Comportamento amministrativo
La locuzione 'comportamento amministrativo', usata probabilmente per la prima volta da Herbert A. Simon (v., 1947) come titolo della sua tesi di dottorato e del volume nel quale la stessa tesi è stata successivamente pubblicata, è oggi caduta in relativo disuso. Il tema di Simon infatti - lo studio sistematico e scientifico del comportamento nella pubblica amministrazione - è stato in seguito, dallo stesso autore e dai molti che ne hanno seguito le orme, generalizzato sino a divenire lo studio del comportamento nelle organizzazioni - cioè nei sistemi sociali costruiti dall'uomo per il perseguimento di obiettivi specifici - siano esse pubbliche o private. Si preferisce quindi oggi parlare di 'comportamento organizzativo' e in tal senso il termine 'comportamento amministrativo' viene inteso anche nel prosieguo di questo lavoro. Le peculiarità della pubblica amministrazione da questo punto di vista saranno messe in luce, per così dire 'per specificazione', nell'ultimo capitolo.
Va altresì preliminarmente sottolineato come, a fianco dello studio del comportamento nelle organizzazioni, si sia sviluppato sempre più col passare del tempo lo studio del comportamento delle organizzazioni, intese come unità sociali complesse, ma in qualche modo capaci di comportarsi per molti aspetti come centri di imputazione di volontà, strategie e azioni unitarie, e quindi osservabili in quanto tali, anche se ovviamente tali volontà, strategie e azioni sono in ultima analisi riconducibili a volontà, strategie e azioni di uomini, i membri dell'organizzazione. Gli approcci che adottano questa prospettiva, per quanto molto diffusi e forse prevalenti nella letteratura contemporanea (ad esempio lo studio dei networks organizzativi, il cosiddetto approccio della dipendenza dalle risorse, la teoria 'evoluzionistica', la stessa teoria delle 'contingenze organizzative': per una recente rassegna, v. Scott, 1981), non saranno tuttavia presi in considerazione, se non entro i limiti in cui il comportamento dell'organizzazione esercita una influenza sul comportamento dei suoi membri.
Infine è forse necessario specificare che i comportamenti esaminati in questa sede non sono tutti i comportamenti di coloro che fanno parte di organizzazioni, ma solo quelli rilevanti per il raggiungimento dell'obiettivo o degli obiettivi dell'organizzazione (in positivo o in negativo, e cioè in quanto ne consentono il raggiungimento o, al contrario, lo rendono più difficile, lo ostacolano).In prima approssimazione è possibile considerare il comportamento dei membri dell'organizzazione come frutto di due componenti o risultante dall'incontro di due volontà: quella dell'individuo e quella dell'organizzazione.
Ciò che vuole il singolo in ogni determinato momento è ovviamente il risultato di un'equazione estremamente complessa, in cui con ogni probabilità sono presenti centinaia di fattori che non è possibile citare completamente, non solo per ovvi motivi di spazio, ma anche e soprattutto perché il poterli specificare (e magari aggiungervi anche i coefficienti che indicano quanto ciascuno di essi 'pesi' sul comportamento) significherebbe che le scienze sociali - la sociologia soprattutto, ma anche la psicologia, l'antropologia sociale, l'ecologia umana, ecc. - hanno risolto tutti i loro problemi e svolto completamente il compito che si proponevano. Ci limiteremo quindi a ipotizzare, salvo a tornare in seguito sull'argomento per qualche approfondimento particolarmente rilevante (v. cap. 5), alcuni punti: che le radici ultime del comportamento possano rintracciarsi nel patrimonio genetico di ogni singolo individuo; che l'effetto di tali radici sia filtrato dalla cultura di appartenenza che viene appresa in sede di socializzazione primaria e, contemporaneamente e successivamente, da una miriade di interazioni successive con 'altri significativi', ciascuna delle quali interazioni lascia una traccia nell'esperienza, dando origine a un vissuto che solo per grandi linee può essere ricondotto alle categorie delle quali le scienze sociali si avvalgono per 'classificare' gli individui; infine che un ruolo importante sia svolto in ogni specifico momento dalla situazione in cui si trova l'individuo, una situazione che produce stimoli a cui l'individuo stesso reagirà in un modo che è ovviamente funzione dei fattori cui abbiamo in precedenza accennato.
Ma anche l'espressione 'volontà dell'organizzazione', o il parlare di fini dell'organizzazione, come spesso si fa, costituisce un'estrema semplificazione; come già abbiamo accennato, l'attribuire a un'entità sociale complessa (l'organizzazione, ma anche entità più vaste come la 'società') una volontà o degli obiettivi equivale a compiere un errore di indebita personificazione: solo gli uomini hanno volontà e quindi obiettivi. Ciò che l'organizzazione 'vuole' in un determinato momento dipende dalla volontà espressa in un passato più o meno remoto da uno o più individui, i 'fondatori' (v. Schein, 1985), ma questa base può essere modificata in misura anche sostanziale per effetto delle vicende che l'organizzazione ha subito dal momento della sua fondazione. Essa viene comunque interpretata e rivissuta da coloro che controllano al momento l'organizzazione - controllo che è il premio che spetta ai vincitori di una guerra condotta giorno per giorno: non a caso la letteratura più recente imputa obiettivi e volontà non all'organizzazione, ma alla sua 'coalizione dominante' (v. Cyert e March, 1963; v. Bacharach e Lawler, 1980) - ed è filtrata dagli specifici canali attraverso i quali la volontà viene manifestata ai singoli (v. Crozier, 1963; v. Crozier e Friedberg, 1977). Purtuttavia, per comodità e brevità, continueremo a parlare, sulla scorta di quanto fatto dalla letteratura - anche la più recente e scaltrita - di volontà e obiettivi organizzativi, ben sapendo che questi, lungi dall'essere stabili, costanti e impersonali, sono invece fluttuanti nel tempo e fanno capo a persone specifiche, quelle persone che sono (si sentono o sono giunte a essere) autorizzate a parlare e ad agire per conto della collettività organizzata.
Una volta accennato alla complessità e ai grandi e irrisolti problemi che si celano dietro l'apparente semplicità dell'affermazione che il comportamento organizzativo deriva dall'incontro della volontà individuale con quella dell'organizzazione, possiamo riprendere tale affermazione per meglio specificarla e per vedere come, con quale peso e con quale esito tale incontro possa avvenire. Per la sua notorietà e semplicità è opportuno partire dal modello prospettato da Simon, che tra l'altro è forse il primo proposto in modo esplicito (le trattazioni degli autori precedenti - con la sola possibile eccezione di Chester Barnard: v., 1938 - sono infatti caratterizzate da un modello di comportamento che resta largamente implicito), nonché quello che più si avvicina alle concezioni semplicistiche basate sul 'buon senso' della gente comune. Ecco gli elementi fondamentali del modello di Simon: a) l'individuo, accettando di far parte dell'organizzazione, rinuncia in cambio di una retribuzione ad avere una propria volontà; egli 'mette a disposizione' dell'organizzazione stessa una parte del proprio tempo e accetta di comportarsi per tale tempo come l'organizzazione vuole (cosiddetta zona di indifferenza); b) l'organizzazione utilizzerà quindi per i propri obiettivi le energie fisiche e intellettuali dell'individuo; in funzione delle capacità e del livello di lealtà dell'individuo stesso potrà anzi utilizzarlo per determinare i propri obiettivi; attraverso questa ulteriore possibilità la volontà individuale potrà per così dire rientrare in gioco (secondo la tipica terminologia simoniana, l'individuo potrà prendere decisioni sulla base di premesse di valore), ma solo entro i limiti posti dall'organizzazione e in funzione della specifica posizione in cui l'individuo è collocato da essa; c) infine, in conseguenza di tutto questo, scopo della teoria dell'organizzazione sarà lo studio dei modi attraverso i quali l'organizzazione potrà 'sfruttare al meglio', mediante la specializzazione, le risorse individuali messe a sua disposizione nonché del modo in cui l'organizzazione porterà a conoscenza dell'individuo la propria volontà (studio dell'autorità) e del modo in cui la possibilità di contribuire alla determinazione dei fini dell'organizzazione potrà essere distribuita tra i vari membri (catena mezzi/fini e fatti/valori) allo scopo di facilitare il raggiungimento dei fini (efficacia) e di rendere i comportamenti i più razionali possibili (v. sotto).
Una prima estensione e qualificazione di questo schema estremamente semplificato si ha quando si prendono in considerazione, oltre alle organizzazioni produttive e del terziario (cui le considerazioni simoniane possono essere e sono state pressoché immediatamente e facilmente estese), altri tipi di organizzazioni. Se infatti accettiamo, come sembra logico (v. Etzioni, 1975; v. Gross ed Etzioni, 1985), che oltre alle unità cui l'individuo partecipa sulla base di un do ut des (lavoro contro retribuzione monetaria), esistano organizzazioni cui l'individuo partecipa perché è costretto a parteciparvi (prigioni, campi di concentramento, eserciti di leva) oppure perché trae soddisfazione dal contribuire a realizzare quelli che percepisce esserne gli obiettivi organizzativi (Chiese in primo luogo, ma anche partiti, sindacati e organizzazioni volontarie in genere), è facile costatare come le componenti fondamentali del comportamento organizzativo cambino drasticamente. Infatti nelle organizzazioni del primo tipo - coercitive - non esisterà, quasi per definizione, la zona di indifferenza e la volontà dell'organizzazione potrà prevalere solo se e in quanto saranno a sua disposizione strumenti (cioè sanzioni negative o più raramente positive) capaci di costringere l'individuo a fare quello che è necessario per la realizzazione degli obiettivi organizzativi. Nelle organizzazioni del secondo tipo invece - volontaristiche - tenderà a esistere una coincidenza tra obiettivi individuali e organizzativi, e in pratica tenderà a scomparire dal comportamento organizzativo la componente che fa capo all'organizzazione: questa non potrà volere nulla che non sia già voluto dall'individuo, pena il recesso dei suoi membri e la sua fine.
Da ciò derivano diverse conseguenze, ma soprattutto il prevalere nelle organizzazioni facenti capo alle tre categorie fondamentali (coercitive, economiche e volontaristiche) di strumenti diversi intesi a far sì che il comportamento degli individui sia quello desiderato dall'organizzazione: a seconda del legame che collega l'individuo all'organizzazione prevarranno via via strumenti coercitivi (punizioni e privazioni), strumenti economici (sanzioni pecuniarie positive o negative, incentivi basati su ciò che l'individuo desidera oltre il denaro) o strumenti essenzialmente simbolici (la salvezza eterna, il richiamo a una ideologia o a una vittoria finale delle forze del bene su quelle del male, ecc.).
Le tre categorie fondamentali di strumenti coesistono in misura variabile in ogni organizzazione: e questo non solo perché esistono organizzazioni 'miste', in cui vengono a trovarsi soggetti spinti a partecipare da due o addirittura da tutte e tre le motivazioni fondamentali (il caso più ovvio è quello di un grande esercito in cui siano presenti soldati di leva costretti a partecipare, volontari convinti che il loro 'servire la patria' contribuisca a realizzare obiettivi in cui credono profondamente e infine uno staff di sottufficiali e ufficiali che partecipano perché quello è il loro lavoro e quindi in cambio di una retribuzione), e altre in cui la partecipazione avviene sulla base di motivazioni in qualche modo 'miste' e che non rientrano facilmente nello schema tripartito che abbiamo adottato (lo studente si iscrive all'università perché è convinto che imparare sia un bene in sé, ma anche perché si ripromette di trarre un vantaggio economico da un titolo di studio; il paziente si trova nell'ospedale perché costrettovi dal fatto che solo lì può trovare un rimedio alle sofferenze che lo affliggono o, in qualche caso - in quello degli ospedali psichiatrici - perché vi è stato condotto con la forza, ma anche perché condivide l'obiettivo dell'ospedale, quello della cura delle malattie); e non solo infine perché esistono - come fa notare Amitai Etzioni - organizzazioni che utilizzano in certe fasi della loro storia strumenti non in sintonia con i legami che le uniscono all'individuo (il direttore del carcere convinto che l'obiettivo comune della riabilitazione sia sufficiente a mantenere ordinato l'istituto che dirige, la setta religiosa che infligge punizioni corporali ai fedeli devianti o che cerca di comprare le anime con doni in denaro), ma anche perché le tre categorie di strumenti hanno effetti e costi diversi e possono essere utilizzate entro certi limiti da tutte le organizzazioni, sia pure in circostanze diverse.
In particolare l'uso della coercizione, pur assicurando il rispetto assoluto della volontà dell'organizzazione, necessita della disponibilità costante degli strumenti adatti e ingenera in chi la subisce reazioni negative che spingono i membri dell'organizzazione ad adottare, nel momento in cui gli strumenti punitivi non siano più disponibili, comportamenti opposti a quelli desiderati (rivolta, fuga, boicottaggio, scioperi, ecc.). Lo strumento economico non solo postula che i bisogni dei membri dell'organizzazione siano di tipo materiale o comunque tali da essere soddisfatti mediante denaro (cosa che, secondo alcune teorizzazioni della psicologia sociale, non solo non è sempre vera, ma tende anzi a essere sempre meno vera nelle società moderne: v. Depolo, 1989), ma richiede altresì ovviamente l'uso di una risorsa scarsa. All'estremo opposto l'adozione di strumenti simbolici, pur non essendo dispendiosa in termini di risorse economiche impiegate e anzi tale da utilizzare una risorsa praticamente infinita (v. Hickman e Silva, 1985), postula una continua coincidenza tra obiettivi organizzativi e obiettivi individuali e rende quindi l'organizzazione vulnerabile di fronte ai mutamenti dei sistemi di valori che i suoi membri assorbono nell'ambiente di provenienza. Non sembra quindi fondato consigliare, come pure spesso è stato fatto da parte della precettistica organizzativa, di migliorare l'organizzazione sostituendo strumenti di tipo simbolico a strumenti di tipo coercitivo e/o economico. Ugualmente infondata sembra l'opinione di chi legge nella storia della società un'evoluzione che rende progressivamente obsoleto uno degli strumenti a favore di quello 'successivo' (ad esempio, semplificando al massimo un ragionamento che spesso non è così semplice, postulando nelle società preindustriali un prevalere di coercizione, in quelle industriali l'uso generalizzato di strumenti economici e in quelle che vengono ipotizzate come società postindustriali il ricorso sempre crescente ai simboli e alla loro manipolazione).
In ogni società e in ogni tempo sono esistite organizzazioni che utilizzavano prevalentemente strumenti di uno dei tre tipi e anche nel mondo moderno quasi tutte le organizzazioni fanno ricorso a una combinazione di coercizione (anche se alle punizioni corporali si sostituiscono forme meno grezze e dirette di violenza sociale e psicologica), retribuzione monetaria (o comunque consistente nell'erogazione di beni idonei a soddisfare bisogni materiali e sociali dell'individuo) e manipolazione simbolica (di simboli che ovviamente cambiano continuamente e che funzionano se e in quanto sono in sintonia con il cambiamento sociale e i bisogni che questo induce nell'individuo).
Un'ulteriore variabile, che si sovrappone in parte alla tipologia degli strumenti di cui si è appena parlato, attiene al modo in cui gli strumenti stessi sono usati e alla 'tecnica' utilizzata dall'organizzazione per far conoscere all'individuo la sua volontà. È possibile infatti che l'organizzazione trasmetta caso per caso la sua volontà avvalendosi degli individui a ciò deputati (gerarchia), oppure che codifichi tale volontà in norme destinate a valere in una pluralità di casi o al limite per sempre e in tutti i casi che le norme stesse prevedono (almeno sino a quando non siano sostituite da norme diverse: v. Perrow, 1972). Si designa in genere con il termine 'formalizzazione' il processo con il quale un'organizzazione, al fine di rendere prevedibile il proprio comportamento e di facilitare i propri rapporti sia coi propri membri che con l'ambiente circostante, codifica in norme tendenzialmente rigide la propria volontà, specificando così 'una volta per tutte' come essa si comporterà e come si aspetta che gli altri, interni o esterni che siano, si comportino nei suoi confronti.
La formalizzazione comporta ovviamente dei vantaggio, non solo perché facilita il controllo delle transazioni con gli individui, ma anche perché tende a eliminare una importante fonte di conflittualità, quella derivante da comportamenti che possono essere visti come frutto di arbitrî da parte di chi rappresenta l'organizzazione nei suoi contatti con l'individuo (membro o cliente che sia). Ma altrettanto conosciuti sono gli svantaggi che la formalizzazione (o un eccessivo ricorso alla formalizzazione, spesso indicato col termine 'burocratizzazione') comporta: dalla rigidità che essa conferisce all'organizzazione nei confronti della variabilità ambientale o attinente agli obiettivi organizzativi, al rischio di comportamenti ritualistici (comportamenti cioè che privilegiano l'osservanza delle norme rispetto al raggiungimento degli obiettivi organizzativi), alla schematicità che essa induce nei meccanismi di decisione (v. Merton, 1949). Comunque un certo livello di formalizzazione appare connaturato alla definizione stessa di organizzazione, talché molti studiosi che si sono occupati di organizzazioni preferiscono designarle con la locuzione 'organizzazioni formali' e il termine 'burocrazia' (con riferimento al modello prospettato da Max Weber, che prevede il ricorso alla norma come strumento pressoché esclusivo per il funzionamento dell'organizzazione) ne è un sinonimo abbastanza diffuso.
In una organizzazione formalizzata (o organizzazione tout court se si accetta quanto appena detto) il problema del rispetto della volontà organizzativa si trasforma quindi nel problema del rispetto della norma organizzativa, e gli strumenti (sanzioni) di cui al capitolo precedente servono ad assicurare il rispetto delle norme da parte dei membri dell'organizzazione. In questa prospettiva assume un'importanza particolare il problema della legittimità di tali norme, cioè del loro riconoscimento come valide e vincolanti da parte dei membri. Se le norme sono viste come legittime, la loro osservanza sarà, se non automatica, certamente enormemente facilitata (si parlerà in questo caso di esercizio di 'autorità' da parte di chi rappresenta l'organizzazione).
Il fatto che i problemi relativi alle sanzioni (gli strumenti di cui abbiamo parlato sopra) siano oggetto di tanta attenzione significa ovviamente che questo non sempre avviene e anzi che tale eventualità assume il carattere di eccezionalità - nonostante sia spesso data per scontata - al punto che si assume che 'l'autorità' possa essere conferita dall'organizzazione e che da questa consegua un'automatica obbedienza da parte dei 'sottoposti'. Una piena legittimità delle norme organizzative si potrà avere infatti solo in presenza di una completa coincidenza tra obiettivi organizzativi e obiettivi individuali, che si accompagni a una completa ulteriore adesione anche ai mezzi o strumenti che l'organizzazione utilizza per il raggiungimento di tali obiettivi. (Si possono tuttavia ottenere effetti analoghi anche in presenza di un'adesione non completa agli obiettivi e agli strumenti organizzativi per quella gamma di comportamenti che ricade nella zona d'indifferenza dei singoli membri, ma anche l'esistenza e l'estensione di questa non possono essere date per scontate). È necessario a questo punto ricordare che le norme organizzative (cioè volute e imposte dall'organizzazione) non sono le uniche norme considerate legittime dal soggetto che ne è membro: da un lato infatti la società pone norme a valenza generale vincolanti anche per i singoli membri dell'organizzazione, dall'altro il ruolo di membro dell'organizzazione è solo uno dei ruoli ricoperti dal soggetto che avrà quindi diritti e doveri che hanno la loro origine in altre istituzioni sociali (i cui obiettivi possono coincidere con quelli organizzativi, possono essere indifferenti rispetto a essi o possono essere opposti). Lo scostamento del comportamento individuale da quello voluto dalle norme organizzative può derivare pertanto anche dal fatto che l'individuo, pur reputando legittime le norme stesse, ritiene tuttavia che esse debbano, per così dire, dare la precedenza ad altre norme di più vasta portata e/o maggiore cogenza.
Un ulteriore elemento di cui è necessario tener conto è dato dallo spazio che le norme organizzative lasciano all'individuo; se infatti è possibile che l'organizzazione voglia decidere attraverso di esse ogni particolarità del comportamento, è anche possibile che essa voglia o debba attribuire al singolo membro una certa discrezionalità, lasciando che, caso per caso, il comportamento da tenersi possa essere autonomamente deciso dal singolo o sia vincolato solo in parte dall'imposizione di criteri e direttive di carattere generale. Si riferisce a questo tipo di problema la tematica detta della 'standardizzazione' (v. Thompson, 1967). È possibile infatti che l'organizzazione disciplini direttamente il comportamento (standardizzazione delle procedure, nella terminologia oggi più diffusa), oppure che essa si limiti a prevedere i risultati del comportamento lasciando che il membro dell'organizzazione scelga - nell'ambito di alcuni limiti prefissati - il modo più idoneo per raggiungere tali risultati (la cosiddetta standardizzazione degli outputs), o addirittura che si limiti a fissare i criteri di scelta dei membri, lasciando che questi poi determinino i singoli risultati e i metodi migliori per raggiungerli. Ciò è particolarmente frequente nel caso in cui l'organizzazione per raggiungere i propri obiettivi si avvalga di soggetti - i 'professionisti' - che possiedono in esclusiva socialmente sancita un certo tipo di conoscenze (la cosiddetta standardizzazione degli inputs o 'discrezionalità tecnica').
Sono ugualmente possibili altre due soluzioni che in qualche modo esorbitano dal continuum appena delineato; l'organizzazione può infatti rinunciare alla standardizzazione, affidando il compito di determinare il comportamento o a quei membri che sulla base di un qualsiasi criterio siano considerati depositari degli obiettivi organizzativi e quindi autorizzati a esprimere la volontà dell'organizzazione (la cosiddetta supervisione diretta, che si attua attraverso l'attribuzione di 'autorità gerarchica' a determinati membri dell'organizzazione) o a tutti i membri dell'organizzazione, perché questi collettivamente interpretino o definiscano i fini e i mezzi (il cosiddetto coordinamento reciproco o spontaneo).
Dal punto di vista precettivo esiste ormai consenso (v. Mintzberg, 1979) sul fatto che ciascuna di queste cinque forme (o più esattamente la predominanza di una di queste cinque forme sulle altre, dal momento che esse sono in qualche misura presenti in tutte le organizzazioni moderne) fornisce i migliori risultati in presenza di peculiari combinazioni di fini organizzativi e ambiente in cui detti fini debbono essere realizzati. La supervisione diretta sarebbe più adatta in presenza di compiti semplici da svolgersi in ambienti dinamici; la standardizzazione delle procedure postula obiettivi complessi, il cui conseguimento presuppone una tecnologia ben conosciuta, in un ambiente relativamente statico; la standardizzazione degli outputs sarebbe particolarmente adatta ad ambienti molto diversificati; la standardizzazione degli inputs presuppone compiti complessi, ambiente relativamente statico e ovviamente un corpo di professionisti (nel senso sopra attribuito al termine) in possesso delle conoscenze per farvi fronte; infine, il coordinamento spontaneo viene raccomandato in situazioni in cui la tecnologia necessaria a svolgere i compiti organizzativi non è conosciuta a fondo e i compiti debbono essere svolti in un ambiente che è contemporaneamente complesso e dinamico.
In pratica quasi sempre questa corrispondenza tra meccanismi di standardizzazione (o mancanza di standardizzazione) da un lato e fini e ambiente dall'altro non si verifica se non in modo approssimativo e incompleto: ogni organizzazione sviluppa un suo 'stile' (v. Miles e Snow, 1978) - una sua cultura, dei suoi valori, un suo modo specifico di fare (o meglio far fare) le cose - che tende a mantenere nel tempo anche quando esso non è più idoneo al raggiungimento degli obiettivi e in presenza di cambiamenti ambientali anche rilevanti. Ogni tentativo di cambiare questo 'stile' non solo verrà percepito come un pericolo per gli assetti di potere esistenti (v. sotto) e verrà ad alterare consuetudini radicate, ma in molti casi sarà considerato come un vero e proprio snaturamento, il voler allontanarsi da quella che è vista come la 'retta via', il solo modo 'giusto' di fare le cose. Hanno anche questa origine, oltre che radici più profonde di natura psicologica, i fenomeni di resistenza alle innovazioni che sono tipici delle organizzazioni e in particolare delle organizzazioni più formalizzate.
Sinora delle due componenti del comportamento organizzativo, la volontà dell'organizzazione e quella del membro/individuo, abbiamo considerato prevalentemente la prima. La seconda componente sarà oggetto di questo capitolo, che deve tuttavia iniziare con un generico rinvio agli studi di psicologia sociale e in particolare a quelli della psicologia dell'organizzazione, disciplina specializzata ai cui risultati non è possibile in questa sede dedicare lo spazio che sarebbe necessario per una anche sommaria esposizione. Qualche aspetto di questa complessa problematica ha ricevuto tuttavia attenzione anche da parte degli studiosi delle discipline più propriamente organizzative e deve pertanto essere menzionato.
Nell'originaria impostazione simoniana (e nelle precedenti formulazioni teoriche, quali quelle facenti capo alla cosiddetta scuola classica delle teorie dell'organizzazione o all'approccio dell'organizzazione scientifica del lavoro) il soggetto era considerato come: a) disposto a 'vendere' il proprio tempo e la propria volontà all'organizzazione in cambio di una retribuzione monetaria; b) indifferente rispetto ai contenuti e alle modalità delle attività affidategli; c) caratterizzato da una forma di razionalità che, se pur non mirante all'ottimizzazione dei risultati, come presupposto dalle discipline economiche classiche (homo oeconomicus), era tuttavia pur sempre calcolabile, in quanto tendente a raggiungere risultati considerati soddisfacenti (la cosiddetta 'razionalità limitata' propria dell'homo administrativus). Tale modello di uomo è stato chiarito, qualificato e in gran parte stravolto dalle ricerche successive (per un'ampia panoramica storica v. Bonazzi, 1982; v. Morgan, 1986).
Dal punto di vista della motivazione l'uomo non mira esclusivamente alla soddisfazione di bisogni materiali (quali quelli soddisfacibili mediante una retribuzione in denaro) e neppure desidera (come ipotizzato, già in epoca precedente a Simon, da Elton Mayo e dagli altri autori della cosiddetta 'scuola delle relazioni umane') solo un ambiente affettivamente e socialmente positivo. L'uomo mira in realtà, sia nell'organizzazione che, più in generale, nella sua vita sociale, al soddisfacimento di una gamma di bisogni diversi, che vanno da quelli materiali (fisici, attinenti alla conservazione in vita e alla riproduzione biologica) e di sicurezza (il soddisfacimento anche futuro dei bisogni materiali) a quelli relativi ai rapporti sociali, al bisogno di emergere (di distinguersi cioè dai propri pari e di dominarli) e infine di realizzare la propria personalità, di essere cioè completamente se stesso e di dispiegare appieno le proprie potenzialità.
Anche senza accettare l'impostazione di coloro che graduano tale gamma di bisogni secondo una vera e propria scala (ad esempio, v. Maslow, 1954) i cui gradini sarebbero saliti in successione (ogni bisogno sarebbe percepito e diverrebbe imperativo quando è stato soddisfatto il bisogno precedente) e ovviamente, a maggior ragione, senza accettare la tesi, pur spesso formulata, che tale scala di bisogni - originariamente concepita come percorso esclusivamente del singolo - possa applicarsi all'intera società, per cui i nostri tempi sarebbero caratterizzati dalla prevalenza di soggetti il cui sistema motivazionale mira esclusivamente alla soddisfazione di bisogni di carattere 'superiore' (e in particolare all''autorealizzazione'; v. Mitchell, 1983), appare tuttavia necessario abbandonare gli schemi troppo semplicistici originariamente formulati. Dobbiamo ritenere che l'individuo possa cercare nell'organizzazione una retribuzione monetaria, sicurezza, rapporti sociali piacevoli con i colleghi e i superiori, uno strumento per emergere rispetto ai suoi pari o un lavoro che gli consenta di esplicare completamente le sue potenzialità oppure, come appare ragionevole presumere, una combinazione di tutte queste cose (se non addirittura la loro sommatoria). Il suo atteggiamento nei confronti dell'organizzazione, la sua disponibilità ad accettare passivamente la volontà dell'organizzazione, a fare di buon grado quello che gli viene chiesto, a 'rendere' in ultima analisi sul lavoro, dipenderà quindi dalla corrispondenza tra quello che l'organizzazione gli offre e quello che egli chiede all'organizzazione.
In secondo luogo va sottolineata l'importanza della cultura (in senso antropologico) originaria del soggetto (coincida o meno con quella in cui l'organizzazione agisce), che non solo contribuisce a determinarne il sistema motivazionale (e la sua reazione agli stimoli positivi o negativi che l'organizzazione gli fornisce), ma gli conferisce anche, attraverso il processo di socializzazione, un patrimonio di valori, schemi di riferimento, modelli di comportamento, modi di ragionare e di valutare che saranno portati nell'organizzazione ed eserciteranno un effetto - a volte estremamente rilevante - sui comportamenti ivi adottati (v. Smircich e Morgan, 1982). A sua volta l'organizzazione non è meramente passiva anche per questo aspetto: essa ha una propria cultura e dei propri valori (v. Gagliardi, 1986), dei propri metodi di azione e di giudizio, e cercherà implicitamente (attraverso i contatti con i membri 'esperti' della comunità lavorativa) o esplicitamente (attraverso corsi di formazione, indottrinamento, riti, 'cerimonie', ecc.) di agire come una vera e propria agenzia di socializzazione per sovrapporre la propria cultura (spontaneamente formatasi o - come si cerca sempre più spesso di fare - accuratamente pianificata) a quella originaria del soggetto. Nel caso di organizzazioni da molto tempo consolidate, dotate di una cultura molto caratterizzata e ricca di tratti peculiari, e che possano permettersi una socializzazione interna prolungata, questo fenomeno avrà conseguenze relativamente macroscopiche: ogni membro dell'organizzazione, quali che siano la posizione occupata, la sua cultura di origine e i suoi obiettivi primari, è spinto ad adottare - spesso inconsapevolmente o addirittura contro la sua volontà - modi di comportarsi e di interpretare e valutare la realtà comuni a tutti i suoi colleghi e tenderà a considerare propri gli obiettivi dell'organizzazione. Più spesso tale processo avverrà solo parzialmente o potrà avvenire in modo frammentato (in base alla collocazione sulla scala gerarchica o alla specializzazione delle subunità di appartenenza, dando origine a distinzioni tra 'noi' e 'loro' all'interno dell'organizzazione e accentuando così la naturale tendenza alla conflittualità interna).
In terzo luogo vale la pena di ricordare che, a parità di altri fattori, il comportamento dell'individuo (buona volontà, acquiescenza passiva, protesta attiva o, al limite, dimissioni spontanee - loyalty voice ed exit secondo la diffusa terminologia introdotta da Hirschman: v., 1970) avrà anche un'origine situazionale o contingente, e dipendente pertanto da fattori esterni all'organizzazione e da essa non controllabili se non in modo indiretto: la situazione del mercato del lavoro, lo stadio del percorso di vita del soggetto, i rapporti con i famigliari o con gli amici, ecc. Anche il concetto di razionalità va ampliato e specificato alla luce di quanto siamo venuti dicendo: se la razionalità limitata simoniana può considerarsi quanto richiesto dall'organizzazione all'individuo e costituisce quindi un obiettivo per essa (anche se si tratta di un obiettivo riduttivo rispetto alla razionalità economica presupposta dagli economisti), non è detto che un concetto di razionalità comunque basato su un calcolo dei costi e dei benefici sia sufficiente a render conto di quello che avviene all'interno dell'organizzazione. Considerazioni di prestigio (o di semplice 'salvare la faccia'), d'interesse individuale o di singoli gruppi, di potere e di controllo delle relative fonti (v. sotto), di semplice conservazione delle consuetudini entrano spesso in gioco nelle decisioni individuali o di gruppo. La stessa percezione della realtà - valutarla come problematica e quindi tale da richiedere una decisione - è filtrata attraverso schemi altamente soggettivi che fanno sì che lo stesso 'dato' sia visto in modo diverso da persone o gruppi diversi. Il risultato delle decisioni individuali è sempre 'logico' o 'razionale' dal punto di vista dei singoli che lo perseguono, ma non è detto che lo sia dal punto di vista organizzativo. Le decisioni collettive (v. Gherardi, 1985; v. March, 1988) risultano da una sommatoria di tali razionalità dei singoli, dalla loro capacità di imporle agli altri partecipanti ai processi decisionali, e dalle regole di decisione che l'organizzazione detta o che si evolvono spontaneamente (più spesso da una combinazione di entrambi i tipi di regole): il risultato è quindi in larga misura imprevedibile e si discosta dai canoni di razionalità e calcolabilità in misura molto maggiore di quanto non avvenga per le decisioni individuali. Non a caso la letteratura sui modelli di decisione organizzativa si è sempre più orientata negli ultimi tempi verso modelli che poco o nulla hanno a che fare con quelli ispirati alla razionalità economica.
Un ultimo argomento, infine, va quanto meno accennato: abbiamo parlato sinora di volontà organizzativa e di volontà individuale come se si trattasse di due cose contrapposte, immutabili e contraddistinte da confini invalicabili. La realtà tuttavia smentisce, sulla base di ricerche ormai note da molti anni, questa semplificazione. Già abbiamo avuto modo di dire come la 'volontà' dell'organizzazione, in ogni momento determinato, sia in realtà la volontà della 'coalizione dominante'. Ma questo ovviamente equivale a dire che esistono soggetti che non fanno parte della coalizione dominante, che possono quindi esistere 'coalizioni dominate', che esiste un'alleanza tra soggetti diversi (che può basarsi su una comunanza permanente di interessi o scaturire da una mediazione strumentale tra interessi diversi che si 'alleano' al fine di vincere uno scontro), che tale alleanza consente di cumulare le risorse disponibili per il conseguimento di un fine comune, che le alleanze possono rovesciarsi, che la situazione venuta a crearsi in seguito a uno scontro può essere ribaltata da una nuova coalizione che può vincere un ulteriore scontro, e così via (v. Cohen e March, 1974).
Si apre così la strada a una concezione che vede l'organizzazione (o quanto meno i suoi vertici) divenire teatro di vere e proprie guerre - non a caso la terminologia adottata dagli autori che seguono tale prospettiva si ispira a quella militare o a quella delle relazioni internazionali: si parla comunemente di strategie, di alleanze, di armi, di vittorie e di sconfitte- guerre miranti a stabilire quali siano o debbano essere gli obiettivi organizzativi. E, se al vertice si svolgono macrobattaglie il cui esito deciderà chi controllerà l'organizzazione, cosa si farà in essa e quali saranno gli strumenti per conseguire gli obiettivi 'comuni' (si ricordi che secondo una visione tanto ottimistica quanto tuttora diffusa l'organizzazione ha la sua ragion d'essere nella 'cooperazione' di una pluralità di soggetti per il raggiungimento di un fine comune il cui conseguimento non sarebbe possibile ai singoli), altre infinite microbattaglie si svolgono nell'organizzazione, dovunque si incontrino o si scontrino la volontà del singolo e quella della coalizione dominante. Salvo il caso, più che altro teorico, di una coincidenza perfetta tra obiettivi individuali e interessi organizzativi, ogni membro dell'organizzazione in ogni momento cercherà, sulla base di un calcolo strategico ancora una volta perfettamente razionale dal suo punto di vista, di far prevalere i suoi obiettivi personali (lavorare di meno, progredire nella carriera, più tempo libero, una migliore retribuzione, un lavoro più interessante, maggiori margini di autonomia, evitare una sanzione, risolvere un caso in modo tale da trarne benefici per sé o per persone gradite, e così via) su quelli che percepisce essere gli interessi degli altri - dell'organizzazione in primo luogo, ma anche di altri membri i cui interessi siano in quel momento in contrasto con i suoi. In questo senso l'organizzazione è il prodotto di un 'ordine negoziato' (v. Strauss, 1978) o forse meglio ancora di un 'ordine guerreggiato'.
Ovviamente nella maggior parte dei casi - e soprattutto nel caso degli scontri quotidiani che avvengono sul posto di lavoro - queste battaglie non sono aperte e palesi, e il loro esito è definito in partenza e rientra nella normalità; ma, proprio per questo, esse assumono estrema importanza nel determinare il comportamento. Non a caso la concezione che vede tali battaglie e i loro esiti come la chiave interpretativa più importante per capire le organizzazioni e ciò che in esse avviene (il cosiddetto 'approccio strategico' allo studio delle organizzazioni) è ormai una delle componenti acquisite della moderna teoria organizzativa (v. Crozier e Friedberg, 1977; v. Mintzberg, 1983).
Va inoltre sottolineato che la risorsa che viene spesa per far prevalere la propria volontà su quella degli altri, e al tempo stesso la posta in gioco, è in ultima analisi il potere, che viene appunto definito come la capacità di una persona di far sì che gli altri facciano ciò che essa vuole (v. Bachrach e Baratz, 1962). Lo scontro di volontà è vinto da chi ha più potere e chi lo vince avrà modo non solo di trarne dei vantaggi in termini di prevalenza della propria volontà su quella degli altri, ma anche di accumulare più potere, che potrà spendere negli scontri futuri. Esiste ormai un'ampia letteratura sulle fonti del potere nelle organizzazioni (il controllo di risorse scarse, la capacità di impersonare i valori chiave della cultura organizzativa e, per così dire, di 'ammantarsi ' di tali valori, il possesso di conoscenze detenute in modo esclusivo, l'occupare posizioni che permettono di filtrare e condizionare i rapporti dell'organizzazione con l'esterno, doti psicologiche particolari, ecc.), e pressoché tutti gli autori concordano nel considerare tale risorsa distribuita - anche se in modo tutt'altro che uniforme e anzi per definizione in modo ineguale - attraverso tutta l'organizzazione. Anche in un'organizzazione apparentemente monolitica esisteranno individui o gruppi che, detenendo un potere non previsto o previsto solo parzialmente dalle norme 'ufficiali', saranno in grado di far prevalere la loro volontà su quella organizzativa in materia d'interpretazione dei fini organizzativi e di determinazione del modo di realizzarli, e d'imporre quindi quelli che essi ritengono siano il modo e le condizioni 'giusti' di essere membri dell'organizzazione (v. Hickson e altri, 1971).
Due ultime annotazioni sono necessarie per chiudere l'argomento. In primo luogo va notato come la concezione strategica dell'organizzazione consideri il 'conflitto' come una componente essenziale e pressoché ineliminabile dell'organizzazione stessa e promuova, per così dire, quella che era stata da sempre (e lo è tuttora in gran parte della pubblicistica di natura precettiva ) una 'disfunzione' di carattere 'fisiologico'. In un certo senso si tratta di un ulteriore passo in avanti rispetto a coloro che, nell'ambito dell'approccio struttural-funzionalistico, avevano ritenuto il conflitto in qualche caso benefico per le strutture sociali, ponendosi quindi in posizione formalmente eretica rispetto a una teorizzazione nata per spiegare e a volte esaltare la cooperazione e la solidarietà (v. Coser, 1956): la concezione strategica pone il conflitto alla base stessa della vita organizzata, in una prospettiva che manca altresì di quella soluzione finale, costituita dalla vittoria dei 'buoni' sui 'cattivi', propria di altre visioni conflittuali della società (ad esempio il marxismo).
Infine bisogna precisare che la vittoria dell'organizzazione e di chi la rappresenta negli scontri di volontà che caratterizzano la vita 'normale' non sempre e non necessariamente costituisce la soluzione migliore dal punto di vista collettivo (v. Mangham, 1979). Alcuni studi recenti hanno infatti messo in luce che in casi particolari, ma molto più diffusi di quanto si potrebbe pensare, l'organizzazione riesce a perseguire i propri obiettivi solo in quanto vi sono in essa individui o gruppi che, pur condividendo gli obiettivi organizzativi, rifiutano tuttavia di adottare i mezzi che le norme impongono per la loro realizzazione e hanno sufficiente potere per prevalere nello scontro che nasce da questo rifiuto. Tale fenomeno (la cosiddetta inosservanza funzionale della norma) è relativamente frequente in organizzazioni molto formalizzate e in situazioni in cui la complessità e il tasso di mutamento dell'ambiente sono tali da rendere le norme (e in particolare quelle che definiscono i mezzi 'legittimi' per realizzare gli obiettivi) inutili, in quanto incapaci di rendere conto della complessità delle situazioni concrete e/o obsolete (v. Manciulli e altri, 1986).
Come preannunciato in apertura dell'articolo, vediamo ora le peculiarità delle organizzazioni che rientrano nell'ambito della cosiddetta pubblica amministrazione. Precisiamo innanzitutto che, almeno per ciò che ci riguarda in questa sede, appare completamente fuori luogo considerare la dicotomia 'pubblico/privato' come una netta contrapposizione: si tratta piuttosto di un continuum i cui estremi, come spesso avviene in questi casi, hanno rilevanza solo teorica, mentre ogni realtà concreta assume una delle infinite posizioni intermedie. Ciò che determina il carattere pubblico o privato è l'importanza che viene attribuita dalla società (e dagli organismi che la rappresentano) alle organizzazioni, ai loro obiettivi e alle conseguenze che tali obiettivi hanno per la collettività. Solo per convenzione, quindi (una convenzione i cui limiti sono oggetto di perenne discussione tra i cultori del diritto) possiamo identificare la pubblica amministrazione come entità a sé, con sue caratteristiche peculiari (un vero e proprio genus). Ciò chiarito, il tema di questo capitolo è identificare quali siano le caratteristiche delle organizzazioni (siano o meno comprese tra quelle che per convenzione sono indicate come parte della pubblica amministrazione) più vicine al polo 'pubblico' del continuum. Tra queste caratteristiche, tre meritano menzione anche in queste brevi note.
In primo luogo si può affermare che, quanto più un'organizzazione è pubblica, tanto più i fini che essa persegue sono fini della società e quindi determinati al di fuori di essa dagli organi che rappresentano la società e in qualche modo parlano per essa, e tanto più dipenderà da tali organi anche per le proprie risorse. Concretamente quindi nessuna organizzazione può considerarsi da questo punto di vista completamente 'pubblica', dal momento che è ben noto che i membri della pubblica amministrazione partecipano attivamente, direttamente e indirettamente, alla determinazione dei suoi obiettivi e al processo attraverso il quale le risorse vengono distribuite, e spesso addirittura assumono un ruolo di iniziativa o di stimolo del processo (si pensi ai progetti di legge di iniziativa 'governativa', in realtà elaborati dalla pubblica amministrazione, al suo ruolo preminente nei processi di bilancio, ai ben documentati legami che uniscono parlamentari e pubblica amministrazione in uno scambio di favori reciproci e di informazioni, all'integrazione della legge attraverso decreti e circolari, ecc.).
In secondo luogo le organizzazioni vicine al polo 'pubblico' del continuum sono dirette da un vertice che viene imposto alle organizzazioni dall'esterno, talché esso risponde dell'attività propria e di tutta l'organizzazione a organi (in genere gli stessi che elaborano i fini) estranei all'organizzazione stessa, può essere rimosso da questi e ha spesso - per la sua diversa origine e formazione, per il modo in cui viene scelto e per la socializzazione organizzativa scarsa o del tutto assente alla quale viene sottoposto - modi di pensare e di agire che lo differenziano drasticamente da quelli propri degli altri componenti dell'organizzazione. I frequenti conflitti che nella pubblica amministrazione contrappongono 'politici' e 'amministrativi' hanno tra l'altro questa origine.
Infine, nelle organizzazioni di cui ci stiamo occupando, il controllo esterno, dovuto all'estrema importanza che esse e la loro attività hanno per la società, fa sì che la normativa - o almeno quella parte della normativa che ha la sua origine al di fuori dell'organizzazione - riguardi non solo gli obiettivi, ma anche i mezzi che possono/debbono essere utilizzati per raggiungerli. Da questo derivano due conseguenze rilevanti: da un lato le organizzazioni che vengono considerate parte della pubblica amministrazione sono in genere più formalizzate di quelle meno vicine al polo pubblico del continuum, e tale formalizzazione si attua attraverso norme che - essendo determinate all'esterno e/o con la partecipazione di soggetti esterni all'organizzazione - hanno un tasso di rigidità molto superiore a quello proprio della normativa organizzativa delle altre organizzazioni; dall'altro lato la violazione delle norme che incorporano obiettivi e mezzi 'leciti' per raggiungerli è molto più grave della violazione delle norme nelle altre organizzazioni, sino a configurarsi come un vero e proprio reato, e dunque con precise conseguenze penali.
Da tutto questo, ovviamente, scaturiscono ulteriori conseguenze importanti sul piano del comportamento organizzativo (che ritorna a essere in questo caso 'comporamento amministrativo' nel senso comunemente attribuito al termine): non solo diverrà molto probabile che la pubblica amministrazione persegua obiettivi che non corrispondono più agli interessi della società in cui agisce e al cui servizio è formalmente collocata; non solo essa si troverà spesso a dover utilizzare strumenti divenuti del tutto inadatti al conseguimento dei suoi obiettivi, ma sarà ostacolata nei suoi tentativi di ovviare a tali carenze dal fatto che ogni cambiamento dovrà essere effettuato dall'esterno e attraverso organi decisionali che essa controlla solo parzialmente, mentre i comportamenti di 'inosservanza funzionale delle norme' saranno, per la non neutralità dei fini e anzi per il loro carattere di 'sacralità', rischiosi e quindi meno frequenti. La pubblica amministrazione - come organizzazione ad alto tasso di 'pubblicità' - sarà quindi più esposta delle organizzazioni che non ne fanno parte a fenomeni di inefficacia (incapacità di raggiungere i propri fini) e più di quelle esibirà sintomi di degrado organizzativo (scarsa coesione, sclerosi, inadeguatezza dei mezzi, immagine negativa, mancanza di competitività, ambiente sociale negativamente connotato, morale basso, ecc.). È forse il caso di notare, come ultima osservazione, che la pubblica amministrazione italiana di questi ultimi anni (o decenni) è un perfetto esempio di quanto abbiamo appena affermato (v. Mortara, 1981; v. Freddi, 1989). (Ringrazio Silvia Gherardi per la gentile collaborazione prestata nella stesura di questo articolo). (V. anche Amministrazione, scienza della; Amministrazione pubblica; Burocrazia; Organizzazione).
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