Abstract
Viene analizzato l’istituto del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, con riferimento al rapporto di lavoro privato. Ci si sofferma in particolare sulle novità introdotte dal legislatore attraverso il d.lgs. 15.6.2015, n. 81.
Nel quadro del cd. Jobs Act, le regole dettate in precedenza in tema di contratto di lavoro subordinato a tempo determinato dal d.lgs. 6.9.2001, n. 368, vengono trasfuse, con le modifiche che ci si accinge a vagliare, nel più ampio contenitore rappresentato dal d.lgs. 15.6.2015, n. 81 nel quale trovano spazio anche le altre tipologie contrattuali. In particolare, nell’ambito del d.lgs. n. 81/2015, al contratto di lavoro subordinato a tempo determinato sono dedicati gli artt. da 19 a 29.
Nella riforma attuata con il d.lgs. n. 368/2001, si era partiti da un’impostazione basata su una limitazione qualitativa del contratto di lavoro a termine, legittimato solo dalla presenza di ragioni specificate nel contratto.
La tappa intermedia del 2008 si caratterizzava per l’aggiunta di un limite anche quantitativo, consistente nella durata massima complessiva di trentasei mesi dei contratti a termine, compresi proroghe e rinnovi.
Da lì, dopo la “riforma a metà”, riguardante il primo contratto a termine liberato dalle causali, attuata con la l. 28.6.2012, n. 92 e le successive correzioni (d.l. 28.6.2013, n. 76) si giungeva al più chiaro approdo realizzato con il d.l. 20.3.2014, n. 34, che esprime una regolazione fondata su criteri quantitativi, relativi alle condizioni di uso del contratto di lavoro a termine, liberato dal vaglio legato alle causali di giustificazione, ovvero delle «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo».
Ebbene, è quest’ultima l’impostazione a cui il d.lgs. n. 81/2015 dà continuità, dando vita ad un progetto di sostanziale semplificazione dell’esistente, atta, almeno nelle intenzioni del legislatore, anche a superare alcuni dubbi interpretativi. Si procede, inoltre, ad accorpare altre normative, ugualmente relative al contratto a termine, collocate al di fuori del d.lgs. n. 368/2001, come quelle in materia di start up e quelle in materia di termini di impugnazione, di decadenza e di indennità risarcitoria.
Occorre segnalare che un ulteriore elemento di complicazione della tormentata vita del contratto a termine in Italia dopo l’emanazione del d.lgs. n. 368/2001 è stato quello della sua conformità ai dettami dell’Accordo quadro sul contratto di lavoro a tempo determinato recepito nella dir. 1999/70/CE. La questione ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro; tuttavia i limiti di ampiezza imposti per la redazione di questa voce inducono a non affrontarla di nuovo, anche perché le novità introdotte dal legislatore del 2015 (su cui qui ci si sofferma) non paiono creare di per sé nuovi interrogativi rispetto al passato, tanto da indurci a rinviare alla letteratura sviluppatasi sul tema.
La conferma dell’assetto precedente trova attuazione già nelle disposizioni che ribadiscono la necessità della forma scritta per la stipula del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato (art. 19, co. 4, d.lgs. n. 81/2015).
Viene al contempo confermato che il termine può risultare anche “indirettamente”, ovvero emergere in via induttiva da quanto si ricava dall’insieme delle previsioni contrattuali, come ad es. avviene quando si fa riferimento a un evento futuro e certo o come accade quando si indica come termine massimo del contratto a termine, effettuato per sostituire un lavoratore assente, il momento del rientro in servizio di tale lavoratore.
In caso di violazione della forma scritta, il contratto si reputa stipulato a tempo indeterminato. È quanto deriva dalla previsione secondo cui l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta da atto scritto (art. 19, co. 4, d.lgs. n. 81/2015).
L’onere della prova della forma scritta grava sul datore di lavoro, il quale come accade negli altri casi in cui la forma scritta è ad substantiam, non può ricorrere alla prova testimoniale per dimostrare che il rapporto di lavoro è a termine, fatta eccezione dell’ipotesi in cui abbia perduto senza colpa il documento scritto (artt. 2724 e 2725 c.c.).
Viene confermata la durata massima del contratto a tempo determinato in trentasei mesi (art. 19, co. 1, d.lgs. n. 81/2015). Ora di certo il limite di durata opera anche per il singolo primo contratto, tollerando eccezioni soltanto in relazione ai rapporti espressamente esclusi dalle disposizioni del capo III del d.lgs. n. 81/2015 (v. infra, § 12).
Peraltro, in virtù dell’espressa previsione presente all’inizio del co. 2, alla contrattazione collettiva (di qualunque livello, cfr. art. 51 d.lgs. n. 81/2015) resta, come in precedenza, alla stessa delegato il potere di disporre limiti diversi. Delega che è concessa solo in relazione alla durata complessiva di distinti contratti a termine stipulati con il medesimo lavoratore e, dunque, solo in tema di successione dei contratti e non per quanto riguarda la durata del singolo contratto, che comunque è destinato ad incontrare il limite dei trentasei mesi.
In ogni caso, l’ampia formula confermata dal legislatore del 2015 induce a ribadire che la contrattazione collettiva “selezionata” possa intervenire sui limiti di durata sia abbreviando il termine dei trentasei mesi che, al contrario, autorizzando un termine più lungo di quello di trentasei mesi previsto direttamente dalla legge per la durata massima dei contratti di lavoro a termine (in successione o meno), ovvero prevedere la fissazione di un numero massimo di rinnovi.
In ogni caso, il limite temporale di fonte legale, sempre di trentasei mesi, derivante dalla successione di diversi contratti a termine con il medesimo lavoratore, non trova applicazione, come in precedenza, per le attività stagionali (art. 19, co. 2, d.lgs. n. 81/2015).
Ai fini del computo dei trentasei mesi, si fa riferimento alla successione di contratti a termine «conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale» (art. 19, co. 2, d.lgs. n. 81/2015). La nuova formula, che sostituisce il precedente riferimento alle mansioni “equivalenti”, si rifà alla modifica della disciplina delle mansioni di cui all’art. 2103 c.c. operata dallo stesso d.lgs. n. 81/2015 (art. 3) che ha, appunto, comportato il superamento del concetto di equivalenza.
La norma viene a svolgere una funzione anti-fraudolenta, tesa ad evitare il suo aggiramento attraverso l’adibizione del lavoratore a mansioni “solo” diverse. Per le medesime finalità, il collegamento espresso allo “svolgimento” delle mansioni induce a far riferimento non al profilo del formale inquadramento, ma alle mansioni svolte effettivamente dal lavoratore.
Il d.lgs. n. 81/2015 include nel periodo di trentasei mesi, come in precedenza, anche i periodi di missione, sempre aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale, svolti tra i medesimi soggetti, nell’ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato (art. 19, co. 2, d.lgs. n. 81/2015).
Come in passato, il rilievo dei periodi di somministrazione resta circoscritto all’utilizzo del contratto di lavoro a termine. Non si pongono, invece, limiti temporali complessivi all’utilizzo di contratti di lavoro in somministrazione con il medesimo lavoratore (v. ora l’art. 32, co. 2, primo periodo, d.lgs. n. 81/2015).
Allo stesso tempo, è opportuno precisare che il superamento del tetto deve avvenire in ogni caso attraverso un contratto di lavoro a termine, che, dunque, sarà l’ultimo rilevante a questi fini della sequenza, giacché il limite resta tuttora stabilito per il contratto a termine e non con riguardo alla missione in somministrazione. Ne deriva che, per fare un esempio, se attraverso i precedenti contratti a termine si è raggiunta una soglia di trentacinque mesi, un ulteriore utilizzo del medesimo lavoratore attraverso un contratto di somministrazione di lavoro per due mesi non determina il superamento del limite.
Sulle conseguenze del superamento del suddetto limite temporale «per effetto di un unico contratto o di una successione di contratti», la nuova normativa prescrive che «il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di tale superamento», con formula più precisa di quella utilizzata in precedenza. Ora, al superamento dei trentasei mesi scatta la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato, senza possibilità di sforamenti.
Resta comunque ferma la possibilità di stipulare con il medesimo lavoratore un ulteriore contratto a termine in sede di negoziazione assistita presso la direzione territoriale del lavoro competente per territorio (art. 19, co. 3, d.lgs. n. 81/2015), ma al contempo non viene riproposta la stringente condizione per cui era necessaria l’assistenza di un rappresentante sindacale.
Inoltre, il limite all’ulteriore durata è ora fissato dalla legge in un periodo non superiore ai dodici mesi e non è più, invece, affidato alle determinazioni della contrattazione collettiva. Se ne deve dedurre che nel caso in cui la contrattazione collettiva, a cui questo ambito di intervento è stato sottratto, abbia, in virtù delle norme previgenti, fissato limiti diversi, questi non valgano più, in base allo ius superveniens.
In caso di mancato rispetto della descritta procedura, come di superamento del termine stabilito nel medesimo contratto, «lo stesso si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data della stipulazione».
Appare opportuno anticipare a questo punto l’analisi di quanto disposto dall’art. 21 in tema di intervalli, giacché si tratta di disposizioni che completano il quadro regolamentare in tema di successioni dei contratti a termine.
Viene, invero, confermato il sistema del necessario stop and go tra un contratto e l’altro (almeno dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto inferiore a sei mesi e venti giorni per un contratto di durata superiore a sei mesi), in difetto «il secondo contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato» (art. 21, co. 2, primo periodo, d.lgs. n. 81/2015).
Invece, non viene riproposta e, dunque, scompare la norma per cui in caso di stipulazione di un successivo contratto a termine senza soluzione di continuità con il precedente il rapporto a termine lo stesso era da considerare a tempo indeterminato dalla data di decorrenza: l’ipotesi rientra, quindi, in quella sopra descritta, con trasformazione del secondo (rectius successivo) contratto a termine.
A ben vedere, il regime degli intervalli, insieme alla “causale generale”, rappresentava in origine una rilevante misura contro “l’abuso dei contratti a termine” e sulla causale si reggeva, a conferma della esigenza temporanea che il contratto a termine doveva soddisfare. Caduta la causale nel 2014, si dovrebbe dire simul stabunt simul cadent. In un sistema diverso, che prevede solo limiti “esterni” di durata e quantitativi, la normativa sugli intervalli pare ora eccentrica, per non dire ipocrita, fonte solo di possibile contenzioso e andrebbe coerentemente eliminata.
Dimostrando su questo punto un’attenzione e una lungimiranza maggiore del legislatore, la contrattazione collettiva è già intervenuta in molti settori, anche prima della riforma del 2014, a ridurre i periodi di necessario stop; a disporne il superamento, appunto, in presenza solo di esigenze sostitutive o, anche in altre ipotesi, a eliminare del tutto l’obbligo del rispetto degli intervalli.
La legge ribadisce che anche il regime degli intervalli non trova applicazione per le attività stagionali, dove la reiterazione dei contratti a termine è fisiologica. Queste dovrebbero essere individuate da un apposito decreto del Ministero del lavoro, che vada a sostituire il vecchio d.P.R. 7.10.1963, n. 1525, ma che ad oggi ancora non è stato emanato. Le stesse attività stagionali possono inoltre, come in precedenza, essere individuate dai contratti collettivi, anche in questo caso di qualsiasi livello (art. 21, co. 2, d.lgs. n. 81/2015).
Inoltre, viene ribadito che le prescrizioni sulla necessità degli intervalli non si applicano alle imprese start-up innovative, per il periodo di quattro anni dalla costituzione della società, ovvero per il più limitato periodo per le società già costituite (art. 21, co. 3, d.lgs. n. 81/2015). Tuttavia, il godimento di tale deroga non risulta più condizionato dalla stipula del contratto a termine per lo svolgimento di attività inerenti o strumentali all’oggetto sociale della start up, né dalla durata minima dello stesso di sei mesi, come prescriveva la previgente normativa, ora espressamente abrogata.
Anche in tema di divieti, la nuova normativa ribadisce nel complesso l’assetto precedente. Così, rimane non ammessa l’apposizione di un termine al contratto di lavoro: a) per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; b) presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi, che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato, salvo che il contratto sia concluso per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti, per assumere lavoratori iscritti nelle liste di mobilità, o abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi; c) presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni, che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a tempo determinato; d) da parte di datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori (art. 20, co. 1, lett. b, d.lgs. n. 81/2015, rubricato Divieti). Nei casi a) e d) il divieto appare volto a proteggere diritti fondamentali dei lavoratori del tutto estranei alla materia del contratto a termine, mentre i casi b) e c) fanno riferimento a situazioni aziendali in cui si vuole tutelare l’occupazione stabile.
A parte le leggere modifiche lessicali apportate, come tali ininfluenti ai fini dell’interpretazione della normativa in esame, occorre rimarcare la prima novità sostanziale, consistente nella eliminazione della possibilità di deroga da parte dei contratti collettivi rispetto all’ipotesi di divieto di assunzione a termine in caso di licenziamenti collettivi effettuati nell’arco dei sei mesi precedenti (art. 20, co. 1, lett. b, d.lgs. n. 81/2015).
Il divieto resta, tuttavia, facilmente eludibile. La legge, infatti, ribadisce comunque in questo caso la possibilità della stipula di un contratto a termine con «durata iniziale non superiore a tre mesi». L’ipotesi era dotata di una sua possibile logica nell’ambito della previgente normativa, che consentiva una sola proroga per ogni singolo contratto a termine e in ogni caso “giustificata” dalle medesime ragioni dell’originario contratto. Ora, a seguire la lettera della norma, per superare il divieto risulta sufficiente stipulare un contratto a termine di durata inferiore ai tre mesi e poi prorogarlo, senza necessità di “giustificazioni”, fino a cinque volte, fino a raggiungere agevolmente il consueto termine massimo di trentasei mesi.
Infine, viene precisato, facendo così chiarezza su una questione dibattuta tra gli interpreti, che in caso di violazione dei divieti «il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato» (art. 20, co. 2, d.lgs. n. 81/2015). Si tratta di una soluzione a cui si poteva giungere già in precedenza, considerando la clausola di apposizione del termine nulla, con applicazione dell’art. 1419, co. 2, c.c. e che la giurisprudenza ha fatto propria (cfr. Cass., 2.4.2012, n. 5241, in Mass. giur. lav., 2012, 850, per il caso di mancata effettuazione della valutazione dei rischi).
In merito alla delicata questione delle proroghe consentite, viene precisato che le proroghe sono cinque «a prescindere dal numero dei contratti» (art. 21, co. 1, primo periodo, d.lgs. n. 81/2015). Si chiarisce, in tal modo, che le cinque possibili proroghe siano spendibili in relazione all’insieme dei contratti a termini stipulati con il medesimo lavoratore.
Viene, al contempo, eliminata la condizione che voleva le suddette cinque proroghe riferite alla «stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato», che risultava retaggio della vecchia impostazione del contratto a termine “causale”.
In ogni caso, l’eliminazione del riferimento alla «stessa attività» consente in maniera ancor più sicura di fugare ogni dubbio sulla a-causalità anche del ricorso alle proroghe del contratto che, nei limiti (quantitativi e non qualitativi) di cinque volte, non devono essere giustificate da parte del datore di lavoro.
Il legislatore non coglie l’occasione per precisare quale sia il regime formale a cui è sottoposta la proroga del contratto di lavoro a termine, giacché la forma scritta, come in passato, è prescritta solo per l’apposizione del termine al contratto, dunque all’atto della stipula (art. 19, co. 4, d.lgs. n. 81/2015). Di fronte a orientamenti difformi della giurisprudenza, si è ritenuta non necessaria la forma scritta in mancanza, appunto, di una specifica prescrizione normativa (cfr. App. Bolzano, 8.11.2006, in Mass. giur. lav., 2007, 48, anche Cass., 24.1.2008, n. 1569, cit., ma con riferimento alla previgente normativa sul contratto a termine dettata dalla l. 18.4.1962, n. 230). Da altro punto di vista, si è giunti a qualificare la proroga quale negozio bilaterale di secondo grado, incidente su un elemento essenziale del contratto rappresentato dal termine, tanto da dover assumere necessariamente la forma scritta (cfr. Trib. Bolzano, 20.4.2006, in http://bd44.leggiditalia.it; Trib. Milano, 27.9.2002, in Riv. crit. dir. lav., 2002, 99).
La forma scritta, peraltro, acquista carattere dirimente nel distinguere l’ipotesi della proroga da quella, contigua, della prosecuzione di fatto. Altrimenti, può risultare davvero difficile raggiungere la certezza in merito alla fattispecie che ricorre nel caso concreto (cfr. Cass., 5.6.2012, n. 9029).
Viene, inoltre, specificato che «Qualora il numero delle proroghe sia superiore, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della sesta proroga» (art. 21, co. 1, secondo periodo, d.lgs. n. 81/2015) chiarendo un aspetto non esplicitato dalla previgente normativa, ma comunque desumibile già allora in via interpretativa.
Rappresenta, inoltre, una novità l’espressa non applicazione del regime delle proroghe per le imprese start-up innovative, per il periodo di quattro anni dalla costituzione della società, ovvero per il più limitato periodo per le società già costituite (art. 21, co. 3, d.lgs. n. 81/2015). Vuol dire che in questi casi il contratto di lavoro a termine può essere prorogato senza limiti quanto al numero delle proroghe stesse, ma rispettando, al contempo, il limite generale dei trentasei mesi complessivi che si impone anche alle imprese start-up.
In merito alla continuazione di fatto del rapporto di lavoro oltre la scadenza del termine pattuito (fissato all’inizio o successivamente prorogato), sono confermate le regole sulla maggiorazione economica a cui il lavoratore ha diritto. Maggiorazione che resta fissata al venti per cento fino al decimo giorno e, poi, al quaranta per cento per ciascun giorno ulteriore (art. 22, co. 1, d.lgs. n. 81/2015).
Il meccanismo della maggiorazione continua a trovare, nondimeno, dei limiti, giacché trova conferma anche la regola, da leggere congiuntamente alla prima, per cui «Qualora il rapporto di lavoro continui oltre il trentesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il cinquantesimo giorno negli altri casi, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini» (art. 22, co. 2, d.lgs. n. 81/2015).
Viene eliminato, in quanto non riproposto, il riferimento al periodo di tolleranza di trenta giorni anche con riferimento al superamento del limite massimo di trentasei mesi complessivi.
In relazione alla delicata questione dei limiti quantitativi all’utilizzo dei contratti a tempo determinato, viene ribadita la percentuale del 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato (art. 23, co. 1, d.lgs. n. 81/2015).
Dalla base occupazionale di fonte legale sulla quale effettuare il calcolo vanno esclusi gli apprendisti (art. 47, co. 3, d.lgs. n. 81/2015); i lavoratori somministrati a tempo indeterminato (art. 34, co. 3, d.lgs. n. 81/2015); i contratti di reinserimento (art. 20, co. 4, l. 23.7.1991, n. 223) e i rapporti a tempo indeterminato di soggetti provenienti dai lavori socialmente utili (art. 7, co. 7, d.lgs. n. 81/2000), tanto che la base si può restringere non di poco.
In virtù dell’ampia possibilità d’intervento riconosciuta alle determinazioni della contrattazione collettiva, i contratti collettivi di qualsiasi livello possono includere nella base di calcolo dei limiti ivi fissati anche alcune o, in ipotesi, tutte queste figure contrattuali.
Inoltre, viene confermato che il calcolo va effettuato sui lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di riferimento.
Viene in ogni caso ribadito che «per i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato» (art. 23, co. 1, d.lgs. n. 81/2015), che consente alle cd. micro-imprese comunque una assunzione a termine. Si tratta di una regola da intendere come inderogabile da parte della contrattazione collettiva, che non può validamente introdurre limiti quantitativi percentuali tanto bassi da impedire in quei casi di stipulare almeno un contratto di lavoro a tempo determinato.
Come rimarcato già in relazione al quadro delineato dal d.lgs. n. 368/2001, in base alla più semplice formula ora utilizzata dal legislatore si può agevolmente confermare che la contrattazione collettiva risulta abilitata a introdurre limiti quantitativi diversi rispetto al 20 per cento fissato dalla legge, al di sotto di questa soglia, ma anche al di sopra. Pertanto, il limite legale, da considerare quale norma di tipo dispositivo, viene ad assumere carattere sussidiario, in quanto applicabile soltanto in assenza di apposita regolamentazione da parte della contrattazione collettiva.
La contrattazione collettiva è già intervenuta nei diversi settori introducendo limiti all’utilizzo dei contratti a termine in percentuali, a quanto consta, oscillanti tra il 5 e il 50 per cento, in alcuni casi riferiti solo ai contratti a termine, mentre in altri casi i contratti collettivi non hanno previsto apposite clausole di contingentamento, sicché continua ad applicarsi il limite legale sussidiario del 20 per cento.
Tra i casi esenti da limiti percentuali sia di fonte legale che contrattuale collettiva, rientrano quelli dei contratti a termine stipulati nella fase di avvio di nuove attività; per lo svolgimento di attività stagionali; per sostituzione di lavoratori assenti, nonché per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi.
Inoltre, il limite percentuale non si applica anche ad altri casi, tra i quali compaiono i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati tra istituti pubblici di ricerca ovvero enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere in via esclusiva attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa. L’ampliamento di ipotesi di questo tipo passa, da un lato, attraverso l’inclusione anche dell’attività di insegnamento svolta presso i predetti enti, prima assente. Vengono, inoltre, aggiunte ex novo altre ipotesi, relative ai contratti a termine stipulati nel settore della ricerca scientifica (art. 23, co. 3, d.lgs. n. 81/2015).
Tecnicamente fuori dal discorso dei limiti quantitativi, ma attraverso disposizioni collocate nella medesima sede di quelli, trova conferma che i contratti di lavoro a tempo determinato aventi ad oggetto in via esclusiva lo svolgimento di attività di ricerca scientifica possono avere durata pari a quella del progetto di ricerca al quale si riferiscono (art. 23, co. 3, ultimo periodo, d.lgs. n. 81/2015). La norma, che esprime le peculiari esigenze del settore, vale, dunque, a consentire la stipula di un contratto a termine non solo di durata superiore a tre anni, ma anche di durata solo determinabile, in quanto legata al progetto di ricerca che – non lo si può escludere – può avere una durata non predefinita.
I contratti a termine conclusi nelle ipotesi escluse dal limite quantitativo non contribuiscono, dunque, a determinarlo. Si tratta, in altri termini, di contratti “neutri” al fine del relativo calcolo.
Eccettuate le ricordate ipotesi, a presidio del rispetto dei limiti percentuali all’utilizzo del contratto di lavoro a termine, viene ora chiaramente individuata la sola sanzione amministrativa pecuniaria. Come conseguenza della loro violazione, risulta esclusa espressamente la trasformazione in contratto a tempo indeterminato (art. 23, co. 4, d.lgs. n. 81/2015).
La modifica, mossa da esigenze di chiarezza e per venire incontro ai timori dei datori di lavoro, sembra apprezzabile anche sul piano sistematico, quale conferma del limite percentuale come limite “esterno”, che non assurge, cioè, a requisito del singolo contratto di lavoro a termine alle sorti del quale l’eventuale superamento del limite resta indifferente. Si deve, peraltro, ritenere che il lavoratore non risulti legittimato all’azione, sicché l’effettività di un tale sistema sanzionatorio resta affidata agli organismi di vigilanza pubblici.
Come nel quadro nella normativa previgente, anche la nuova legge, grazie al riferimento compiuto dal co. 4 dell’art. 23 al primo comma dello stesso articolo in cui viene fatta menzione anche dei limiti (eventuali) di fonte collettiva, induce a ribadire che le sanzioni trovano applicazione anche in caso di violazione dei limiti quantitativi eventualmente fissati dalla contrattazione collettiva.
L’entità della sanzione pecuniaria resta fissata nei limiti già disposti dal d.l. n. 34/2014 (art. 23, co. 4, lett. a e b, d.lgs. n. 81/2015). Si tratta di sanzioni di non poco conto, da ritenere calcolate su tutta la durata del contratto di lavoro a termine, che, anche laddove l’accertamento della violazione del limite quantitativo sia effettuato nel corso della sua durata andrà, comunque, a naturale scadenza.
Le disposizioni relative alle informazioni che il datore di lavoro deve fornire risultano leggermente modificate.
La legge, invero, impone ora chiaramente in via diretta al datore di lavoro di informare i lavoratori nonché le rappresentanze sindacali aziendali ovvero la rappresentanza sindacale unitaria «circa i posti vacanti che si rendono disponibili nell’impresa», delegando ai contratti collettivi (ora di qualunque livello) l’individuazione delle modalità dell’informativa (art. 19, co 5, d.lgs. n. 81/2015). Queste disposizioni vanno lette, peraltro, insieme a quelle sui diritti di precedenza, che, nei casi previsti, offrono tutela alle aspettative dei lavoratori a termine.
Una formulazione più generica concerne le informazioni da rendere alle rappresentanze sindacali aziendali o alla rappresentanza sindacale unitaria «in merito all’utilizzo del lavoro a tempo determinato», da definire da parte dei contratti collettivi per quanto riguarda le modalità e i contenuti (art. 23, co. 5, d.lgs. n. 81/2015). Queste ultime disposizioni sono contenute nell’articolo dedicato ai limiti percentuali, tanto da indurre a ritenere che l’oggetto dell’informativa debba abbracciare anche le percentuali di lavoratori a termine utilizzati.
Risulta poi modificata la formulazione legislativa in tema di divieto di discriminazione, secondo la quale «Al lavoratore a tempo determinato spetta il trattamento economico e normativo in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili» (art. 25, co. 1, d.lgs. n. 81/2015), mentre, invece nel d.lgs. n. 368/2001, invece, venivano identificati singoli istituti.
La sostanza sembra rimanere la stessa, giacché la formula precedente conteneva una elencazione da ritenere esemplificativa e non tassativa, anche perché si faceva comunque riferimento a ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori comparabili con contratto a tempo indeterminato.
In merito, altresì, alla formazione del lavoratore a termine non viene più riconosciuto, in quanto anche in questo caso non riproposto nel quadro del d.lgs. n. 81/2015, il diritto del lavoratore a ricevere una formazione «sufficiente ed adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggetto del contratto, al fine di prevenire rischi specifici connessi alla esecuzione del lavoro», come disposto nella previgente normativa. Va ricordato, che comunque in base alla vigente normativa in materia di sicurezza sul lavoro, tutti i lavoratori sono anche destinatari del sistema di informazioni relative alla sicurezza ivi delineato (art. 3, co. 4, d.lgs. n. 81/2008).
Permane, invece, il ruolo per i contratti collettivi (ora di qualunque livello) di «prevedere modalità e strumenti diretti ad agevolare l’accesso dei lavoratori a tempo determinato ad opportunità di formazione adeguata, per aumentarne la qualificazione, promuoverne la carriera e migliorarne la mobilità occupazionale» (art. 26, co. 1, d.lgs. n. 81/2015).
In ordine, infine, ai criteri di computo dei lavoratori con contratto a termine, la nuova diposizione non si riferisce più solo all’applicazione dell’art. 35 st. lav., ma risulta di applicazione generale. Per effettuare in concreto il computo, viene ribadito che si deve tener conto «del numero medio mensile dì lavoratori a tempo determinato, compresi i dirigenti, impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro» (art. 27, d.lgs. n. 81/2015).
Il legislatore ribadisce il sistema di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato, già delineato nell’ambito del d.lgs. n. 368/2001.
La condizione sostanziale della maturazione del diritto alla precedenza rimane quella della prestazione di una «attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi» nell’esecuzione di uno o più contratti a termine, salvo diversa previsione dei contratti collettivi (art. 24, co. 1, d.lgs. n. 81/2015).
Anche in base alla formulazione letterale della disposizione, riscritta nei medesimi termini fissati in precedenza nel d.lgs. n. 368/2001, si ritiene necessario che le nuove assunzioni riguardino le «mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine».
Si attribuisce così la precedenza a lavoratori già sperimentati su specifiche mansioni, divenute ad un certo punto di stabile interesse aziendale.
La permanenza nel tempo del diritto di precedenza è fissato dalla legge in 12 mesi, da calcolare dalla cessazione del rapporto a termine. Se, dunque, nel predetto periodo di 12 mesi l’azienda, alle cui dipendenza il lavoratore ha lavorato come lavoratore a termine, decide di procedere ad una assunzione a tempo indeterminato, allora essa ha l’obbligo di privilegiare il suo ex dipendente.
Riscritta nei medesimi termini è anche la regola di favore per le lavoratrici che usufruiscono del congedo di maternità. Per loro, il “periodo di attività lavorativa” a termine, richiesto per poter acquisire il diritto di precedenza, è accresciuto anche dal periodo di tempo corrispondente al congedo di maternità, che, però non è più solo quello di cui all’art. 16, co. 1, d.lgs. 26.3.2001, n. 151, cioè quello previsto per il periodo di interdizione obbligatoria dal lavoro, ma ora, tutti i congedi di maternità previsti dal Capo III del suddetto d.lgs. n. 151/2001.
Inoltre, in favore di tali lavoratrici, rimane l’estensione del diritto di precedenza anche nelle assunzioni a termine, accompagnata dalla riaffermazione che tali assunzioni devono riguardare le «mansioni già espletate in esecuzione di precedenti rapporti a termine» e che la precedenza vale per dodici mesi (art. 24, co. 2, d.lgs. n. 81/2015).
Resta fermo anche il diritto riconosciuto al lavoratore utilizzato a termine per attività stagionali, di precedenza rispetto a nuove assunzioni a termine effettuate dallo stesso datore di lavoro per le medesime attività stagionali (art. 24, co. 3, d.lgs. n. 81/2015).
Viene confermato, inoltre, l’obbligo del datore di lavoro di richiamare espressamente, nell’atto scritto in cui è inserita la clausola relativa al termine, il diritto di precedenza che il lavoratore può maturare. Nella lettera di assunzione, che questo è in pratica il documento a cui si fa riferimento, non si potrà che accennare in modo del tutto astratto a quello che la legge, come abbiamo più volte ripetuto, indica come “diritto di precedenza”, parlandone come di una potenzialità.
Per usufruire del diritto alla precedenza, il lavoratore deve, come prima, manifestare al datore di lavoro l’interesse alla precedenza entro sei mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, oppure entro tre mesi per fruire della precedenza rispetto a nuove assunzioni a tempo determinato in caso di attività stagionali.
Una volta che il lavoratore abbia esercitato il diritto, in caso di inadempimento da parte del datore di lavoro, che abbia assunto un diverso lavoratore, può darsi credito all’orientamento giurisprudenziale secondo cui il lavoratore pretermesso ha diritto, anche in questo caso, al risarcimento del danno, da liquidare in via equitativa (cfr. Cass., 14.5.2010, n. 11737). L’esecuzione in forma specifica (ex art. 2932 c.c.) del diritto di precedenza appare, infatti, di problematico impiego.
Resta da osservare che diversi contratti collettivi sono intervenuti in materia, introducendo regole peculiari in materia, ovvero norme integrative di quelle legali.
Come abbiamo già notato, viene integrata nel testo del decreto la disciplina sull’impugnazione del contratto di lavoro a termine (ritenuto) illegittimo e sulla relativa determinazione dell’entità del risarcimento del danno, fino ad oggi dettata dalla l. 4.11.2010, n. 183 (art. 28, d.lgs. n. 81/2015).
Sul primo aspetto, novità di non poco conto è rappresentata dall’estensione a tutte le ipotesi di violazioni della normativa sul contratto a termine del termine di impugnazione a pena di decadenza di 120 giorni dalla cessazione del singolo contratto, nonché, tramite un espresso rinvio al disposto dell’art. 6, co. 2, l. n. 604/1966, del termine di necessaria proposizione dell’azione giudiziaria (o della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato entro i successivi 180 giorni (art. 28, co. 1, d.lgs. n. 81/2015).
A ben vedere, qualche dubbio permane in relazione all’ipotesi della mancanza della forma scritta. In quel caso la legge reputa “priva di effetto” l’apposizione del termine che non risulti da atto scritto (art. 19, co. 4, d.lgs. n. 81/2015), ovvero individua un’ipotesi di inefficacia che, dunque, difficilmente potrebbe dirsi superata dalla decadenza del termine per l’impugnazione, tanto da potersi sostenere che il contratto a termine privo di forma scritta resti impugnabile senza termine.
In ordine, poi, alle tutele, viene confermato il diritto del lavoratore in caso di conversione – oggi, nel nuovo decreto, trasformazione – del contratto a tempo determinato a ricevere, in uno con la conversione/trasformazione, un’indennità omnicomprensiva tra un minimo di 2,5 a un massimo di 12 mensilità, ora però, «dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto».
La legge dispone inoltre che «la predetta indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro» (art. 28, co. 2, d.lgs. n. 81/2015). Si tratta, dunque, di un’indennità onnicomprensiva, ossia idonea ad assorbire ogni pretesa retributiva e/o risarcitoria, che preclude qualunque altra rivendicazione economica che assuma a suo presupposto l’illegittimità del termine.
L’indennità è dovuta al lavoratore a prescindere dalla circostanza che lo stesso abbia messo in mora il datore di lavoro, offrendogli la propria prestazioni. L’indennità è, inoltre, indipendente dalla circostanza che il lavoratore abbia subito un effettivo danno. Essa, infatti, è dovuta anche quando il lavoratore si sia subito rioccupato, magari percependo una retribuzione superiore a quella che percepiva nell’esecuzione del contratto a termine.
Per arrivare alla concreta determinazione dell’indennità nel singolo caso, il Giudice è sollecitato ad avere riguardo «… ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604». Criteri che, come è noto, nell’ambito della cosiddetta tutela obbligatoria del posto di lavoro, legano l’indennità dovuta in caso di licenziamento privo di giustificazione al numero di dipendenti dell’impresa, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del lavoratore, al comportamento e alle condizioni delle parti.
L’opera di disboscamento e semplificazione delle regole previgenti trova riscontri ancora più evidenti con riguardo al tema delle esclusioni dal campo di applicazione della disciplina generale del contratto a tempo determinato e della individuazione di discipline specifiche.
La normativa sul contratto di lavoro a termine non si presta, ieri come oggi, a un’applicazione del tutto uniforme.
Ne fa fede la legislazione in materia che da sempre ha tenuto indenni alcuni rapporti sulla base di diverse motivazioni, come la preoccupazione che in alcuni peculiari settori si producessero eccessive restrizioni delle occasioni di impiego dei lavoratori o l’avvertita esigenza di tutela di interessi pubblici emergenti in particolari ambiti.
Una sensibile semplificazione riguarda le ipotesi escluse dal campo di applicazione del Capo III del d.lgs. n. 81/2015, dedicato per l’appunto alla disciplina del contratto a tempo determinato.
In un primo gruppo, in quanto già disciplinate da specifiche normative, ricadono tre ipotesi, già previste nell’alveo del previgente d.lgs. n. 368/2001.
In primo luogo, vi rientrano i contratti a termine stipulati con i lavoratori in mobilità, venuti, tuttavia, meno a decorrere dal 1° gennaio 2017, come conseguenze del superamento dell’istituto della mobilità, sostituito, prima dal sistema dell’Aspi delineato dalla l. n. 92/2012 e, poi, dalla Naspi introdotta dal d.lgs. 4.3.2015, n. 22.
Inoltre, in questa categoria ricadono: i rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell’agricoltura e gli operai a tempo determinato (art. 29, co. 1, lett. b, d.lgs. n. 81/2015); i richiami in servizio del personale volontario del Corpo nazionale dei vigili del fuoco (art. 29, co. 1, lett. c, d.lgs. n. 81/2015).
Altre quattro ipotesi, invece prive di disciplina specifica, sono racchiuse in un secondo gruppo, che comprende: i dirigenti, esclusi in toto dal campo di applicazione della legge i dirigenti (art. 29, co. 2, lett. a, d.lgs. n. 81/2015), mentre prima a loro si applicavano le regole in materia di non discriminazione, che, tuttavia, pare sia comunque possibile dedurre dai principi generali in tema di non discriminazione. Al contempo, come in precedenza e come già notato, i dirigenti assunti a termine risultano computabili nell’organico aziendale al pari degli altri dipendenti (art. 27 d.lgs. n. 81/2015).
Trova conferma la durata massima di cinque anni per i contratti di lavoro a tempo determinato con i dirigenti che, in un contesto di contratto a termine ormai a-causale, suscita non poche perplessità. Nel caso di stipula di un contratto a termine per un periodo superiore ai cinque anni, la tesi più accreditata in dottrina, qui condivisa, ritiene che la previsione di una durata superiore ai cinque anni non comporti la nullità della relativa clausola ma piuttosto, attraverso un meccanismo di sostituzione automatica ex artt. 1339 e 1419 c.c., la sua riduzione al limite di legge. Per il restante (eventuale) ulteriore periodo lavorato opererà il noto meccanismo dettato dall’art. 2126, co. 2, c.c., da cui deriva il diritto per il dirigente al pagamento della relativa retribuzione. Resta, comunque, salvo il diritto del dirigente di recedere a norma dell’art. 2118 c.c. una volta trascorso un triennio (art. 29, co. 2, lett. a, d.lgs. n. 81/2015). Si tratta della possibilità di dimettersi ad nutum, con il solo preavviso ai sensi dell’art. 2118 c.c. Ciò in deroga alla disciplina comune che, altrimenti, consentirebbe al dirigente di dimettersi solo per giusta causa.
Come in precedenza, risultano altresì esclusi anche: i rapporti per l’esecuzione di speciali servizi di durata non superiore a tre giorni, nel settore del turismo e dei pubblici esercizi, nei casi individuati dai contratti collettivi, fermo l’obbligo di comunicare l’instaurazione del rapporto di lavoro entro il giorno antecedente (art. 29, co. 2, lett. b, d.lgs. n. 81/2015).
Esclusi del tutto, con formula più semplice e asciutta di quella precedente, risulta, inoltre, il personale docente ed ATA per il conferimento di supplenze e con il personale sanitario, compresi i dirigenti, del Servizio sanitario nazionale (art. 29, co. 2, lett. c, d.lgs. n. 81/2015). Per questi ultimi continua a trovare applicazione la normativa speciale prevista dalle leggi in materia, tra cui le disposizioni dettate dal d.lgs. 30.12.1992, n. 502.
Rappresenta, inoltre, una novità rispetto alla normativa previgente l’espressa esclusione relativa ai contratti a tempo determinato stipulati ai sensi della l. 30.12.2010, n. 240 – cd. legge Gelmini - (art. 29, co. 2, lett. d, d.lgs. n. 81/2015) ovvero nel settore dell’università.
Infine, non compare più l’esclusione per le aziende che esercitano il commercio di esportazione, importazione ed all’ingresso di prodotti ortofrutticoli.
Al di fuori dei due gruppi citati, viene ribadito che, al personale artistico e tecnico delle fondazioni di produzione musicale, non si applicano le disposizioni in tema di durata massima del o dei contratti di lavoro a termine e quelle in tema di proroghe e rinnovi, personale al contempo escluso, come già ricordato, anche dai limiti percentuali.
Sebbene non siano espressamente menzionati dalla legge, si deve ritenere che restino esclusi dall’ambito di applicazione del decreto legislativo i contratti di lavoro a termine stipulati con i marittimi e con gli sportivi professionisti, in quanto regolati da specifiche disposizioni.
Infine, un’ultima disposizione, che chiude l’articolo dedicato alle «Esclusioni e discipline specifiche», con carattere di formale novità rispetto alle previsioni del d.lgs. n. 368/2001, dispone che resti fermo il disposto dell’art. 36 d.lgs. 30.3.2001, n. 165 (art. 29, co. 4, d.lgs. n. 81/2015), che costituiva e continua a costituire il “filtro” attraverso il quale le regole privatistiche sui rapporti di lavoro flessibili e, in particolare, quelle sul contratto di lavoro a termine possono trovare applicazione nell’ambito del pubblico impiego privatizzato (Lavoro pubblico).
Fonti normative
Artt. 19-29, d.lgs. 15.6.2015, n. 81.
Bibliografia essenziale
Aimo, M., Il lavoro a termine tra modello europeo e regole nazionali, Torino, 2017; Alessi, C., Il lavoro a tempo determinato dopo il d.lgs. 81 del 2015, in Zilio Grandi, G.-Biasi, M., a cura di, Commentario breve alla Riforma “Jobs Act”, Padova, 2015, 19 ss.; Fiorillo, L., Il contratto di lavoro a tempo determinato, in Fiorillo L.–Perulli A., a cura di, Il nuovo diritto del lavoro – Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni, vol. 3, Torino, 2015, 95 ss.; Menghini, L., Lavoro a tempo determinato, in Carinci F., a cura di, Commento al d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo jus variandi, in ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series, n. 48, 153 ss.; Speziale, V., Lavoro a termine, in Enc. Dir., Ann., IX, Milano, 2016, 497 ss.; Treu T., In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2015, 146 ss.