Comptes-rendus des séances de l'année 1960, Paris 1961, pp. 191, 196; P. Bartl, "Marciare verso Costantinopoli". Zur Türkenpolitik Klemens' VIII., "Saeculum", 20, 1969, pp. 44-56; D. Caccamo, La diplomazia della Controriforma e la crociata: dai piani del Possevino alla "lunga guerra" di Clemente VIII, "Archivio Storico Italiano", 128, 1970, pp. 266 ss.; A. Tamborra, Dopo Lepanto: lo spostamento della lotta antiturca sul fronte terrestre, in Il Mediterraneo nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto, Firenze 1974, pp. 377 ss.; E. Springer, Kaiser Rudolf II., Papst Clemens VIII. und die bosnischen Christen. Taten und Untaten des Cavaliere Francesco Antonio Bernucci in kaiserlichen Diensten in den Jahren 1594-1602, "Mitteilungen des Österreichischen Staatsarchivs", 33, 1980, pp. 77-105; B. Roberg, Türkenkrieg und Kirchenpolitik. Die Sendung Kardinal Madruzzos an den Kaiserhof und zum Reichstag von 1594, "Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken", 65, 1985, pp. 205 ss.; 66, 1986, pp. 195 ss.; C. Alonso, Una embajada de Clemente VIII a Persia (1600-1609), "Archivum Historiae Pontificiae", 34, 1996, pp. 7-126; J.P. Niederkorn, Das "negotium secretum" der Familie Cicala, "Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung", 101, 1993, pp. 425-34; Id., Die europäischen Mächte und der "Lange Türkenkrieg" Kaiser Rudolfs II. (1593-1606), Wien 1993, passim; M. Jacov, I Balcani tra Impero ottomano e potenze europee (sec. XVI e XVII). Il ruolo della diplomazia pontificia, Cosenza 1997, ad indicem. Per il governo dello Stato pontificio: J. Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVIe siècle, I-II, Rome 1957-59, ad indicem; W. Reinhard, Papstfinanz und Nepotismus unter Paul V., I-II, Stuttgart 1974, ad indicem; P.J. Rietbergen, Problems of Government. Some Observations upon a 16th Century "Istruttione per li governatori delle città e luoghi dello Stato Ecclesiastico", "Mededelingen het Nederlands Instituts te Rome", n. ser., 6, 1979, pp. 177, 179-80, 184, 186, 189, 195.
Per C. e l'arte: Fonti per la storia artistica romana al tempo di Clemente VIII, a cura di A.M. Corbo, Roma 1975; K. Schwager, Kardinal Pietro Aldobrandinis Villa di Belvedere in Frascati, "Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte", 9-10, 1961-62, pp. 289-382 passim; H. Siebenhuener, Umrisse zur Geschichte der Ausstattung von St. Peter in Rom, in Festschrift für H. Sedlmayr, München 1962, pp. 289-302; S. Prosperi Valenti, Un pittore fiorentino a Roma e i suoi committenti, "Paragone", 23, 1972, pp. 80-1, 83, 93; M.L. Chappell-W.C. Kirwin, A Petrine Triumph: The Decoration of the Navi Piccole in San Pietro under Clement VIII, "Storia dell'Arte", 21, 1974, pp. 119-70; M.C. Abromson, Clement VIII's Patronage of the Brothers Alberti, "The Art Bulletin", 60, 1978, pp. 531-47; K. Hermann Fiore, Giovanni Albertis Kunst und Wissenschaft der Quadratur, "Mitteilungen des Kunsthistorischen Instituts in Florenz", 22, 1978, pp. 61, 65-6, 68; W.C. Kirwin, The Life and Drawing Style of Cristofano Roncalli, "Paragone", 29, 1978, pp. 23-5, 40; M.C. Abromson, Painting in Rome during the Papacy of Clement VIII (1592-1605). A Documented Study, New York-London 1981; S. Macioce, Undique splendent. Aspetti della pittura sacra nella Roma di Clemente VIII Aldobrandini (1592-1605), Roma 1990; M. Beltramme, Le teoriche del Paleotti e il riformismo dell'Accademia di San Luca nella politica artistica di Clemente VIII (1592-1605), "Storia dell'Arte", 69, 1990, pp. 201-33.
Sull'opera svolta da C. in campo religioso, manca a tutt'oggi uno studio d'insieme: singoli contributi si sono però avuti in anni recenti sui singoli aspetti della sua azione.
Per la visita pastorale di Roma: D. Beggiao, La visita pastorale di Clemente VIII, Roma 1978.
Per C. e gli Ordini religiosi: M. de la Pinta Llorente, Actividades diplomáticas del p. José de Acosta, Madrid 1952, passim; I. Sicard, La reforma de los religiosos intentada por Clemente VIII, Bogotá 1954; F. Elizondo, Comentario inédito de Victorio de Appeltern a un rescripto de Clemente VIII sobre la regla franciscana, "Lateranium", 21, 1980, pp. 27-69; C. Alonso, Una visita de Clemente VIII al convento romano de San Agustín y unos decretos de reforma para toda la Orden, "Analecta Augustiniana", 60, 1997, pp. 341-56.
Per C. e l'episcopato: L. Lopetegui, Felipe III y la residencia de los obispos. Intervención del nuncio Camilo Caetani y breve de Clemente VIII, "Estudios Eclesiásticos", 18, 1944, pp. 233-56; G. Benzoni, Una controversia tra Roma e Venezia all'inizio del '600: la conferma del patriarca, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 3, 1961, pp. 121, 124 ss.; R. Robres Lluch, La Congregación del Concilio y san Carlos Borromeo en la problemática y curso de la Contrarreforma, "Anthologica Annua", 14, 1966, pp. 104-05, 110, 112, 115, 117, 120, 154, 157; K. Jaitner, De officio primario Summi Pontificis. Eine Denkschrift Kardinal Bellarmins für Papst Clemens VIII. (Sept.-Okt. 1600), in Römische Kurie. Kirchliche Finanzen. Vatikanisches Archiv. Studien zu Ehren von Hermann Hoberg, a cura di E. Gatz, I, Roma 1979, pp. 377-403; J.I. Tellechea Idígoras, Clemente VIII y el episcopado español en las postrimerías del reinado de Felipe II, "Anthologica Annua", 44, 1997, pp. 205-380.
Sulle edizioni clementine, oltre alle indicazioni fornite da D. Balboni, Il Baronio e la riforma liturgica post-tridentina, in A Cesare Baronio. Scritti vari, Sora 1963, pp. 315-22 passim, preziosa fonte rimane P.M. Baumgarten, Neue Kunde von alten Bibeln, I-II, Rom 1922-Krumbach 1927, ad indices.
Per C. e le Chiese orientali: Cardinal Giulio Antonio Santoro and the Christian East, a cura di J. Krajcar, Roma 1966, ad indicem; V. Peri, Chiesa latina e Chiesa greca nell'Italia postridentina (1564-1596), in La Chiesa greca in Italia dall'VIII al XVI secolo. Atti del convegno storico internazionale (Bari 30 aprile-4 maggio 1969), I, Padova 1973, pp. 407 ss., 413; C. Capizzi, Un gesuita italiano di fine Cinquecento per i Maroniti, "Studi e Ricerche sull'Oriente Cristiano", 1, 1978, pp. 22 s.
Per l'unione dei copti e dei ruteni: V. Buri, L'unione della Chiesa copta con Roma sotto Clemente VIII, Roma 1931; O. Halecki, From Florence to Brest (1439-1596), ivi 1958, ad indicem.
Per C. e le missioni: J. Schmidlin, Eine Vorläuferin der Propaganda unter Klemens VIII., "Zeitschrift für Missionswissenschaft", 11, 1921, pp. 232-34; C. Alonso, Clemente VIII y la fundación de las misiones católicas en Persia, "La Ciudad de Dios", 171, 1958, pp. 196-240; Id., Nuevas aportaciones para la historia del primer viaje misional de los carmelitas descalzos a Persia (1603-1608), "Missionalia Hispanica", 19, 1962, pp. 249-87 passim.
Per C. e la lotta contro l'eresia: L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, Napoli 1949, ad indicem; P. Simoncelli, Clemente VIII e alcuni provvedimenti del Sant'Uffizio, "Critica Storica", 13, 1976, pp. 129-72; A. Borromeo, Contributo allo studio dell'Inquisizione e dei suoi rapporti con il potere episcopale nell'Italia spagnola del Cinquecento, "Annuario dell'Istituto Storico Italiano per l'Età Moderna e Contemporanea", 29-30, 1977-78, pp. 247 s., 261, 262, 267.
Per l'Indice clementino: A. Rotondò, Nuovi documenti per la storia dell'Indice dei libri proibiti (1572-1638), "Rinascimento", ser. II, 3, 1963, pp. 145, 172-80; J.A. Tedeschi, Florentine Documents for a History of the Index of Prohibited Books, in Renaissance Studies in Honour of Hans Baron, a cura di A. Molho-J.A. Tedeschi, Firenze 1971, pp. 580, 587-93, 598-601, 605; P.F. Grendler, The Roman Inquisition and the Venetian Press, 1540-1605, Princeton 1977, ad indicem; V. Frajese, La revoca dell'"Index" sistino e la Curia romana (1588-1596), "Nouvelles de la République des Lettres", 1, 1986, pp. 45 ss.; Index de Rome, 1590, 1593, 1596. Avec étude des Index de Parme, 1580, et de Munich, 1582, a cura di J.M. de Bujanda-U. Rozzo-P.G. Bietenholz-P.F. Grendler, Sherbrooke-Genève 1994.
Per la storia della controversia De Auxiliis: Domingo Báñez y las controversias sobre la gracia. Textos y documentos, a cura di V. Beltran de Heredia, Madrid 1968, pp. 56, 87-92, 652-62, 667-68; E. Elorduy, Suárez en las controversias sobre la gracia, "Archivo Teológico Granadino", 11, 1948, pp. 128 s., 131 s., 153, 159, 163, 188; I. Vázquez, El arzobispo Juan de Rada y el Molinismo, "Verdad y Vida", 20, 1962, pp. 362 s., 366 s., 368-73, 374; Id., Voto inédito de fray Fernando de Campo O.F.M. sobre las controversias "De Auxiliis", ibid., 22, 1964, pp. 530 s.; Id., Fray Francisco de Herrera O.F.M. y sus votos en las controversias "De Auxiliis", ibid., 23, 1965, pp. 276, 291, 293; Id., Fray Francisco de Arriba O.F.M. en las controversias "De Auxiliis", ibid., pp. 481 s., 486-88.
Tra le voci a carattere enciclopedico, la migliore e più esauriente, nonostante qualche piccola imprecisione, è quella di R. Mols, in D.H.G.E., XII, coll. 1249-97; rapidi profili informativi si possono trovare in Dictionnaire de théologie catholique, III, Paris 1923, s.v.; E.C., III, s.v., coll. 1827-30; Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, I, Milano 1996, s.v., pp. 336-39.