conoscenza
Esperienza e ragione per ottenere un sapere certo
Esiste una conoscenza valida? E se sì, entro quali limiti? E come giungiamo a essa? A queste domande ha sempre cercato di rispondere la gnoseologia (studio della conoscenza), che ha conosciuto la sua epoca d'oro nel periodo che va da Cartesio a Kant (17°-18° secolo). Oggi la gnoseologia è stata sostituita dall'epistemologia, che studia i presupposti teorici e i metodi delle scienze
Una delle più antiche controversie sulla conoscenza riguarda la sua origine: da dove proviene una conoscenza valida? Gli empiristi (empirismo) sostengono che essa derivi dall'esperienza, che con la sua evidenza ‒ testimoniata dai sensi ‒ è l'unica a permetterci di distinguere tra le affermazioni vere e quelle false. Ogni ricerca deve iniziare e finire con l'esperienza; se oltrepassa tale limite essa non produrrà una conoscenza valida, ma soltanto opinioni, credenze, fedi.
Contro questa impostazione i razionalisti hanno sempre obiettato che i sensi sono ingannevoli e quindi non offrono alcuna base sicura per la conoscenza; inoltre, partendo dai dati dell'osservazione non si può mai giungere ad affermazioni logicamente necessarie e universali, cioè valide per tutti i casi. La ragione, al contrario, è la facoltà che ci permette di raggiungere principi necessari e universali, come dimostrano la logica e le scienze matematiche: e da tali principi bisogna muovere se si vuole ottenere un sapere certo.
Conformemente a tali impostazioni, gli empiristi utilizzano il metodo induttivo, che va dal particolare al generale, mentre i razionalisti si servono del metodo deduttivo, che va dal generale al particolare.
La nascita della scienza moderna, nel 17° secolo (rivoluzione scientifica), segna uno spartiacque nella storia della conoscenza: per la prima volta, infatti, si giunge a un sapere i cui risultati ‒ nell'ambito della natura ‒ appaiono certi. Ma come si è giunti a tali risultati? Seguendo la strada dell'esperienza o quella della ragione? In un certo senso, Galilei, il padre della scienza moderna, le seguì entrambe. Il suo metodo si basava infatti sulle "necessarie dimostrazioni" e sulle "sensate esperienze": le prime erano i ragionamenti logici attraverso i quali Galilei, partendo da un'intuizione e procedendo per congetture, arrivava a formulare un'ipotesi; le seconde erano le esperienze fatte con i sensi, che servivano come momento di verifica per le ipotesi.
Per un verso Galilei fu dunque un razionalista: egli sapeva che per scoprire le leggi della natura non basta raccogliere dati tramite l'osservazione, ma dobbiamo disporre di un'ipotesi, che nasce da un ragionamento astratto. A differenza di un razionalista, tuttavia, per Galilei non era sufficiente che l'ipotesi fosse razionalmente coerente; era anche necessario che superasse il banco di prova dell'esperienza. Sotto questo profilo Galilei era un empirista, sia pure di tipo particolare: le sue, infatti, non erano esperienze ingenue, ma esperimenti, ossia esperienze costruite artificialmente che, come avrebbe detto Kant, costringevano la natura a rispondere alle sue domande.
Kant non ha dubbi sulla validità della scienza moderna, ma si interroga sulle sue fondamenta teoriche e per rispondere a tale domanda ritorna sul problema delle fonti della conoscenza. Il sapere scientifico, per essere tale, deve essere universale e necessario; ma allora esso non può fondarsi sull'esperienza, come giustamente sostengono i razionalisti, perché tra esperienza e necessità c'è un abisso incolmabile. La ragione, invece, è in grado di produrre affermazioni universali e necessarie, ma senza il ricorso all'esperienza ‒ come affermano gli empiristi ‒ essa rimane sterile o produce un sapere immaginario e perciò falso.
La conclusione di Kant è che la conoscenza scientifica scaturisce dalla confluenza di entrambe le fonti: l'esperienza ci fornisce la materia, che sono i dati particolari, mentre la ragione ci offre le forme ‒ cioè le categorie ‒ che ci permettono di ordinarli e conferire loro universalità e necessità. L'esperienza, senza ragione, è cieca: essa ci offrirebbe soltanto un ammasso caotico di sensazioni; la ragione, senza esperienza, è vuota. La mente kantiana è paragonabile a un computer, dotato di sofisticati programmi capaci di ordinare i dati più disparati; ma se noi non immettiamo i dati (cioè l'esperienza), i programmi rimangono inerti.