Commedia
Per una definizione di c., uno dei generi più frequentati dal cinema, si potrebbe risalire ad Aristotele, o almeno a quel moderno Aristotele che è il N. Frye di Anatomy of criticism (1957): dove per il vero non si parla di cinema, ma come esempio di idillio o pastorale si cita il film western, e lo Hynkel-Hitler di The great dictator (1940; Il grande dittatore) di Charlie Chaplin viene ricollegato al modello plautino del miles gloriosus. Tema della c., collegato al mito stagionale della primavera, sarebbe l'integrazione dell'eroe nella società, una volta eliminati gli ostacoli che a partire da Menandro, e poi da Plauto e Terenzio (la cosiddetta Nuova commedia, nuova rispetto ai modelli aristofaneschi), si identificano con l'opposizione da parte dei padri o di altri personaggi autoritari e legati al passato. In questi casi, un felice 'rovesciamento' (spesso causato da scoperte impreviste, come le agnizioni, o da una congiura burlesca a fin di bene) conduce al lieto fine e al passaggio da un vecchio a un nuovo e più libero tipo di organizzazione sociale, anche se a volte tale lieto fine comporta non soltanto la sconfitta ma anche la letterale espulsione di chi rappresenta il principale ostacolo (è il caso, per es., dello shakespeariano Shylock o del jonsoniano Volpone), oppure, in un'ulteriore variazione della formula, il ritorno in scena di un personaggio autorevole ma benevolo (come Prospero in The tempest, o il Duca in Measure for measure) che si era o era stato provvisoriamente esiliato o nascosto. Per quanto invece attiene alla c. cinematografica strettamente intesa, più che all'origine teatrale (non sempre presente e comunque non determinante) si dovrà pensare a caratteristiche fondanti basate su temi e stilemi ricorrenti, tenendo anzitutto presente che la distinzione fra c. e film comico o quella che un tempo era la comica è netta nella lingua italiana, mentre non esiste nella lingua inglese, che definisce comedy sia un film sottile, raffinato ed evanescente come il lubitschiano Angel (1937; Angelo) sia il keatoniano e strepitosamente funambolico The general (1927; Come vinsi la guerra) diretto da Buster Keaton e Clyde Bruckman, o ancora le comiche di Stan Laurel e Oliver Hardy e addirittura di Red Skelton o del mediocre duo Bud Abbott-Lou Costello, noti in Italia un tempo come Gianni e Pinotto. In compenso, la parola comedy include vari sottogeneri: prima di tutto lo slapstick (basato su botte, capitomboli, inseguimenti ecc., e derivante dal termine con cui veniva designata dapprima la spatola di Arlecchino, poi, per estensione, il bastone di cui fa uso il comico), poi lo screwball (la grande stagione della c. follemente nonsensical fiorita a Hollywood negli anni Trenta, cui casualmente si sarebbe esteso un termine gergale usato nei primi decenni del secolo scorso per definire un tipo stravagante, e applicato per la prima volta al genere stesso da un anonimo cronista nel 1936, a proposito dell'ereditiera un po' matta interpretata da Carole Lombard nel film My man Godfrey, L'impareggiabile Godfrey, di Gregory La Cava); infine la c. ormai anche in Italia detta sofisticata (sophisticated, aggettivo che vale elegante, raffinato, ma anche artificioso, adulterato). Ma è necessario parlare anche di c. sentimental, romantic o, addirittura, dramatic. Nel cinema italiano, invece, la frequentazione del genere c. si divide diacronicamente nel periodo dei cosiddetti telefoni bianchi (che in realtà riguarda quasi tutta l'Europa negli anni Trenta e Quaranta) e in quello della vera e propria commedia all'italiana (v.), che non ha corrispettivi negli altri Paesi e che si legò, nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, all'eredità del Neorealismo, attingendo al tempo stesso alle radici del teatro regionale e dialettale, non senza alcune rivisitazioni dell'avanspettacolo. Successivo è stato lo sviluppo della c. di tipo televisivo o post-televisivo.
La c. nacque, nel cinema, con il cinema. Alla proiezione delle prime pellicole dei fratelli Lumière al Salon indien del Grand café in Boulevard des Capucines di Parigi, il genere era già presente in embrione: nel famoso L'arroseur arrosé (1895) di Louis Lumière un ragazzino malizioso blocca con un piede il flusso dell'acqua nel tubo di gomma connesso a un innaffiatoio, un uomo lo esamina perplesso, il piede viene ritirato e l'uomo viene sottoposto a una doccia non prevista. Sono già presenti i tre elementi essenziali: la vittima, il responsabile (che può essere un burlone o un malvagio, oppure un pasticcione e un incompetente) e la trovata, quella che in inglese si chiama gag: anzi, per essere più esatti, sight gag, gag di tipo visivo, che non ha bisogno della parola, e che nei primi decenni, quando ancora non esisteva il cinema parlato, si rivelò perfettamente capace di sostituire la punch-line, la battuta destinata a suscitare il riso nel teatro comico. Nelle mani di arti-sti geniali come Buster Keaton, Charlie Chaplin, Ernst Lubitsch e l'ingiustamente dimenticato René Clair, la mancanza del parlato si rivelò, infatti, stimolo di una fertile fucina di invenzioni: Lubitsch riuscì a portare splendidamente sullo schermo nel 1925 la c. di O. Wilde Lady Windermere's fan (Il ventaglio di lady Windermere), senza utilizzare nelle didascalie nessuna battuta wildiana, bensì giocando con gli elementi grafici nascosti o rivelati via via dalla macchina da presa (lettere, buste, assegni, bigliettini segnaposto) o con sapienti utilizzazioni dello spazio cinematografico (siepi che fanno intravedere una coppia rivelandone l'identità solo al cinquanta per cento, cannocchiali e lorgnettes che studiano dettagli o gioielli rivelatori di una signora di dubbia fama ecc.); nel film di Clair Les deux timides (1928; I due timidi) un ménage matrimoniale viene descritto senza parole in modi contrapposti dall'avvocato della moglie e da quello del marito nei due riquadri in cui si divide simultaneamente l'inquadratura. È anche sintomatico che dei quattro grandi geni della c. sopra ricordati, il primo, Keaton, non sia artisticamente sopravvissuto all'avvento del parlato, mentre Chaplin e Clair lo abbiano inizialmente combattuto o almeno evitato (Chaplin addirittura fino al 1940), pur realizzando in seguito film sonori di grande valore artistico: d'altro canto, è noto che la diffusione del parlato e del doppiaggio fu merito in parte del successo irrefrenabile e universale di altri due comici, Stan Laurel e Oliver Hardy.
Il sonoro, com'è logico, rese più facile la trasposizione di tipo meccanico, dal palcoscenico allo schermo, senza troppe modificazioni. Certo, già nei primi decenni del Novecento il cinema aveva fatto ricorso al teatro, ottenendo risultati di un certo rilievo anche senza la genialità di autori come Lubitsch o Clair: si ricordino, per es., Male and female (1919; Maschio e femmina) di Cecil B. DeMille, derivato da The admirable Crichton di J.M. Barrie, o The taming of the shrew (1929; La bisbetica domata) di Samuel Taylor, dove le battute originarie di Barrie o di W. Shakespeare, o quel poco che ne resta, sono affidate alle didascalie. Ma la novità del parlato invitò ovviamente ad adottare la strada ben più agevole del teatro filmato; e la c., per quanto riguarda gli Stati Uniti, si pose anche su una frontiera d'altro tipo: quella che univa e divideva cinema e teatro, o meglio Hollywood e Broadway. Una delle prime grandi c. degli anni Trenta, Twentieth century (1934; Ventesimo secolo) di Howard Hawks, tratta da un testo ormai dimenticato di Ch.B. Milholland, si basa proprio sul viaggio da Est a Ovest, da Broadway a Hollywood: il titolo si riferisce al nome del treno che collega il Paese da costa a costa, e la vittoria, cioè la conquista della diva (Carole Lombard), spetta proprio al vecchio teatro, e ai trucchi sfacciati e gigioneschi del regista Oscar Jaffe (John Barrymore). In effetti Hollywood, che a quell'epoca stava sistematicamente sottraendo al teatro di Broadway autori e attori, poté prendere in giro pretese, capricci e ampollosità dei divi teatrali (come in It's love I'm after, 1937, Avventura a mezzanotte, diretto da Archie Mayo, dove i protagonisti, Bette Davis e Leslie Howard, sono appassionati Giulietta e Romeo sulla scena e nemici feroci nella realtà, cioè nel film), ma poté anche permettersi il lusso di adottare il punto di vista dell'avversario, portando sullo schermo opere letterarie che dipingono il mondo del cinema a tinte fosche o in modo satirico, o comunque ribadiscono il mito del teatro (Stage door, 1937, di G.F. Kaufman ed E. Ferber, che diventò immediatamente, nello stesso anno, una bellissima dramatic comedy di G. La Cava, distribuita in Italia con il titolo Palcoscenico). Era frequente, del resto, nella c. americana degli anni Trenta, il ricorso allo spettacolo nello spettacolo, che consentì una moltiplicazione di filtri e di cornici e un ovvio distacco ironico, per es. a registi come Lubitsch, il quale inserì nei suoi primi film sonori (The love parade, 1929, Il principe consorte, e il meno felice Monte Carlo, 1930, Montecarlo) riprese dal palcoscenico che alludono a quel che avviene nella realtà del film; mentre Mervyn LeRoy dipinse con eguale sarcasmo le intemperanze di una star del teatro e di una diva del cinema in Show girl in Hollywood (1930) e Fools for scandal (1938; Il piacere dello scandalo): in questo ultimo caso, dopo averci mostrato l'attrice (Carole Lombard) intenta per un'ora e mezza a tiranneggiare l'aristocratico che per amore si è fatto assumere da lei come maggiordomo (Fernand Gravey), il regista rivela, calando il sipario, che tutto è parte di un'ulteriore finzione, cioè di una commedia. E il filone culminò agli inizi degli anni Quaranta con le grandi c. 'metalinguistiche' di Preston Sturges (Sullivan's travels, 1941, I dimenticati) e ancora di Lubitsch (To be or not to be, 1942, Vogliamo vivere).
Negli stessi anni, quelli fra le due guerre mondiali, la c. attinse con eguale liberalità al teatro anche in Europa, e quindi in Italia. Agli albori del sonoro, Alessandro Blasetti ebbe il merito di fissare sullo schermo il genio di Ettore Petrolini (Nerone, 1930) e di Raffaele Viviani (La tavola dei poveri, 1932), mentre Mario Camerini dipinse in modo ironico, ma anche affettuoso e partecipe, le bizze e la boriosità dei cantanti d'opera (Figaro e la sua gran giornata, 1931); più tardi, in tempi più calamitosi, Guido Salvini radunò il meglio del teatro italiano (Ermete Zacconi, Memo Benassi, Renzo Ricci, Cesco Baseggio, Irma Gramatica ecc.) in una vera e propria consacrazione del palcoscenico (L'orizzonte dipinto, 1941) e Luigi Chiarini contrappose la goldoniana barca dei comici alla realtà del cinema e della vita (La locandiera, 1944). Purtroppo del teatro italiano del Novecento non si adottarono solo L. Pirandello (Ma non è una cosa seria, 1936, fu del resto uno dei film meno felici di Camerini), oppure Eduardo De Filippo (Non ti pago!, 1942, di Carlo Ludovico Bragaglia), o U. Betti (I nostri sogni, 1943, una bella prova di Vittorio Cottafavi): il più delle volte si utilizzarono testi di A. De Benedetti (del resto garbati e piacevoli: lo stesso Vittorio De Sica debuttò nella regia con una fedele trasposizione del suo Due dozzine di rose scarlatte del 1936 in Rose scarlatte, 1940), o di autori come G. Gherardi, A. De Stefani, S. Pugliese o V. Tieri. Fu questa l'epopea dei telefoni bianchi, le c. leggere che in epoca fascista si distinsero ‒ mentre la propaganda era riservata ai cinegiornali Luce ‒ per il loro garrulo e luccicante parlar d'altro. Recensendo A che servono questi quattrini? (1942) di Esodo Pratelli, derivato da un lavoro teatrale di A. Curcio, il critico D. Calcagno, sulla rivista "Film" (30 maggio 1942), si pone peraltro questa significativa domanda: come mai "quelle battute che fanno crollare i teatri dalle risate […] al cinema ci lasciano imperturbabili? Certo è che questo cinematografo è un grande enigma, e chi ci si raccapezza è bravo". In quegli stessi anni autori come Lubitsch, Clair, P. Sturges, La Cava, Leo McCarey, dimostrarono di sapersi perfettamente 'raccapezzare' in quel 'grande enigma', realizzando straordinarie c. cinematografiche, e non sempre partendo da testi di eccelso valore: particolarmente significativo il caso di Lubitsch, che il più delle volte si ispirò a c. europee affidandole a sceneggiatori americani (Samson Raphaelson, Ben Hecht, Billy Wilder, Charles Brackett) che spesso del testo di partenza conoscevano solo un breve riassunto: e va da sé che oltre che su grandi registi, Hollywood poté contare su eccellenti sceneggiatori specialisti nel genere (per es. Robert Riskin, oltre a quelli appena citati), nonché su una solida e organica politica produttiva, e naturalmente su attori straordinari.
In uno dei libri più interessanti fra i moltissimi dedicati alla fioritura del 'genere' (Pursuits of happiness. The Hollywood comedy of remarriage, di un professore di filosofia della Harvard University, Stanley Cavell, che spiega It happened one night, 1934, Accadde una notte, di Frank Capra attraverso il pensiero di I. Kant e mescola The awful truth, 1937, L'orribile verità, di McCarey a frammenti di Parmenide), si fa notare fra l'altro che negli anni Trenta e Quaranta le ragazze che lavorano sono interpreta-te sullo schermo da Jean Arthur, Irene Dunne, Ginger Rogers, Rosalind Russell, Barbara Stanwyck, attrici tutte appartenenti alla medesima generazione, quella delle figlie dell'eroina ibseniana Nora Helmer e delle femministe di Seneca Falls, che appaiono sicure di sé, scattanti, spesso aggressive, compensando così il bamboleggiamento o la regressione del maschio, disposto più che altro al gioco (si pensi a Cary Grant in Bringing up baby, 1938, Susanna, di H. Hawks), se non addirittura al ruolo tradizionalmente passivo di sex object (come Ray Milland o Fred MacMurray nelle c. copertamente omosessuali di Mitchell Leisen). Per lo più, la c. americana classica si basa comunque su conflitti legati al tema della coppia: ex coniugi separati destinati a riconciliarsi o almeno a non poter fare a meno l'uno dell'altra (sul modello di Twentieth century), o una coppia sbagliata che alla fine viene opportunamente sostituita da quella giusta (sul modello di It happened one night). Questi due film risalgono entrambi al 1934, anno in cui nacque il 'genere' secondo D. Byrge e R.M. Miller (1991), per i quali il filone comprende esattamente 57 film e si esaurisce nel 1942; tuttavia è facile dimostrare che il modello funziona ancora in film recenti come Sleepless in Seattle (1993; Insonnia d'amore) di Nora Ephron, o in fortunati sfruttamenti di formule collaudate come Pretty woman (1990; Pretty woman ‒ Una ragazza deliziosa) di Garry Marshall. Sugli anni d'oro del genere, come è ovvio, esiste, oltre al fondamentale libro di Cavell, una ricchissima bibliografia: forse però la definizione più pertinente (e più maliziosamente perfida) è quella che della c., non solo cinematografica, ha dato la scrittrice inglese A. Carter, nel suo romanzo Wise children (1991; trad. it. 1992): la c. è la tragedia che capita agli altri. Del resto, anche in un recente dizionario di termini critici, dovuto a R. Fowler (1987), si legge che la c. consisterebbe nel "piacere sadico e voyeuristico con cui si contemplano le sconfitte di qualcun altro" (p. 34). Lo dimostra, ad abundantiam, il filone, forse il più ricco e giustamente celebrato, della c. americana definibile come screwball, basata appunto in gran parte sul piacere ‒ forse non proprio sadico, ma nemmeno partecipe, pietoso o solidale ‒ che lo spettatore prova davanti alle disavventure e alle continue umiliazioni del personaggio, compensato soltanto da un tardivo e opinabile lieto fine. Come esempi si potrebbero citare Bringing up baby, Bluebeard's eighth wife (1938; L'ottava moglie di Barbablù) di Lubitsch, e The lady Eve (1941; Lady Eva) di P. Sturges: i protagonisti maschili di questi tre film, l'infelice paleontologo Cary Grant nel primo, il miliardario pluridivorziato Gary Cooper nel secondo, e il timido collezionista di rettili Henry Fonda nel terzo, vengono rispettivamente perseguitati da una scombinata ragazza dell'alta società (Katharine Hepburn), da un'aristocratica squattrinata (Claudette Colbert) e da un'avventuriera (Barbara Stanwyck), che in un modo o nell'altro li costringono infine a una resa incondizionata. Il fatto che le vittime siano spesso (ma non sempre) di sesso maschile non basta comunque ad assicurare autentiche vittorie alla parte, per così dire, avversa: negli ultimi tempi, la critica femminista ‒ che pure tende a definire la c., insieme al melodramma, come genere tipicamente femminile, e proprio perché 'antiautoritario' e 'carnevalesco' (cfr. l'analisi che K. Rowe, 1995, dedica a una c. recente come Moonstruck, 1987, Stregata dalla luna, di Norman Jewison) ‒ non ha fatto molta fatica a dimostrare quanto apparenti siano in realtà quella supremazia e quei trionfi. Certo, una teoria della c. non può non confondersi con una teoria del potere e della 'superiorità'; spesso si incontra, e non sempre nascosto dietro le quinte come un regista-burattinaio, un personaggio che ordisce i suoi intrighi e ci mette a parte, strizzando l'occhio, dei suoi trucchi: si pensi a Marlene Dietrich, raffinata e seducente ladra di gioielli in Desire (1936; Desiderio) di Frank Borzage, ma con la supervisione di Lubitsch; o Carole Lombard, finta moribonda in Nothing sacred (1937; Nulla sul serio) di William A. Wellman; o, ancora, a Barbara Stanwyck, giornalista d'assalto che inventa uno scoop in Meet John Doe (1941; Arriva John Doe) di Capra. Ma è ovvio che entrando in scena e mescolandosi ai propri complici o alle proprie vittime, tale personaggio si espone al rischio dello 'smascheramento' o del (prevedibile) rovesciamento della situazione. Da notare anche che secondo Cavell la screwball comedy, o almeno il filone da lui definito comedy of remarriage, non avrebbe nulla a che vedere con le teorie della Nuova commedia riprese da Frye (ovvero con la lotta dei giovani per affermare i propri diritti alle scelte di vita e alla scelta amorosa), bensì con una ripresa della Vecchia commedia, quella basata sulle peripezie dell'eroe o dell'eroina, che può travestirsi o morire in apparenza e rinascere nello scioglimento finale (è quanto accade a Irene Dunne in My favorite wife, 1940, Le mie due mogli, di Garson Kanin, e, sia pure non letteralmente, a Greta Garbo in Ninotchka, 1939, di Lubitsch).
D'altra parte, lo schema della Nuova commedia è perfettamente applicabile a talune c. 'politiche' di Capra (per es. a Mr. Deeds goes to town, 1936, È arrivata la felicità, o a You can't take it with you, 1938, L'eterna illusione), o a film come Easy liv-ing (1937; Che bella vita) di M. Leisen, su sceneggiatura di P. Sturges, dove un padre detentore di potere economico (Edward Arnold) resta intrappolato nei suoi avveniristici uffici da macchine misteriosamente impazzite, mentre il suo erede apparentemente scioperato (Ray Milland) provoca involontariamente il panico a Wall Street nel tentativo di aiutare la ragazza povera di cui è innamorato (Jean Arthur); o come Vivacious lady (1938; Una donna vivace) di George Stevens, in cui una schiera di parenti terribili e di antiquati accademici ostacola a lungo la consumazione della nozze fra un giovane docente universitario (James Stewart) e una ballerina (Ginger Rogers). Da ricordare infine che P. Sturges, uno dei più grandi autori di c. dell'epoca, a lungo ingiustamente dimenticato, sfruttò eccellentemente in The lady Eve, e in altri film come The Palm Beach story (1942; Ritrovarsi), un altro tema secolare, quello dei sosia o dei doppi, che risale al modello plautino dei Menaechmi e alle c. giovanili di W. Shakespeare.
Anche se a partire dalla stagione 1938-39 la c. americana sparì dagli schermi italiani, a causa del ritiro delle majors e della Seconda guerra mondiale ormai alle porte, senza dubbio il modello hollywoodiano rimase tacitamente operante nel cinema italiano e in quello di quasi tutte le nazioni europee, da qualunque parte fossero destinate a schierarsi nell'imminente conflitto. Tale modello poteva anche comportare dei pericoli, come scrisse un grande critico, G. Debenedetti, sulla rivista "Cinema" nel 1938 (nr. 37; poi in Al cinema, 1983), a proposito di Angel di Lubitsch: "fare del Lubitsch è sempre stata la segreta aspirazione di quanti tentavano il genere leggero e disinvolto; naturalmente, i poveretti ricascavano sempre sul set, ad ali mozze" (p. 245). Questa non troppo segreta aspirazione pervade, all'epoca dei telefoni bianchi, gran parte della produzione italiana e anche quella di molti altri Paesi europei, come dimostrato, nel maggio 1981, dalla rassegna intitolata L'Europa dei telefoni bianchi, organizzata a Rapallo dalla Cineteca nazionale del Centro sperimentale di cinematografia: i film presentati mostravano coppie distrattamente adultere o follemente gelose senza ragione, ladri gentiluomini, maggiordomi saggi e sentenziosi, ballerine travestite da gran dame o viceversa, che parlavano linguaggi diversi e su diversi sfondi (per lo più realizzati in studio, dove cartone e puntelli erano stati abilmente dissimulati da piante smisurate e provvidenziali tendaggi), e provenienti non solo da Cinecittà, o dalla vicina Francia ovviamente esposta al contagio del teatro di boulevard, o dall'Ungheria, allora specializzata in prodotti di questo genere, ma anche da Paesi insospettabili come l'Inghilterra, la Svezia, e perfino la Germania nazista e la Russia sovietica. Si è spesso parlato di 'provincialismo' per questa stagione ormai lontana, ma lo sguardo era spesso rivolto al di là dei confini nazionali, in una serie di scambi e di prestiti: il cinema italiano, per es., non attinse soltanto al teatro nazionale, ma anche a quello tedesco, ungherese, francese e, almeno in un caso ‒ quello del film Vento di milioni (1940) di Dino Falconi ‒ utilizzò persino un testo proveniente dalla Gran Bretagna, considerata allora in Italia la 'perfida Albione'; inoltre, a volte, per ragioni di verosimiglianza o di precauzione oratoria, certi film vennero ambientati in Ungheria, dove forse lo spettatore italiano poteva credere all'esistenza di uno studio televisivo nel 1939 (Mille lire al mese, di Max Neufeld), o in Francia, dove la censura fascista non avrebbe negato l'esistenza di mendicanti, barboni e aspiranti suicidi (Darò un milione, 1935, di Camerini).
Provinciale comunque non appare certo il cinema di Camerini, anche se da provinciali si comportano spesso i suoi personaggi, come i giovani e indifesi protagonisti di Rotaie (1930), o l'autista e la commessa milanese (Vittorio De Sica e Lia Franca) dell'incantevole Gli uomini, che mascalzoni… (1932), o quel giornalaio di via Veneto (ancora De Sica) che prima cerca di mescolarsi al 'gran mondo' nel ruolo di un ricco aristocratico (Il signor Max, 1937) ma poi saggiamente rinuncia a fingere di saper giocare a bridge e a corteggiare la ricca Paola, accontentandosi della cameriera Lauretta (Assia Noris) e dei cori del dopolavoro. E non tutti coloro che cercarono di 'fare del Lubitsch' ricaddero sul set sconsolatamente ad ali mozze: non Mario Soldati con il sorprendente Dora Nelson (1939), o con Quartieri alti che pure, iniziato nel 1943, venne interrotto per cause belliche e ripreso nel 1945, risentendo ovviamente di questa genesi avventurosa. Naturalmente il cinema dei telefoni bianchi riflette fedelmente una società e una cultura ben diverse da quelle americane; in quegli anni (quelli, non si dimentichi, della presidenza Roosevelt) negli Stati Uniti si realizzavano c. coerenti, certo inconsapevolmente, con i dettami di N. Frye: dove vincevano sempre i personaggi più giovani e aggressivi, come la Katharine Hepburn di Holiday (1938; Incantesimo) di George Cukor, dalla pièce di Ph. Barry, che sfida i genitori conformisti e la sorella mentre scappa di casa con il fidanzato di quest'ultima, o la folle Carole Lombard di My man Godfrey, che per un gioco di società si porta a casa un barbone, sia pure elegante e raffinato (William Powell), e finisce per sposarlo. Nella c. italiana di quegli anni cose del genere non sarebbero mai potute accadere: Assia Noris, Alida Valli, Adriana Benetti, Silvana Jachino non osano mai sfidare i genitori, anche perché questi, se non del tutto insignificanti, vengono presentati come persone intemerate e rispettabilissime ma un po' antiquate, a beneficio delle quali, per non disilluderle, bisogna ordire complicate messinscene (da Miseria e nobiltà, 1940, di Corrado D'Errico a Dora Nelson, da Che distinta famiglia!, 1945, di Mario Bonnard al pur interessante Quattro passi fra le nuvole, 1942, di A. Blasetti, nel quale, al massimo, si può chiedere ai fieri genitori contadini di perdonare la figlia nubile e incinta, Adriana Benetti, rinunciando a vecchi pregiudizi e imparando a essere più tolleranti). Ma che non si trattasse di im-posizioni esterne legate al regime fascista, bensì endemiche nella cultura e nella società italiane, lo confermò la c. postbellica: le scelte di De Sica in Il signor Max so-no le stesse della fruttivendola arricchita Anna Magnani in Abbasso la ricchezza! (1946) di Gennaro Righelli e della sartina Lucia Bosè in Le ragazze di piazza di Spagna (1952) di Luciano Emmer, che rinunciano entrambe a una possibile ascesa sociale e al 'salto di classe', mentre le recite faticosissime per non turbare parenti anziani e benpensanti si sarebbero ritrovate nel primo film di Federico Fellini, Lo sceicco bianco (1952), che pure è una (bellissima) c. 'antiautoritaria'. Non stupisce dunque che l'attrazione (a volte inconsapevole) esercitata dal modello americano si sia rovesciata apparentemente nel suo contrario: per es., in Centomila dollari (1940) di Camerini, dove un miliardario americano, giunto in Europa a bordo del suo aereo privato, non esita, una volta incapricciatosi di una bella ragazza (Assia Noris), a offrirle una somma favolosa in cambio di un appuntamento, suscitando, ovviamente, scandalo e orrore nei suoi familiari, pronti peraltro a cambiare idea di fronte a lauti guadagni (tanto, beninteso, non sono italiani, ma ungheresi).
E il rovesciamento parodico del mito americano continuò, del resto, nella c. italiana postbellica, con il Nando Meniconi-Alberto Sordi fanatico degli Stati Uniti (Un americano a Roma, 1954, di Steno), e caratterizzò uno dei primi tentativi di c. non allineata con il regime franchista nel cinema spagnolo (Bienvenido Mister Marshall, 1952, Benvenuto, Mr. Marshall!, di Luis García Berlanga), o, e in modo ben più raffinato e sottile, certi esiti del cinema francese (il grandissimo Jacques Tati di Jour de fête, 1949, Giorno di festa e di Playtime, 1967, Playtime ‒ Tempo di divertimento).Dall'altra parte dello specchio, Hollywood a volte guardò all'Europa: c. in tutto o in parte lubitschiane come i citati Angel e Desire ‒ ma anche come gli incomparabili Trouble in paradise (1932; Mancia competente) o The merry widow (1934; La vedova allegra) ‒ tradiscono una tensione analogamente conflittuale nei confronti della civiltà europea, alla cui eleganza e souplesse aspirano senza peraltro voler raggiungere una vera confluenza sul piano dubbio e scivoloso della morale.
I film hollywoodiani vennero guardati e tenuti ben presenti anche, inaspettatamente, in URSS: si parla, infatti, di 'americanismo sovietico' per le c. che lo stesso Stalin commissionò a Grigorij M. Aleksandrov, già collaboratore di Sergej M. Ejzenštejn durante la sua breve e fallimentare esperienza hollywoodiana. A partire da Vesëlye rebjata (1934; Tutto il mondo ride), abolite le antiquate romanze e le 'canzoni della malavita' stigmatizzate da direttive ufficiali del Partito, come riferisce lo stesso regista, la nuova c. sovietica sarebbe stata accompagnata dal complesso jazzistico di L.O. Utësov e avrebbe avuto come interprete fissa Ljubov′ P. Orlova, moglie di Aleksandrov ed ex cantante d'operetta, la cui immagine venne riplasmata su quella delle bionde dive dei musical di Busby Berkeley. Lo stesso cinema della Germania nazista non disdegnò, accanto a melodrammi e film di montagna, la produzione di 'film-operetta' e di c. leggere, non troppo dissimili da quelle realizzate prima dell'avvento di A. Hitler al potere, come Der Kongress tanzt (1931; Il congresso si diverte) di Erik Charell o Die Drei von der Tankstelle (1930; La sirenetta dell'autostrada) di Wilhelm Thiele. Anche in anni di guerra, o di guerra imminente, apparvero infatti allegre c. come Hallo Janine (1939; Una ragazza indiavolata) di Carl Boese, Die Frau meiner Träume (1944; La donna che ho sognato) di Georg Jacoby o Hab' mich lieb (1942; Voglio essere amata) di Harald Braun, tutte interpretate dall'attrice e danzatrice ungherese Marika Rökk e modellate, come scrive S. Lowry (2000), sui backstage musicals hollywoodiani. Non desta stupore che il film-operetta e la c. musicale furoreggiarono anche nel cinema austriaco che, dopo l'avvento del sonoro, si legò strettamente a quello tedesco anche per ragioni di mercato e di omogeneità linguistica: fra i più apprezzati in quegli anni vi fu Im Weissen Rössl (1935; Al cavallino bianco) di Karel Lamac, mentre la c. leggera di tipo classico si imperniò su conflitti e gelosie fra fidanzati o sposi novelli (per es. Madame wünscht keine Kinder, 1933, di Hans Steinhoff), e i due filoni confluirono nel cosiddetto wiener Film, storie d'amore sulle rive del Danubio, nostalgicamente tese a rievocare l'epoca d'oro asburgica, e legate da un lato alla c. per l'immancabile happy end e il gioco degli equivoci, dall'altro al melodramma e al film musicale (il risultato più felice fu quello di Maskerade, 1934, Mascherata, di Willy Forst).
Varianti autoctone della c. nel cinema spagnolo furono la zarzuela, spettacolo di origine teatrale con parti musicali, eseguite dal vivo nella sala ai tempi del muto (e spesso cantate in coro dal pubblico), e l'espagnolade, costituita da vicende ispirate al folclore locale, rielaborato in Francia sul modello della Carmen di P. Mérimée, con passioni e vendette di toreri e gitani. Un grande successo locale ebbe, alla fine del muto, Fútbol, amor y toros (1929) di Florián Rey, c. imperniata sulla rivalità fra tifosi del calcio e appassionati della corrida. Ma negli anni Trenta, e più ancora durante il regime franchista, la Cifesa, principale casa produttrice madrilena, diede l'avvio a una produzione non lontana dal modello italiano dei telefoni bianchi, con equivoci e scambi di persona in ambienti cittadini e lussuosi, come El difunto es un vivo (1941) di Ignacio F. Iquino, o Dos cuentos para dos (1947) di Luis Lucía.
In Francia, negli anni Trenta, si ebbe la grande stagione del 'realismo poetico' o 'melodramma realista', con le opere di Marcel Carné, Julien Duvivier o Jean Renoir che tante preziose lezioni impartirono al film noir americano e, come dimostra Ossessione (1943) di Luchino Visconti, anche al Neorealismo. Il film comico, che aveva furoreggiato all'epoca del muto con i film di Max Linder prima e dopo il suo periodo a Hollywood, sopravvisse a stento negli anni Venti con modesti adattamenti dal teatro di vaudeville, a parte ovviamente le geniali rivisitazioni delle c. di E. Labiche compiute da R. Clair (Un chapeau de paille d'Italie, 1927, Un cappello di paglia di Firenze, e il già ricordato Les deux timides). All'avvento di quel cinema sonoro che pure aveva invano combattuto sul piano teorico, Clair conobbe una splendida stagione nella prima metà degli anni Trenta, utilizzando dialoghi e musiche con grande intelligenza e humour in c. improntate a un'affettuosa tenerezza (Sous les toits de Paris, 1930, Sotto i tetti di Parigi; Le million, 1931, Il milione; Quatorze juillet, 1932, Per le vie di Parigi), o a una garbata ma incisiva satira della modernizzazione e dell'industrialismo (À nous la liberté, 1931, A me la liber-tà, di cui si ricordò indubbiamente Chaplin in Modern times, 1936, Tempi moderni): tale stagione conobbe peraltro due lunghe parentesi, con un breve e poco fruttuoso esilio a Londra (1935-1938) e uno più produttivo a Hollywood per sfuggire alle persecuzioni antiebraiche (1940-1945). Non andrebbe comunque dimenticato che anche gli autori più legati al realismo poetico si cimentarono occasionalmente con la c., e con risultati felici: Carné nel divertentissimo Drôle de drame (1937; Lo strano dramma del dottor Molineux, irresistibile parodia del giallo inglese classico), e Renoir nel gaio, affettuoso populismo di Le crime de Monsieur Lange (1935; Il delitto del signor Lange); in entrambe le occasioni la base di partenza è una sceneggiatura di Jacques Prévert.All'epoca del muto, il cinema inglese tentò a più riprese la via del comico, valendosi di artisti provenienti dal music hall come 'Pimple' o Betty Balfour ‒ tutt'altro che sprovveduti ma, come osserva L. McKernan (Bambini nella nursery: il cinema muto inglese, in Storia del cinema mondiale, 3° vol., t. 1, 2000, p. 127), certo non all'altezza di un altro londinese regalato all'America, Chaplin ‒ e produsse qualche c. piacevole ma non memorabile: le migliori si trovano fra i primi lavori del giovane Alfred Hitchcock che, ancora intento a saggiare tutti i possibili generi (si pensi, per es., a Champagne, 1928, Tabarin di lusso), non rinunciò mai o quasi mai a motivi e figure tipici della c., magari in taluni marginali risvolti, nemmeno nei suoi film improntati alla suspense più angosciosa. Nel 1931 venne fondato da Basil Dean, nel sobborgo londinese di Ealing Green, uno stabilimento inizialmente chiamato Associated Talking Pictures che, sotto la direzione di Michael Balcon, si sarebbe specializzato, dalla seconda metà degli anni Quaranta, nella produzione di c. memorabili, le Ealing comedies, che ancor oggi costituiscono un modello del genere.
Negli anni Trenta, tuttavia, il cinema inglese faticava a raggiungere le quote produttive prescritte da leggi iperprotezionistiche, raggiungendo le massime glorie nel campo del documentario; la produzione di c. si limitò a qualche sporadico tentativo 'mondano', sul modello di Hollywood o dei telefoni bianchi (The divorce of lady X, 1938, L'avventura di lady X, di Tim Whelan, con Laurence Olivier e Merle Oberon), mentre altre vennero realizzate dalle majors statunitensi per recuperare fondi congelati (per es. A Yank at Oxford, 1937, Un americano a Oxford, di Jack Conway). Più felice, senza dubbio, qualche tentativo di attingere al ricco patrimonio teatrale del West End, come French without tears (1939) diretto da Anthony Asquith e tratto dall'omonimo testo di T. Rattigan, o, meglio ancora, l'eccellente Pygmalion (1938; Pigmalione), dove lo stesso Asquith, con la collaborazione non soltanto recitativa di Leslie Howard, porta fedelmente sullo schermo l'omonimo lavoro di G.B. Shaw. Continuava, nel contempo, più che altro per circuiti interni, o nell'ambito di quei film realizzati in serie e detti allora quota quickies, il ricorso al vaudeville o al varietà minore, con interpreti Gracie Fields e l'allora popolarissimo George Formby, o ‒ nel migliore dei casi ‒ l'attrice, cantante e danzatrice Jessie Matthews, eccellente in quel che ancora non si chiamava travestitismo cross-gender (in tale ambito interpretò anche First a girl, 1935, di Victor Saville, primo remake del tedesco Viktor und Viktoria, 1933, Vittorio e Vittoria, di Reinhold Schünzel).Anche se il cinema scandinavo fu tra i primi nel mondo ad affermarsi nei mercati europei (specialmente la Danimarca con i film della Nordisk nel periodo 1910-1913, e la Svezia, favorita dalla neutralità del Paese, negli anni della Prima guerra mondiale), le sole c. di particolare spicco furono quelle, maliziose e satiriche, realizzate appunto in Svezia da Mauritz Stiller, come Den moderna suffragetten (1913) e Kärlek och journalistik (1916; Amore e giornalismo): ben presto il regista partì per Hollywood portando con sé l'attrice più importante del Paese, Greta Garbo (e in America furono chiamati altri registi, come Viktor Sjöström e Benjamin Christensen, o attori come Lars Hanson). Nella Svezia degli anni Trenta si parlò (con evidente disprezzo) delle c. nazionali come di 'film della birra leggera', mentre anche le nuove dive del decennio, Ingrid Bergman e Zarah Leander, scelsero presto la via dell'esilio, trasferendosi rispettivamente a Hollywood e a Berlino.
I telefoni bianchi, che avevano cercato di allietare il pubblico italiano fra bombardamenti alleati e terrori dell'occupazione tedesca, cercarono di trovare un modus vivendi o una strategia di sopravvivenza nonostante l'avvento del Neorealismo. Questo, del resto, provvide a istituire un nuovo star system sospingendo verso il centro attori a volte già famosi ma radicati in ambiti marginali e dialettali, come Anna Magnani o Aldo Fabrizi, e ricorrendo a sorridenti situazioni da c. anche nei contesti più drammatici (per es., il garbato ma politicamente assai scorretto episodio dei buoni frati romagnoli in Paisà, 1946, di Roberto Rossellini, o le scene del bordello o quella della 'santona' in Ladri di biciclette, 1948, di De Sica, quest'ultima già di per sé divertentissima prima ancora della spiritosa citazione alleniana in Broadway Danny Rose, 1984, di Woody Allen). Non è difficile distinguere residui del passato in contesti e ambienti, talvolta rivisitati in senso populista, presenti nelle c. postbelliche di autori già attivi anteguerra come G. Righelli (che parla di borsa nera e dei problemi degli alloggi dopo lo sfollamento e le bombe nel dittico Abbasso la miseria!, 1945, e Abbasso la ricchezza!), o Gianni Franciolini (La sposa non può attendere, noto anche come Anselmo ha fretta, 1949; Le signorine dello 04, 1955), o lo stesso Luigi Zampa, che, pur essendo stato responsabile di Signorinette (1942) e non alieno da tardive rivisitazioni dello stile prebellico (È più facile che un cammello…, 1950, del resto basato su un testo zavattiniano), fu il più attento a recepire problemi ed esigenze del mutato clima, sia pure in contesti di sorridente c. (Un americano in vacanza, 1945; L'onorevole Angelina, 1947; Campane a martello, 1949). Su questo difficile crinale ‒ quello del passaggio fra il gusto prebellico dei telefoni bianchi e la gloriosa c. all'italiana di Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola e relativi attori e sceneggiatori ‒ va anche ricordato un autore allora più giovane, L. Emmer, che esordì nel film a soggetto nel 1950, con alcune c. intelligenti ispirate a un'affettuosa osservazione della realtà proletaria o piccolo-borghese (Una domenica d'agosto, 1950; Parigi è sempre Parigi, 1951; Le ragazze di piazza di Spagna, 1952).
Ritornarono intanto in Francia, dopo la parentesi americana, i grandi maestri degli anni Trenta, Clair, Renoir, Duvivier, Max Ophuls (che, rispetto agli altri, rimase a Hollywood qualche anno di più): ma come M. Carné, che nella Francia occupata era riuscito a terminare il suo capolavoro (Les enfants du paradis, 1945, Amanti perduti), si resero conto probabilmente di non essere più al centro dell'attenzione. In Francia erano emersi nuovi registi, come Robert Bresson, Henri-Georges Clouzot, Claude Autant-Lara che in certi casi avevano suscitato discussioni e polemiche. Forse anche per questo gli autori ritornati in patria rivisitarono il loro passato e lo fecero spesso in chiave di commedia. Si tratta di una c. venata di malinconia (per es., Clair con Le silence est d'or, 1947, Il silenzio è d'oro, e con Les grandes manœuvres, 1955, Grandi manovre), o di umori a un tempo nostalgici e satirici (Renoir con Eléna et les hommes, 1956, Eliana e gli uomini), o che lascia intravedere l'amarezza e la sconfitta al di là dell'eleganza del gioco e della rievocazione (Ophuls con La ronde, 1950, La ronde ‒Il piacere e l'amore, e con Le plaisir, 1952, Il piacere), mentre Duvivier riflette sui giochi dell'amore e del caso in Sous le ciel de Paris (1951; Sotto il cielo di Parigi) e sulle possibilità combinatorie offerte dal cinema (La fête à Henriette, 1952, Henriette) prima di emigrare di nuovo, ma in Italia, per raccontare l'epopea guareschiana di Peppone e don Camillo. Può valere la pena ricordare, comunque, che anche i 'nuovi' maestri francesi, escluso ovviamente il rigoroso e ascetico Bresson, sentirono a tratti il bisogno di rivisitare la c., anche quella più grossolanamente parodica (Autant-Lara con L'auberge rouge, 1951, Arriva Fra' Cristoforo…) o quella primo Novecento dell'operetta e della pochade (ancora Autant-Lara con Occupe-toi d'Amélie, 1949, Occupati di Amelia, o Clouzot con il delizioso Miquette et sa mère, 1950, Un marito per mia madre). Intanto, comunque, si erano messi in luce altri autori, alcuni già attivi da tempo, che nella c., salvo poche eccezioni, si specializzarono, come Jean-Paul Le Chanois (L'école buissonnière, 1949; la simpatica serie Papa, maman, la bonne et moi, 1954, Papà, mammà, mia moglie ed io) e soprattutto Jacques Becker, che descrisse con partecipazione e con tenerezza la vita delle classi popolari o piccolo-borghesi (Antoine et Antoinette, 1947, Amore e fortuna; Édouard et Caroline, 1951, Edoardo e Carolina). Con l'eccezione appunto di Becker e di Renoir, tutti gli autori sopra citati ‒ e gli altri rappresentanti del cosiddetto cinéma de papa ‒ furono condannati senza ap-pello da critici teorici e ispiratori della Nouvelle vague. Questi, del resto, non appena divenuti registi, fecero a loro volta, e in varie occasioni, altre c.: indimenticabili per il loro commovente e coinvolgente autobiografismo nel caso di François Truffaut e della serie di Antoine Doinel (soprattutto in Les 400 coups, 1959, I 400 colpi, e nello splendido Baisers volés, 1968, Baci rubati), meno memorabili nel pur contagioso gioco cinefilo di Jean-Luc Godard (per es. Une femme est une femme, 1961, La donna è donna), più austere e ammirevolmente rigorose nei Contes moraux e nel panorama sentimentale che di film in film dipinse Eric Rohmer. Senza contare che alla c. si è dedicato, a partire da certi risvolti dell'affascinante Mon oncle d'Amérique (1980), anche un autore raffinato, aristocratico e appartato come Alain Resnais (si veda il divertentissimo I want to go home, 1989, Voglio tornare a casa!, il dittico Smoking e No smoking, 1993, e On connaît la chanson, 1997, Parole, parole, parole…). Molto meno ricca la produzione di c. nella Germania federale o in Austria che, nei primi tentativi di ricostruzione dopo la sconfitta, fra melodrammi, 'film di rovine' e Heimatfilm (patriottiche rievocazioni di anni più felici e gloriosi, che in genere ottennero notevole successo, come per es. nell'austriaco Sissi, die Deutschweister, 1955, La principessa Sissi, di Ernst Marischka), non andò al di là di un umorismo qualunquista o piccolo-borghese nelle c. d'ambiente militare o impiegatizio interpretate da Heinz Rühmann o da Heinz Erhardt, come Keine Angst vor grossen Tieren (1953) o Mein Mann, das Wirtschaftswunder (1960), entrambe di Ulrich Erfurth: al massimo, un ricordo della c. satirica antiborghese e di stampo vagamente brechtiano si avverte in Das Mädchen Rosemarie (1958; La ragazza Rosemarie), diretto da Rolf Thiele che, insieme a Helmut Käutner e Wolfgang Staudte, fu uno dei pochi registi tedeschi di spicco attivi negli anni Cinquanta. E a differenza di quel che accadde in Francia, il nuovo cinema tedesco che nacque nella Germania del 'miracolo' anni Sessanta, a partire dal cosiddetto Manifesto di Oberhausen, fece conoscere autori di notevole valore (Alexander Kluge, Edgar Reitz, Volker Schlöndorff, Rainer Werner Fassbinder, Wim Wenders, Werner Herzog, Margarethe von Trotta, e il duo Jean-Marie Straub e Danièle Huillet fra i più noti) che peraltro dalla c. si tennero lontani, a parte Kluge con l'atipico Der starke Ferdinand (1976; Ferdinando il duro).
Per una vera c., quasi 'sofisticata', bisognerà aspettare Männer (1985; Uomini) di Doris Dörrie. Poche anche le c. prodotte in Unione Sovietica negli anni della guerra e del dopoguerra, almeno fino al di-sgelo degli anni Sessanta. Nel 1943 ottenne un grande successo Dva bojca (Due combattenti) di Leonid D. Lukov, che racconta le gesta eroicomiche di due soldati amici per la pelle, ma una c. del 1941 imperniata sui rapporti amorosi fra due diverse coppie di giovani, Serdca četyrëch (Il cuore dei quattro) di Kostantin K. Judin, venne censurata da A.A. Ždanov (allora membro del Politbjuro) per consentirne la proiezione solo nel 1945, a guerra finita. A parte qualche tentativo senza storia di far rivivere l'operetta, da parte di Leonid Z. Trauberg o Herbert Rappaport, un certo successo, anche all'estero (e in Italia), ottennero le c. musicali di Ivan A. Pyr′ev: V 6 časov večera posle vojny (1944; Alle sei di sera dopo la guerra), Skazanie o zemle Sibirskoj (1947; La canzone della terra siberiana) e il coloratissimo Kubanskie kazaki (1950; I cosacchi del Kuban). A questo punto l'allegria e l'ottimismo erano di rigore: come informa O. Bulgakowa, il finale di V 6 časov večera posle vojny, ovvero l'incontro dei due protagonisti sul ponte, avviene solo nella fantasia, in quanto uno dei due doveva essere morto, ma l'edizione proiettata nelle sale lo presenta come un autentico happy end.
Eppure, da qualche parte in Europa, e precisamente in Svezia, c'era qualcuno che realizzava c. di rara intelligenza, non inferiori a quelle che provenivano dalla Francia o dagli Stati Uniti: Ingmar Bergman, non ancora molto conosciuto fuori dal suo Paese. Kvinnors väntan (1952; Donne in attesa) passò inosservato a Venezia nel 1953; En lektion i kärlek (1954; Lezione d'amore) è un'analisi della vita di coppia che coniuga le volute del teatro leggero con il rigore di J.A. Strindberg; finalmente Sommarnattens leende (1955; Sorrisi di una notte d'estate) venne accolto, meritatamente, come un capolavoro. Ma di fronte a questi film, o al 'rondò capriccioso' di Djävulens öga (1960; L'occhio del diavolo), o al gioco sofisticato e autocritico di För att inte tala om alla dessa kvinnor (1964; A proposito di tutte queste signore), si pone un problema, lo stesso che in fondo suscitano le citate c. di Chaplin, Lubitsch, Clair, Renoir, Truffaut, Hitchcock o Resnais (o altre di cui non si è parlato, come Il lavoro di L. Visconti, il vertice assoluto del film a episodi Boccaccio '70, 1962, diretto anche da M. Monicelli, F. Fellini e V. De Sica): ha senso parlare di c. d'autore? O per dirla in altre parole: qual è il rapporto che intercorre fra un genere e un autore (vero) che lo rivisita?
Parlando di genere, non si può dimenticare l'eccezionale riuscita delle c. realizzate dalla piccola compagnia Ealing Studios nell'Inghilterra degli anni Quaranta e Cinquanta. Sotto la direzione di M. Balcon, la casa di produzione fondata da B. Dean si specializzò anzitutto in piccoli film di propaganda bellica; già nel 1939 presentò una c. ambientata nel mondo della radio (Let's be famous, di Walter Forde), nel 1945 inserì un delizioso sketch umoristico all'interno di un memorabile film dell'orrore (l'onirico Dead of night, Incubi notturni o Nel cuore della notte, di Alberto Cavalcanti, Charles Crichton, Robert Hamer e Basil Dearden) e presto, grazie a sceneggiatori come Thomas E.B. Clarke e Roger McDougall, a registi come Crichton, Hamer e Alexander Mackendrick, a un attore proteiforme e di mille risorse come Alec Guinness e a una schiera di eccellenti caratteristi, produsse una dopo l'altra favolose c., spesso incentrate sul conflitto fra grandi corporazioni o istituzioni e geniali inventori solitari (un tema ricorrente che, secondo G. Perry, riflette il rapporto della stessa Ealing con le superproduzioni di altre e più ricche case cinematografiche inglesi, come la Rank o la Gainsborough). Vanno ricordate almeno Passport to Pimlico (1949; Passaporto per Pimlico) di Henry Cornelius, in cui gli abitanti di un quartiere popolare londinese, avvalendosi della casuale scoperta di un'antica donazione regale, proclamano la loro indipendenza rispetto al resto della capitale e si distribuiscono allegramente titoli nobiliari; Kind hearts and coronets (1949; Sangue blu) di Hamer, ovvero la scalata al potere di un giovane che per avere il titolo e gli emolumenti di lord elimina in modi diversi ma egualmente fantasiosi gli otto parenti più vicini al titolo stesso, tutti interpretati, uomini e donne, da uno strepitoso Alec Guinness; The lavender hill mob (1951; L'incredibile avventura di Mr Holland) di Crichton; The man in the white suit (1951; Lo scandalo del vestito bianco) di Mackendrick, e The ladykillers (1955; La signora omicidi), che per certi aspetti è già una rivisitazione affettuosa del ciclo, e fu infatti l'ultima c. britannica di Mackendrick, disegnatore e pittore nato a Boston da famiglia scozzese, che dopo il 1955 sarebbe tornato negli Stati Uniti. La serie Ealing rimane comunque un punto fermo nella storia del genere e nel cinema britannico, che alla c. sarebbe tornato con certi risvolti del Free Cinema (per es., alcuni film di Karel Reisz o di Richard Lester) o grazie, perché no, alle avventure cinematografiche dei Beatles diretti da Lester o più tardi dei Monty Python.
Sulla c. americana il sipario non calò mai. Anche nel dopoguerra continuò il suo discorso allegramente anacronistico, e un allievo e collaboratore di Lubitsch, B. Wilder, dimostrò come si potesse 'fare del Lubitsch' in un mondo che aveva conosciuto Auschwitz e Hiroshima. Già lo stesso Lubitsch, del resto, e fin dal 1939, aveva aperto una c. come Ninotchka con una didascalia allusiva: "Il film si svolge a Parigi quando una sirena era una bella bruna e non un segnale d'allarme, e se un francese spegneva la luce non lo faceva per i bombardamenti aerei". Si cominciarono così a incontrare, nelle c. hollywoodiane, americani che combattevano come volontari nella RAF, turisti Yankees in Europa che si facevano gioco dei nazisti, soldati in licenza con il tempo contato (come in The clock, 1945, L'ora di New York, di Vincente Minnelli). E negli anni del conflitto la c. avrebbe fatto conoscere, fra sorrisi e lacrime coraggiosamente trattenute, i problemi del fronte interno (The more the merrier, 1943, Molta brigata vita beata, di G. Stevens; Since you went away, 1944, Da quando te ne andasti, di John Cromwell), riservando al musical, alle farse scatenate e a surreali contaminazioni di slapstick e di horror il compito di risollevare il morale delle truppe. Ma al di là di tutto questo la c. degli anni Quaranta ‒ segno, questo, del suo 'invecchiamento' ‒ cominciò a riflettere su sé stessa. Heaven can wait (1943; Il cielo può attendere) fu per Lubitsch un film-testamento, apologia non più irridente ma commossa di un garbato edonismo ormai riconsegnato al tempo; Sullivan's travels (storia di un regista che vorrebbe fare del cinema 'impegnato' ma scopre sulla sua pelle il valore consolatorio della c. per tutti gli infelici e i diseredati) fu per P. Sturges (e per tutto il genere) una dichiarazione di poetica e una postuma glorificazione. Questa tendenza autoriflessiva si avvertì sempre di più negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, anche perché di fronte alle minacce della televisione e delle leggi antitrust il cinema cominciò a ripensare ai suoi trionfi passati. Del cinema nel cinema (v.) si parlò come di un nuovo genere a sé, con i suoi classici fusi in altri generi come il noir (Sunset Boulevard, 1950, Viale del tramonto, di Wilder) o il musical (Singin' in the rain, 1952, Cantando sotto la pioggia, di Gene Kelly e Stanley Donen): ma la nostalgia della c. ispirò ai registi rivisitazioni dello slapstick (It's a mad, mad, mad, mad world, 1963, Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo, di Stanley Kramer) e veri e propri omaggi cinefili come nel caso di Peter Bogdanovich (What's up, doc?, 1972, Ma papà ti manda sola?; At long last love, 1975, Finalmente arrivò l'amore) o di Donen (Movie movie, 1978, Il boxeur e la ballerina), e più tardi, a livelli diversi di raffinatezza, di Woody Allen e di Mel Brooks. Come ovvia conseguenza, spesso ne derivarono facili parodie di generi collaudati, stanche rivisitazioni del cinema del passato (rare le felici eccezioni, come Back to the Future, 1985, Ritorno al futuro, di Robert Zemeckis) e soprattutto remake di vecchi successi, spesso deludenti (Switching channels, 1987, Cambio marito, di Ted Kotcheff, o You've got mail, 1998, C'è post@ per te, di N. Ephron, che rispettivamente ripropongono il classico The front page, 1931, Prima pagina, di Lewis Milestone, già rifatto brillantemente da Hawks con il titolo His girl friday, 1940, La signora del venerdì, e splendidamente da Wilder nel 1974, e l'inimitabile Lubitsch di The shop around the corner, 1940, Scrivimi fermo posta). Ma d'altra parte è innegabile che la c. hollywoodiana negli anni Quaranta e Cinquanta si sviluppò in modo organico e non meramente 'retrospettivo' o nostalgico grazie a due allievi di Lubitsch, Otto Preminger (The Moon is blue, La vergine sotto il tetto, che nel 1953 venne incredibilmente considerato troppo osé dalla censura) e il già citato Wilder (Sabrina, 1954; Love in the afternoon, 1957, Arianna; Some like it hot, 1959, A qualcuno piace caldo), nonché a un autore diversissimo (e nonostante le sue origini europee più 'americano') come Joseph L. Mankiewicz che, per taluni aspetti, di Lubitsch può considerarsi l'erede.
Rispetto alla stilizzazione e alla felice astrattezza della c. anni Trenta, che rimase chiusa in un suo mondo ovattato e impermeabile, la c. postbellica di questi tre autori fu contrassegnata da una diversa 'impressione di realtà': Mankiewicz descrive alla perfezione, in un inizio quasi 'documentario', una cittadina di provincia nel magistrale A letter to three wives (1948; Lettera a tre mogli), mentre Wilder presenta in modo incisivo e coinvolgente la New York grigia, impiegatizia e solitaria del meraviglioso The apartment (1960; L'appartamento). Già nei primi anni del dopoguerra anche le c. di G. Cukor ‒ che sotto l'egida di Lubitsch aveva realizzato negli anni Trenta One hour with you (1932; Un'ora d'amore) e alla fine del decennio gli era subentrato nella regia di The women (1939; Donne) ‒ apparivano lontane dai toni svagati e sophisticated dei suoi lavori prebellici, come Dinner at eight (1933; Pranzo alle otto) oppure The Philadelphia story (1940; Scandalo a Filadelfia): Adam's rib (1949; La costola di Adamo) riunisce la classica coppia Spencer Tracy-Katharine Hepburn in un contesto che fin dal titolo allude agli inevitabili mutamenti nel rapporto tradizionale uomo-donna; e le tre c. che Cukor realizzò subito dopo con Judy Holliday ‒ già apparsa in un ruolo secondario di Adam's rib ‒ acquistarono anche un'indubbia valenza politica e sociale, in senso accesamente democratico e ostile allo strapotere del capitale e dei media (Born yesterday, 1951, Nata ieri; The marrying kind, 1952, Vivere insieme; It should happen to you, 1954, La ragazza del secolo). Si tratta, tuttavia, di eccezioni: se si ripensa alla c. degli anni Cinquanta, vengono in mente il Technicolor, il grande schermo, la chiassosa volgarità del suono stereofonico, le regie inavvertibili di Jean Negulesco, gli interni dilatati e resi lussuosi dalle esigenze del cinemascope, anche quando servono a ragazze squattrinate in cerca di marito o a segretarie americane in trasferta a Roma (How to marry a millionaire, 1953, Come sposare un milionario; Three coins in the fountain, 1954, Tre soldi nella fontana). Ma è anche innegabile che in quel periodo il genere non si era affatto esaurito rispetto alla grande stagione degli anni Trenta: stava solo cercando nuove vie, come appare evidente dai tentativi, in diverse direzioni, di autori come V. Minnelli (che, momentaneamente lontano dal musical e dalle sue ricerche cromatiche, realizzò agli inizi degli anni Cinquanta un dittico familiare, Father of the bride, 1950, Il padre della sposa, e Father's little dividend, 1951, Papà diventa nonno, modello di innumerevoli serial televisivi, ma al tempo stesso ritratto delle angosce della piccola borghesia di provincia in età eisenhoweriana). O Frank Tashlin, i cui film, con o senza Jerry Lewis, sono sintesi perfetta dei miti e delle nevrosi degli anni Cinquanta. O Blake Edwards, che grazie anche al talento di un grande attore, Peter Sellers, inserisce risvolti inediti e sa evocare un senso di disagio e di frustrazione anche nelle disavventure dell'ispettore Clouseau (a partire da The Pink Panther, 1964, La Pantera rosa) o nell'irresistibile (ma al tempo stesso angoscioso) The party (1968; Hollywood party).
Del resto, anche un genere tendenzialmente conservatore non poté non riflettere mutamenti del costume e oscillazioni del gusto: basterà, per sincerarsene, definire c. un paio di film firmati da Mike Nichols e dedicati a problemi e incertezze del mondo giovanile (The graduate, 1967, Il laureato; Carnal knowledge, 1971, Conoscenza carnale): e può far sorridere che venissero definite sexterns e ricche di materiali osé le c. interpretate nei tardi anni Cinquanta da Doris Day, con o senza Rock Hudson (primo della serie il divertente Pillow talk, 1959, Il letto racconta…, di Michael Gordon). Ancora per tutti gli anni Sessanta e Settanta uscirono, comunque, c. che in modo più o meno felice seguivano un rimario tradizionale: non mancavano certo interpreti eccellenti, come Jane Fonda, Barbara Harris, Jack Lemmon o Walter Matthau, in grado di assicurare il successo alle rituali trasposizioni delle c. di Broadway, spesso firmate da uno specialista come Neil Simon, e dirette da Gene Saks (Barefoot in the park, 1967, A piedi nudi nel parco; The odd couple, 1968, La strana coppia), o da altri non meno efficienti come Robert Ellis Miller (Any wednesday, 1966, Tutti i mercoledì), Arthur Hiller (Plaza suite, 1971, Appartamento al Plaza), o Herbert Ross (California suite, 1978). Ma già ai tempi del mai abbastanza lodato Some like it hot apparve inevitabile che le ricette della c., apparentemente codificate fin da tempi remoti in modo ne varietur, potessero comunque prestarsi a giochi combinatori fino a poco prima impensabili. E non si sarebbe trattato solo di giochi trasgressivi e in definitiva innocui in direzione cross-gender (Tootsie, di Sydney Pollack, e Victor/Victoria, Victor Victoria, di Edwards, entrambi del 1982), ma di discorsi inediti sui nuovi orizzonti della coppia nel mondo moderno, come quelli che Woody Allen avrebbe cominciato ad affrontare con Annie Hall (1977; Io e Annie), o sulla sessualità femminile (She's gotta have it, 1986, Lola Darling, di Spike Lee). E c'è di più: nel cinema freneticamente manieristico di David Lynch, Ethan e Joel Coen, Sam Mendes o Quentin Tarantino, sprazzi sinistri e beffardi di c. si sono insinuati fra sangue, violenza e horror, in un cocktail che, nonostante le tradizioni dell'umorismo nero, stile Arsenic and old laces (1944; Arsenico e vecchi merletti) di F. Capra, qualche tempo fa sarebbe stato impensabile.
Negli anni Venti e Trenta, quando si andava ancora alla ricerca dello 'specifico filmico', definire un film 'teatrale' o 'letterario' equivaleva a una stroncatura, o quanto meno a una presa di distanza. Dagli anni Ottanta si è verificato lo stesso tipo di automatismo: per liquidare un film basta definirlo televisivo. In realtà l'intreccio fra cinema e televisione è un fenomeno di grande importanza sia sul piano economico e sociologico sia su quello più propriamente creativo: basta tener presente che fin dagli anni Cinquanta un gran numero di registi, sceneggiatori e attori radiofonici e/o televisivi passò al cinema (da ricordare, nell'ambito della c., Woody Allen, Simon, Mel Brooks, Edwards, Paul Mazursky), e che negli anni Novanta si sarebbero realizzati a Hollywood molti film ispirati ai telefilm degli anni Sessanta, per venire incontro ai presumibili gusti e orientamenti delle cosiddette generazioni della televisione. "Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo", proclamava la diva del muto Norma Desmond (Gloria Swanson) nel film di Wilder Sunset Boulevard: e può darsi senz'altro che le grandi narrazioni del cinema del passato abbiano ceduto il passo, negli ultimi anni, a racconti e strutture di minori ambizioni e di tono più modesto se non 'domestico'. Ma si potrebbe anche sostenere che se il passaggio dal teatro al cinema, avvenuto ormai più di un secolo fa, è equivalso a una perdita di 'aura' e a un consumo più distratto e meccanico, il passaggio dal cinema alla televisione, paradossalmente, ha restituito alla frequentazione della sala cinematografica un prestigio e un valore di culto che si credevano perduti. Da un lato la c. cinematografica di chi proviene dalla radio o dalla televisione ha toni più domestici e 'minimali' rispetto alle c. ideate per il teatro o per il grande schermo; al tempo stesso, l'appuntamento dello spettatore con la persona sia pure schermica di Woody Allen (o di Roberto Benigni, o anche del primo Nanni Moretti) diviene una forma di contatto diretto, che in un certo senso prescinde dal singolo film e riconduce a un tipo di frequentazione, e di attesa, basata su un rapporto dello spettatore con la persona dell'attore, che è poi un attore-autore e che spesso allo spettatore si rivolge con le più varie forme di interpellazione e di ideale colloquio. Si tratta di un fenomeno ancora difficilmente definibile o ancor meno quantificabile: ma è indubbio che si stia già delineando anche in contesti e Paesi diversi, prescindendo anche dal caso particolare della coincidenza fra attore e autore (si pensi, per il cinema spagnolo, alle c. di Pedro Almodóvar, o per il cinema francese a film come Delicatessen, 1990, o Le fabuleux destin d'Amélie Poulain, 2001, Il favoloso mondo di Amélie, entrambi di Jean-Pierre Jeunet).
Per una definizione del 'genere': N. Frye, Anatomy of criticism. Four essays, Princeton 1957 (trad. it. Torino 1969); R. Fowler, A dictionary of modern critical terms, London 1987.
Sulla c. cinematografica: Comedy/cinema/theory, ed. A. Horton, Berkeley 1991; Film genre reader II, ed. B.K. Grant, Austin (TX) 1995; A.S. Dale, Comedy is a man in trouble. Slapstick in American movies, Minneapolis 2000.
Sui telefoni bianchi: Il lungo viaggio del cinema italiano: antologia di "Cinema" 1936-1943, a cura di O. Caldiron, Padova 1965; F. Savio, Ma l'amore no. Realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime 1930-1943, Milano 1975; G. Cincotti, L'Europa dei telefoni bianchi 1935-40, Roma 1981; G. Fink, Sul set ad ali mozze, in "Paragone-letteratura", agosto 1981, 378, pp. 48-59.
Sulla c. americana: S. Cavell, Pursuits of happiness. The Hollywood comedy of remarriage, Cambridge (Mass.) 1981 (trad. it. Torino 1999); D. Byrge, R.M. Miller, The screwball comedy films. A history and a filmography 1934-1942, Jefferson (NC) 1991; K. Rowe, Comedy, melodrama and gender: theorizing the genres of laughter, in Classical Hollywood comedy, ed. K.B. Karnick, H. Jenkins, New York 1995, pp. 42-65; G. Fink, "Gaio e tragico! Breve e interminabile!". Le frontiere della commedia, in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 2° vol., Gli Stati Uniti, t. 2, Torino 2000, pp. 1019-48.
Per le Ealing comedies: Ch. Barr, Ealing Studios, London 1977; G. Perry, Forever Ealing: a celebration of a great British film studio, London 1981; Ealing Studios, a cura di E. Martini, Bergamo 1988.
Altri Paesi: Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 3° vol., L'Europa. Le cinematografie nazionali, Torino 2000 (in partic. t. 1: S. Lowry, Cinema nazista, pp. 411-43; t. 2: O. Bulgakowa, Cinema sovietico dal realismo al disgelo: 1941-60, pp. 681-735 e G. Spagnoletti, Da Oberhausen a Berlino: la lunga marcia del cinema tedesco, pp. 1017-58; t. 3: P. Cherchi Usai, Cinema muto nei paesi nordici, pp. 151-70).