Controversie
di Elisabetta Silvestri
Il complesso mondo delle controversie e degli strumenti approntati da ciascun ordinamento per risolverle può essere analizzato utilizzando una pluralità di metodi di indagine, in funzione del risultato che si vuole ottenere: uno studio sociologico della tipologia delle controversie e delle loro cause remote, una ricognizione storica del modo in cui si sono sviluppati ed evoluti i metodi di composizione dei conflitti, una mera descrizione degli istituti ai quali il diritto positivo di uno specifico ordinamento affida il compito di definire le controversie, e così via. Nessun metodo di indagine, tuttavia, se impiegato da solo, è in grado di cogliere l'essenza del doppio legame esistente in ogni società fra le controversie che sorgono al suo interno e i modi in cui esse vengono risolte: "il modo in cui si litiga e si confligge dipende dal modo in cui esistono sbocchi al conflitto e sono predisposti culturalmente e socialmente rimedi" (v. Resta, 1999, p. 542). Esiste dunque un "circuito conflitto/rimedio" (ibid., p. 543), in virtù del quale il 'rimedio' (e, in particolare, il processo, ossia il 'rimedio' per eccellenza) diviene non soltanto il luogo in cui le controversie sono risolte, ma anche un "luogo di visibilità dei nuovi conflitti" (v. Rodotà, 1992, p. 171).
Alla luce dell'aumento della litigiosità che caratterizza tutte le società contemporanee, sorge il dubbio che il "circuito conflitto/rimedio" sia piuttosto un circolo vizioso: questo dubbio certamente sfiora anche chi presti una pur minima attenzione alle sconfortanti notizie che, quasi quotidianamente, i mezzi di comunicazione di massa diffondono sullo stato della giustizia civile nel nostro paese. Che il sistema dei 'rimedi' mediante i quali il nostro ordinamento si propone di risolvere le controversie attraversi da tempo una crisi gravissima è cosa nota, anzi fin troppo nota, come ben sa chi abbia la disavventura di dover attendere per un numero imprecisato di anni che la sentenza di un giudice ponga fine alla controversia di cui è parte. Ciò che gli interessati attendono, in realtà, non è che la controversia sia in qualche modo risolta, ma piuttosto che la composizione del conflitto produca un 'risultato' che essi possano percepire come accettabile, in quanto 'giusto' (v. Taruffo, 1997, pp. 315 ss.): non si può dimenticare, infatti, che la risoluzione di una controversia, qualunque sia il metodo attraverso cui la si ottiene, è in molti casi strumentale alla tutela di un diritto e quindi alla sua attuazione. Ne deriva che "il risultato pratico (risolvere il conflitto) conta, ovviamente, ma conta forse di più il modo in cui esso viene conseguito" (v. Taruffo, 1999, p. 780). Acquista rilevanza, quindi, il procedimento mediante il quale la controversia è composta e la sua rispondenza a parametri comunemente sentiti come manifestazione di basilari principî di giustizia, molti dei quali sono ormai presenti nelle carte costituzionali di vari ordinamenti, compreso il nostro. Analogamente, per i soggetti coinvolti non è indifferente che il 'risultato pratico' arrivi prima o dopo: è evidente, infatti, che laddove tardi la definizione del conflitto, si allontana nel tempo anche la possibilità che il diritto in contesa trovi attuazione.
Procedimento 'giusto', tempi ragionevoli e costi contenuti sono da tempo considerati gli elementi indispensabili dei metodi di risoluzione delle controversie che mettano a disposizione del cittadino una "giustizia dal volto umano" (v. Storme e Casman, 1978), riconosciuta nel suo valore di imprescindibile garanzia di civiltà di qualunque ordinamento che si proclami democratico. A partire dagli anni settanta, sotto la spinta di un movimento culturale noto come 'access to justice' (v. Cappelletti e Garth, 1978, pp. 5 ss.), si è andata diffondendo la consapevolezza che le strutture della cosiddetta 'giustizia formale', ossia quella dispensata dagli organi giudiziari di ciascun ordinamento, non fossero più in grado di assorbire (e quindi di risolvere) un numero sempre crescente di controversie, espressione di una litigiosità non tradizionale, ma collegata alle esigenze di tutela dei 'nuovi diritti' riconosciuti al singolo in quanto, ad esempio, lavoratore, consumatore, fruitore dell'ambiente, e così via (v. Denti, 1982, pp. 317 ss.).
Nell'interesse suscitato dal dibattito sulla informal justice (v. Abel, 1982; v. Nader, 1977) e sulle virtù della 'giustizia coesistenziale', alla quale è estranea l'ideologia dello scontro sottesa al procedimento giudiziario, che necessariamente si conclude con un vincitore e un vinto (v. soprattutto Cappelletti, 1993, pp. 282 ss.), si scorgevano le prime avvisaglie di un fenomeno che dalla ricerca di metodi di risoluzione delle controversie alternativi al processo avrebbe condotto nei decenni successivi a una vera e propria 'fuga dalla giurisdizione', in alcuni ordinamenti sistematicamente promossa come tecnica per allontanare dalle aule dei tribunali conflitti ritenuti più facilmente componibili nel 'privato' di procedure informali e non istituzionalizzate, in altri ordinamenti (come nel nostro) sperimentata invece come panacea destinata a rimediare i guasti causati da una pervicace incapacità di rendere più efficiente la giustizia statale.
Prima di passare a descrivere i più comuni metodi di risoluzione delle controversie disponibili sul mercato (perché ormai esiste effettivamente, almeno in certi ordinamenti, un vero 'mercato' dei metodi, formali e non, di risoluzione dei conflitti), sembra opportuno spendere ancora qualche parola relativamente allo stato della giustizia civile in Italia: questo, non solo perchè il lettore che non sia un 'professionista del diritto' è istintivamente portato a ricollegare la definizione delle controversie al processo, ma anche perché è convinzione di chi scrive che la centralità del processo come luogo privilegiato della risoluzione dei conflitti vada mantenuta e, se possibile, rafforzata. Solo riqualificando lo strumento-processo e, più in generale, la funzione giurisdizionale dello Stato sembra possibile contrastare gli effetti negativi di quel fenomeno che è stato efficacemente descritto come il dilagare di un "nuovo feudalesimo delle tutele extrapenali" e l'affermarsi di "microsistemi paragiurisdizionali rispondenti a logiche particolari" (v., per entrambe le citazioni, Ferrara e altri, 2000, c. 222): un fenomeno che per certo non favorisce l'attuazione del principio di uguaglianza garantito dall'art. 3 della Costituzione, ma che crea invece evidenti discriminazioni in danno di chi non abbia i mezzi necessari per accedere alle tante forme di tutela 'privilegiata' che si sviluppano al di fuori della giustizia pubblica.Alla crisi della giustizia civile sembra si addica il titolo di un aforisma di Adorno: "Parlarne sempre, non pensarci mai" (v. Adorno, 1951; tr. it., p. 66). Si potrebbe obiettare che i numerosissimi interventi legislativi subiti negli ultimi decenni dalle norme sul processo civile, da quelle sull'ordinamento giudiziario e infine da quelle costituzionali, con l'inserimento della garanzia del 'giusto processo' e della sua 'durata ragionevole' (ora prevista dall'art. 111, cc. 1 e 2 della Costituzione) dimostrano, al contrario, che l'attenzione del legislatore è costantemente rivolta alle sorti della giustizia civile. In realtà l'attenzione del legislatore si concentra essenzialmente sulla ricerca di possibili soluzioni alla crisi, senza preoccuparsi più di tanto di ricercarne le vere cause: si moltiplicano cosí gli interventi-tampone, le soluzioni abborracciate e dettate dall'emergenza, nella speranza che i tanti 'pannicelli caldi' provochino un qualche sollievo e risparmino allo Stato italiano l'imbarazzo dell'ennesima condanna pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per l'eccessiva durata del procedimento (v. Didone, 2000, pp. 871 ss.). E così, mentre molto si parla della crisi della giustizia civile senza mai decidersi a riformarla veramente, fioriscono le alternative 'private' al processo.
Quando si definisce il processo come metodo istituzionale di risoluzione delle controversie, si tiene conto del fatto che esso costituisce il tipico strumento al quale l'ordinamento affida il compito di comporre quel particolare conflitto di interessi che, secondo uno dei 'padri fondatori' del diritto processuale civile italiano, costituisce l'"elemento sostanziale della lite" (v. Carnelutti, 1929, p. 130) ed è quindi alla base di qualunque controversia. Sotto un altro profilo, l'impiego dell'attributo 'istituzionale' si ricollega alla circostanza che attraverso il processo lo Stato esercita una delle sue funzioni fondamentali, ossia quella giurisdizionale (v. Processo).
Un primo interrogativo che si pone trattando del processo come metodo di risoluzione dei conflitti di interessi è quello relativo all'individuazione di quali siano concretamente i conflitti che possono o debbono essere composti mediante il processo, e quindi con l'intervento di un giudice. Una possibile risposta a questa domanda adotta come criterio distintivo la rilevanza giuridica del conflitto: il processo è preordinato alla definizione dei conflitti che "coinvolgono situazioni soggettive riconosciute o qualificate dal diritto" (v. Taruffo, in Comoglio e altri, 1998, p. 25). Intuitivamente, si comprende che il possibile elenco delle situazioni soggettive alle quali ciascun ordinamento riconosce dignità di diritti tutelabili in sede giurisdizionale varia nel tempo e nello spazio. Meno intuitiva è invece la percezione di un altro importante aspetto del costante arricchimento del catalogo delle situazioni soggettive giuridicamente rilevanti: tale aspetto consiste nel ruolo determinante che il giudice svolge nel ritenere meritevoli di tutela interessi non espressamente regolati dal diritto sostanziale e nel creare, quindi, nuovi diritti. Si è così alterato il tradizionale rapporto tra ius e remedium che, negli ordinamenti di diritto codificato, postulava la preesistenza del diritto sostanziale rispetto alla possibilità di ottenerne tutela in sede giudiziale.
L'abbandono di concezioni profondamente radicate nella dogmatica giuridica è frutto di un'evoluzione lenta e, per certi versi, contrastata (v. Denti, 1989, pp. 11 ss. e 1986, pp. 469 ss.), un'evoluzione di cui qui sembra rilevante sottolineare uno dei più significativi riultati: il repertorio delle situazioni soggettive giuridicamente rilevanti e che, in quanto tali, possono costituire oggetto di controversie risolubili a opera del giudice è 'in divenire' e si sottrae a qualunque tentativo di darne una descrizione esaustiva che, anche con riferimento a un ordinamento dato, valga come "mappa prefabbricata delle situazioni qualificabili a priori come diritti" (v. ancora Taruffo, in Comoglio e altri, 1998, p. 26). In questa prospettiva, il processo rappresenta il 'luogo di visibilità' non solo di nuovi conflitti (v. sopra, cap. 1), ma soprattutto di nuove situazioni sostanziali che dal processo emergono come diritti suscettibili di tutela: valgano per tutti gli esempi del diritto alla salute, del diritto alla riservatezza o, ancora, del diritto a un ambiente salubre e non inquinato, tutti diritti estranei al repertorio tradizionale delle situazioni soggettive tutelabili giudizialmente, incentrato sui diritti reali e sui diritti di obbligazione.In una prospettiva che privilegi i diritti in relazione ai quali sorge una controversia, il processo acquista una dimensione di particolare importanza, ossia quella che lo vede come il principale strumento di attuazione di una serie di garanzie fondamentali preordinate al corretto esercizio della funzione giurisdizionale e, conseguentemente, alla tutela delle parti in conflitto. Fonte di queste garanzie è, nel nostro ordinamento, la carta costituzionale, le cui norme costituiscono la trama di un ben preciso modello di procedimento, al quale si ritiene debba conformarsi l'attività di qualunque organo chiamato a svolgere funzioni giurisdizionali (v. Andolina e Vignera, 1997, pp. 7 ss.). Il modello costituzionalmente imposto di processo, il cosiddetto 'processo dovuto', come lo si definisce per indicare l'insieme dei principî ai quali esso deve ispirarsi, con un chiaro riferimento alle due process clauses del V e XIV emendamento della Costituzione federale statunitense (v. Vigoriti, 1991, pp. 228 ss.), esprime fondamentalmente una garanzia di legalità e di giustizia: principî quali quello dell'imparzialità e dell'indipendenza del giudice, della sua soggezione alla legge, o ancora quello che impone l'obbligo di motivazione delle decisioni giudiziarie, come pure il principio che riconosce un incondizionato diritto di azione e difesa in giudizio, per citarne solo alcuni, costituiscono ormai elementi costitutivi di un modello processuale accolto nella generalità degli Stati democratici (v. Comoglio, 1991, pp. 673 ss. e 1994, pp. 1063 ss.).
Attraverso il processo, quindi, le controversie sono risolte nel rispetto di un sistema di garanzie, alcune esplicitamente sancite con riferimento alla giurisdizione e alla funzione giudiziaria, altre ricavate da norme costituzionali di carattere generale: non a caso si afferma che il ruolo del giudice è, innanzi tutto, quello "di un garante, che ha di mira il rispetto delle regole del gioco, e quindi la salvaguardia, nei conflitti sociali, dei principî fondamentali di libertà e di uguaglianza" (v. Denti, Il ruolo del giudice..., 1999, p. 175). Come garante, il giudice deve, innanzi tutto, assicurare che nessuna delle parti in contesa sconti nel processo le conseguenze della sua 'debolezza' sul piano sostanziale. L'attuazione del cosiddetto principio della parità delle armi e della garanzia del contraddittorio, intesa come reale possibilità per le parti di esplicare un'efficace difesa al fine di incidere sul contenuto della decisione che definirà la controversia, sono largamente affidati all'ufficio del giudice: questo, nonostante sia ancora diffusa l'idea per cui, essendo il processo 'cosa delle parti', qualunque espressione di attivismo da parte del giudice va considerata con sospetto.
Si è già accennato al fatto che l'inefficienza della giustizia civile ha determinato, negli ultimi decenni, la ricerca di metodi di risoluzione delle controversie alternativi al processo (v. sopra, cap. 1). Il fenomeno si è inizialmente manifestato negli Stati Uniti, dove la durata e gli alti costi del procedimento giudiziario, indotti dalla struttura accusatoria del processo, unitamente a un vertiginoso aumento della litigiosità, rendevano particolarmente pressante l'esigenza di sperimentare nuove risposte alla domanda di tutela proveniente dalla comunità. Alle indagini sulle ragioni che avevano reso la società americana una "litigious society" (v. Lieberman, 1983, pp. 3 ss.) si accompagnava la scoperta (o, talvolta, la riscoperta) di procedure 'informali', che favorissero la composizione dei conflitti al di fuori delle aule giudiziarie (v. Silvestri, 1987, cc. 310 ss.). Dagli Stati Uniti proviene anche l'acronimo ADR (Alternative Dispute Resolution), che indica, ormai quasi universalmente, tanto il movimento a favore della diffusione delle alternative al processo, quanto le procedure alla cui creazione questo stesso movimento ha contribuito: un "umbrella term" (v. Nolan-Haley, 1992, p.1) sotto il quale si nasconde, come si vedrà, un fenomeno dalle molte facce, non tutte propriamente rassicuranti.
Sull'onda del successo riscosso negli Stati Uniti, le alternative al processo si sono propagate un po' ovunque, e hanno incontrato un ambiente particolarmente favorevole alla loro diffusione negli ordinamenti europei anche per effetto della campagna promozionale intrapresa a vari livelli dagli organismi comunitari nel settore della tutela dei consumatori (v. Denti, 1996, pp. 54 ss.). Allo stato attuale, nel panorama europeo la 'punta avanzata' della sperimentazione di metodi alternativi è rappresentata dall'Inghilterra, dove le recenti riforme del processo civile hanno addirittura posto a carico del giudice l'obbligo di sollecitare le parti ad avvalersi di procedure 'private', che facilitino la composizione amichevole della controversia (v., da ultimo, Roberts, 2000, pp. 739 ss.).
Prima di passare ad occuparci delle alternative al processo di maggiore diffusione, è necessario fare alcune precisazioni.In primo luogo, quando si parla di metodi alternativi per la definizione dei conflitti si tende a non prendere in considerazione l'arbitrato. È pur vero che l'arbitrato costituisce l'alternativa al processo di più antica e consolidata tradizione (v. Arbitrato), ma è altrettanto vero che negli ordinamenti contemporanei questo istituto, che affida la risoluzione della controversia a un "giudice su misura" (v. Bernardini, 1998, p. 13) scelto dalle parti in virtù di un accordo negoziale, ha subito un processo di 'giurisdizionalizzazione' particolarmente accentuato, che ne ha fatto un "procedimento para-giudiziario" (v. Comoglio, 2000, p. 351) sostitutivo del processo ordinario (e non alternativo a esso) per certi settori di controversie. In effetti, le parti che compromettono in arbitri il conflitto che le divide non corrispondono affatto a quel modello di potenziale litigante, di modeste risorse e di altrettanto modeste pretese, al quale le alternative al processo si offrono come il metodo migliore per risolvere rapidamente e a costi contenuti controversie di ridotto valore economico. Peraltro, ciò non toglie che anche la tendenza a favorire la diffusione dell'arbitrato, ad esempio ampliando la tipologia delle situazioni sostanziali su cui gli arbitri possono pronunciare oppure promuovendo l'accesso ai cosiddetti 'arbitrati amministrati', ossia gestiti da apposite istituzioni pubbliche o private (v. Cuomo Ulloa, 1998, pp. 197 ss.), possa farsi rientrare in un concetto ampio di 'diversione' dei conflitti dalla giustizia formale.
In secondo luogo, è opportuno tenere a mente che i metodi alternativi sviluppatisi negli Stati Uniti sono moltissimi: solo alcuni sembrano aver attecchito in altri ordinamenti, e non solo per le difficoltà insite in qualunque 'trapianto' di istituti in sistemi che non presentino le identiche caratteristiche di quello di provenienza. Alcuni metodi, infatti, non sembrano il risultato di una seria ricerca di strumenti che consentano di 'fare giustizia' anche al di fuori delle aule giudiziarie, ma appartengono piuttosto a una sorta di risibile 'folklore' della dispute resolution, del quale certamente non deve essere favorita la diffusione (si veda, ad esempio, l'approccio 'alternativo' alla risoluzione delle controversie propugnato dai fautori della 'giustizia olistica': v. Van Zyverden, 1996).
Le alternative al processo vengono convenzionalmente classificate in relazione al risultato perseguito: una decisione vera e propria della controversia, oppure una soluzione convenzionale del conflitto, espressione di un accordo raggiunto dalle parti: si parla quindi di modello 'valutativo' e di modello 'conciliativo' (v. Green, 1984, pp. 245 ss.). Entrambi i modelli si avvalgono degli uffici di un soggetto terzo rispetto alle parti in disaccordo, affidandogli però funzioni assolutamente diverse: nelle procedure valutative, il terzo decide la controversia come potrebbe fare un giudice o un arbitro, mentre nelle procedure conciliative il ruolo del terzo si limita a favorire il dialogo tra le parti, mettendole in condizione di raggiungere una soluzione soddisfacente per entrambe.I metodi di tipo conciliativo sono senza dubbio quelli che meglio rispondono alla 'filosofia' delle alternative al processo: principio cardine di questa filosofia è che tutte le controversie, qualunque ne sia la natura o l'oggetto, sono suscettibili di una soluzione concordata tra le parti. Il processo - si osserva - è un evento traumatico, di cui le parti non sono protagoniste, ma spettatrici involontarie, se non addirittura vittime. La decisione del giudice è percepita spesso come il Diktat di un sistema che sempre più condiziona l'esistenza dei privati, limitando i loro spazi di autonomia. Occorre quindi 'riappropriarsi' delle controversie, risolverle pacificamente, ripudiando la logica del 'chi vince prende tutto' e ricercando invece soluzioni che, in quanto concordate, soddisferanno le esigenze di entrambe le parti, comprese quelle psicologiche ed emozionali, e consentiranno loro di mantenere un rapporto non conflittuale e durevole.
Questa idilliaca concezione di una società pacificata attraverso il ricorso a procedure non giurisdizionali di tipo conciliativo ha raccolto consensi soprattutto negli Stati Uniti, dove gli alti costi della giustizia formale (inaccessibile alle fasce sociali medio-basse) hanno favorito il sorgere di un numero sterminato di iniziative private operanti nel campo della dispute resolution attraverso un'offerta 'personalizzata' di servizi, pubblicizzati come insuperabili nel garantire una definizione rapida e poco costosa delle controversie. Dagli Stati Uniti il 'verbo' delle alternative al processo si è diffuso anche in Europa, dove le esperienze che, attraverso l'istituzione di organismi speciali, utilizzano la conciliazione o la mediazione come metodi di risoluzione delle controversie, sono ormai tanto numerose da indurre qualcuno ad affermare l'esistenza di una vera e propria "concezione europea della giustizia stragiudiziale" (v. Alpa, 1997, p. 403). Partecipe di questa concezione (anche se sposata con qualche ritardo rispetto ad altri Stati) è anche il nostro ordinamento, dove si stanno rapidamente moltiplicando le iniziative che, con varie denominazioni, promettono ai cittadini una giustizia 'alternativa', presentata come migliore per definizione rispetto a quella ordinaria. Del resto, tra i più convinti sponsors dei metodi alternativi si annovera anche il legislatore che, negli ultimi anni, ha promosso un'intensa campagna diretta a incentivare la cosiddetta "composizione autodeterminativa dei conflitti" (v. Ferrara e altri, 2000, c. 226): decodificando questa espressione altisonante, si osserva che, in concreto, l'intervento del legislatore si è limitato a introdurre nuove procedure conciliative e a configurarle talvolta come un 'passaggio obbligato' al quale non può sottrarsi chi intenda agire in giudizio (cosí, ad esempio, nelle controversie individuali di lavoro o in quelle relative a contratti di subfornitura industriale).L'esperienza italiana, come del resto quella degli altri ordinamenti europei, sembra comunque ancora lontana dal produrre quella fiorente 'industria' delle alternative private al processo che caratterizza invece il panorama statunitense. Va tuttavia rilevato che, anche al di qua dell'Atlantico, possono scorgersi segni di quella 'apocalisse legale' che negli Stati Uniti ha incrinato la fiducia nel sistema e nella legge come principale strumento per risolvere i problemi sociali (v., anche per la citazione, Galanter, 1985, p. 540), determinando la 'disaffezione' nei confronti del processo e la fuga verso metodi informali di risoluzione dei conflitti.
Si è accennato in precedenza al fatto che l'inefficienza della giustizia formale (intesa come quella dispensata dagli organi giurisdizionali dello Stato) ha costituito la più immediata causa della ricerca di alternative al processo, che assicurassaro una rapida e poco costosa definizione delle controversie, specie di quelle bagatellari, per le quali il ricorso a un giudice risultava una scelta decisamente antieconomica. Inizialmente, dunque, i metodi alternativi si sono proposti come la risposta a esigenze di tutela che la giustizia pubblica finiva col lasciare insoddisfatte: questa, almeno, era l'ispirazione democratica delle alternative al processo che veniva veicolata da chi propugnava un estensivo ricorso ai metodi alternativi come strategia finalizzata a garantire una giustizia 'migliore', in quanto accessibile a strati sempre più ampi della comunità (v. Levin e Wheeler, 1979).
Recenti studi statunitensi hanno messo in evidenza come la promozione dei riti alternativi, soprattutto di quelli sottratti a qualunque forma di controllo pubblicistico, si presti a un'interpretazione meno positiva di quella che ne danno i fautori della 'privatizzazione' della giustizia (in particolare, v. Stempel, 1996, pp. 297 ss.). Si è osservato infatti che i metodi alternativi facilmente degenerano in una giustizia 'di seconda classe', verso la quale sono costretti a ripiegare coloro che non possono permettersi di affrontare i costi e i tempi lunghi del processo; addirittura, si è avanzato il dubbio che l'inconfessata aspirazione degli 'inventori' dei metodi alternativi fosse proprio quella di conservare alla giustizia formale un carattere fortemente elitario, dirottando verso soluzioni di ripiego la definizione dei cosiddetti 'casi-spazzatura', poco remunerativi per gli avvocati e troppo banali per meritare l'attenzione di giudici molto compresi nel loro ruolo di "oracoli del diritto" (secondo la definizione di J.P. Dawson: v., 1968, pp. 1 ss. e pp. 80 ss.).
Che questa ricostruzione sia attendibile o meno, resta il fatto che i metodi alternativi spesso si distinguono per la mancanza di quelle garanzie che il processo assicura: il carattere 'informale' della procedura è troppo frequentemente sinonimo di scarsa attenzione prestata a problemi che investono, ad esempio, l'indipendenza, l'imparzialità e anche la competenza specifica dell'organo giudicante 'alternativo'. Laddove poi il metodo alternativo miri al raggiungimento di una risoluzione convenzionale della controversia, appare inquietante l'assenza di un soggetto che, come il giudice, si faccia garante della correttezza del procedimento e della legalità dell'accordo stipulato dalle parti, specie quando una sia contrattualmente più debole dell'altra (v. Silvestri, 1999, p. 326). Sembra insomma che esistano buone ragioni per domandarsi se la 'fuga dalla giustizia ingiusta' dei tribunali (v. Chiarloni, 1996, p. 61) verso forme alternative di risoluzione delle controversie sia davvero una strategia vincente o se piuttosto, nel calcolo costi-benefici, il sacrificio di garanzie fondamentali, pur ripagato da indubbi vantaggi in termini di rapidità, semplicità e non dispendiosità delle procedure, non rappresenti comunque "un prezzo globale troppo alto da pagare, in termini di civilltà e giustizia" (v. Comoglio, 2000, p. 371). (V. anche Arbitrato; Concicliazione e mediazione; Giustizia, accesso alla; Processo).
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