Corporazione
Nelle scienze sociali e in quelle storiche il problema delle corporazioni si ripresenta con ciclica regolarità. Ai prolungati periodi in cui la corporazione viene risolutamente osteggiata o avvolta in un circospetto e imbarazzato silenzio, si succedono altrettanto lunghe età in cui l'organizzazione corporativa sembra prefigurare il modello ideale di 'autoregolazione' del sistema economico-sociale e di 'ordine politico' per l'intera collettività.Quando si riapre, il problema delle corporazioni segnala di norma che si è in una fase 'critica' del ciclo politico. Dopo la conclusione traumatica di un regime (all'indomani della Rivoluzione francese, ad esempio), o allorché le spinte alla trasformazione si moltiplicano e manifestano un grado sempre più elevato di incoerenza e incompatibilità con l'ordinamento vigente dei poteri formali (come accadde nel primo dopoguerra e come sembra ancora accadere - per molti aspetti - ai giorni nostri), il modello corporativo riacquista forza offrendo l'alternativa o la via per superare la situazione di crisi. Di volta in volta la corporazione può allora presentarsi, ambiguamente e contraddittoriamente, come strumento di conservazione della tradizione o come elemento di innovazione, come principio regolatore di una società funzionalmente e gerarchicamente unitaria e autosufficiente o come struttura essenziale sia per una costituzione armonica e dinamica dell'economia, sia per una configurazione equilibrata e poliarchica dell'ordine politico.In tempi recenti e con formule leggermente variate, qualche studioso ha tentato, affiancando l'idea ('nuova') di corporazione a quella ('classica') del moderno Stato, di elevare la prima al rango di originale chiave interpretativa delle trasformazioni politiche ed economico-sociali da cui è scandito il tortuoso itinerario della (cosiddetta) modernità. L'idea di corporazione sembra poter restituire vitalità, in tal senso, alle rigide e un po' fruste coppie oppositive di 'unità-pluralità', 'monocrazia-poliarchia', 'concentrazione-partecipazione'. E sembra soprattutto poter ridare forza e dignità alle inclinazioni, più o meno palesemente e consapevolmente assecondate, verso la restaurazione dei tradizionali schemi storiografici che hanno ricostruito in modo unilineare e monocausale (oltre che strutturalmente 'statocentrico') gli svolgimenti e le diverse forme di organizzazione del potere politico durante l'intero ciclo dell'età moderna.Paradossalmente, però, il concetto di corporazione continua a risultare equivoco e sfuggente proprio fintantoché rimane nel cono d'ombra proiettato dalla figura 'immaginaria' del moderno Stato. E la mancanza di una rigorosa definizione concettuale, se rinsalda l'abitudine all'impiego ideologico (e quasi sempre, non casualmente, 'polemico') di un tale termine-concetto, finisce anche col far perdere la possibilità di individuare quali siano gli elementi costitutivi e specifici di quelle 'aggregazioni di interessi frazionali' stabilmente e altamente organizzate, che si possono denotare e classificare con il termine-concetto di corporazione.
Sembra che soltanto nel lessico giuridico il termine 'corporazione' sia riuscito a raggiungere un grado elevato di univocità e precisione concettuale. Benché il suo uso sia pressoché scomparso nel diritto positivo italiano (e la dottrina privatistica, quando non si ostini a considerarlo un arcaismo, lo impieghi per lo più come sinonimo di 'associazione'), un tale termine-concetto ha infatti alle proprie spalle una storia che, lunghissima e spesso travagliata, è fondamentale quant'altre mai per lo sviluppo del diritto e del pensiero giuridico moderno.Corporazione è già la medievale universitas personarum. Una gilda, il capitolo di una cattedrale, una città imperiale, una università, sono infatti una universitas; così come universitates verranno considerati, più tardi, il Parlement di Parigi o quello di Tolosa, lo 'Scacchiere' di Normandia e le Cortes provinciali spagnole. Riconosciuta di regola (o creata) con un atto di autorità che le attribuisce poteri e franchigie (il privilegium universitatis), la corporazione raccoglie più persone in vista del perseguimento di un fine accettato dai suoi componenti, o della promozione di un interesse specificato e durevole. Le sue principali caratteristiche, del resto, sono quelle già scolpite nel Digesto: "Si quid universitati debetur, singulis non debetur: nec quod debet universitas singuli debent. In decurionibus vel aliis universitatibus nihil refert, utrum omnes idem maneant an pars maneat vel omnes immutati sint" (cfr. Digesto, 3, 4, 7, 1-2).
Anche nella folta famiglia di quelle personae fictae alla cui costruzione lavorano con lena e raffinata perizia, per gran parte dell'età moderna, generazioni intere di giuristi, la corporazione riesce a conservare un posto di straordinario rilievo. Solo allorquando, dopo essersi intrecciato strettamente con la storia non meno tormentosa della fictio-persona moralis, gli toccherà di subire i contraccolpi delle ottocentesche dottrine della 'persona giuridica' e della 'istituzione', il concetto di corporazione parrà piegarsi a una sorta di esistenza carsica. Sepolto e protetto nel terreno dei concetti 'tecnici' suscettibili di applicazione in tutto il settore delle persone giuridiche, esso riaffiora e riprende forza non appena accenni a smottare o a rivelarsi meno coerente il compatto conglomerato di diritto e politica dell'età moderna.Se ciò che riunisce più individui e li spinge a 'corporarsi' (quindi a formare un 'corpo') è sempre il perseguimento dei propri interessi particolari, ciò che caratterizza e specifica la corporazione è invece l'esistenza di un interesse percepito (o, quantomeno, considerato) 'comune'. Nell'accezione che diverrà più consolidata e tradizionale il termine-concetto di corporazione indica dunque una collettività di individui organizzati stabilmente per soddisfare un interesse comune, con mezzi forniti dagli stessi corporati e in genere mediante amministratori scelti dai medesimi (quest'ultimo requisito, peraltro, può anche mancare). In un tale significato la 'corporazione' viene di regola contrapposta alla 'fondazione', la quale è intesa - sempre tradizionalmente - come un'organizzazione di beni e persone costituita da una volontà a essa estranea, col fine di soddisfare un interesse di terzi, generalmente non chiamati né alla colletta dei mezzi né alla designazione degli amministratori.
Fra le corporazioni, inoltre, è possibile distinguere le 'territoriali' dalle 'personali'. Le prime, i cui membri sono tali in virtù del fatto di essere stanziati su una determinata area territoriale, comprendono ad esempio il comune, la metropoli, il territorio (tutte corporazioni, queste, munite di competenza universale) e il consorzio (corporazione, invece, fornita di competenza particolare). Alle seconde, i cui membri sono tali in forza di una qualificazione personale (stirpe, mestiere o professione, confessione religiosa e così via), appartengono gli ordini notarili, le associazioni sindacali, gli ordini religiosi, ecc.In realtà, sin dal latino basso-medievale corporatio (da cui l'inglese corporation, che, già documentato nella prima metà del XV secolo, si diffonde ampiamente nel secolo successivo; il francese corporation, lo spagnolo corporación, il tedesco Korporation, l'italiano corporazione), il concetto patisce - nel lessico politico e in quello ordinario - una frammentazione terminologica impressionante. La quale frammentazione è tanto più significativa e sospetta, quanto più appare ribelle a ogni sforzo di ridurla forzatamente a unità entro una definizione 'tecnico-giuridica' - sempre più astratta e generale, e non di rado (da un punto di vista 'politico') generica - di corporazione.
Come ci ricorda Émile Coornaert all'esordio della sua indagine sulle corporazioni prima del 1789, in Francia (ma la rilevazione può essere estesa pacificamente agli altri paesi con identici risultati) una folla di termini viene impiegata - prima, e successivamente a fianco, del termine-concetto di corporation - per indicare le aggregazioni corporate di interessi frazionali: confrérie, charité, fraternité, ghilde, hanse, métier, collège, communauté, corps de métier, corps de communauté, maîtrise, jurande. Non per caso, del resto, lo stesso tipo 'particolare' di corporazione in cui sembra spegnersi, alla fine di un itinerario per molti aspetti imprevedibile e del tutto accidentale, l'usatissimo termine-concetto medievale di universitas (la corporazione, cioè, dell'università-studium generale) sopporta tra il XII e il XIII secolo di venir indifferentemente indicato con i termini consortium, communio, communitas, societas (e, seppur eccezionalmente, confratria).
Per tentare di ricomporre una simile frammentazione terminologica, e anche per dar conto di talune polisemie successive (l'anglosassone corporation, che denota propriamente la persona giuridica pubblica e privata, viene a indicare - nel lessico americano - la società per azioni, detta company nell'ordinamento inglese), non si rivela di grande ausilio l'analisi dell'etimo. Semmai, senza poter sciogliere i più gravi problemi di univocità nella definizione del lessema, l'indagine etimologica può confermare che anche il termine 'corporazione', in modo simile a molti altri termini-concetto fondamentali nel vocabolario politico dell'età moderna, risulta tanto più inossidabile ideologicamente, quanto più è dotato etimologicamente di una forte carica di indefinibilità.
Il capostipite della famiglia a cui appartiene 'corporazione' (una famiglia ormai piuttosto numerosa, poiché ne fanno parte anche 'corporato' e 'corporativo', 'corporativismo', 'corporazionismo', e - da qualche anno - 'neocorporativismo' e 'neocorporatismo') è infatti il termine-concetto di 'corpo'. In latino dotto corporare significa 'prendere forma corporea', 'far corpo'. E il participio passato corporatus, se denota 'quel che ha preso forma corporea', ha anche il significato di 'colui che è membro di un corpo': "corporati dicuntur qui in aliquo corpore, seu collegio sunt", come ricorda il Lexicon totius latinitatis del Forcellini.
Può essere che proprio la formidabile potenza ideologica racchiusa in 'corpo' (una potenza probabilmente pari soltanto a quella del termine-concetto, strettamente legato, di 'persona') abbia contribuito a distogliere da più approfondite e pazienti ricerche sull'uso e sulle definizioni medievali e moderne di corporazione, così come sui differenti tipi istituzionali di aggregazioni di interessi frazionali. Certo è che, in questi ultimi anni soprattutto, a simili ricerche si è preferita e anteposta la stesura di modelli o paradigmi (cosiddetti) 'neocorporativi'. Il problema di una definizione univoca e rigorosa di corporazione è così passato in sott'ordine rispetto a quello di indicare e chiarire in che cosa consista, e se oggi davvero esista, un sistema neocorporativo.
Di fatto, a mano a mano che l'attenzione degli studiosi è andata concentrandosi sul corporativismo inteso "come un sistema di rappresentanza degli interessi e/o degli atteggiamenti, un particolare meccanismo istituzionale modale o ideal-tipico per collegare gli interessi associativamente organizzati della società civile con le strutture decisionali dello Stato" - secondo la definizione formulata da uno dei primi e più perseveranti promotori delle ricerche neocorporative, Philippe C. Schmitter (v., 1974; tr. it., p. 46) - la figura della corporazione si è sbiadita con rapidità. E la definizione di un tale termine-concetto ha sempre più ambiguamente oscillato fra indicazioni assai generali (ad esempio: ogni organizzazione di interessi è una corporazione) e connotazioni alquanto ristrette perché incentrate su talune caratteristiche che oggi si considerano 'specifiche' di queste organizzazioni di interessi (quali il loro grado di autonomia dal potere statale o la loro capacità di partecipare direttamente ai processi di produzione della decisione politica).
Messa sullo sfondo la definizione di corporazione, anche il problema di determinare quali siano gli elementi 'costitutivi' di ogni aggregazione corporata è così finito nell'ombra. Con la conseguenza di non poter più dar conto di un fondamentale carattere in ordine al quale classificare e distinguere i tipi storici di aggregazioni corporate: quel carattere 'ancipite', cioè, per cui ogni corporazione è sì protesa al perseguimento dei propri interessi (sempre privati e particolari), ma è simultaneamente anche proiettata verso la 'globalizzazione' - e quindi l'effettiva 'politicizzazione' - di questi interessi frazionali.
Johannes Althusius, nel capitolo quarto - intitolato De consociatione collegarum - della sua Politica methodice digesta atque exemplis sacris et profanis illustrata (1603, 1614³), fissa i principali elementi che costituiscono e organizzano la struttura interna della corporazione. Prima però di passare - col successivo capitolo De consociatione universitatis eiusque caussis - all'esame di quella consociatio publica (definibile come universitas) che si realizza per gradi successivi al fine di costituire un politeuma (e πολίτευμα, o πολιτεία, "est jus et potestas communicandi et participandi utilia et necessaria, quae ad corporis constituti vitam a membris consociatis conferuntur"), egli ha cura di fornire nei paragrafi 21-29 una classificazione e un rapido schizzo storico delle associazioni professionali. È solo con una tale analisi che diventa possibile, secondo Althusius, spiegare a fondo perché una civilis consociatio viene definita "collegium, quasi collectio, societas, coetus, sodalitas, synagoga, conventus, synodus", allorquando "tres, vel plures eiusdem artis opificii vitae studii et professionis homines, ad commune quid inter se in eo munere, vitae genere, vel in ea arte, quam profitentur, simul habendum consociantur" (cap. IV, § 4).
Nel succedersi delle forme storiche di corporazioni, difatti, è proprio la 'professione' l'elemento personale più frequente e rilevante (anche se non il solo, come si è visto) in ordine al quale un insieme di individui si aggrega stabilmente per perseguire un interesse comune.
In Roma le origini dei collegia e corpora opificum si confondono con i tempi più remoti della città. Plutarco e Plinio - come amano ricordare tutti gli studiosi delle corporazioni romane - indicano in Numa il fondatore delle associazioni professionali più antiche. Nel cap. XVII della sua Vita di Numa, Plutarco riferisce infatti che questi divise "il popolo secondo le arti, in modo che avessero un loro corpo particolare i suonatori, gli orefici, gli architetti, i tintori, i calzolai, i tosatori, i calderai, i figulinai, mentre le restanti arti unì in un unico corpo".Della storia di queste prime associazioni, così come del loro ruolo economico-politico e della loro organizzazione interna, restano peraltro tracce assai scarse e non sempre decifrabili con certezza.
Nel De collegiis et corporibus del Digesto, un frammento del commento del giureconsulto Gaio alle XII Tavole ricorda che "sodales sunt, qui eiusdem collegii sunt: quam Graeci ἑταιϱείαν vocant". Con lo stesso nome di ἑταιϱεία, impiegato per indicare le consociazioni politiche (e, forse, le strutture clientelari da cui potrebbe essere derivato il δῆμοϚ), le aggregazioni professionali risultano infatti già presenti in Atene. E - rammenta ancora Gaio, sulla scorta della tradizione dell'ambasceria romana in Grecia per conoscere le leggi di Solone - sembra che proprio al legislatore ateniese ("haec lex videtur ex lege Solonis tralata esse") risalga il fatto che alle associazioni professionali "potestatem facit lex pactionem quam velint sibi ferre, dum ne quid ex publica lege corrumpant" (cfr. Digesto, 47, 22, 4).
Durante tutto l'Impero, e soprattutto nella sua fase finale, i collegia e corpora opificum crescono d'importanza, mentre la loro ripartizione si va precisando e ramificando in rapporto alle diverse attività e specializzazioni professionali. Così, ad esempio, il collegium structorum, che comprende i lavoratori addetti alle costruzioni, si divide in varie categorie, fino a comprendere gli arcuarii, impiegati esclusivamente per la costruzione di volte; coloro che preparano la pietra si suddividono nei collegi dei lapidarii, marmorarii, quadratarii, mentre i fabbri si ripartiscono in ferrarii, clavarii, tignarii, legnarii, centonarii, rectores materiarum, ecc. Corporazioni importanti sono inoltre quelle dei pistores, dei navicularii, degli argentarii.
Poiché i collegi svolgono di regola funzioni economiche reputate di pubblica utilità, il loro carattere di associazioni 'obbligatorie' diventa sempre più marcato e crescono di conseguenza gli obblighi imposti ai membri del collegio (collegiati).
Già l'imperatore Adriano - come ricorda Aurelio Vittore - arruola in coorti, sul modello di quelle militari, fabri, perpendiculatores, architecti, e tutti coloro la cui professione sia attinente alla costruzione di mura. Del resto, secondo una Novella di Maioriano del 458, i membri della corporazione sono tenuti a dimorare nella loro città e a lavorare a turno in ottemperanza alle disposizioni dei curiales.
In cambio di questi oneri, ai collegi vengono accordati numerosi privilegi sotto forma di esenzione dai carichi pubblici, dal servizio militare, dalle imposte straordinarie. In quanto corpi morali, inoltre, i collegi possono acquistare, contrarre obbligazioni, ricevere legati; possono altresì stare in giudizio, rappresentati da un actor o syndicus e difesi dal defensor.
Tale è il radicamento dei collegia nel sistema politico romano, che ancora sul finire del IX secolo, a Bisanzio, sotto Leone VI il Saggio, il Libro del Prefetto regolamenta minuziosamente l'organizzazione interna e l'attività di numerose corporazioni (πολιτιϰά σωματεῖα, o anche, nella lingua letteraria bizantina, συστήματα), ripartite in ventidue capitoli a cominciare dal 'collegio' dei notai.
Sotto il nome di gilda si è soliti raggruppare quelle associazioni commerciali che si sviluppano, tra i secoli VI-VII e XIV, per sfruttare le risorse dei traffici marittimi lungo le coste del Mare del Nord, nella Frisia, nel sud dell'Inghilterra, nei Paesi Scandinavi.
Gilda, in origine, è un banchetto sacro. Etimologicamente, difatti, l'antico nordico gjald, il gotico gild, l'antico tedesco gelt, l'antico sassone geld, l'anglosassone gield, hanno tutti come significato fondamentale quello di 'sacrificio comune, confraternita'. Durante i sacri riti di brindisi, banchetto e libagione, gli associati formulano progetti per imprese da compiersi in comune e, allo scopo di proteggere la loro attività futura, si consacrano a una divinità.
Su questa forma originaria di gilda nordica, le cui menzioni più antiche appartengono all'XI secolo e ci sono offerte da alcune iscrizioni runiche, sembrano innestarsi elementi caratteristici di un'altra grande cerchia di interessi collettivi: la Sippe, cioè quello stabile gruppo parentale tipico dell'ordinamento sociale degli antichi Germani. Negli statuti delle gilde si trova spesso indicato esplicitamente un patto di 'fratellanza', con gli obblighi correlativi di reciproca assistenza: "Ogni fratello della gilda - recita ad esempio lo statuto della Knuts gilde di Flensburg, anteriore al XIII secolo - deve essere pronto ad aiutare il suo confratello in ogni giusta questione".
Questo vincolo di fratellanza - proprio attraverso il momento centrale del banchetto, o 'pasto sacrificale', durante il quale la confraternita guarda al futuro e decide gli affari più importanti - richiama gli antichi convivia già descritti da Tacito nel capitolo XXII del De origine et situ Germanorum.In realtà ogni gilda, oltre a costituire un gruppo di sodali, è una 'comunità alimentare'. Il gild, di cui 'gilda' risulta una latinizzazione già documentabile in epoca gallo-romana, è infatti, in senso proprio, un 'tributo di reciprocità', una sorta di canone d'iscrizione che si paga (sempre più spesso con denaro, geld) a una confraternita legata da un culto comune e da una comune intrapresa. In Inghilterra guilds, in Germania Gilden (o Zünften, Innungen: rispetto a questi Genossenschaft è il concetto più generale) verranno appunto chiamate le corporazioni religiose, mercantili, artigiane, e le associazioni giurate.Sotto la spinta dell'intensificarsi dei traffici e dello specializzarsi del commercio le gilde danno vita - soprattutto fra l'XI e il XII secolo - a forme specifiche di corporazione: quelle, ad esempio, dei tessitori di Oxford o di Mainz, o dei pescatori di Worms.
Ogni gilda è di norma governata da capi (wardens, aldermen) assistiti da un consiglio, a cui spetta di amministrare i fondi della corporazione, controllare la buona qualità dei prodotti, sorvegliare tutti gli affari d'interesse comune. L'ingresso nella gilda è quasi sempre subordinato a precise condizioni: essere cittadino della città, tenere una buona condotta, aver compiuto un periodo di tirocinio. La gilda, per parte sua, fornisce provvidenze per gli infortuni professionali, soccorre i malati, onora la memoria dei consociati defunti e si prende cura degli orfani in giovane età.
Non di rado alcune gilde si federano in una Hansa (termine, quest'ultimo, dall'etimo significativamente incerto; prima di assumere il senso di 'società di commercio', esso viene impiegato per indicare una coorte, una compagnia di guerrieri, il seguito di un signore): in tal modo vengono a costituire una lega commerciale (celebre è la Hansa di Londra) o un'associazione economica di cui si è parte in virtù di un diritto che si compera, si può vendere, si può ereditare.
Nelle forme corporative del basso Medioevo siamo ormai abituati a indicare, per lunga tradizione, il tipo completo ed esemplare di corporazione.All'interno del cosmo delle universitates, le corporazioni d'arti e mestieri conoscono la loro stagione più fiorente nel XIII e nel XIV secolo, quando si diffondono e si consolidano in gran parte dell'Europa. Già nella seconda metà del XIII secolo il prévôt di Parigi, Étienne Boileau, per poter procedere alla codificazione degli usi e dei regolamenti delle associazioni professionali, divide la prima delle tre parti del suo Livre des métiers (le altre due trattano rispettivamente di tasse e imposte, e di giustizia e giurisdizioni) in cento titoli corrispondenti ciascuno a una determinata corporazione.
Durante questi secoli, oltre a costituire il fulcro di un sistema economico in cui il consumo sembra orientare e regolare pressoché per intero l'attività di produzione, le corporazioni d'arti e mestieri assurgono a struttura determinante dell'ordine sociale e politico-costituzionale. Questo duplice ruolo si dispiega con particolare evidenza in Italia, dove le corporazioni proliferano sotto denominazioni differenti: arti e capitoli a Firenze, consorterie e matricole a Venezia, fraglie a Padova, consolati e paratici in Lombardia, compagnie a Bologna, maestranze in Sicilia, università e collegi a Roma; e ancora: abbadie, masse, comunità, fratrie, scuole (l'antico schola, cioè, con cui a Roma si indicava il luogo di ritrovo dei membri della corporazione, e a Bisanzio, successivamente, un 'corpo' non più autonomo bensì subordinato all'amministrazione pubblica e con un capo scelto dal potere politico o ecclesiastico).Il giuramento di restare uniti, di aiutarsi vicendevolmente, di non abbandonare l'arte, lega di norma i corporati. Lo statuto, invece, regolamenta in modo minuzioso la struttura e le forme di attività della corporazione. Dagli statuti (che, diversi da corporazione a corporazione e spesso sottoposti all'approvazione del pubblico potere, vengono redatti sempre più frequentemente in Italia dagli inizi del XIII secolo) l'azione delle arti e dei mestieri viene infatti disciplinata sia per quanto riguarda i fini di mutuo soccorso fra i membri, sia per quanto attiene la produzione o lo scambio di beni. L'impiego di taluni materiali, la proporzione e i metodi di lavoro, il prezzo e le modalità di vendita così come i possibili rapporti di concorrenza fra produttori o botteghe, diventano in tal modo l'oggetto di precise disposizioni dello statuto, insieme con i diritti e doveri dei corporati nell'esercizio della loro professione.
Chi non è iscritto alla corporazione non può di regola esercitare l'arte o il mestiere. La corporazione stessa, d'altro canto, provvede alla formazione di coloro che intendono diventarne membri. Il periodo di apprendistato, i rapporti fra garzone e maestro, l'esame necessario per passare dalla condizione di apprendista allo status del lavorante, nonché i particolari privilegi concessi a chi è figlio di maestro (e conta ricordarli perché indicativi della tendenza - ricorrente in talune congiunture economico-sociali - a rendere ereditaria la professione) trovano una regolamentazione accurata nei differenti statuti.
Uno o più capi (indicati col nome di consoli, capitani, ministrali, gastaldi, ecc.) governano la corporazione. Scelti con varie procedure di elezione, questi capi non possono essere né servi né stranieri, e di norma devono essi stessi esercitare l'arte o il mestiere. A loro compete la giurisdizione civile e penale sulle questioni di competenza della corporazione e sui corporati. Ai capi s'affiancano spesso i 'conservatori dell'arte': tocca a questi ultimi determinare le tecniche di produzione e sorvegliare sull'osservanza delle disposizioni.
Talvolta i capi delle singole corporazioni si riuniscono in una sorta di ufficio di presidenza (chiamato 'banca', in Veneto), ma per gli affari di maggior rilievo è necessario che si riuniscano in adunanza - il capitolo o parlamento, ancora secondo gli statuti veneti - tutti i membri della corporazione. A mano a mano che nel campo di questi affari di maggior rilevanza entrano questioni ritenute di pubblico interesse, le corporazioni d'arti e mestieri vengono a estendere la loro azione dal terreno della tutela dei propri interessi frazionali a quello del perseguimento di interessi generali. E in tal modo, 'globalizzando' i loro fini economico-professionali, assumono un ruolo sempre più marcatamente 'politico' - esemplare è il caso delle arti maggiori e minori a Firenze - all'interno dell'organizzazione del pubblico potere.
La lunga fase del ciclo delle corporazioni - quella fase che, assai significativamente, riunisce in sé l'età medievale e una parte non piccola dell'età moderna - sembra interrompersi bruscamente con la Rivoluzione del 1789. La fine del sistema francese delle corporazioni viene infatti sancita formalmente dapprima dalla legge del 2-17 marzo 1791 (la quale prescrive - all'art. 3 - che a partire dal 1° aprile "il sera libre à tout citoyen d'exercer telle profession ou métier qu'il trouvera bon après s'être pourvu d'une patente et en avoir acquitté le prix"), successivamente dal Décret relatif aux assemblées des citoyens d'un même état ou profession del 1417 giugno dello stesso anno (la famosa legge Le Chapelier).
La Rivoluzione francese - come osserva di lì a qualche decennio Alexis de Tocqueville, nel secondo capitolo del primo libro del suo L'ancien régime et la Révolution (1856) - non ha solamente lo scopo di mutare un "antico governo", ma anche quello di abolire "l'antica forma della società". Dalle rovine che la Rivoluzione stessa produce sorge spontaneamente una potenza nuova, "un potere centrale immenso, che ha attratto e inghiottito nella sua unità tutte le parcelle d'autorità e di prestigio prima diffuse in una moltitudine di poteri secondari, d'ordini, di classi, di professioni, di famiglie, di individui, e come sparpagliate in tutto il corpo sociale".L''unità' di questa nuova potenza sembra determinare la cesura più netta fra l'età rivoluzionaria e quell'ancien régime (come già si era trovato a denominarlo Honoré-Gabriel Riqueti de Mirabeau, in una lettera segreta del 10 maggio 1790 a Luigi XVI) nel quale la police - e non la politique - aveva a lungo signoreggiato, e in cui l'ordine politico e l'ordine economico-sociale in null'altro potevano trovare il punto comune delle loro distinte legittimazioni se non nel riconoscimento di un'autoregolata e finalizzata 'convenzionalità'. Ma, se la cesura viene resa sempre più evidente dal rapido trasformarsi dell''ordine politico' in 'ordine dello Stato', è proprio la scomposizione dell'antico sistema economico-sociale a rivelare quanto sia ormai definitiva la soluzione di continuità. Cadono a una a una le simmetrie - presunte o vere che fossero - a cui un tale sistema aveva affidato la propria stabilità; insieme con queste si dilegua ogni corrispondenza - convenzionale anch'essa, e consapevolmente artificiale - fra l'ordine politico e l'ordine della società.Da tempo, in realtà, il complesso delle corporazioni aveva manifestato i segni di un declino inarrestabile. Un editto del 1691 aveva fissato a 127 il numero delle corporazioni e le aveva ripartite in quattro classi secondo la loro importanza (alla prima, difatti, appartenevano i potentissimi Six corps di apothicaires-épiciers, bonnetiers, drapiers, merciers, orfèvres, pelletiers). Ma la decadenza, già avvertibile con chiarezza in quel secolo, diventa più rapida nel secolo successivo.
Rispetto ai processi in atto di sviluppo commerciale e di innovazione economica, le corporazioni appaiono sempre più una struttura immobile e conservativa. L'economista Jean-François Melon, nel suo Essai politique sur le commerce del 1734, non solo definisce le corporazioni una "perte et d'hommes et d'argent", ma qualifica come "ridicules" i loro statuti. Con l'estendersi dell'influenza dei fisiocratici, gli attacchi al sistema corporativo - sempre più duri e frequenti - ne annunciano la fine ormai imminente.
Anche l'organizzazione interna delle corporazioni risulta infatti isterilita e superata. Sotto lo pseudonimo di Delisle, l'economista Simon Clicquot de Blervache propone nel 1758 la soppressione delle corporazioni, formulando - nel suo Mémoire sur les corps de métiers - una violenta requisitoria contro le arcaiche disposizioni degli statuti, gli ancora fiorenti privilegi delle associazioni professionali, i loro effetti dannosi sul commercio.Gli stessi rapporti fra il potere centrale e le corporazioni si vanno rapidamente logorando, anche su quel terreno - il fisco - in cui più fitte erano state le reti di contrattazioni e compromessi fra l'uno e le altre. Il processo di deterioramento è scandito da tappe ravvicinate: la riduzione della durata dei privilegi (1762), la proclamazione della libertà di commercio all'ingrosso (1765), l'editto del 1776 che sopprime - Turgot è ancora Controllore generale delle finanze - "tous les corps et communautés de marchands et artisans ainsi que les maîtrises et jurandes, abrogeons tous privilèges, statuts et règlements donnés aux dits corps et communautés" (v. Martin Saint-Léon, 1909², p. 579).
L'immediata ricostituzione delle associazioni professionali (con un editto registrato il 28 agosto 1776) e la tenace difesa dei principî corporativi da parte dei Six corps riescono soltanto a prolungare l'agonia delle corporazioni, la quale troverà appunto fine con la legge finanziaria del 2-17 marzo 1791 e con la legge Le Chapelier. L'art. 1 di quest'ultima stabilisce infatti: "L'anéantissement de toutes espèces de corporations des citoyens du même état et profession étant l'une des bases fondamentales de la Constitution française, il est défendu de les rétablir de fait, sous quelque prétexte et sous quelque forme que ce soit".In realtà, già per tutta la società d'antico regime, il ruolo e il peso politico delle corporazioni erano stati sottoposti a una sorta di oscillazione pendolare, guidata dal mai sopito antagonismo fra due tendenze fondamentali: la tendenza del potere centrale a 'incorporare' i gruppi economico-sociali al fine di integrarli compiutamente entro l'ordine statale e la tendenza dei gruppi ad 'accorparsi' in forma sempre più autarchica così da sottrarsi all'incapsulamento entro uno Stato 'totale'. Anziché venir interrotta, l'oscillazione subisce ora un'ulteriore e più forte spinta proprio in seguito alla scomparsa della società d'antico regime.
La legge Le Chapelier decreta formalmente l'estinzione di tutte le corporazioni fondate sulla base di "prétendus intérêts communs". Ma gli interessi comuni, lungo tutto il corso dell'Ottocento, resistono con energia ai tentativi di ricomporli e renderli omogenei all'interno di quell'interesse generale di cui lo Stato si considera l'esclusivo titolare.
Mentre l''ordine dello Stato' - nella nuova forma di organizzazione 'costituzionale' del potere - viene costretto a fondare sempre più la propria legittimità sulla produzione diretta dell'ordine politico, gli interessi tornano a rivendicare il loro carattere di elementi 'naturalmente' costitutivi di quest'ultimo ordine. Destinati a rinvigorire - come nota con lungimiranza, già nel 1818, Joseph von Görres - ogni qualvolta nella società borghese la costituzione (Verfassung) s'inceppa, gli interessi organizzati diventano in tal modo l'ostacolo più difficile sulla via di quell''assolutizzazione' della sintesi statale (la vera faccia, cioè, dell'autonomizzazione moderna del politico), che aveva preso rapido avvio tra il Cinquecento e il Seicento con l''invenzione' della spersonalizzata figura dello Stato.
Che l'ordine statale non possa mai identificarsi completamente con l'ordine politico, e che - quando il primo s'arroghi il diritto di produrre il secondo - si riaccenda più acuto il conflitto congenito fra istituzioni e politica, tocca proprio alle 'nuove' corporazioni dimostrarlo con forza per gran parte dell'Ottocento e durante il Novecento. Quel che le nuove corporazioni portano allo scoperto è, difatti, il dato più 'tradizionale' (e, nella sua essenza, squisitamente 'antimoderno') che la Rivoluzione francese, nemmeno troppo paradossalmente, ha contribuito a conservare, celandolo e proteggendolo all'interno della stessa idea rivoluzionaria di ordine costituzionale: l'impossibilità, cioè, che l'ordine politico dell'età moderna trovi nell'organizzazione statale del potere la ragione definitiva della propria continuità. In tal modo la questione delle corporazioni si annoda strettamente - ancor prima e assai più che al problema della cosiddetta crisi dello Stato - a quella, meno ideologica e ben più rilevante, del carattere ambivalente della politica moderna.
Non è per caso che le nuove corporazioni, nelle forme che apparentemente le rendono più simili alle corporazioni dell'ancien régime, nascano e si rafforzino sul terreno dell'economia. Sotto la spinta poderosa della rivoluzione industriale, le relazioni economiche introducono nel sistema sociale un elemento di modificabilità continua e potente. Il ritmo delle trasformazioni economico-sociali comincia a palesarsi (e a essere percepito) come naturalmente più rapido di quello dei mutamenti politico-istituzionali. E la figura unitaria della società, tanto più necessaria quanto più lo Stato si autolegittima come esclusiva 'sintesi politica', si tramuta in un gigantesco trompe-l'oeil in cui la concretezza dei confliggenti interessi si disperde nella rappresentazione di un'artificiosa totalità.
Esteriormente le nuove corporazioni sembrano riproporre le precipue finalità dei tipi storici di associazioni professionali. Sin dal loro sorgere le Trade Unions inglesi, i Syndicats ouvriers francesi, le Gewerkvereine (unioni di mestieri) e le Gewerkschaften (unioni di operai) in Germania e Austria, i sindacati in Italia, accorpano precisi interessi frazionali che sono comuni ai consociati: la difesa del posto di lavoro, il livello del salario, la protezione in caso di infortunio, malattia, disoccupazione. Alla promozione della 'mutualità', del resto, appaiono orientate tutte quelle nuove istituzioni (Bourses du travail, Camere del lavoro, Arbeitshausen, Krankenkassen, ecc.) che emanano o direttamente dalle associazioni operaie, o da quelle imprenditoriali, o da forme miste delle une e delle altre.
In realtà, proprio perché dominate - diversamente che nel passato - dal ritmo veloce delle trasformazioni economiche, le nuove associazioni professionali appaiono subito dislocarsi dove più incerto è il confine (e più elevata la turbolenza) fra l'organizzazione del potere politico e la società. La globalizzazione degli interessi sindacali - quella tendenza, cioè, destinata ad accentuarsi lungo tutto il Novecento (e a legarsi a filo doppio, almeno in apparenza, col dissolvimento dell'esclusiva 'politicità' dello Stato) - è con ogni probabilità già inscritta in questa collocazione originaria delle nuove corporazioni.
Sotto la spinta della questione sociale l'azione politica dello Stato si estende e si rafforza, fino a ingenerare l'impressione che proprio all'ordine statale spetti ormai la conservazione stessa della società. Ma la questione sociale, nel momento in cui mostra quanto sia necessario (e quanto divenga rapidamente e inesorabilmente precario) l'equilibrio fra lo Stato e la società, rivela anche le inestricabili contraddizioni interne all'ideologica equiparazione di ciò che è politico con ciò che è statuale.
Poiché un autonomo ordine economico non è più riconoscibile immediatamente (né su esso risulta fondabile, conseguentemente, l'autosufficienza della società nei confronti dello Stato), il complesso dei rapporti economico-sociali sfugge sempre più a ogni processo di 'sintesi' che, cristallizzando tali rapporti nel loro carattere naturalmente privato, riesca nel contempo a ricomporne le differenze e l'antagonismo in una superiore (seppur fittizia) unità. Proprio l''economico', d'altro canto, se in apparenza fornisce - con il moltiplicarsi e l'inasprirsi dei suoi conflitti - l'ultimo e più rilevante supplemento di legittimazione all'ordine politico dello Stato, costituisce anche il terreno su cui si rivela maggiormente illusoria la pretesa dell'organizzazione statale di ricomprendere in sé - rappresentandola, e insieme governandola - la generalità degli interessi. Non per caso, difatti, di lì a poco l'economico comincerà ad apparire l'elemento più refrattario (e spesso irriducibilmente antagonistico) alla 'politica sociale'. E quest'ultima, per poter essere il mezzo più diretto e potente di autoconservazione della politicità dello Stato, verrà costretta a qualificarsi come strumento non già di produzione, bensì di spartizione e distribuzione delle risorse dell'economia e della società. La rivendicazione di questo ruolo nuovo delle associazioni sindacali viene a collocarsi rapidamente al centro tanto del sindacalismo d'ispirazione socialista, quanto del variegato e complesso corporativismo cattolico che - dalle concezioni di Pierre-Guillaume Le Play, René-Charles de La Tour du Pin, Wilhelm von Ketteler, Franz Hitze, Giuseppe Toniolo, a quelle di Karl von Vogelsang o Heinrich Pesch - troverà nel 'solidarismo' uno dei suoi esiti principali. Per Giuseppe Toniolo le "unioni professionali", distinte dalle mere "associazioni" perché le prime hanno fini necessari, permanenti e complessi, rappresentano la base della "costituzione organica della Società", destinata a rendere possibile quella "democrazia politica" la quale "si risolverà infine nel regime di una società tutta intera che governa se stessa" (cfr. G. Toniolo, Indirizzi e concetti sociali all'esordire del secolo XX, in Opera omnia, serie 3, vol. III, Città del Vaticano 1949, p. 185).
Per il magistero della Chiesa il corporativismo sembra, anzi, diventare uno dei pilastri più solidi della nuova dottrina sociale. Già nell'enciclica Quod apostolici muneris del 1878 (nella quale viene stigmatizzato il disegno, concepito dalla "setta di coloro che con nomi barbari e diversi si chiamano Socialisti, Comunisti e Nichilisti", di "scuotere le fondamenta medesime del consorzio civile") Leone XIII rileva come "torna opportuno di favorire le società artigiane e operaie". E nel 1891 la Rerum novarum, ricordando che "manifestissimi furono presso i nostri maggiori i vantaggi" delle corporazioni di arti e mestieri, osserva "con piacere formarsi ovunque associazioni siffatte, sia di soli operai sia miste di operai e di padroni", proprio al fine di sciogliere quella "questione operaia, la cui buona o cattiva soluzione interessa sommamente lo Stato".
Peraltro, proprio perché la 'politicità' delle nuove corporazioni viene rivendicata in relazione diretta con l'attività dello Stato (assai più - e, talvolta, ancor prima - che nei confronti dell'organizzazione della società e del mercato), il ruolo delle associazioni sindacali si lega alle trasformazioni del potere statale con un rapporto di stretta interdipendenza. L'azione dello Stato, obbligata per un verso a estendersi (e a mutarsi in 'mediazione') a mano a mano che si rafforza il peso politico delle nuove corporazioni, è per altro verso sempre più indispensabile affinché queste ultime raggiungano e conservino una posizione di 'stabile squilibrio' fra l'area del mercato e quella della società. Ciò che in effetti si realizza, attraverso la progressiva globalizzazione degli interessi frazionali delle associazioni sindacali, è un processo di 'aggiustamenti' continui - parziali, e sempre provvisori - fra Stato e politica, fra società ed economia.
Che le nuove corporazioni - nonostante la persistente rilevanza dell'elemento professionale - non si esauriscano affatto nelle associazioni sindacali, e che - frantumato l'antico ordinamento per ceti - gli interessi auto-organizzati costituiscano uno dei fattori più potenti di un ordine politico non identificabile per intero con l'ordine statale, lo avvertono lucidamente, già dalla metà dell'Ottocento, gli osservatori più attenti alle trasformazioni in atto nei rapporti fra lo Stato e la società. Non è senza significato, anzi, che il concetto di 'interesse' e lo studio dei 'gruppi corporati' vengano rapidamente a individuare uno dei punti di convergenza più importanti, e ultimi, fra le analisi sociali e quelle politico-giuridiche, avviate ormai - le une e le altre - sulla strada della frammentazione specialistica e di un'accelerata autonomizzazione disciplinare.
Lorenz von Stein, nel primo volume della sua Geschichte der sozialen Bewegung in Frankreich von 1789 bis auf unsere Tage del 1850, riconosce nell''interesse' non solo il principio della società collocato in opposizione diretta al principio dello Stato, ma anche l'elemento decisivo della dinamica sociale. E Robert von Mohl, prima di esaminare la durata dell'interesse, la sua importanza e l'ampiezza dei suoi effetti nei rapporti fra lo Stato e le "cerchie di vita sociali", sottopone a minuziosa indagine "le singole consociazioni naturali che si sviluppano ciascuna a partire da un determinato interesse, a prescindere dal fatto che esse siano ordinate formalmente o meno" (v. Mohl, 1855-1858, vol. I, p. 100).
In effetti, il ruolo e l'importanza crescenti delle nuove cerchie d'interessi, nel momento stesso in cui riattizzano la questione (mai spentasi, neppure sotto le ceneri dell'antico regime) del carattere politico dei ceti e dei corpi economico-sociali in rapporto al potere statale, rivelano anche l'impossibilità che questi ceti e corpi trovino il loro punto di perfetta ed esclusiva rappresentazione e regolazione nell'unità politica dello Stato. D'altro canto, a misura che l'ordine statale è costretto a estendersi alla generalità degli interessi economico-sociali (con la conseguenza che - come osserva già Benjamin Constant nel capitolo XII del suo Cours de politique constitutionnelle - vengono così affidati "alle stesse mani gli interessi delle frazioni e quelli dello Stato"), la figura dell''interesse generale' è sempre meno in grado di mascherare la crescente sfasatura fra l'ordine politico e l'ordine statale. Le cerchie d'interessi, non appena le si incapsuli e si tenti di dissolverle entro la 'costituzione' dello Stato, riscoprono tutta la loro politicità. E, proprio perché introducono interessi politici - come subito avverte Gustav Ratzenhofer - direttamente dentro l'ordine statale, esse finiscono con l'allentare e scompaginare le artificiose simmetrie tra l'unità politica dello Stato e la pluralità dei corpi della società.
Gli elementi originari e costitutivi dell'ordine politico tornano così a essere cercati non già nello Stato, bensì all'interno stesso della società. Dalle indagini di Émile Durkheim sui conflitti latenti o differiti che sempre si celano in ogni 'armonia d'interessi', a quelle di Gustav Ratzenhofer e Ludwig Gumplowicz, sino alle analisi - influenzate direttamente e profondamente dalle teorie sociologiche europee - di Albion W. Small, Arthur F. Bentley e dei primi 'pluralisti' statunitensi, la scoperta della permanente articolazione della società in interessi e cerchie confliggenti d'interessi riporta in primo piano un insieme di poteri la cui qualità specifica non è sintetizzabile nel dato della pura e immediata 'istituzionalità'. A mostrarsi ormai logore e sempre più ideologiche, sotto la spinta dell'antagonismo fra cerchie d'interessi e Stato, sono infatti le interrelazioni strettissime (e così squisitamente moderne) fra potere e politica, fra l'organizzazione unitaria dell'uno e il primato - in virtù dell'esistenza naturale e necessaria di una decisione sovrana - dell'altra. Non per caso, però, tocca ai giuristi il compito di accelerare bruscamente il processo di relativizzazione del moderno nesso fra potere e politica.
Nell'ambito delle dottrine giuridiche (tedesche, in particolare) l'idea di corporazione conosce lungo tutto l'Ottocento una stagione di rigogliosa fioritura. Dopo che il romanticismo politico sembra potenziare la carica 'organicista' (e continuare a raccordarla direttamente alle aggregazioni cetuali, giacché - come ricorderà Friedrich Julius von Stahl - anche un Lebensberuf può considerarsi in senso specifico un 'ceto' quando realizzi un'unità dell'interesse politico), la corporazione diventa l'architrave di numerose costruzioni teoriche e dottrinali: da quelle, improntate all'individualismo giusnaturalistico, di Wilhelm Krug, Karl Pölitz e Karl von Rotteck, sino a quelle di Friedrich Liebe, Christian Schlosser, Friedrich Dahlmann, Johann Kaspar Bluntschli, Heinrich Ahrens, Georg von Beseler e del suo allievo Otto von Gierke.È con Gierke, soprattutto, che la questione del pluralismo storico delle consociazioni (Genossenschaften) si rivela inestricabilmente legata con quella del carattere specifico della moderna organizzazione statale del potere. Il giurista tedesco, che riscopre - col suo Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien del 1880 - l'analisi althusiana della consociatio e una teoria del contratto ben più complessa e sofisticata della rousseauiana riduzione a 'contratto sociale', coi quattro volumi di Das deutsche Genossenschaftsrecht, pubblicati fra il 1868 e il 1913, procede alla ricerca delle radici dello Stato costituzionale rappresentativo collocate nell'antico ordine cetual-corporativo. Come dimostrano i nessi stretti e assai resistenti fra gli antichi privilegi e le moderne libertà, fra le antiche assemblee di ceto e le moderne assemblee rappresentative, le corporazioni - quando le si consideri alla luce dell'organizzazione del potere politico, e non più soltanto in chiave privatistica - si rivelano infatti come il vero elemento costante e ineliminabile lungo l'intera sequenza storica di quell'ordine statale costruito all'insegna di un ricorrente antagonismo (e di una continua, necessaria sintesi) fra associazione (Verein) e istituzione (Anstalt), fra consociazione (Genossenschaft) e principio di sovrana autorità (Herrschaft).Destinata a influenzare direttamente e profondamente il pensiero politico-giuridico inglese (il giurista e storico delle costituzioni Frederic W. Maitland traduce, nel 1900, una sezione del terzo volume - significativamente intitolato Die Staats- und Korporationslehre des Altherthums und des Mittelalters und ihre Aufnahme in Deutschland - dell'opera di Gierke), la distinzione storica e concettuale fra Stato-Verband e Stato-Herrschaft comincia così a battere in breccia l'idea che l'unità del potere statale costituisca l'elemento tipico (e produttore) dell'ordine politico della modernità.Di lì a pochi anni, il colpo definitivo a una tale idea verrà inferto proprio dalle sottili dissezioni giuridiche e politologiche dei concetti di decisione e di sovranità. Mentre l'assunto di un esclusivo potere sovrano dello Stato verrà contraddetto dall'azione di cerchie d'interessi sempre più simili a 'poliarchie', lo scarto fra l'ordine politico e l'ordine statale apparirà incolmabile non appena ci si troverà a dover prendere atto dell'impossibilità di sostituire con l'unità della decisione finale l'ormai frantumata unità del potere sovrano.Quel che più duramente viene a essere colpito è così il sistema di legittimazione collocato nel cuore stesso della forma rappresentativa-elettiva del moderno Stato. All'allargarsi della 'forbice' fra ordine politico e ordine dello Stato, la legittimità a rappresentare torna a mostrarsi distinta e separabile dalla legittimità a governare. E la crisi del regime rappresentativo-elettivo, se rivela le crescenti asimmetrie fra la legittimazione delle istituzioni statali e il loro reale funzionamento, mostra al tempo stesso quanto sia ormai arduo conservare integra - entro l'involucro dello Stato - la sostanza della moderna politica quale perenne conflitto da ricomporre necessariamente in una superiore unità. Quasi per una sorta di contrappasso, proprio al nuovo ruolo delle corporazioni fra ordine economico e ordine politico, fra organizzazione e rappresentanza degli interessi, si comincia a commettere il difficile compito di preservare questa sostanza formidabile della moderna politicità.
A imprimere la spinta definitiva verso il riconoscimento del carattere politico delle corporazioni è, fra Otto e Novecento, la crisi del parlamentarismo. Dietro il tenue velo di questa crisi, peraltro, è facile scorgere la presenza di contraddizioni originarie nella forma rappresentativa-elettiva del moderno Stato. Una volta assunta la procedura di 'rappresentazione-elezione' come metodo esclusivo per legittimare ogni tipo di potere politico, il sistema-Stato si trova infatti a dover far fronte non solo alla necessità di integrare in una fittizia unità i diversi e confliggenti interessi economico-sociali, ma anche all'arduo problema (sempre meno facilmente risolvibile, a mano a mano che l'ordine statale si autoidentifica con l'ordine costituzionale) di impedire che l'uniformità del criterio di legittimazione inneschi un cortocircuito fra azione di governo, rappresentanza politica e rappresentatività.Che la rappresentatività non possa essere affidata alla sola rappresentanza politica, e che quest'ultima non sia in grado di assorbire interamente la rappresentanza degli interessi frazionali organizzati, già lo avvertono con lucidità, all'alba stessa del trionfo del regime parlamentare-integrale, Emmanuel-Joseph Sieyès e Mirabeau. Successivamente, benché sormontato dalla questione della rappresentanza professionale (sempre più pressante, e anche assai più confacente alle possibilità di trasformazione e adattamento delle istituzioni statali), il problema della rappresentanza degli interessi frazionali organizzati sembra segnare il punto in cui le nuove corporazioni, in modo non dissimile da quelle dell'antico regime, si ergono a strutture di maggior contrappeso (e di possibile destabilizzazione) del potere dello Stato.In Italia, dove le dottrine della rappresentanza 'organica' e 'corporativa' si conservano e si ripresentano - da Vincenzo Cuoco e dagli scrittori 'vichiani' del primo Ottocento a Gian Domenico Romagnosi e a Luigi Taparelli d'Azeglio, sino a Fedele Lampertico e Federico Persico -, la necessità di non confondere la 'rappresentazione' con l''elezione' viene ribadita da chi, come Ruggero Bonghi in un suo famoso articolo, osserva che "il regime parlamentare si è sviluppato dal rappresentativo; ma è un figliuolo che ha soffocato il padre", giacché ciò che esige di essere rappresentato non è "l'individuo singolo bensì la corporazione stessa" (cfr. R. Bonghi, La decadenza del regime parlamentare, in "Nuova Antologia", 1884, LXXV, pp. 494-495).In Germania le analisi di Rudolf von Gneist, di Heinrich von Treitschke, e poi di Adolf Merkel e di Heinrich Herrfahrdt, nel momento in cui rivendicano il ruolo politico degli interessi organizzati, mostrano come le 'degenerazioni' del parlamentarismo già annuncino una crisi irreversibile della moderna organizzazione del potere.In Francia, dopo Saint-Simon e il sansimonismo (col progetto, disegnato nella Sixième lettre, di tre Chambres du Parlement), la questione della rappresentanza degli interessi si colloca con rapidità al centro del dibattito politico e ideologico, legandosi saldamente sia al tema della decadenza dello Stato liberal-parlamentare, sia ai progetti di decentramento e di riforma delle istituzioni statali.È però all'avvio del Novecento, e con progressione crescente dopo il primo conflitto mondiale, che la dinamica degli interessi organizzati viene a costituire, agli occhi di moltissimi osservatori, la causa principale della 'segmentazione' e del 'deperimento' dell'attività di governo dello Stato. Via via che gli individui si raggruppano - come sottolinea Santi Romano nel discorso letto il 4 novembre 1909, per l'inaugurazione dell'anno accademico nell'Università di Pisa - "col criterio della loro professione o, meglio, del loro interesse economico" e danno vita a "federazioni o sindacati di operai, sindacati patronali, industriali, mercantili, di agrari, di funzionari, [...] società cooperative, istituzioni di mutualità, camere di lavoro, leghe di resistenza o di previdenza", gli interessi organizzati provocano e aggravano una "specie di crisi dello Stato moderno" (cfr. S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi, in "Rivista di diritto pubblico", 1910, II, parte I, p. 103).Stretta nella fitta rete di contrattazioni e compromessi con i gruppi organizzati, l'azione di governo appare sempre più svuotata di quel 'sovrano' potere d'imperio creduto costitutivo (e specifico) della moderna unità politico-statale. La dinamica delle nuove corporazioni, se smentisce nei fatti la possibilità di tener ferma l'equiparazione fra la legittimità generale a rappresentare e l'altrettanto generale legittimità a governare, viene soprattutto a mostrare che l'azione di governo, proprio a misura che il potere dello Stato è costretto a giocare su di essa la sua residua unità, diventa per l'intero ordine statale l'elemento di maggior vulnerabilità.Quel che rapidamente si profila dietro la sempre più ideologica e sfuggente figura della 'crisi dello Stato' è dunque la difficoltà - come subito rilevano, con significativa coincidenza, Max Weber e Hans Kelsen - di costruire il 'centro' della decisione politica. E quel che tale difficoltà riporta in primo piano è proprio ciò che l'unità politico-statale ha a lungo e invano cercato di contrastare e occultare: l'esistenza, cioè, di un ordine politico che può trovare nel 'contratto' - nella sua rapidità di esecuzione, e soprattutto nella sua continua reversibilità - non solo lo strumento per regolare i conflitti fra interessi, ma anche la condizione prima per governare le trasformazioni economico-sociali quando esse aumentano di velocità e intensità.
In effetti, più che delle tradizionali dottrine corporative, i corporativismi degli anni venti e trenta sono figli legittimi di quella sorta di cultura della crisi dello Stato, la quale, destinata a fornire di linfa vitale gran parte delle ideologie e delle dottrine politiche sino ai nostri giorni, rappresenta l'ultima e più elegante maschera con cui coprire le trasformazioni decisive della moderna politicità. Negli anni venti e trenta, in corrispondenza con i profondi mutamenti accelerati - e talvolta direttamente provocati - dal primo conflitto mondiale, il corporativismo conosce un successo straordinario e per molti aspetti inatteso, sanzionato soprattutto - almeno in apparenza - dall'instaurarsi del regime corporativo italiano, di quello portoghese (basato sulla Costituzione del 19 marzo 1933) e - più tardi - di quello spagnolo.Ad alimentare dottrinalmente il nuovo corporativismo è, ancora una volta, l'infittirsi degli studi sul ruolo delle corporazioni in ordine all'ormai declinante autorità della sintesi statale. In Francia vengono pubblicati - nella scia della famosa Histoire des corporations de métiers di Étienne Martin Saint-Léon, apparsa per la prima volta a fine Ottocento - i due volumi di Bernard Lavergne Le gouvernement des démocraties modernes e la traduzione dell'opera, destinata ad avere vasta eco, del rumeno Mihail Manoilescu, Le siècle du corporatisme; in Austria e in Germania si moltiplicano le indagini della fiorente e influente scuola dell''universalismo' di Othmar Spann; in Italia le analisi dei teorici della 'nuova scienza' dell'economia corporativa - subito riprese in Portogallo, in Spagna, in Iugoslavia - si intrecciano saldamente con quelle dei sempre più numerosi fautori dello 'Stato corporativo'.All'interno di queste composite e variegate dottrine corporative si palesa subito un'originaria e insanabile contraddizione, conseguenza diretta del loro rapporto di stretta parentela con la cultura della crisi dello Stato: la contraddizione, cioè, fra un corporativismo proteso a rivendicare la naturale politicità dei corpi rispetto al potere statale e un corporativismo volto invece a riaffermare l'esclusiva politicità dell'unità dello Stato. Al nuovo 'diritto dei corpi' (il 'corporazionismo', come lo bolla Sergio Panunzio) torna così a venir opposto l'antico diritto statale della 'totalità'. E contro il corporativismo di Manoilescu, che si autoqualifica "integrale" (poiché alle corporazioni competono funzioni non meramente tecnico-economiche) e "puro" (giacché al complesso delle corporazioni - e non già allo Stato - pertiene la titolarità del potere politico), si ribadisce la necessità di un 'centro' munito del potere di decisione finale, senza il quale - come ripete ostinatamente Carlo Costamagna - resta senza soluzione il fondamentale problema posto alla radice stessa della crisi dell'organizzazione moderna del potere: il problema, appunto, della sua unità.È significativo che, nel momento in cui più numerose sembrano essere le convergenze e le compromissioni fra il corporativismo fascista e la concezione corporativa della Chiesa, proprio il tema della natura e delle funzioni dello Stato segni il punto di maggior distacco fra l'uno e l'altra. Nel 1931 Pio XI, con l'enciclica Quadragesimo anno, se elenca i "vantaggi" della "speciale organizzazione sindacale e corporativa" iniziata dal fascismo ("la pacifica collaborazione delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialistici, l'azione moderatrice di una speciale magistratura"), rileva anche che "vediamo non mancare chi teme che lo Stato si sostituisca alle libere attività invece di limitarsi alla necessaria e sufficiente assistenza e aiuto, che il nuovo ordinamento sindacale e corporativo abbia carattere eccessivamente burocratico e politico, e che, nonostante gli accennati vantaggi generali, possa servire a particolari intenti politici piuttosto che all'avviamento e inizio di un migliore assetto sociale".In effetti, quanto sia ormai arduo 'incorporare' entro l'ordine statale le nuove cerchie d'interessi, lo dimostra appieno proprio il funzionamento dell'artificioso impianto corporativo perfezionato dal fascismo con la legge del 5 febbraio 1934, n. 163.Già previste dalla Carta del Carnaro, e indicate esplicitamente dallo statuto del Partito Nazionale Fascista approvato il 27 dicembre 1921, le corporazioni (di cui Alfredo Rocco si vanta di aver rimesso in auge, con un suo scritto del 1914, l'idea e il nome) vengono così definite nella dichiarazione VI della Carta del lavoro, deliberata dal Gran Consiglio il 21 aprile 1927: "Le corporazioni costituiscono l'organizzazione unitaria delle forze della produzione e ne rappresentano legalmente gli interessi. In virtù di questa integrale rappresentanza, essendo gli interessi della produzione interessi nazionali, le corporazioni sono dalla legge riconosciute come organi dello Stato". Infatti, già con la legge del 3 aprile 1926, n. 563, per ogni categoria di lavoratori e di datori di lavoro viene riconosciuta una sola associazione, la quale, se è sottoposta - in quanto persona giuridica di diritto pubblico - al controllo da parte dello Stato, è anche investita di poteri nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria.Esteso - a partire dal 1930 - dal settore sindacale dei rapporti di lavoro a quello delle relazioni e delle iniziative economiche, l'ordinamento corporativo fascista istituisce - appunto con la legge del 5 febbraio 1934 - ventidue corporazioni sulla base del criterio del ciclo produttivo e assegna loro funzioni consultive, conciliative, normative. Infine, con la nascita - nel gennaio del 1939 - della Camera dei fasci e delle corporazioni, il regime corporativo sembra pienamente realizzarsi. Conciliate - con la singolarità della nuova istituzione - rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi, il processo di frantumazione dell'unità politico-statale pare poter essere interrotto, e magari invertito, proprio nel punto in cui minaccia di diventare più critico: nel punto cioè in cui, svanendo ogni illusione di equivalenza fra l'ordine politico e l'ordine statale, la dinamica del mercato può non solo mostrarsi sempre più renitente a ogni ingerenza dello Stato, ma anche ricomporsi e riconoscersi in un 'ordine economico' autonomo e originario.In realtà, come dimostra l'effettivo funzionamento del regime corporativo (sul quale si appuntano immediatamente le critiche degli stessi fautori del corporativismo fascista), le corporazioni falliscono il loro obiettivo principale. Una volta istituzionalizzate entro l'ordine statale, esse si rivelano inidonee ad attivare - nello stesso tempo, e in forma connessa - le funzioni produttive del mercato e i residui meccanismi di legittimazione politica dello Stato.Che le ragioni del fallimento siano soprattutto da ricercare nel persistente dualismo fra Stato 'politico' e corporazione 'economica', lo intuisce con prontezza e grande lucidità Ugo Spirito. Fintantoché le vecchie categorie di politica ed economia, contrapposte rigidamente l'una all'altra, servono a salvaguardare il primato dell'ordine statale, ogni riordinamento corporativo dei poteri inevitabilmente si consuma nel tentativo di rendere speculare un'immagine unitaria (e sempre più sfocata) dello Stato a una figura altrettanto unitaria (e anch'essa sempre più sbiadita) della società. Quasi per un gioco di specchi, allora, nella crisi dello Stato si riflette e s'ingigantisce l'ancor più formidabile crisi della società. E resta pertanto senza spiegazione, una volta di più, il processo storico e quasi ciclico attraverso cui le corporazioni, quando globalizzano i loro interessi frazionali, finiscono con lo spostare i sempre relativi confini fra l'area dell'obbligazione politica e l'area del contratto-scambio.
Rischierebbe di apparire immotivata, e magari inopportuna o un po' stravagante, l'odierna attenzione per le strutture d'interessi corporati, se non si tenesse conto del fatto che le attuali corporazioni si collocano al crocevia delle più significative trasformazioni del cosiddetto 'Stato sociale', con cui si conclude - secondo molti - il tentativo dell'ordine statale di conservarsi la 'moderna' prerogativa di una totale (e del tutto autonoma) politicità. Mentre la necessità di integrare e controllare le corporazioni entro l'ordine statale legittima e scandisce - nella fase ascendente dello Stato sociale - l'estendersi e l'intensificarsi dell'azione dello Stato nella società, il peso e il ruolo sempre più politico dei gruppi d'interessi organizzati sembrano limitare e condizionare - nella fase discendente - le forme e i risultati di una simile azione.Dal peso e dal ruolo delle corporazioni, in realtà, dipendono il funzionamento e le residue fortune dello Stato sociale. Nel gioco degli interessi concorrenti o confliggenti lo Stato sociale alimenta infatti quelle pubbliche funzioni di mediazione in cui si è andato trasformando l'antico potere d'imperio e, attraverso un'incessante spartizione e redistribuzione di risorse, puntella l'ormai languente legittimazione della propria politicità. Paradossalmente (almeno per chi ancora crede a un'incontaminata sostanza della moderna politicità) il 'politico' risulta oggi riconoscibile - e può così conservarsi - quanto più si mescola e interferisce con l''economico' e il 'sociale'.C'è ancora molta riluttanza a riconoscere che, per gran parte della teoria politica dagli anni venti sino a oggi, le figure più enigmatiche e inquietanti sono proprio quelle di 'economia' e di 'società'. Evitate con circospezione, o considerate con malcelata diffidenza e scarsa perizia, esse escono dalle quinte solo quando per la teoria politica diventa arduo rivendicare allo Stato - o alla sua crisi - una posizione di centralità. Se sembrano guadagnare il rango di protagonista, le due figure in realtà non dismettono mai i panni della comparsa. A legarle a questa parte è il collaudato canovaccio secondo cui solo dal potere politico è rappresentabile interamente (e organizzabile razionalmente) ciò che nelle trasformazioni in atto manifesti i segni della novità e imprevedibilità.Eppure, quel che guida la rapida fase declinante dello Stato sociale è proprio la crescita - entro l'ordine statale - dello spazio (e del 'valore') dell'economia e della società. A misura che questo spazio si allarga, l'azione del governo si segmenta. E quanto più lo Stato è costretto a immettere nel gioco politico sempre nuove risorse economico-sociali (così da mantenere la restante funzione politica di assicurare quella condizione di assenza del conflitto che - riduttivamente e scorrettamente - viene identificata con la situazione di perfetta stabilità), tanto più l'esito della decisione diventa di necessità parziale e accorcia sul breve periodo il proprio orizzonte temporale.Con la parabola dello Stato sociale risulta alla fine trasparente l'originaria ambivalenza che ha segnato (ma anche fatto crescere) quella moderna nozione di politico di cui si è alimentato l'imponente e straordinariamente longevo sistema di legittimazione dello Stato: l'ambivalenza, cioè, fra l'inclinazione associativa all'universitas (secondo la quale i soggetti si obbligano perché riconoscono l'esistenza di un obiettivo comune e si impegnano a perseguirlo) e quella alla societas (secondo la quale l'obbligazione fra i soggetti si pone nei termini di una comune pratica normativa nell'ambito di regole formali che tutti debbono rispettare). Significativamente, difatti, nello Stato sociale questa ambivalenza prende la forma di una crescente contraddizione fra il grado di legittimazione politica e l'efficacia dell'azione di governo. Altrettanto significativamente, per poter sciogliere la contraddizione, ritorna sul tappeto la necessità di distinguere - come avveniva precedentemente alla trasfigurazione del potere politico in potere generale - fra la legittimità a rappresentare e la legittimità a governare.E difatti, proprio la spinosa questione della governabilità è al centro del cosiddetto neocorporativismo, sin dal suo apparire negli anni settanta. Esplicitamente proponendosi come alternativa ai modelli di pluralismo dominanti nella scienza politica statunitense, le indagini neocorporative prendono avvio dalla constatazione che il funzionamento e il rendimento generale dei sistemi politico-amministrativi vengono modificati, e spesso compromessi, dall'accresciuto campo dell'azione 'politica' delle aggregazioni d'interessi corporati.A mano a mano che le corporazioni accelerano la loro conversione da attori economico-sociali in attori politici, l'attività di governo dipende sempre meno da un solo e convenzionale potere decisivo, e sempre più dall'equilibrio provvisorio delle contingenti obbligazioni assunte - sulla base della materiale forza contrattuale di ciascuno di essi - dai gruppi corporati in campo. In tal modo, mentre sul sistema di decisione si rovesciano tutte le ambiguità dei rapporti delle corporazioni con le istituzioni statali (in realtà, dietro il paravento di queste ultime, con i partiti), l'attuazione delle 'politiche pubbliche' sembra risolversi nel mantenimento, e spesso nella produzione diretta, di privilegi particolari.
L'analisi teorica e le rilevazioni empiriche effettuate in numerosi paesi dell'Europa occidentale (dall'Austria ai Paesi Scandinavi, dall'Italia alla Germania e alla Gran Bretagna) consentono di far luce su un duplice fenomeno che, pur accentuato dalla fase attuale dello Stato sociale, trova le sue radici nella trasformazione della legittimità a rappresentare in legittimità a governare: la corporativizzazione, cioè, dei processi di rappresentanza, e quella - quasi mai in sintonia con la prima - dei processi decisionali. Se nell'una dimensione il neocorporativismo - in quanto si configuri come un sistema istituzionalizzato di rappresentanza degli interessi - è prevalentemente strutturale, nell'altra esso è squisitamente funzionale, giacché la rappresentanza degli interessi viene organizzata in modo da ottenere un determinato funzionamento del sistema decisionale.
Col neocorporativismo prende così forma un sistema integrato di 'guida societaria', la quale, modificando in profondità gli schemi di formazione, decisione e attuazione delle politiche, sembra toccare al cuore il modello istituzionale e organizzativo delle democrazie liberali, reso sempre più fragile e vulnerabile dalla crisi del Welfare State.
In realtà, proprio nel momento in cui le aggregazioni di interessi paiono diventare il fondamentale elemento di una razionalizzazione dei processi politico-decisionali, gli effetti del loro naturale carattere ancipite tornano a dispiegarsi con sorprendente nitore. Come contraccolpo del moltiplicarsi e rafforzarsi delle posizioni di status (e a misura che - soprattutto - l'azione statale è costretta non solo a garantire, ma anche a generare essa stessa nuovi status), la globalizzazione degli interessi diventa per ogni corporazione lo strumento sempre più indispensabile affinché il perseguimento dei propri obiettivi particolari non risulti continuamente condizionato e minacciato dal potere statale o da quello delle altre corporazioni. E il federarsi di corporazioni procederà di pari passo, con ogni probabilità, con l'affermarsi del contratto quale fondamento ed essenziale garanzia del ruolo delle organizzazioni d'interessi.
Con un paradosso storico troppo stridente per poter essere casuale, la conservazione dei moderni modelli di gestione del potere viene in tal modo a dipendere sempre più dal grado di politicizzazione delle corporazioni. Anche per questo motivo, ad alimentare l'inconcluso gioco moderno di corrispondenze e simmetrie fra la molteplicità delle fonti di legittimazione e la pluralità delle pubbliche funzioni, è il nuovo conflitto fra gli interessi frazionali e non già il vecchio e ormai sopito antagonismo fra Stato e corporazione.
Se non v'è alcuna continuità storica fra le antiche e le moderne corporazioni, e se nemmeno l'antagonismo fra Stato e corporazione basta a tipizzare e unificare l'organizzazione del potere politico durante lo svolgimento della modernità, gli elementi costitutivi e specifici delle aggregazioni d'interessi frazionali vanno allora cercati contemporaneamente e nella struttura dell''interesse' e in quelle tendenze (o 'regole', secondo alcuni) da cui sembra guidato il comportamento associativo dell'uomo. Come osserva Ferdinand Tönnies, discutendo - nella Prefazione alla sesta e settima edizione del suo Gemeinschaft und Gesellschaft - la categoria di Bund formulata da Hermann Schmalenbach, anche una tale categoria va subordinata a quella di associazione, giacché "l'associazione - nome verbale - viene, a mio parere, compresa più opportunamente come 'corporazione' (corporazione-organizzazione)" (v. Tönnies, 1926⁶ e ⁷; tr. it., p. 36).
Probabilmente non è fortuito che giuristi, storici e politologi, quando tornano a considerare - con ciclica frequenza, come si diceva all'inizio - il ruolo e le funzioni della corporazione, lascino continuamente ai margini il problema della natura associativa delle aggregazioni d'interessi frazionali. Anche in questo caso, difatti, il dato dell'istituzione sormonta quello dell''associazione'. E spesso la descrizione 'istituzionale', se apre la strada a una possibile tipologia, sembra fornire a un tempo lo strumento più agevole con cui tracciare le linee più o meno lunghe di una continuità creduta essenziale per ricondurre a sintesi unitaria la multiforme esistenza dei fenomeni corporativi.
Si spiegano così le ragioni per cui, anche negli anni a noi più vicini, la questione delle corporazioni non sia riuscita a liberarsi dal peso soffocante dell'analogia. In chiave analogica sono state individuate - nelle fasi ideologicamente più acute del corporativismo - le funzioni e la struttura delle nuove cerchie d'interessi. In chiave analogica, soprattutto, continuano a venir analizzati i complessi rapporti attuali delle corporazioni sia con l'ordine politico (dal cui interno, peraltro, ostinatamente riemerge la figura dell'ordine statale), sia con l'ordine economico (ancora messo in ombra, il più delle volte, dall'obsoleta immagine di un mercato capitalistico 'naturale' e 'sregolato').
Da questo argomentare analogico viene generata e alimentata una sequela estenuante di anacronismi e di pericolosi equivoci. La corporazione, se continua ad apparire - rispetto all'ordine economico - un elemento di conservazione (e mai di innovazione), rispetto all'ordine politico sembra presentarsi quale struttura di garanzia di una (illusoria) stabilità.
Una volta collocate le corporazioni nella posizione di artificiosa cerniera fra lo Stato e il mercato, il corporativismo viene così a obbedire - in apparenza, almeno - a una sorta di ciclica dinamica storica, dominata per intero dall'accertamento di critiche sfasature (e dalla ricerca di nuove corrispondenze) fra gli assetti politici totalitari (o pluralistici) e le fasi economiche di depressione (o prosperità). Per conseguenza, più la corporazione cerca di venir inserita come elemento costitutivo dell'ordine politico, più la si sradica da quello economico-sociale, fino a contraddire - nemmeno troppo paradossalmente - il suo originario carattere di organizzazione di interessi 'frazionali'.
Quel che oggi prende corpo sotto i nostri occhi, invece, è il mutevole dislocarsi delle corporazioni nelle aree in cui maggiore è l'interferenza fra economico, politico, sociale. Nella loro azione in queste fluide aree le corporazioni si diversificano e confliggono l'una con l'altra; si federano e si gerarchizzano; ripropongono con forza - attraverso la cooptazione e il rapporto clientelare - una gestione del potere squisitamente personale.Le aggregazioni d'interessi frazionali, in tal modo, diventano le parti essenziali di un ordine in cui il dualismo fra obbligazione politica e contratto-scambio trova una linea di confine flessibile perché pattizia e convenzionale. È ormai il ritmo intenso delle trasformazioni economico-sociali, più che l'oscura crisi del potere statale, a guidare il processo di consolidamento delle organizzazioni di interessi frazionali. (V. anche Corporativismo/Corporatismo; Fascismo; Sindacato).
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