Cultura
È un dato acquisito e sotto gli occhi di tutti il fatto che esistono due concezioni fondamentalmente diverse di 'cultura': una classica e tradizionale, la quale afferma e propone un ideale di formazione individuale (come, per esempio, il concetto greco di παιδεία), l'altra invece moderna e scientifica, nel senso che è stata fatta valere dalle moderne scienze sociali. La prima è una concezione di tipo prescrittivo e normativo, mentre la seconda è di tipo analitico e descrittivo (v. Rossi, 1983, pp. 3-28): la prima indica un dover essere per alcuni individui di alcune società, la seconda invece illustra una condizione che riguarda i membri di qualsivoglia gruppo sociale. Sul piano del linguaggio comune, la prima concezione affiora in espressioni come 'uomo di cultura' (intendendo una persona che, per la sua formazione particolare, si distingue dalla gente incolta), mentre la seconda concezione emerge in espressioni come la 'cultura maori' o la 'cultura dei giovani' e così via (intendendo modi di comportamento che prescindono dalla distinzione colto/incolto).
È tuttavia opportuno rendersi conto della radice comune alle due concezioni, così da illuminare meglio le loro stesse differenze. Entrambe si fondano da ultimo su una metafora agricola: 'cultura' deriva infatti dal verbo latino colere, i cui significati principali sono 'abitare', 'coltivare' 'ornare (un corpo)', 'venerare (una divinità)', 'esercitare (una facoltà)'. Alla base vi è l'idea di un intervento modificatore, trasmessa subito dal gesto di chi si insedia in un luogo per abitarvi e perciò stesso lo trasforma, così come lavora e trasforma l'ambiente circostante al fine di coltivarlo. L'insediamento umano - e in particolare quello agricolo - è in latino cultura; così come cultura è pure la cura rivolta al corpo, alle facoltà o alle divinità. Il concetto classico di cultura è una sorta di specializzazione di queste idee di fondo. Quando Cicerone nelle Tusculanae disputationes (2, 5, 13) afferma che "cultura animi philosophia est", intende la filosofia come un intervento radicale sull'animo umano, il quale lo trasforma, come se fosse il terreno del contadino, da incolto a colto. La metafora agricola si ripresenta poi ogni qualvolta, nella storia del pensiero occidentale, si voglia conferire una particolare pregnanza al concetto di cultura. È il caso della "doctrina de cultura animi", definita esplicitamente da Francis Bacon nel De dignitate et augmentis scientiarum (1623) come una "georgica dell'anima"; è pure il caso di René Descartes, per il quale "coltivare la mia ragione" si configura come una scelta di vita, esposta nel Discours de la méthode (1637); così come è il caso della "cultura della ragione", teorizzata da Immanuel Kant nella Kritik der reinen Vernunft (1781) come un esercizio il cui scopo è l'ordine e il benessere della repubblica delle scienze.
Da questi pochi accenni traspaiono almeno due elementi, i quali valgono a contraddistinguere la concezione classica di cultura: da un lato la cultura separa aristocraticamente l'individuo che si sottopone al suo esercizio dal volgo incolto e lo sottrae ai mores della sua società particolare; dall'altro questa stessa cultura immette l'individuo in una società diversa da quella locale, in una comunità di dotti, in una repubblica delle scienze e delle lettere caratterizzata da valori di ordine universale. La cultura intesa in senso classico si rivela quindi per principio incompatibile con i 'costumi', sempre locali e particolari; e proprio per questo si combina con l'idea di una società astratta e liberata dai condizionamenti locali e temporali (la comunità dei dotti), la quale proprio grazie a questa cultura senza costumi ritiene di poter realizzare la vera humanitas, il senso più autentico ed elevato dell'essere umano.Si può probabilmente sostenere che la concezione moderna di cultura sia una smentita di questa pretesa di universalità. Beninteso, vi sono diversi tratti che accomunano le due concezioni, tra cui la metafora agricola presente originariamente nella stessa etimologia latina. Ma ciò che contraddistingue maggiormente la concezione di cultura propria delle scienze sociali rispetto alla concezione classica e umanistica è la dilatazione vistosa dei suoi contenuti e quindi dei suoi confini. In sintesi, si può affermare che la differenza essenziale tra la concezione classica e quella moderna è data dall'assenza o dalla presenza dei costumi come contenuti specifici della cultura. Se la cultura in senso classico era costituita da ideali, verità e valori non condizionati dai mores, e se la sua acquisizione coincideva con una liberazione dagli abiti e dalle consuetudini locali, la cultura in senso moderno è invece costituita dai costumi, e un'analisi in termini culturali comporta il riconoscimento della loro importanza e della loro incidenza in una molteplicità di ambiti del comportamento umano.
Una delle prime espressioni della concezione moderna di cultura è rintracciabile nell'Essai sur les moeurs (1756) di Voltaire. Se nella prefazione egli aveva sostenuto che ciò che veramente vale la pena di conoscere è "lo spirito, i costumi, le usanze", sia pure delle nazioni principali, nella conclusione egli contrappone alla "natura", da cui dipende l'unità del genere umano, la "cultura" (fatta di "costumi" e di "usanze"), che ha invece sparso per il mondo la varietà. "Così - egli afferma - il fondo [naturale] è ovunque lo stesso, mentre la cultura vi produce frutti diversi". Siamo esattamente alla metà del Settecento e l'Europa sta completando il proprio giro attorno al mondo. Tra il 1768 e il 1780 avvengono le tre spedizioni nel Pacifico meridionale di James Cook; e tra i pensatori della seconda metà del secolo, per i quali le relazioni di viaggio, sempre più numerose e accurate, si configurano come fonti imprescindibili per la considerazione del mondo umano nelle sue varie forme, la figura di maggior spicco - sotto il profilo dell'elaborazione del concetto moderno e poi antropologico di cultura - è senz'altro Johann Gottfried Herder. Tipico di Herder (v., 1769; tr. it., p. 50) è il desiderio di rimanere "costantemente in una sorta di viaggio attraverso gli uomini", raccogliendo informazioni da ogni parte della terra, così da rimediare alla 'piega' particolare impressa al suo animo dal fatto di abitare in un "angolo sperduto, scitico, del mondo". Altrettanto tipico di Herder (v., 1774; tr. it., p. 34) è il rifiuto della troppa filosofia di coloro che vogliono ritrovare "in un piccolo angolo della terra il mondo tutto". Alla base di questi atteggiamenti vi è la percezione della pluralità irriducibile delle 'forme di vita' che l'umanità può assumere, e quindi l'improponibilità della 'cultura' in senso classico - la cultura della comunità dei dotti - come modello esclusivo e, nello stesso tempo, universale di umanità. In questo contesto è da collocare il passo di Herder (v., 1784-1791; tr. it., p. 215) in cui la concezione moderna di cultura trova una delle espressioni più incisive. "Se vogliamo chiamare questa seconda genesi dell'uomo, che dura per tutta la sua vita, cultura, prendendo l'immagine dalla coltivazione dei campi, o lumi, valendoci dell'immagine della luce, non ha importanza; ma la catena della cultura e dei lumi si estende fino alla fine della terra". I 'lumi' o la 'cultura' non sono dunque circoscrivibili all'Europa del XVIII secolo. "Anche gli abitanti della California e della Terra del Fuoco hanno imparato a fare e usare archi e frecce; hanno linguaggio e concetti, esercizi e arti che hanno imparato come li abbiamo imparati noi, e pertanto anch'essi sono veramente inculturati e illuminati, sia pur in misura minima". A questa decisiva dilatazione etnografica del concetto di cultura s'accompagna inevitabilmente un suo mutamento interno: anche gli archi e le frecce, e non soltanto la filosofia, sono ormai cultura.
In Herder è esplicita la rivendicazione antropologica del concetto di cultura contro il suo uso riduttivo ed esclusivo da parte dei filosofi del tempo. La sua concezione di cultura apre ormai la strada a prospettive di lavoro in cui l'etnografia assume un peso rilevante. Le sue Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit si collocano in un filone di studi relativi alla storia dell'umanità in cui indubbie ambizioni generalizzanti si mescolano a "una quantità di fatti concreti" (v. Kluckhohn e Kroeber, 1952; tr. it., p. 35), e in cui la "filosofia della storia" (secondo un'espressione creata qualche decennio prima da Voltaire), viene sottoposta a un intenso 'attraversamento' etnografico. In queste ricerche storiche, etnografiche e filosofiche di K. F. von Irving, di J. C. Adelung, di C. Meiners, di D. Jenisch, oltre che di Herder, ricorre con significativa frequenza il concetto di 'cultura dell'umanità' (Kultur der Menschheit), il quale, proprio per i suoi contenuti fatti di utensili e di costumi e per i suoi confini coincidenti ormai con quelli dell'umanità intera, non poteva non configurarsi come divergente, alternativo, se non contrastante, rispetto al concetto di 'cultura della ragione' o dello 'spirito', a cui ricorrevano un Kant o un Hegel.Non dunque dalle correnti centrali della filosofia, bensì dalle zone filosoficamente marginali del pensiero tedesco vediamo emergere questo concetto etnografico di cultura, il quale verrà poi fatto proprio dagli sviluppi successivi delle scienze sociali. Questo concetto assume infatti un ruolo determinante nell'etnografo Gustav Klemm, la cui opera in dieci volumi, Allgemeine Culturgeschichte der Menschheit, si apre con la tesi secondo cui la cultura costituisce "ciò che vi è di essenziale nella storia" (v. Klemm, 1843-1852, vol. I, p. 18).
Del resto, questo concetto non più esclusivo e 'parziale', come quello della tradizione classica, umanistica e filosofica, bensì 'totale' (v. Rossi, 1970, pp. X-XI), in grado cioè di abbracciare un insieme complesso di manifestazioni dello spirito umano, compare pochissimi anni dopo (1860) nel titolo di un'importante opera storiografica, Die Kultur der Renaissance in Italien di Jacob Burckhardt, e si ritroverà frequentemente in Friedrich Nietzsche.La delineazione delle vicende che hanno condotto alla fruizione e valorizzazione di questo concetto da parte delle scienze sociali richiede tuttavia che ci si sposti dalla Germania all'Inghilterra, avvertendo che non si tratta di un salto, ma di un legame diretto. L'inglese Edward B. Tylor, al quale dobbiamo indubbiamente la prima definizione organica di cultura in senso antropologico, conosceva infatti e apprezzava l'immane lavoro etnografico di Klemm, di cui condivideva del resto la tesi della centralità della cultura nella storia. Secondo la ricostruzione di Kluckhohn e Kroeber, ciò che Tylor avrebbe aggiunto, rispetto a Klemm, è quasi semplicemente una definizione più esplicita e sintetica; ma essa rappresenta il punto terminale di un'elaborazione concettuale forse rallentata dalla massa di fatti concreti a cui il concetto veniva fatto aderire e, nello stesso tempo, il punto iniziale di un'analisi il cui obiettivo sono i fattori, le articolazioni, il senso della stessa cultura. È dunque inevitabile concludere queste vicende concettuali con la definizione con cui Tylor inizia Primitive culture: "La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società" (v. Tylor, 1871; tr. it., p. 7). In sintesi, e alla luce delle considerazioni precedenti, sarà facile notare nella definizione tyloriana quantomeno i punti seguenti: a) l'imprescindibilità della dimensione etnografica, la quale dilata i confini della nozione di cultura fino a renderla coestensiva con quella di umanità; b) l'idea che la cultura sia un 'insieme' che ingloba diverse attività (e non soltanto quelle più propriamente razionali e intellettuali, privilegiate dalle definizioni di tipo filosofico); c) il carattere acquisito, non geneticamente trasmesso, di questo insieme e delle attività che lo compongono; d) la connessione del concetto di cultura con quello di società nel senso che l'acquisizione della cultura avviene per il fatto stesso di far parte di un gruppo sociale.
Le origini etnografiche del concetto di cultura hanno indubbiamente determinato alcune conseguenze, di cui due possono essere subito esplicitate. In primo luogo, il compito dell'elaborazione e del raffinamento di questo concetto è stato assunto da quella tra le scienze sociali che ha individuato nelle esperienze etnografiche il campo peculiare delle proprie ricerche, ossia l'antropologia culturale. Anche la sociologia e la psicologia sociale hanno contribuito in diversi momenti del loro sviluppo - e specialmente nelle fasi di più intensa teorizzazione (come è il caso, per esempio, di Talcott Parsons) - alla definizione o alla specificazione di questo concetto: ma né la sociologia né la psicologia sociale, e tanto meno l'economia o il diritto, hanno offerto un contributo teorico decisivo quale quello dell'antropologia culturale. Anche quando il concetto di cultura viene impiegato nei contesti teorici o empirici delle altre scienze sociali, esso risente delle formulazioni ricevute dall'antropologia culturale, e non pare che siano particolarmente rilevanti le correzioni a cui viene sottoposto da parte delle altre discipline, se non nel senso di una restrizione del suo campo di applicabilità.La seconda conseguenza riguarda i contenuti del concetto di cultura. Le origini etnografiche di questo concetto hanno infatti portato a individuare come contenuti della cultura soprattutto i costumi, ovvero quegli aspetti o dimensioni del comportamento umano che sono sì dotati di regolarità - nel senso almeno della ripetibilità -, ma di una regolarità variabile, nel senso che è tipico dei costumi variare da luogo a luogo e da tempo a tempo, ossia tra società e società e, all'interno di una stessa società, tra i momenti diversi della sua storia. Significativamente, nella definizione tyloriana citata nel cap. 1 troviamo in posizione centrale e critica proprio la nozione di costume ed è questa nozione, insieme a quella strettamente imparentata di 'abitudine', ciò che, dal punto di vista dei contenuti, costituisce l'innovazione semantica più decisiva rispetto al concetto tradizionale e classico di cultura. Abitudini e costumi si possono etnograficamente rilevare anche nelle altre società, per quanto primitive esse siano o possano apparire.
Ma se costumi e abitudini hanno determinato il contenuto del concetto etnografico e antropologico di cultura, questo contenitore ha a sua volta modificato i propri contenuti. Considerati privi di cultura, costumi e abitudini - specialmente quelli degli altri - sono sempre apparsi strani, bizzarri, senza un fondamento esplicitamente riconoscibile, che non fosse quello ovvio della ripetitività. Al di fuori della cultura, costumi e abitudini hanno costituito a lungo una selva disordinata e senza senso, dominata o da una variabilità selvaggia e disorientante o da una regolarità ottusa e cieca. L'aver dato a questi contenuti la forma della cultura ha significato il riconoscimento, almeno preliminare e ipotetico, dell'esistenza di un senso, di un ordine, di un fondamento, alla luce dei quali si dovrebbe considerare tanto la variabilità quanto la regolarità di costumi e abitudini.Questo avvicinamento e questa fusione tra il concetto di cultura e il concetto di costume-abitudine hanno prodotto un inglobamento dei costumi nella cultura. Una volta accettato e diffuso il concetto antropologico di cultura nelle scienze sociali, la nozione di costume ha perso immediatamente terreno e si è in gran parte eclissata: da diversi decenni non si impiega più - se non quasi per un vezzo antiquario - l'espressione 'usi e costumi', soppiantata dal ricorso al concetto di cultura. 'Usi e costumi' è un'espressione che tradisce un intento descrittivo e classificatorio, mentre l'impiego della nozione di cultura significa indubbiamente un punto di vista più profondo, un progetto volto a cogliere il senso e il fondamento di usi e costumi.
Non v'è dubbio che, ponendo a confronto 'usi e costumi' e 'cultura', i primi rappresentano per così dire la facciata esterna, mentre la seconda si riferisce a elementi strutturali o a momenti processuali costitutivi e interni. Eppure questo assorbimento-sparizione dei costumi nella cultura ha prodotto una modificazione nello stesso concetto di cultura. L'aver inglobato i costumi come propri contenuti ha fatto sì che la cultura si appropriasse inevitabilmente di certe loro caratteristiche. Se il concetto di cultura elaborato dall'antropologia e utilizzato dalle altre scienze sociali è relativo a una cultura fatta di costumi, ciò comporta un condizionamento reciproco, ovvero un passaggio di caratteristiche in entrambe le direzioni: e se la cultura offre ai costumi il senso dell'ordine e della forma, i costumi danno in cambio alla cultura un insopprimibile significato di esteriorità. Anche la cultura, nella sua accezione originariamente etnografica e poi antropologica, è qualcosa che, proprio per la sua variabilità, l'uomo indossa. Vi è una convergenza assai curiosa tra certi significati originari del termine 'cultura' e termini imparentati quali 'costume', 'abito', 'abitudine', ossia la ricorrenza del tratto 'abbigliamento': esso è infatti già presente nel latino colere, oltre che in cultus e cultura, così come è presente in habitus (da cui 'abito' e 'abitudine') e nelle varianti linguistiche europee di 'costume', per riemergere nella stessa nozione di 'modello', con cui di solito si designa l'incidenza della cultura nel comportamento (come nell'espressione 'modelli di comportamento') o l'aspetto più formale, generale, ma anche essenziale della cultura (come nell'espressione altrettanto diffusa di 'modelli di cultura').
Questa presenza costante e riemergente del tratto 'abbigliamento' nelle espressioni che ruotano attorno al concetto di cultura richiederebbe certamente un'indagine circostanziata; ma qui ci si può accontentare di utilizzarla come uno spunto o un indizio per porre a fuoco il problema dell'esteriorità. In questa prospettiva sarà sufficiente ricordare quante società umane intravedano nell'abbigliamento uno dei fattori decisivi di differenziazione culturale - rispetto sia agli animali, sia agli altri esseri umani -, per cui l'attenzione che tutte le società umane prestano all'abbigliamento, ben al di là delle sue funzioni di protezione dall'ambiente, risulta essere una riprova inequivocabile del nesso che viene simbolicamente stabilito tra abbigliamento e cultura.Al fine di illustrare il concetto antropologico di cultura Alfred L. Kroeber fa ricorso, nel saggio del 1917 The superorganic (v. Kroeber, 1952), a un esempio particolarmente significativo: si tratta del diverso modo di adattamento a un ambiente artico da parte di gruppi umani e di altri animali. Mentre tutti i mammiferi artici presentano un folto pelo, l'uomo copre il suo corpo con pellicce sottratte agli altri animali. Il processo di adattamento di questi ultimi ha interessato un numero molto elevato di generazioni, mentre l'adattamento umano è stato assai più rapido.
Questa differenza di velocità nei processi di adattamento si collega strettamente a un'altra differenza, ossia al fatto che le modificazioni nel caso degli altri mammiferi sono organiche, mentre nel caso dell'uomo lasciano inalterato il suo corpo. L'adattamento animale è più lento proprio in quanto coinvolge gli organismi, mentre la rapidità dell'adattamento culturale umano è consentita dalla circostanza per cui gli organismi rimangono esclusi dal processo. Vi è però un risvolto della medaglia, nel senso che, mentre le generazioni di mammiferi artici che si succedono nello stesso ambiente trattengono nei propri organismi e in quelli dei propri discendenti le forme di adattamento collaudate, i discendenti dell'Eschimese "nascono nudi e fisicamente inermi tanto quanto lui e il suo centesimo ascendente" (ibid.; tr. it., p. 46). Il coinvolgimento dell'organismo nei processi di adattamento è per un verso un vincolo frenante, ma per un altro verso è una garanzia di perpetuità. Puntare - come hanno fatto in buona parte gli esseri umani - su forme non organiche di adattamento ha certamente assicurato una maggiore rapidità, versatilità, mobilità e revocabilità delle forme di adattamento, ma ha pure significato un accontentarsi di forme prive di garanzia di autoperpetuazione. Il "nascere nudi e fisicamente inermi" è una condizione che si ripresenta invariabilmente negli esseri umani, sotto qualsiasi latitudine e in qualsiasi società, nonostante tutta la loro cultura.Il non coinvolgimento dell'organismo nei processi e nelle forme di adattamento culturale è la ragione del carattere di esteriorità della cultura.
Sotto questo profilo tutta la cultura appare come esterna. I gruppi umani che si sono adattati all'Artico fanno uso di abiti appropriati, ossia forme di adattamento che si possono aggiungere o togliere all'organismo; i mezzi di volo, mediante cui l'uomo ha acquisito una capacità di locomozione aerea, sono ovviamente anch'essi "esterni al nostro corpo", così come "i nostri mezzi di locomozione marina esulano dal nostro corredo naturale" (ibid.; tr. it., pp. 43 e 45). Le forme di adattamento culturale non comportano una trasformazione degli organismi; la loro sede è fuori degli organismi, giacché esse implicano una modificazione dell'ambiente esterno o meglio dei rapporti degli uomini con l'ambiente esterno. Fin dalle sue manifestazioni più rudimentali e primitive la cultura si configura come un insieme di forme e processi che si collocano tra gli organismi umani e il mondo esterno. Da questo punto di vista non soltanto le osservazioni di Kroeber, ma anche le analisi di André Leroi-Gourhan (v., 1964-1965) appaiono assai pertinenti. Tutti gli utensili, di cui gli esseri umani si sono avvalsi a cominciare dalle epoche più lontane, costituiscono un prolungamento verso l'esterno, anzi nell'esterno, al di là dei confini degli organismi, di potenzialità e facoltà sia fisiche che mentali: la pietra scheggiata, il bastone da scavo, il propulsore sono 'esteriorizzazioni' extraorganiche che aumentano di molto le possibilità dell'adattamento umano all'ambiente.
Sia Kroeber che Leroi-Gourhan non si limitano tuttavia a fornire esemplificazioni tecnologiche. Accanto alla tecnologia affiora inevitabilmente l'altro grande ambito della cultura umana, il linguaggio. Per Kroeber (v., 1952; tr. it., pp. 53-54) "il linguaggio è qualcosa di completamente acquisito e non ereditario, di completamente esterno e non interno, cioè un prodotto sociale e non il frutto di uno sviluppo organico". E per sottolineare il carattere esteriore del linguaggio - e quindi di tutta la cultura - Kroeber analizza l'exemplum fictum del neonato francese, il quale, nato in Francia da genitori e antenati francesi, acquisirà completamente la lingua cinese e non conoscerà una parola di francese, se trasportato in Cina subito dopo la nascita: la lingua francese o cinese - come qualsiasi altra lingua umana - non è inscritta nell'organismo di quell'individuo, mentre vi sono incisi i caratteri che renderanno i suoi occhi azzurri e i suoi capelli biondi. Da parte sua, Leroi-Gourhan nota come non solo la mano, ma anche la parola e l'attività simbolica conoscano un processo di esteriorizzazione, che si rende del tutto evidente con l'invenzione dei mitogrammi e dei vari sistemi di scrittura. In seguito all'esteriorizzazione della parola e dell'attività simbolica si determina pure l'esteriorizzazione del cervello e della memoria, processo questo che caratterizza soprattutto il nostro tipo di civiltà, fondato sull'impiego dell'elettronica. "Tutta l'evoluzione umana - afferma il paletnologo francese (v. Leroi-Gourhan, 1964-1965; tr. it., p. 277) - contribuisce a porre al di fuori dell'uomo ciò che, nel resto del mondo animale, corrisponde all'adattamento specifico. Il fatto materiale che colpisce di più è certo la 'liberazione' dell'utensile, ma in realtà il fatto fondamentale è la liberazione della parola e quella proprietà unica posseduta dall'uomo di collocare la propria memoria al di fuori di se stesso, nell'organismo sociale" (corsivi nostri).
Il linguaggio - la parte più schiettamente simbolica dell'universo culturale - è spesso considerato come la prova del carattere esteriore della cultura. E sono significative le convergenze che su questo punto si vengono a determinare. Così, per esempio, Georg W. F. Hegel (v., 1807; tr. it., vol. II, p. 60), il quale considera la cultura come estraniazione dello spirito, concepisce a sua volta il linguaggio come la 'forma' che questa estraniazione assume. In una prospettiva rovesciata rispetto a quella hegeliana, Karl Marx e Friedrich Engels riconoscono nel linguaggio la condizione materiale di cui la coscienza o lo spirito è "infetto" fin dall'inizio: non si può dare coscienza senza linguaggio, anzi "il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso"; proprio per questa coincidenza tra linguaggio e coscienza "la coscienza è [...] fin dall'inizio un prodotto sociale" (v. Marx ed Engels, 1845-1846; tr. it., pp. 2021). Il riconoscimento dell'esteriorità come dimensione essenziale della stessa coscienza individuale, la quale si forma nelle relazioni e negli scambi sociali, è un esito su cui torneremo più avanti e su cui concordano pensatori diversissimi tra loro, come Marx ed Engels da un lato ed Edward Sapir dall'altro. Per quest'ultimo "gli esseri umani non vivono soltanto nel mondo obiettivo, e neppure soltanto nel mondo dell'attività sociale comunemente intesa, ma si trovano in larga misura alla mercé di quella particolare lingua che è divenuta il mezzo di espressione della loro società" (v. Sapir, 1949; tr. it., p. 58). Questo trovarsi "alla mercé" è in effetti il punto di convergenza tra i molteplici sostenitori del carattere esteriore della cultura.
L'esteriorità della cultura può tuttavia essere concepita in una pluralità di modi e interpretata in una pluralità di prospettive. Per Kroeber il carattere esteriore della cultura si oppone al carattere interiore dell'istinto: se quest'ultimo è qualcosa di "'inciso internamente"', quasi fosse "un modello inalterabile [...], un modello indelebile e inestinguibile", in quanto prodotto dall'eredità organica, la cultura, in quanto tradizione, è qualcosa che "viene 'dato attraverso', passato di mano in mano dall'uno all'altro" e si risolve in "un messaggio" trasmesso di generazione in generazione (v. Kroeber, 1952; tr. it., p. 56).
Vi è estraneità per Kroeber tra la sostanza del messaggio e coloro che sono destinati a portarlo, proprio come vi è estraneità tra il messaggio contenuto in una lettera, ovvero il significato delle parole che la compongono, e la materia su cui queste sono scritte. La cultura come tradizione "è qualcosa di aggiunto agli organismi che la trasmettono, qualcosa di sovrapposto ed estraneo ad essi" (ibid., p. 57). La concezione dell'estraneità della cultura si coniuga in Kroeber con una visione stratigrafica della realtà umana: vi è prima di tutto l'uomo come "sostanza organica che può essere considerata in quanto tale", e vi è poi l'uomo come portatore di cultura; l'essere umano è perciò "anche una tavola su cui si può scrivere". Sul piano della realtà organica umana si deposita la realtà culturale; si tratta di due piani distinti, paralleli, sovrapposti e autonomi. L'esteriorità della cultura sta a significare esattamente questa autonomia, traduce la separazione dei due livelli, indica il 'salto' che vi è da un piano all'altro. In effetti, per Kroeber, prima l'evoluzione organica porta a compimento la sua opera - nel senso che produce la realtà organica che noi stessi siamo - e poi su questa s'innesta l'evoluzione culturale. L'esteriorità della cultura è, per Kroeber, non solo separazione di piani, ma anche distinzione di processi evolutivi. Nella prospettiva di Kroeber, la realtà organica degli uomini è rappresentata davvero da quegli esseri "nudi e fisicamente inermi" quali noi tutti siamo al momento della nascita, e la realtà culturale coincide significativamente con l'abbigliamento e il corredo tecnico e simbolico con cui ci si ripara, ci si protegge, si affrontano le più svariate situazioni ambientali, ci si adatta ai tipi più diversi di habitat. In questa prospettiva, la cultura è l'abito che l'uomo indossa per aggirarsi e abitare nel mondo.
Gli sviluppi più recenti relativi alla teoria della cultura hanno perlopiù mantenuto l'idea del suo carattere esteriore. Per Clifford Geertz la cultura è un insieme di "fonti estrinseche di informazione", nel senso che "si trovano all'esterno dei confini dell'organismo umano come tale" (v. Geertz, 1973; tr. it., p. 143), e per Roger Keesing gli stessi individui in quanto attori sociali percepiscono spesso la propria cultura come una realtà "esterna (e quindi come potenzialmente costrittiva e frustrante)" (v. Keesing, 1974, p. 88). Ma il mantenimento dell'esteriorità si coniuga in questi teorici con il rifiuto esplicito di una 'concezione stratigrafica' della cultura e della realtà umana. Se in Keesing troviamo la condanna netta dell'idea che si possano sollevare gli strati culturali per trovare al di sotto di essi l'"Uomo primigenio", la "natura umana nuda" (ibid., p. 74), in Geertz questo rifiuto appare compiutamente argomentato; ed è significativo che in questa argomentazione riemerga la metafora dell'abbigliamento. Si tratta infatti di valutare la consistenza e il peso degli 'abiti' (cultura) che gli uomini indossano per affrontare il mondo. Per diversi momenti della filosofia moderna occidentale - che Geertz vede rappresentati soprattutto dall'illuminismo - la natura umana, permanente e stabile, risulta nascosta da uno strato di 'costumi' che la ricoprono: l'obiettivo è di eliminare analiticamente lo strato dei costumi per scoprire ciò che l'uomo effettivamente è. Interpretata come coscienza, io, ragione, spirito, o come struttura di istinti e di passioni, questa natura si rivela nella sua 'purezza' e autenticità soltanto quando è liberata dall'impurità dei costumi. La natura umana, e quindi il senso più profondo dell'umanità, si concentra del tutto nelle sue strutture permanenti; sono queste la 'sostanza' pesante, l''essenza' inalterabile dell'umanità. Costumi, abitudini e usanze, confinati negli strati più superficiali, appaiono in questa prospettiva come stravaganze, la cui incidenza in una ricerca antropologica, diretta appunto all'essenza dell'umanità, si rivela quasi del tutto negativa: strati superficiali e leggeri, ovvero ostacoli o schermi che la sagacia del pensatore deve essere in grado di rimuovere. In questo contesto, se il concetto di cultura viene impiegato, esso è cultura animi, cultura della ragione o dello spirito.
L'elaborazione in ambito etnografico del concetto di cultura ha appesantito molto lo strato dei costumi: essi non sono più strani e bizzarri, non costituiscono più un "mucchio di spazzatura di svariate follie" (v. Tylor, 1871; tr. it., p. 27); il concetto antropologico di cultura conferisce loro senso, ordine, forma e quindi un peso considerevole nell'immagine globale della realtà umana. Gli 'abiti' o 'costumi' che l'uomo indossa grazie alla sua cultura hanno una loro ragion d'essere, che non è determinata - se non negativamente - dal suo sostrato organico e che non è nemmeno del tutto chiara ai loro portatori occasionali. Nella prospettiva primo-novecentesca di Kroeber il peso della natura umana viene equamente ripartito tra la sua componente o livello organico e la sua componente o livello culturale: gli abiti culturali non sono più stranezze senza senso, sono invece strumentali o funzionali e soprattutto sono forme, modelli. In questo stadio, l'impiego del concetto etnografico di cultura ha reso i costumi elementi ineliminabili di una corretta visione antropologica, consentendo di scorgere in essi l'ordine di modelli, il valore e il senso di forme. Ma questo concetto di cultura s'inserisce pur sempre in una visione 'stratigrafica'; anzi, la cultura designa un livello (il livello superiore) di quella complessa e composita realtà biosociale che è l'uomo. Nonostante il potente innesto della cultura, c'è dunque una certa continuità tra la visione stratigrafica del pensiero illuministico e quella dell'antropologia culturale del primo Novecento. Continuità e discontinuità, somiglianze e differenze tra queste due concezioni possono essere riassunte assai bene con le parole di Geertz (v., 1973; tr. it., p. 78): "All'immagine settecentesca dell'uomo come puro ragionatore, il quale appariva quando si spogliava dei suoi costumi culturali, l'antropologia del tardo Ottocento e del primo Novecento sostituì l'immagine dell'uomo come animale trasfigurato che appariva quando invece indossava questi costumi". Se i filosofi moderni hanno pensato l'uomo essenziale come 'uomo nudo', dotato naturalisticamente della sua ragione (oltre che dei suoi istinti e delle sue passioni), gli antropologi hanno invece ritenuto che la realtà più autentica e completa dell'uomo appaia quando egli indossa i suoi 'abiti' culturali. Il peso di questi abiti è ovviamente diverso nelle due prospettive, ma in un caso e nell'altro essi si depositano su strutture (razionali o organiche, e comunque naturali) che conservano la loro autonomia e la loro integrità.
Con gli sviluppi più recenti della teoria antropologica della cultura, il peso della natura umana (se ancora si può utilizzare questa espressione) si sposta invece decisamente sul versante dei costumi e delle abitudini. Si predica allora l'irreperibilità dell'uomo al di là delle sue usanze, l'impossibilità di scoprirlo nudo nella sua 'purezza' originaria e a-culturale. E questa impossibilità sarebbe dovuta non già a un difetto di strumentazione analitica, che impedisce agli antropologi di superare la foresta impenetrabile dei costumi, bensì a un presupposto che pretende di essere più fecondo e meno distorcente di quello stratigrafico. Secondo questo presupposto i costumi non nascondono di certo l'uomo, e nemmeno si limitano a completarne e a perfezionarne la figura, bensì foggiano direttamente quella variegata e strana realtà che sono gli uomini nelle loro differenze culturali. I costumi sono la realtà dell'uomo e, per dirla con Blaise Pascal, la sua vera "seconda natura": non al di là dei costumi, ma nei o tra i costumi va ricercata l'essenza dell'uomo. Appellarsi ai costumi e alle usanze per ricercare in essi il senso più profondo dell'umanità significa sì sottrarli alla superficializzazione e marginalizzazione prodotte dalla prospettiva stratigrafica tipica della filosofia moderna, ma comporta anche non obliare e non sottovalutare proprio la loro variabilità. "Coltivare l'idea che la diversità di usanze nello spazio e nel tempo non è solo questione di vesti e di apparenza, di scenari e di maschere, vuol dire credere che l'umanità è tanto varia nella sua essenza quanto lo è nella sua espressione" (v. Geertz, 1973; tr. it., p. 77).
Con questi sviluppi teorici più recenti i costumi acquisiscono il peso maggiore nella configurazione della realtà umana; in tal modo l'essenza 'uomo' viene separata dal principio dell'unità e della stabilità e considerata compatibile, anzi consustanziale, con la variabilità. L'essere dell'uomo non è una struttura che si ritrova intatta in ogni tempo e luogo; esso coincide invece con la pluralità delle forme particolari e locali mediante cui inevitabilmente gli esseri umani di volta in volta si realizzano.In questa prospettiva i costumi, gli abiti, la cultura conservano pur sempre il carattere dell'esteriorità; ma ciò che è al di qua dell'esteriorità - ovvero le strutture supposte pure e autentiche - perde la sua autonomia, a tutto vantaggio dell'esteriorità extraorganica, la quale prende in carico il senso e il peso dell'umanità. L'esteriorità della cultura non è però segno o prodotto della superficialità dei costumi. Il permanere del carattere dell'esteriorità della cultura nelle diverse formulazioni e prospettive è indice invece dell'importanza che la stessa esteriorità viene ad assumere. Proprio nel momento in cui l'essenza dell'uomo si allontana dal principio dell'unità e della stabilità (a tal punto che risulta ormai difficile parlare di 'essenza'), l'esteriorità dei costumi perde il senso della superficialità. Nella più pronunciata prospettiva culturale esteriorità non comporta necessariamente superficialità, perché nell'esteriorità extrasomatica, nello spazio extraorganico (o interorganico) si sviluppano processi e si realizzano forme che non si limitano - come riteneva Kroeber - ad aggiungersi ai processi e alle forme organiche.
Se l'esteriorità culturale - con la sua estesa variabilità di costumi - concentra il senso dell'umanità, ciò significa che il centro di gravità dell'essere umano è esattamente in questa esteriorità. In questo spazio variegato ed esterno si decide ciò che l'uomo è, o meglio ciò che gli uomini sono, o più precisamente ancora ciò che gli uomini di volta in volta divengono. L'esteriorità superficiale dei costumi, marginale rispetto alle strutture interne, pure e permanenti, si è trasformata dapprima in uno strato di esteriorità consistente, tanto da pareggiare il peso della componente organica, per poi risultare l'elemento preponderante della realtà umana. Questi passaggi e queste trasformazioni sono la dimostrazione della diversa incidenza che il concetto di cultura ha acquisito in vari momenti dello sviluppo del pensiero e delle scienze sociali, ma sono anche la riprova che l'incidenza è tanto maggiore quanto più viene richiamata e valorizzata la sua componente o origine etnografica, vale a dire l'attenzione per i costumi.L'accrescimento e l'espansione della cultura al di là dei confini con l'organico sono in primo luogo dovuti allo smantellamento della visione stratigrafica. Entrambe queste operazioni trovano in Clifford Geertz un attivo sostenitore e un efficace interprete; ma le condizioni che le rendono possibili vanno rintracciate in alcune scoperte che a partire dagli anni venti sono state compiute in ambito paleoantropologico. Con l'Australopithecus africanus (la prima scoperta risale al 1924 in Sudafrica ed è dovuta a Raymond Dart) e con lo Zinjanthropus della gola di Olduvai (scoperto nel 1959, in Tanzania, da L.S.B. Leakey) ci si è resi sempre più conto che gli ominidi, antenati dell'Homo sapiens, disponevano di una qualche forma di cultura, nonostante che il loro cervello fosse, come capacità volumetrica, un terzo di quello dell'uomo attuale. La conclusione del profondo ripensamento indotto dalle scoperte paleoantropologiche è stata chiaramente espressa dall'antropologo fisico Sherwood Washburn, secondo cui "è probabilmente più corretto considerare gran parte della nostra struttura fisica come il risultato della cultura, anziché pensare a uomini anatomicamente simili a noi, i quali piano piano scoprirebbero la cultura" (v. Wash- burn, 1959, p. 21).
Insomma, la cultura appare sì come qualcosa di esterno rispetto agli organismi individuali, ma essa interviene ben prima che l'evoluzione organica produca l'uomo quale esso è attualmente. Più ancora dell'antropologia culturale, è stata la paleoantropologia a porre in crisi i rapporti di successione lineare tra l'evoluzione organica e l'evoluzione culturale e quindi a scompaginare l'ordine gerarchico tra i rispettivi livelli. Come non è più pensabile che l'evoluzione culturale prenda piede soltanto dopo che l'evoluzione organica ha prodotto l'uomo attuale, sia pure nudo e fisicamente inerme - come sosteneva Kroeber -, così non è più accettabile uno schema di sovrapposizione di piani paralleli costituenti la realtà umana (livello organico e livello culturale). Il rifiuto dell'ordine temporale e diacronico costituito da un 'prima' (evoluzione organica) e da un 'dopo' (evoluzione culturale) comporta pure il rifiuto dell'ordine gerarchico e sincronico di un 'sotto' (base organica) e di un 'sopra' (sovrastruttura culturale). Non si tratta di ribaltare con gesto meccanico l'ordine delle fasi in successione o la gerarchia dei livelli; si tratta invece di concepire i rapporti tra le due componenti in modo meno semplicistico e secondo un'interazione assai più profonda, tale per cui - almeno nel caso dell'uomo - la cultura non interviene a cose fatte sul piano organico, bensì si innesta direttamente nell'evoluzione organica quale sua componente imprescindibile.V'è da dubitare che solo per caso le riflessioni di Geertz circa l'incidenza più profonda della cultura si svolgano negli stessi primi anni sessanta in cui Leroi-Gourhan pubblica Le geste et la parole.
Non vi sono tra i due autori riconoscimenti reciproci, ma per entrambi è importante lo sfondo delle scoperte paleoantropologiche ed entrambi giungono, su alcuni punti centrali, a conclusioni assai simili. Uno di questi punti è il ruolo del cervello nell'evoluzione biologica e culturale dell'uomo. Secondo una tipica visione stratigrafica e di successione lineare, si è spesso indotti ad attribuire al cervello una posizione prioritaria e una funzione trainante, o addirittura creativa, rispetto alla formazione della cultura (prima il cervello umano perfettamente abilitato e poi la produzione della cultura). Leroi-Gourhan scombina questo schema ponendo il cervello nelle ultime posizioni dello sviluppo organico, anziché nelle prime. Se infatti per Leroi-Gourhan (v., 1964-1965; tr. it., p. 57) è quasi inevitabile scorgere nell'evoluzione dell'uomo "il trionfo del cervello", è d'altronde impossibile non attribuire al cervello la posizione dell'ultimo arrivato: da un punto di vista strettamente anatomico, valutando sia l'espansione cerebrale che le modificazioni spaziali dello scheletro, "non si può fare a meno di ritenere che il cervello 'segua' il movimento generale, ma non ne sia l'istigatore" (ibid., p. 96). Il rifiuto da parte di Leroi-Gourhan di privilegiare il punto di vista cerebrale nella considerazione dell'evoluzione umana consente di rimettere l'uomo sui propri piedi in un senso molto meno metaforico e assai più fisico di quanto non fosse previsto dalla formula marxiana. "Eravamo disposti ad ammettere qualsiasi cosa - egli afferma in seguito all'analisi degli Australantropi - ma non di essere stati cominciati dai piedi" (p. 78).
Dall'inizio della stazione eretta allo sviluppo attuale della massa cerebrale umana si estende un lunghissimo periodo di alcuni milioni di anni, durante i quali gli antenati dell'Homo sapiens sfruttano le mani, che la stazione eretta rende totalmente libere dalla funzione locomotoria, per la costruzione di utensili. In questo lunghissimo periodo si collocano non soltanto quelle forme di esteriorizzazione della mano che sono gli utensili, bensì anche l'esteriorizzazione della capacità simbolica che è il linguaggio. Anche il linguaggio viene ricondotto, sia pure indirettamente, alla stazione eretta; se tale posizione ha infatti liberato completamente la mano dalla funzione locomotoria, la mano a sua volta ha liberato gli organi facciali dall'attività di prensione, rendendoli disponibili per la formazione e l'uso della parola. Leroi-Gourhan cita a questo proposito Gregorio di Nissa: "Se il corpo non avesse le mani, in che modo si formerebbe in lui la voce articolata?" (p. 44). Ma non vi è soltanto un nesso meccanico; vi è pure una connessione neurologica tra l'attività manuale e quella verbale. Anche in un cervello di dimensioni inferiori a quelle attuali "si può benissimo supporre la presenza delle aree di associazione verbale e gestuale" (p. 106). Secondo Leroi-Gourhan, fabbricazione di utensili e fabbricazione di simboli possono essere concepite come operazioni che si sono originate nello stesso periodo: "Esiste la possibilità di un linguaggio - egli afferma (p. 136) - a partire dal momento in cui la preistoria ci tramanda degli utensili, perché utensile e linguaggio sono collegati neurologicamente e perché l'uno non è dissociabile dall'altro nella struttura sociale dell'umanità".
Si è già avvisato che non si tratta affatto di ribaltare delle fasi in successione; si tratta invece di riconoscere un'interazione più profonda e complessa di quanto lo schema stratigrafico sia in grado di lasciare scorgere. Così, in seguito alle analisi di Leroi-Gourhan, non si tratta affatto di far intervenire il cervello soltanto alla fine del processo; si tratta invece di riconoscere che l'impressionante sviluppo cerebrale che caratterizza l'evoluzione umana (da 500 a 1.500 centimetri cubi in un arco di pochi milioni di anni) è avvenuto in un ambiente già culturale. È ovvio che quella cultura - utensili e parole - è il prodotto di un cervello; ma il modello d'interazione profonda tra la componente organica e quella culturale suggerisce che anche il cervello sia a sua volta prodotto di quella cultura. Si tratta infatti qui di decidere se quella cultura fosse non più che utile agli organismi che la producevano o fosse invece indispensabile. Il modello interattivo sostiene che quella cultura era semplicemente vitale; essa non era certo un lusso o un abbellimento, un'appendice o un'esteriorizzazione di cui si sarebbe potuto fare a meno; essa era una "vera e propria secrezione del corpo e del cervello degli antropiani" - come afferma Leroi-Gourhan (p. 109) -, ma questa secrezione era vitale e indispensabile per tutti quegli esseri (organi e organismi) che la producevano.Come abbiamo già anticipato, Clifford Geertz si incarica di chiarire questo punto. Scartando l'ipotesi kroeberiana dell'origine della cultura come coincidente con un 'punto critico', nonché l'idea del passaggio dal livello organico a quello culturale come se fosse un 'salto', egli sottolinea che "ci fu una sovrapposizione di forse più di un milione di anni tra l'inizio della cultura e la comparsa dell'uomo come lo conosciamo oggi" (v. Geertz, 1973; tr. it., p. 89). Questo dato cronologico inconfutabile (e persino dilatabile in seguito alle scoperte più recenti) induce a scartare qualsiasi concezione che applichi l'etichetta 'uomo' a un determinato momento dell'evoluzione organica prima, senza o comunque a prescindere dalla componente culturale. Quest'ultima ha infatti profondamente caratterizzato l'ambiente entro il quale si è svolta la maggior parte di quella stessa evoluzione organica che ha prodotto l'uomo attuale e che, ovviamente, continua a modificarlo.
Per una specie fisicamente inerme e scarsamente specializzata sul piano organico, qual è l'uomo, si è molto facilmente indotti a ritenere che la cultura sia stata qualcosa di estremamente utile. Per un ominide dotato di stazione eretta, in grado di perlustrare e di percorrere una savana con una certa facilità, il cui organismo tuttavia era privo di armi di offesa e di difesa (zanne, artigli, fauci, ecc.), la capacità di costruire utensili fu indubbiamente un grosso vantaggio evolutivo. Il prolungamento extraorganico della mano ha consentito certamente una manipolazione e un controllo ambientali più vasti e, nello stesso tempo, più versatili. In effetti, allorché si sostiene l'incidenza della cultura nello sviluppo dell'umanità, si è portati a pensare in primo luogo, e giustamente, agli utensili e in genere alla cultura materiale, senza la quale gli antenati dell'uomo avrebbero stentato molto a garantirsi un efficace adattamento all'ambiente. Ma la teoria culturale a cui ci si riferisce in questo capitolo ritiene che l'incidenza della cultura sia ben più profonda di quanto possano farci presagire l'idea di utilità e la testimonianza degli utensili preistorici. Con lo smantellamento della visione stratigrafica, il modello interattivo concepisce l'incidenza della cultura non in termini di utilità per un animale indifeso, bensì di indispensabilità per un essere la cui formazione e il cui sviluppo dipendono sempre più dalla sua esteriorizzazione culturale. In questa prospettiva la cultura non si limita a fornire comodità, ad agevolare l'adattamento, a prestare a organismi indifesi strumenti che rendano più sicura e confortevole la loro sopravvivenza; la cultura viene rappresentata invece come un elemento indispensabile per la loro stessa vita, proprio come lo è l'acqua per i pesci o l'aria per gli animali che dispongono di polmoni. Che ne sarebbe di questi esseri, se togliessimo l'acqua o l'aria? In diverse occasioni gli antropologi hanno provato a pensare che cosa succederebbe a degli esseri umani se si togliesse loro la cultura. Si tratta ovviamente di una sorta di esperimento intellettuale, il cui scopo sarebbe quello di verificare la natura, e quindi l'incidenza, della cultura.
Privati della cultura, gli uomini non sarebbero semplicemente animali che incontrerebbero maggiori difficoltà nel loro adattamento all'ambiente, bensì - per Geertz (v., 1973; tr. it., p. 91) - "sarebbero inguaribili mostruosità con pochissimi istinti utili, ancor meno sentimenti riconoscibili e nessun intelletto: casi mentali disperati". Il funzionamento del nostro cervello è inconcepibile in un vuoto culturale, esattamente come quello dei polmoni in un ambiente privo di aria. Il modello interattivo non soltanto ritiene che il nostro sistema nervoso centrale - e specialmente la neocorteccia - sia "cresciuto in gran parte in interazione con la cultura", ma da ciò trae una grave conseguenza, ossia l'incapacità del nostro apparato nervoso e cerebrale a dirigere il nostro comportamento e a organizzare la nostra esperienza "senza la guida fornita dal sistema di simboli significanti", in cui - per Geertz - consiste propriamente la cultura. La cultura non è un aiuto; è la base della stessa sopravvivenza biologica dell'uomo.
Chi limita l'incidenza della cultura a un semplice aiuto per la sopravvivenza dell'organismo umano è portato a concepirla altrettanto limitatamente come cultura materiale: l'aiuto della cultura coinciderebbe perlopiù o innanzitutto con l'apparato della strumentazione materiale mediante cui gli esseri umani perfezionano, completano o potenziano i propri organi. Il modello interattivo, sostenendo un'incidenza ben maggiore (non semplice aiuto strumentale, bensì imprescindibilità biologica), intende la cultura non soltanto come strumentalità, ma anche, e forse soprattutto, come simbolismo: la cultura incide nella vita dell'uomo e si configura come 'prerequisito' della sua esistenza biologica, psicologica e sociale (Geertz) in virtù non soltanto dell'apparato tecnologico che sa fornire, ma anche della sostanza simbolica di cui è composta. Il simbolismo della cultura non ha affatto un carattere esornativo, né è un'escrescenza che - sorta chissà come e perché - finirebbe per disturbare il funzionamento dell'apparato strumentale e tecnologico; esso è invece la qualità più precipua dell'ambiente in cui gli esseri umani e il loro cervello si sono formati e continuano a svilupparsi. Beninteso, nello stesso modo in cui si è rifiutata l'idea della cultura come prodotto aggiuntivo di esseri umani già formati dall'evoluzione organica, così è da scartare l'alternativa opposta, secondo cui la cultura con le sue forme sussisterebbe già prima dell'evoluzione dei suoi portatori. Il modello interattivo sottolinea fortemente il carattere della cultura come ambiente vitale degli esseri umani, ma proprio in base al presupposto dell'interazione ritiene altresì che questo ambiente impregnato di simbolismo sia a sua volta il prodotto, per molti aspetti inconsapevole, degli organismi umani. Vi è insomma una circolarità di retroazione tra cultura e organismo umano (considerato specialmente nella sua componente neurologica e cerebrale), e il simbolismo pare rendere l'incisività della cultura più profonda e l'interazione assai più estesa e coinvolgente di quanto non risulti dal mero apparato tecnologico.
Perché l'interazione organismo/cultura non si limita al livello più superficiale ed esterno della tecnologia ed esige, per contro, quella maggiore incisività e profondità dovute al simbolismo? Secondo una delle tesi più significative di questo modello d'interazione, vi è stato tra l'inizio della cultura, che poi sarebbe diventata umana, e la comparsa dell'uomo attuale un passaggio lento ma deciso (una sorta di deriva biologica) da forme di controllo del comportamento umano prevalentemente genetiche a forme di controllo prevalentemente culturali. Puntare sull'esteriorizzazione culturale per garantire meglio la sopravvivenza biologica di quegli esseri che avrebbero dato luogo all'umanità ha significato privilegiare in misura sempre maggiore la versatilità, la flessibilità e la mutabilità delle forme di controllo culturale rispetto alla maggiore rigidità e inesorabilità di quelle genetiche. È presumibile che il processo d'interazione abbia avuto effetti cumulativi sempre più rilevanti; ma, comunque si sia originato ed evoluto, è indubbio che l'intervento della dimensione simbolica - rappresentata innanzitutto dal linguaggio - abbia costituito una fase decisiva di non ritorno. Secondo Geertz questo processo può essere descritto come un "crescente affidamento a sistemi di simboli significanti" per il controllo del comportamento umano (v. Geertz, 1973; tr. it., p. 90) e quindi come una sempre minor presa del controllo genetico. Affidarsi sempre più alla cultura e sempre meno (pur entro certi limiti) alla base genetica per orientare gli esseri umani nel mondo ha comportato - condizione ed effetto nello stesso tempo - uno iato "tra quello che ci dice il nostro corpo" (le informazioni genetiche inadeguate perché troppo generiche) e "quello che dobbiamo sapere per funzionare": si tratta di "un vuoto che dobbiamo riempire noi stessi, e lo riempiamo con le informazioni (o disinformazioni) fornite dalla nostra cultura" (ibid., p. 92). E queste informazioni culturali, di cui l'uomo ha immensamente bisogno per vivere e sopravvivere, sono contenute, conservate, trasmesse e rinnovate dalla sostanza simbolica della cultura. Definire il simbolismo può rivelarsi un'impresa disperata, specialmente se il tentativo viene compiuto in base a un presupposto, implicito o esplicito, di autonomia delle forme simboliche.
Ma concepire la sostanza della cultura in termini di simbolismo non comporta necessariamente un'autonomizzazione della dimensione simbolica. Il modello interattivo evocato più volte nelle pagine precedenti svela qui un aspetto che è stato finora tenuto in ombra soltanto per motivi di organizzazione del discorso. Questo modello - si è visto - comporta il rifiuto dell'idea dell'uomo come essere naturale che acquisisce, o produce, in un secondo tempo la cultura, il rifiuto quindi - nella realtà umana - della separazione natura/cultura. Questo modello implica pure il rifiuto della separazione individuo/società quali entità autonome. Come non vi è un uomo naturale che poi inventa, scopre o produce la cultura, così non vi è neppure l'individuo che, formatosi per conto proprio, entra successivamente nella società. Le due concezioni che s'intendono rifiutare si corrispondono piuttosto bene: all'essere naturale e preculturale fa riscontro l'individuo presociale e dunque naturale. Ma non si tratta soltanto di analogie e di corrispondenze formali, per cui il rifiuto di una concezione evoca il rifiuto dell'altra, giacché l'interazione organismo/cultura è resa possibile dal tessuto sociale, così come il contesto sociale richiede l'uso di simboli per la comunicazione. In altri termini, l'interazione organismo/cultura implica l'interazione sociale, lo scambio di azioni, informazioni, prodotti. Ed è nel contesto sociale che si formano tanto i simboli quanto gli individui che li usano. Il comportamento culturale dell'uomo appare sempre mediato dall'uso di simboli; e proprio per questo occorre pensare la capacità simbolica come un fatto originario della cultura umana. Ma "dato che il simbolismo è un sistema condiviso di accordi o di vincoli culturali, pure il comportamento sociale deve essere invocato per spiegare come e perché gli esseri umani siano culturali" (v. Rindos, 1986, p. 316). Il simbolismo rinvia alla società, giacché esso consiste in una condivisione di accordi, convenzioni, limiti, presupposti, associazioni e distinzioni, e perché esso affiora come prodotto e come condizione nello stesso tempo degli scambi o interazioni di cui è fatta la vita sociale.
Strettamente coniugati, simbolismo e vita sociale vanno a collocarsi alle origini più profonde della cultura umana e - come Leroi-Gourhan aveva già sostenuto - impediscono di pensare a uno sviluppo culturale scandito da una fase prioritaria, tutta dominata dalla cultura materiale, dagli indeperibili strumenti litici e da preoccupazioni di adattamento a un ambiente puramente naturale, e da una fase secondaria e successiva, in cui, allentatasi la pressione dei problemi materiali, si sarebbe stati liberi di dar luogo alla produzione simbolica. Per usare ancora le parole di Rindos (ibid., p. 326), "la struttura simbolica esistente nella cultura non è una mera appendice alle capacità di sopravvivenza acquisite evolutivamente dall'uomo, bensì una delle modalità mediante cui gli uomini sopravvivono".
Riconoscere la dimensione originariamente simbolica della cultura non costituisce una rivincita postuma dell'idealismo (l'"idealismo culturale" paventato e contrastato da Marvin Harris: v., 1979; tr. it., cap. 9); è invece, piuttosto, una sfida da raccogliere e un problema da dipanare proprio da parte di chi attribuisce alla cultura un insopprimibile significato di sopravvivenza biologica. Può essere interessante ripercorrere, in questa prospettiva, l'analisi che Bronislaw Malinowski aveva proposto negli anni trenta, proprio perché con la sua teoria dei bisogni aveva fortemente sottolineato la funzione biologica della cultura. Per Malinowski (v., 1931) la cultura è tenuta in primo luogo a rispondere ai bisogni biologici; anzi, essa coincide con la risposta a questi bisogni. Rispondere in modo soddisfacente ai bisogni primari è per Malinowski la condizione di esistenza, di riproducibilità e di intelligibilità della cultura. Ma per quanto definibili possano essere i bisogni primari - vale a dire i bisogni che l'uomo condivide con gli altri esseri animali (la nutrizione, la procreazione, la regolazione termica dell'organismo e così via) -, le possibilità di risposta a questi bisogni sono molteplici. Se i bisogni sono indubbiamente fonte di uniformità nella vita umana, così come in quella animale, le risposte nel mondo umano sono invece caratterizzate da una fondamentale variabilità, giacché per Malinowski non vi è una connessione automatica tra il bisogno e la sua soddisfazione. La cultura sopperisce a questa carenza di automatismo (e forse anche la provoca e comunque la incrementa) non tanto con il suo apparato materiale, quanto piuttosto con lo sviluppo delle capacità simboliche e sociali. Il simbolismo culturale - quale si manifesta soprattutto, anche se non esclusivamente, nel linguaggio - consiste nello stabilire connessioni e distinzioni, nell'organizzare l'esperienza sulla base di convenzioni, intese, accordi perlopiù taciti, vale a dire di presupposti condivisi. Se è vero che gli uomini non trovano già confezionate nel loro organismo le risposte in grado di soddisfare direttamente i loro bisogni, appare inevitabile che le risposte vengano forgiate, modellate e collaudate nello spazio extra- e inter-organico occupato dalla società, ovvero lo spazio delle azioni e dei simboli sociali.
Per quanto indispensabile, la stessa cultura materiale è di per sé inefficace ("Non è [...] una forza", afferma Malinowski: v., 1931; tr. it., p. 136), se non è inserita in un contesto di idee, di valori, di significati che la rendono attiva e operante. Ci procuriamo il cibo mediante un apparato strumentale che può essere più o meno complesso, ma persino un semplice bastone da scavo - tanto per seguire l'esemplificazione malinowskiana (ibid., p. 144) - è soltanto "apparentemente un'unità in sé conclusa"; in realtà esso implica nozioni e idee, quindi un sapere che concerne la sua natura e le sue funzioni, oltre che l'ambiente da cui viene tratto e in cui viene impiegato, e questo sapere implica a sua volta un mezzo simbolico mediante cui possa trovare forma, essere comunicato, appreso, trasmesso. Neppure in una semplice banda di raccoglitori la risposta al bisogno del nutrimento è meramente naturale; come in tutte le società umane, è una risposta culturale, cioè è organizzata simbolicamente.Si potrà obiettare che il bastone da scavo è un buon esempio per dimostrare una rilevante uniformità delle risposte umane al bisogno dell'alimentazione, almeno a certi livelli tecnologici; ma "ciò che è rilevante per lo studioso della cultura è la diversità della funzione, non l'identità della forma" (ibid.). La forma è muta, o perlomeno significa assai poco, se non la possibilità di collocare gli oggetti in una qualche teca museografica e classificatoria; la funzione invece rinvia a un contesto culturale e simbolico specifico nel quale gli oggetti sono effettivamente impiegati, risultando così definiti "dalle idee che a essi sono connesse e dai valori che li circondano" (ibid., p. 145).
In definitiva, è il simbolismo, inteso come contesto di simboli condivisi, ciò che determina il carattere sempre peculiare della cultura, ciò che la particolarizza in modo specifico e locale, giacché se è vero che il bastone da scavo come apparato strumentale e materiale per sopperire al bisogno dell'alimentazione si trova in numerose società di raccoglitori, il suo significato culturale - la sua 'funzione' specifica (per usare il termine malinowskiano) - è reperibile soltanto nei vari contesti simbolici e sociali in cui è utilizzato. La forma museografica del bastone può essere la stessa, o molto simile; ma il suo significato culturale è molto diverso, in quanto dipende dai simboli condivisi all'interno delle singole società, ovvero dagli accordi taciti, dalle convenzioni più o meno trasparenti, dai presupposti perlopiù impliciti mediante cui si formano i gruppi sociali. La condivisione dei simboli è in effetti la base della vita sociale, la condizione di possibilità degli scambi e delle azioni all'interno dei gruppi, la giustificazione più profonda della loro identità e quindi anche il motivo della loro differenziazione culturale rispetto ad altri gruppi sociali. Condividendo simboli si produce un 'noi' (non importa quanto esteso o ristretto esso sia) e nello stesso tempo si determinano le differenze tra noi e gli altri, tra il proprio 'noi' e quello degli altri.
Roger Keesing ha parlato di "magia dei simboli condivisi" (v., 1974, p. 88), intendendo con ciò alludere al fatto che i simboli condivisi in tanto agiscono come presupposti e come condizioni della vita sociale di un particolare gruppo, in quanto vengono scarsamente o nient'affatto esplicitati, resi oggetto di riflessione o di analisi: essi rimangono sullo sfondo, anzi sul fondo della coscienza sociale, e vengono perlopiù sottratti, per mezzo della routine della vita quotidiana, alla presa dell'atteggiamento critico. I simboli condivisi si trovano infatti nei costumi più inveterati, nelle consuetudini più ovvie, negli atteggiamenti in apparenza più naturali, a cui di solito non si presta - a cui da un certo punto di vista non si deve prestare - attenzione.Proprio per questo stare sullo sfondo, ignorati dalla luce della consapevolezza e protetti dall'erosione critica, i simboli condivisi esercitano la loro influenza sugli uomini, dirigendo e plasmando il loro modo di agire, di pensare, di sentire. Ben prima degli antropologi culturali, autori come Montaigne e Pascal hanno chiaramente individuato questo potere nascosto, che è lo stesso potere di cui parlano Marx ed Engels nell'Ideologia tedesca, un "potere così misterioso" proprio perché si trova fuori del raggio della coscienza e quindi del controllo degli individui, e ne è fuori in quanto è la condizione e il presupposto del loro comportamento. Ma i simboli condivisi non vivono soltanto nell'ombra della quotidianità, nelle azioni, nei pensieri e nei sentimenti in apparenza più banali (nelle norme dell'igiene e dell'etichetta, nei gusti dell'abbigliamento o nel senso dell'ordine). Essi vengono talvolta esaltati, trasfigurati, resi più potenti, allorché si conferisce loro una più esplicita realtà sovra-individuale, non solo proclamando la loro indipendenza, ma sottolineando con rituali e credenze la dipendenza degli uomini da queste entità.
La "magia dei simboli condivisi" è anche questo: la trasposizione di presupposti in entità che dominano esplicitamente la coscienza individuale, e alle quali ci si riferisce periodicamente per orientare le azioni proprie e altrui, per motivare le scelte morali della società, per determinare in qualche modo il futuro. Come ha suggerito Mary Douglas (v., 1970), vi possono essere in effetti connessioni profonde tra i più umili rituali della vita quotidiana, a cui gli esseri umani dimostrano di essere tenacemente attaccati, e le costruzioni religiose più raffinate e complesse, le quali insistono sul rapporto di dipendenza da entità sovra-umane, illustrandola e spiegandola mediante l'ordine del mondo e della storia. In un caso e nell'altro è la potenza dei simboli condivisi che agisce e viene esaltata: naturalizzati nel primo e sovra-umanizzati nel secondo, i simboli condivisi manifestano il loro potere nella misura in cui risultano intatti o sono considerati intoccabili.Questa sottrazione dei simboli condivisi alla presa della consapevolezza e alla manipolazione sociale fa parte di un processo più vasto variamente denominato come entificazione, sostanzializzazione, autonomizzazione, reificazione (v. Ceccarelli, 1978, p. 272, e 1982, p. 57), il quale consiste nel conferimento ai simboli di una condizione di realtà autonoma e indipendente. I rituali e le abitudini della vita quotidiana da un lato, le cerimonie e le credenze religiose dall'altro, rappresentano esiti particolarmente ben riusciti del processo di reificazione. Ma questo processo - assai ben rilevato a proposito del linguaggio (v. Ogden e Richards, 1923) - interessa buona parte del funzionamento della cultura in generale (v. Herskovits, 1948; tr. it., p. 307). Proprio per questo appare alquanto riduttiva l'idea che si tratti di 'superstizioni' relative alle parole, di un retaggio di oscure età primordiali da cui nemmeno il pensiero del XX secolo sarebbe del tutto in grado di liberarsi (v. Ogden e Richards, 1923; tr. it., pp. 52 ss.).
La tendenza alla reificazione - a trasformare in cose ritenute indipendenti e autonome i simboli di cui facciamo uso -, "in genere considerata una disfunzione del linguaggio" e della cultura, "è invece uno dei suoi caratteri fondamentali" (v. Ceccarelli, 1978, p. 271). La reificazione è infatti il processo che consente di consolidare i simboli condivisi e, salvaguardandoli per quanto si può dal flusso esperienziale del loro impiego, attribuendo loro un'esistenza a parte e stabile, consente pure di conferire loro il ruolo di presupposti e di condizioni della comunicazione e della vita sociale. I casi emblematici - a cui ci siamo riferiti prima - della naturalizzazione da una parte e della sovra-umanizzazione religiosa dall'altra pongono bene in luce il 'trucco' della reificazione: trasformare i simboli condivisi, dunque eminentemente sociali, in qualcosa che non ha a che fare con la società (qualcosa che precede la società, in quanto naturale, o qualcosa che va oltre la società, in quanto religioso); trasformare accordi e convenzioni sociali in realtà che si presume non possano e non debbano essere coinvolte dalle fluttuazioni e dai cambiamenti della vita sociale. Il trucco della reificazione dei simboli condivisi consiste quindi nella negazione del loro carattere sociale, nel tentativo di nascondere la loro origine sociale; ma è un trucco vitale per fornire presupposti al funzionamento della vita delle società e, al loro interno, alla sopravvivenza degli individui.
Se è legittimo ammettere l'esistenza del processo di reificazione in ogni lingua e in ogni cultura, in quanto fondamentale e costitutivo, è tuttavia concepibile che gli esiti del processo possano variare da cultura a cultura, e da settore a settore all'interno di ogni cultura, nel senso che la trama simbolica di cui ogni cultura è intessuta può risultare qui più fitta, e quindi per certi aspetti più opaca, e là più rada, trasparente, meno complicata. Non solo l'infittirsi del simbolismo, ma più in generale l'esistenza del simbolismo costituisce un fattore di complicazione rispetto alla linearità del funzionamento bisogno/risposta. Neppure Malinowski si sarebbe riconosciuto in una visione semplicistica di questo genere, se è vero che il suo stesso tentativo di riportare la cultura alle funzioni biologiche si trasforma nella tesi dell'impossibilità di interpretare la cultura come una risposta diretta ai bisogni biologici e come una realtà che si esaurisca in un semplice e immediato soddisfacimento. A tal punto può spingersi la complicazione culturale da rendere spesso difficile "scoprire quali siano i bisogni biologici che vengono soddisfatti" (v. Herskovits, 1948; tr. it., p. 329).Anche nelle culture in apparenza più semplici è come se vi fosse sempre un 'in più' culturale, il quale offusca i nessi utilitaristici e le relazioni puramente funzionali, un sovrappiù che rende il tragitto verso un obiettivo "più difficile di quanto non sia necessario" (ibid.). La sostanza simbolica reificata è ciò che determina questo surplus culturale, questo 'più' che rimane opaco, una volta esaurita una spiegazione di tipo funzionalistico (v. Augé, 1987, p. 11). Il riconoscimento di questo 'più' culturale, di questo fattore di complicazione e di opacità, costituisce uno dei momenti decisivi di una teoria della cultura e può anzi dar luogo a una situazione di stallo, di arresto teorico. In ogni caso esso rende inevitabilmente riduttiva la tesi tipica del materialismo culturale di Marvin Harris, secondo cui l'uomo "posto di fronte a un dato compito, preferisce portarlo a termine con il minore, anziché con il maggiore dispendio possibile di energie" (v. Harris, 1979; tr. it., p. 71).
Per superare lo stallo, una teoria della cultura pare non possa fare a meno di chiedersi il perché di questo surplus culturale, di questo "maggiore dispendio di energia": rituali lunghi e complicati, credenze e costumi in apparenza assurdi e talvolta angoscianti, spreco enorme e inspiegabile di beni (quale economia non è anche un'economia del dispendio e dell'ostentazione? v. Poirier, 1968). Pure questo surplus culturale è "magia dei simboli condivisi"; ma è una magia che si può tentare di comprendere e in qualche modo spiegare, se teniamo conto del fatto che la cultura è una sorta di 'supercervello' esteriorizzato (v. cap. 2), il quale "impone costi per proprio conto" (v. Keesing, 1974, p. 91).La cultura non risolve soltanto - nella misura in cui li risolve - i problemi di sopravvivenza degli individui; la cultura, intesa come corpo di simboli condivisi, ha le proprie esigenze di sopravvivenza e mantenimento. La radice dell''in più' culturale può essere intravista proprio qui: nell'impossibilità di soddisfare i bisogni meramente biologici degli individui e nell'ineluttabile necessità di provvedere alla riproduzione di ciò che è adibito a soddisfarli. Se è vero che le "risposte" (Malinowski) o le "informazioni" (Geertz), di cui gli individui hanno bisogno per sopravvivere, si trovano in gran parte fuori dei loro organismi e dell'apparato genetico che li caratterizza, esse devono essere contenute in un qualche mezzo, in un qualche supporto, in un 'corpo' appunto, come abbastanza spesso viene in effetti chiamata la cultura (v. Malinowski, 1931; tr. it., p. 140; v. Herskovits, 1948; tr. it., pp. 308 e 314).
Questo corpo ha i suoi 'bisogni', e questi non si riducono ai bisogni di manutenzione di un apparato strumentale extraorganico. Proprio in quanto non è un semplice aiuto (v. cap. 3), la cultura non soltanto ha i propri 'bisogni', che gli individui sono tenuti in qualche modo a soddisfare, ma ha pure le proprie 'ragioni', che non sempre gli individui riescono a comprendere.La reificazione è la risposta più globale alle esigenze della cultura come realtà in sé, in quanto coincide con il processo costitutivo del corpo culturale. Ma si tratta - come abbiamo visto - di un corpo simbolico, e questo significa che, per quanto il processo di reificazione possa spingersi in avanti, la cultura non è mai una 'cosa' che possa mantenersi e sussistere indipendentemente dall'impiego che se ne fa. Proprio in quanto corpo simbolico, non è sufficiente costituire la cultura e abbandonarla, per così dire, al suo autonomo funzionamento: i simboli culturali non sussistono in quanto tali, bensì esistono solo in quanto sono impiegati, condivisi, socializzati. Se il corpo della cultura consiste in questa sostanza simbolica partecipata, in un "traffico di simboli significanti", direbbe Geertz (v., 1973; tr. it., p. 339), ciò significa che la cultura deve essere non solo costituita, ma di continuo ricostituita. La reificazione è sì un processo costitutivo; ma per quanto vitale, essa non può superare del tutto la condizione di precarietà che caratterizza nel profondo la sostanza simbolica della cultura.
Altrettanto fondamentale della reificazione, la precarietà accompagna costantemente la produzione culturale. La precarietà del corpo simbolico della cultura è la condizione che suscita le esigenze di ricostituzione continua della cultura, per far fronte alle quali la risposta è appunto la reificazione, quella sorta di trucco o di "illusione" (v. Freud, 1927) che consente di porre fuori, al di là degli organismi individuali e delle loro interazioni, i presupposti del loro agire. Senza questa 'finzione' nessuna società potrebbe sussistere (v. Trubeckoj, 1920; tr. it., p. 55). La reificazione è dunque una risposta alla precarietà. Ma per non rimanere invischiati nelle trame 'illusorie' e fittizie - ancorché costitutive - della reificazione, per non incrementare il mistero del simbolismo o rimanere abbacinati dalla sua magia, una teoria della cultura deve ripercorrere all'inverso il cammino della reificazione, e quindi riconoscere la precarietà delle forme culturali e chiedersi quale ne sia la ragione. Quest'ultima può essere intravista nella dipendenza delle forme culturali dalle interazioni sociali. Se i simboli sono reali ed efficaci nella misura in cui sono "agiti" (v. Geertz, 1973) oltre che pensati, coinvolti - nonostante gli sforzi della reificazione - nel flusso delle azioni sociali, è sufficiente una qualche variazione nella riproduzione delle forme culturali per insinuare l'idea della loro precarietà. Collocata nello spazio extraorganico, nella sfera pubblica delle interazioni sociali, affidata per la sua realizzazione alle azioni degli individui in società, la cultura non attende la teoria degli scienziati sociali che ne riconoscano la precarietà, ma contiene già in se stessa l'idea del proprio carattere precario.Il riconoscimento della precarietà da parte dei teorici della cultura dovrebbe quindi inglobare il riconoscimento, per quanto parziale e camuffato, della propria precarietà da parte delle singole culture. Gli sforzi logici e le elaborazioni rituali, il dispendio di energia e il surplus simbolico in cui ogni cultura sembra costantemente impegnarsi acquistano forse il loro significato se proiettati sullo sfondo della precarietà e della consapevolezza più o meno esacerbata che l'accompagna.
Accettare totalmente la precarietà da parte di una cultura è come rinnegare se stessa, abdicare alle sue funzioni. Il riconoscimento della precarietà si traduce di solito nei tentativi di farvi fronte; e questi tentativi costituiscono il fattore di complicazione di cui si è detto.Per la sua radicale precarietà, e per il riconoscimento che in modo più o meno celato l'accompagna, una cultura non si risolve totalmente nel suo operare (nella costruzione di utensili per l'adattamento o nell'imposizione di norme per il funzionamento della vita sociale); ogni sua attività è invece accompagnata da un 'in più' di contenuto culturale (miti, credenze, rituali), la cui funzione è quella di convincere e assicurare circa la validità delle soluzioni adottate. Sotto questo profilo, è un po' come se la cultura contenesse in se stessa o producesse da se stessa dei livelli metaculturali, assimilabili alle "operazioni metalinguistiche" che, secondo Roman Jakobson (v., 1963; tr. it., p. 32), "lungi dall'essere riservate alla sfera della scienza [...] si dimostrano parte integrante delle nostre attività linguistiche abituali". Esattamente come il riconoscimento della precarietà è un fatto culturale, prima ancora che scientifico, così la produzione di simboli, discorsi, 'risposte' ulteriori - mediante cui una cultura pensa se stessa e interpreta le 'risposte' che essa fornisce per la sopravvivenza, l'adattamento e il funzionamento - è una dimensione insita nel procedere normale della cultura. L'idea di una radicale precarietà, mai del tutto superabile da parte dei tentativi di reificazione, fa sì che ogni cultura sia anche una metacultura.
La radice della precarietà è in sostanza la socialità della cultura, e il carattere insuperabile della precarietà è dovuto al fatto che qualunque forma culturale esiste solo in quanto vi siano degli individui che interagendo la realizzano. Se lo scenario della rappresentazione culturale non è la società astrattamente intesa (principî organizzativi formali, modelli schematici di strutture societarie), bensì la vita sociale effettiva di individui e di gruppi, la precarietà della cultura si manifesta nelle stesse azioni sociali attraverso cui la cultura si riproduce. "Ogni riproduzione della cultura è alterazione" (v. Sahlins, 1985; tr. it., p. 126). Un quartetto di Beethoven, una danza nande, un rituale matrimoniale nepalese, una tecnica artigianale valdostana non verranno mai eseguiti nello stesso identico modo nemmeno dagli stessi individui. Anche se gli scarti sono minimi, ogni realizzazione culturale comporta una modificazione, per quanto impercettibile e infinitesimale. Lo stesso processo di riproduzione della cultura non può dunque fare a meno di ospitare un grado più o meno elevato di precarietà sotto forma di variazioni individuali. In modo analogo a quanto avviene per le specie biologiche considerate in una prospettiva darwiniana, le variazioni individuali nella cultura non sono circostanze insignificanti rispetto al riprodursi costante di un modello inalterabile nella sua integrità. Anche se gli antropologi culturali, e gli scienziati sociali in genere, hanno manifestato diffidenza e refrattarietà verso possibilità di convergenze con il pensiero di Charles Darwin, è importante sottolineare come la teorizzazione della cultura sia approdata talvolta a esiti di tipo darwiniano, soprattutto quando si determina un ribaltamento nel rapporto gerarchico tra forme o modelli culturali (assimilabili a specie biologiche) da un lato e variazioni individuali dall'altro. Se è vero che la cultura, proprio come la lingua di cui parla Sapir (v., 1921; tr. it., p. 155), "esiste solo in tanto in quanto è effettivamente usata" - "parlata e udita, scritta e letta" e, potremmo aggiungere, 'agita' o rappresentata -, le "variazioni individuali" (la stessa espressione ricorre in Darwin e in Sapir) non sono mere deviazioni, ma momenti e modalità di effettiva realizzazione della cultura.
La cultura, come la lingua, si realizza non già nonostante, bensì attraverso le variazioni individuali; e la realtà della cultura non si trova al di là, bensì entro le variazioni. Sotto questo profilo si potrebbero raccogliere curiose convergenze. Per rimanere in campo linguistico è significativo che Ferdinand de Saussure, pur distinguendo tanto nettamente tra langue (il sistema sociale della lingua) e parole (la realizzazione individuale), riconosca che la lingua non è una "sostanza", "non è un'entità", bensì "è una forma", la quale "esiste soltanto nei soggetti parlanti" (v. Saussure, 1916; tr. it., pp. 147-148 e 14n). Se si tace, una lingua muore; se si tace e non si agisce, una cultura scompare. Se si parla e si agisce, lingua e cultura vengono riprodotte; ma, come e ancor più che per le specie biologiche, la riproduzione è un'inesorabile modificazione. Il ribaltamento nel rapporto gerarchico tra forme generali e variazioni individuali per quanto concerne lingua, cultura o specie può essere considerato come un punto di forte problematizzazione, ma anche di maturazione disciplinare. Attribuendo la "massima importanza" alle variazioni individuali, Darwin (v., 1859; tr. it., pp. 114 e 123) era pervenuto al riconoscimento del carattere "convenzionale" e "arbitrario" del concetto di specie. Un esito simile è emerso in antropologia, allorché si è giunti a riconoscere che la cultura è un'"astrazione" (v. Radcliffe-Brown, 1952; tr. it., p. 24; v. Kluckhohn, 1949; tr. it., p. 32). Beninteso, vi è chi, come Radcliffe-Brown all'inizio degli anni quaranta, attribuisce alla cultura carattere di astrazione per assegnare invece tutto il peso della realtà alla struttura sociale, e vi è chi, come Kluckhohn alla metà dello stesso decennio, recepisce lo stimolo problematico di quell'espressione per sottolineare l'utilità epistemologica del concetto di cultura (la cultura astratta e nello stesso tempo utile come una carta geografica: v. Kluckhohn e Kelly, 1945; tr. it., p. 284). In ogni caso, il rovesciamento di prospettiva espresso dalla definizione della cultura come astrazione è concomitante con la smobilitazione del concetto di struttura sociale quale entità autonoma, a favore del concetto di strategia e di scelta da parte degli attori sociali. Ma, fatto ancor più rilevante, entrambi questi processi di revisione - nel momento stesso in cui fanno venir meno i motivi di contrapposizione tra un'antropologia culturale, soprattutto americana, e un'antropologia sociale, soprattutto inglese - pongono le basi per una considerazione non più soltanto marginale del mutamento.Definire la cultura in termini di 'astrazione' da parte dello scienziato sociale significa infatti contrastare il processo di 'reificazione' culturale da parte degli attori sociali, i quali sottraggono in tal modo al flusso storico i presupposti delle loro interazioni (v. cap. 5).
Gli scienziati sociali che metodologicamente assecondano il processo di reificazione, non solo riconoscendone l'incidenza, ma conferendo eccessiva autonomia alle forme simboliche rispetto ai contesti di condivisione, di scambio o di conflitto sociale, sono invece portati - proprio come le società che essi studiano - a relegare il mutamento in qualche settore o livello marginale oppure a conferire alle stesse forme simboliche una capacità di mutamento autonoma.Contro queste reificazioni indebite (la storia "che diventa una 'persona accanto ad altre persone"', contestata da Marx ed Engels: v., 1966, p. 259; o la concezione della lingua come "un organismo che si sviluppa da se stesso", scartata da Saussure: v., 1916; tr. it., p. 13), la "massima importanza" accordata alle variazioni individuali (Darwin) fa sì che il mutamento venga posto al centro della cultura, così come della specie o della lingua. La vita della cultura appare quindi come un immenso oceano di variazioni individuali, cioè di "fenomeni fortuiti" - come li definisce Sapir (v., 1921; tr. it., p. 155) - i quali "simili alle onde del mare [...] si muovono avanti e indietro in un flusso senza scopo".
La stragrande maggioranza di queste variazioni sono subliminali, nel senso che non vengono colte o registrate, bensì, trovandosi al di sotto della soglia della coscienza e della storia, svaniscono nel nulla. Ma le variazioni individuali hanno pure effetti di accumulo, "progressi insensibili" - avrebbe detto Gottfried W. Leibniz - che si manifestano con tendenze all'uniformità. Il mutamento comincia ad apparire, infatti, allorché dalla massa confusa delle variazioni individuali si determina una direzione, un orientamento, ciò che Sapir ha chiamato "deriva" e che, secondo Herskovits, caratterizza non soltanto la vita della lingua, ma anche quella, più generale, della cultura: "La maggior parte delle variazioni casuali presenti nella cultura scompaiono con l'individuo che le manifesta; quelle che non scompaiono, che vengono raccolte da altri membri della società, tendono a essere cumulative" (v. Herskovits, 1948; tr. it., p. 326).Nella vita della cultura opera una sorta di 'setaccio' storico, assai simile alla selezione in campo biologico; e la funzione selettiva di questo setaccio è la ragione per cui si può sostenere che la cultura è un "precipitato della storia" (v. Kluckhohn e Kelly, 1945; tr. it., p. 274). Ma proprio il fatto che di solito gli individui riescono a percepire la forma e l'orientamento delle correnti culturali soltanto quando queste hanno raggiunto un certo termine e gli individui non vi sono più immersi dovrebbe indurre a sottolineare l''importanza' della massa fluida delle variazioni individuali, questa sorta di fucina oscura e impenetrabile dei mutamenti e delle forme culturali, anche se "tutto ciò che noi possiamo rispetto alle infinità [vale a dire le variazioni insensibili] è conoscerle confusamente e, almeno, sapere che esistono". Il carattere anonimo, cieco, casuale delle variazioni individuali non deve far dimenticare che esse sono il magma vitale della cultura, non già "un'imperfezione sociale, bensì una necessità adattativa: una risorsa decisiva" a cui attingere per il mutamento culturale (v. Keesing, 1974, p. 88).
Il concetto di variazione individuale può sì tradursi in un ulteriore tentativo di rimettere, per così dire, la cultura sui suoi piedi, riconoscendone questa volta alla base contingenza e casualità; ma il concetto di variazione non sfocia nel disordine totale, in un pulviscolo senza senso. Al contrario, le variazioni individuali sono tali perché le differenze che contengono s'intrecciano inseparabilmente con le somiglianze che condividono. La nozione di variazione evoca infatti ciò che in qualche modo rimane costante. La variazione non è assoluta, ma relativa all'invarianza, proprio come quest'ultima si dispiega soltanto nelle varianti che la costituiscono. In tal modo la stessa nozione di variazione implica le tendenze all'uniformità, le quali agiscono come argini alle variazioni. Su questo intreccio di invarianza/variazione si costituiscono le culture, anche se per definirle e riconoscerle non possiamo fare a meno di cogliere pressoché soltanto il "precipitato della storia", le forme consolidate del loro fluire, le costanti astratte, scollate dalle variazioni infinitesimali.Tenuto conto dell'inseparabilità delle due dimensioni - variazione e invarianza -, potrebbe essere istruttivo ripercorrere le vistose oscillazioni che in questo senso si sono determinate nell'ambito delle scienze sociali, e talvolta persino nella produzione di uno stesso studioso: dall'esplorazione di forme o modelli generali e dalla ricerca di universali culturali alle indagini più accentuatamente idiografiche; oppure dall'analisi dei processi decisionali dei singoli attori sociali in contesti particolari all'individuazione dei presupposti generali che implicitamente condividono. Ma al di là delle oscillazioni metodologiche, ciò su cui si converge con sempre maggiore insistenza è proprio l'inseparabilità delle due dimensioni, a qualunque livello (macro o micro) s'intenda condurre l'analisi.
Se in campo linguistico Roman Jakobson ha sempre condannato i tentativi di separazione del concetto di 'sistema' e di 'struttura' da quello di 'mutamento' (v. Jakobson e Waugh, 1979; tr. it., p. 179), in campo antropologico Marshall Sahlins (v., 1985; tr. it., p. 125) ha dimostrato l'inattendibilità della considerazione della 'storia' e della 'struttura' come "alternative reciprocamente esclusive".Una volta tenuto fermo il rapporto di inseparabilità tra la varianza e l'invarianza, appare invece plausibile o inevitabile la propensione, da parte di una cultura o di un suo settore, così come da parte di una disciplina o di una prospettiva scientifica, verso l'una o l'altra delle due dimensioni. Significativamente lo stesso Sahlins (ibid., pp. XIII-XIV) ha distinto culture di tipo prescrittivo, le quali tendono ad assimilare le circostanze alle strutture preesistenti, sforzandosi di negare il loro carattere contingente, di non riconoscere la casualità degli eventi (un esempio potrebbero essere gli Aborigeni australiani), e culture invece di tipo performativo, nelle quali gli eventi e le circostanze sono riconosciuti nella loro individualità e valorizzati nell'assetto dei rapporti e delle categorie sociali (l'esempio proposto è quello delle Hawaii). La stessa inseparabilità delle due dimensioni rende inevitabili le accentuazioni e le oscillazioni a favore ora dell'uno ora dell'altro aspetto, e induce a concepire la cultura nello stesso modo in cui Leibniz, teorizzatore delle variazioni infinitesimali, ha concepito lo spazio, cioè come "una materia originariamente fluida", nella quale vi è sempre "un determinato grado di rigidezza e di fluidità" e nella quale non vi è "alcun corpo che sia fluido o rigido all'estremo grado".Molto spesso le concezioni della cultura - sia da parte di chi la studia, sia da parte di chi la vive - trasmettono questa idea della fluidità mediante l'immagine del fiume che scorre: la troviamo per esempio in Dilthey (v., 1985, p. 340), in Saussure (v., 1916; tr. it., p. 171), in Sapir (v., 1921; tr. it., p. 151), in Barth (v., 1983, p. 84), oppure presso i Kuba, i Lele, gli Yaka dello Zaire (v. Vansina, 1978; v. Douglas, 1954; v. Devisch, 1984). È una metafora suggestiva, che può essere mantenuta, in quanto rende espliciti il fluire e anche la sua relativa regolarità, il suo orientamento (come effetto di un grado insopprimibile di rigidezza), in quanto lascia impregiudicata la profondità e la radicalità del mutamento, suggerendo che da un lato i mutamenti si verificano anche se non si progettano o non si prevedono e che dall'altro nemmeno i mutamenti più rivoluzionari - come riconosce lo stesso Marx (v. Marx ed Engels, 1966, pp. 487-488) - possono venir meno del tutto al principio (leibniziano) della continuità: proprio quando gli uomini lavorano a "creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria", essi non possono fare a meno di evocare "gli spiriti del passato", prendendone a prestito i nomi, le parole, i costumi e con queste vecchie categorie "rappresentare" la nuova scena della storia.
Proprio in quanto la cultura, come la lingua, può essere paragonata a un fiume, il quale scende lungo un corso che esso stesso forma (v. Sapir, 1921; tr. it., p. 151), i mutamenti che vi accadono non si svolgono mai su una sorta di tabula rasa, in un vuoto culturale, bensì entro un contesto particolare che pone limiti nello stesso tempo in cui si aprono determinate possibilità. Come già si è fatto nel cap. 2 a proposito dell'esteriorità della cultura, è opportuno qui segnalare ancora una convergenza tra pensatori tanto diversi come Marx ed Engels da un lato e Sapir dall'altro, a cui però possiamo aggiungere tutti coloro i quali riconoscono che le possibilità di mutamento a partire da una situazione data sono modellate e per ciò stesso limitate dalle condizioni culturali. La cultura o - per non assecondare troppo il processo di reificazione - il contesto di condivisione culturale oppure ancora il "traffico dei simboli" locali (Geertz) operano come un "setaccio" (Kluckhohn) o come un "filtro" (v. Murdock, 1949) o come un "vaglio" (v. Trubeckoj, 1939) rispetto alle possibilità di mutamento. Sahlins (v., Culture..., 1976; tr. it., p. 21) riprende questa tematica, allorché afferma che le "forze reali e materiali" - quelle che grosso modo possiamo imputare all'ambiente esterno - sono efficaci nella misura in cui sono integrate in un determinato modello "storico e simbolico": "il mutamento - egli afferma - ha inizio con la cultura, non è la cultura a essere attivata dal mutamento". Ovunque si origini, il mutamento si svolge all'interno della cultura (passa attraverso le variazioni individuali) e proprio per questo dà luogo a un flusso che, per quanto variabile per la sua intensità, rapidità, profondità, non è esente da regolarità. È significativo ricordare sotto questo profilo le analisi che Kroeber aveva dedicato nel 1919 e nel 1940 (v. Kroeber, 1952; tr. it., pp. 619-627 e 669-696) ai mutamenti degli abiti da sera femminili, volte a dimostrare appunto le regolarità delle variazioni in un campo apparentemente dominato dalla casualità e dalla volubilità.
Se il concetto di variazione individuale consente di avvicinare sotto il profilo metodologico l'analisi culturale all'analisi biologica, un altro concetto, inevitabilmente collegato al primo, non può non imporsi in una teorizzazione della cultura, come già si è imposto nella teoria dell'evoluzione delle specie. Si tratta del concetto di selezione, il quale, tanto in campo biologico quanto in campo culturale, designa i meccanismi di incanalamento e di ordinamento delle variazioni individuali, ossia di formazione di tendenze all'uniformità, di derive, di correnti. C'è da supporre che non sia affatto un caso che il concetto di selezione assuma un ruolo centrale nelle teorie che concernono le specie biologiche, la lingua, la cultura. Con questo non si vuole affatto asserire che sia davvero un unico e identico concetto quello che appare nelle teorie dei biologi, dei linguisti e degli antropologi; ma si può presumere che sia un fatto significativo che la nozione di selezione tenda a ripresentarsi con impressionante frequenza in qualsivoglia teoria concernente i campi or ora citati. I teorici ricorrono insistentemente al concetto di selezione, ancorché questo possa essere diversamente formulato e utilizzato. Il concetto di selezione risulta in effetti impiegato tanto per descrivere gli effetti esercitati sulle variazioni individuali (o sugli individui) da una cultura già operante, quanto per spiegare i processi formativi e costitutivi di una determinata cultura. E forse è il caso di aggiungere che proprio il concetto di selezione suggerisce la possibilità che si tratti di un unico processo: gli effetti esercitati da una cultura coincidono con i processi mediante cui essa si costituisce, o ri-costituisce.
Un punto di vista particolarmente adatto per cogliere l'importanza del concetto di selezione è tuttavia fornito dai processi di inculturazione, vale a dire dai processi mediante cui un individuo acquisisce una determinata cultura. Gli antropologi culturali hanno da sempre sottolineato la significatività di questi processi, ponendo in luce la disponibilità iniziale di qualsiasi individuo ad acquisire qualsiasi cultura: un neonato francese, trasportato in Cina, acquisirà i modelli della cultura e della lingua cinese con le stesse chances di successo dei suoi coetanei cinesi e, tuttavia, col passare del tempo incontrerà sempre maggiori difficoltà a fare propri la cultura e la lingua della società dei suoi genitori, così come di qualsiasi società diversa da quella in cui si è formato. La disponibilità iniziale verso qualsiasi cultura da un lato e, dall'altro, la crescente difficoltà a fare proprie culture diverse sono elementi significativi di un modo di intendere l'inculturazione come selezione. Secondo Claude Lévi-Strauss (v., 1949; tr. it., p. 150) ogni individuo possiede alla nascita la somma totale delle "possibilità" di organizzazione mentale di cui ogni cultura si limita a "scegliere una parte". Ma queste possibilità di organizzazione o "strutture" sono "esclusive", e i modelli di qualsivoglia cultura possono integrare "soltanto alcuni elementi tra tutti quelli che sono dati". Proprio per questo l'inculturazione si presenta come una sorta di specializzazione sempre più spinta, la quale nello stesso tempo in cui offre modelli fruibili di organizzazione, impone vincoli e ostacoli sempre più incisivi. La "selezione" operata da una cultura è infatti "regressiva": dal punto di vista delle "illimitate possibilità" di cui l'individuo dispone alla nascita, che fondano la sua disponibilità pan-culturale, l'inculturazione è una perdita irrimediabile (ibid., p. 151).
La cultura seleziona e restringe le possibilità umane, in quanto è essa stessa frutto di selezione. Può essere opportuno segnalare in relazione a questa tesi una convergenza di diverse prospettive, elaborate soprattutto nei primi decenni del XX secolo. Ancora una volta la linguistica è la disciplina guida. Il principio dell'arbitrarietà del segno, secondo Saussure (v., 1916; tr. it., p. 138), richiama l'idea di una "scelta", ancorché non individuale. La fonologia degli strutturalisti di Mosca e del Circolo linguistico di Praga pone in luce che la lingua, a cominciare dall'organizzazione minimale della materia sonora, è fondata su una scelta in base alla quale si individua un numero limitato di tratti distintivi e si stabiliscono le regole della loro combinazione, rimanendo inteso che "non tutte le possibili combinazioni degli elementi distintivi sono ammesse" (v. Trubeckoj, 1939; tr. it., p. 16).
In effetti, per Jakobson "selezione" e "combinazione" sono le due operazioni di base della lingua (v. Jakobson e Waugh, 1979; tr. it., p. 4). In modo assai simile, Franz Boas (v., 1911; tr. it., p. 173) ritiene che a partire dall'"infinita gamma" di possibilità di articolazione sonora e dall'"infinitamente ampio numero di idee" una cultura debba selezionare una serie limitata tanto di suoni quanto di idee e che questa riduzione sia il procedimento indispensabile per formare una "classificazione" dell'esperienza che è a fondamento di ogni cultura.In modo ancor più tecnico, l'analisi dei sistemi di terminologia di parentela fatta da Kroeber (v., 1909) pone molto bene in evidenza che qualsiasi sistema risulta dalla scelta di determinati criteri, con esclusione di altri. Senza dubbio, la lingua o la terminologia di parentela sono settori della cultura che più di altri si prestano alla formalizzazione e al trattamento sistematico. Ma l'idea che affiora dalle prospettive appena accennate - vale a dire l'inevitabilità della selezione, della riduzione, della limitazione - può essere generalizzata per la cultura nel suo insieme. Anzi, si può fare ricorso al principio della selezione per spiegare il carattere di peculiarità, il senso di relatività e di particolarizzazione che la cultura porta sempre con sé. Tanto il concetto di sistema quanto il concetto di cultura inglobano l'idea di un'insuperabile particolarità e limitazione: un sistema (linguistico, terminologico, matrimoniale o altro) è tale in quanto, realizzando alcune possibilità, ne esclude altre; e una cultura (non importa quanto etnicamente estesa) consiste in una definizione inevitabilmente particolare dell'uomo e del suo mondo, come se, per dar luogo a forme e modelli fruibili, funzionanti, comunicabili, si dovesse pagare il prezzo della loro particolarità e della loro limitazione.In quanto frutto di selezione, ogni forma organizzata comporta limiti; e reciprocamente l'assenza di limiti denuncia una mancanza di organizzazione. Su questo esito assai rilevante si registra una convergenza forse ancor più significativa di quelle or ora indicate: vale a dire da una parte prospettive di tipo strutturalistico, che fanno leva soprattutto sull'idea di sistema, e dall'altra prospettive che privilegiano il concetto di cultura e che affondano le loro radici in concezioni di tipo storicistico.
Per quanto opposte possano essere queste prospettive, esse convergono però verso la tesi che 'essere umano' non significa mai essere un uomo in generale, bensì "vuol dire essere un particolare tipo d'uomo", culturalmente definito (v. Geertz, 1973; tr. it., p. 96). Che si sfrutti il peso storico dei costumi (il loro significato sempre locale) o che si dimostri l'impossibilità organica di un sistema di essere universale (di soddisfare tutti i possibili criteri di organizzazione), il concetto di cultura non fa che confermare, attraverso la selezione, la sua vocazione alla variabilità e alla particolarità. Selezione significa rinuncia alla pretesa di universalità da parte di qualsivoglia configurazione culturale.Se in virtù della selezione una cultura è sempre una configurazione particolare (una particolare definizione dell'uomo), sarebbe però estremamente riduttivo intendere una cultura come una soddisfacente e appagata realizzazione di possibilità. Proprio in quanto è frutto di selezione, la cultura è sì costretta a puntare selettivamente su alcune possibilità, ma la stessa specializzazione culturale a cui ogni cultura dà luogo contiene molto spesso l'evocazione di possibilità alternative sotto forma di diverse tracce o indizi di ciò che si sarebbe potuto fare e non si è realizzato. L''in più' culturale (v. cap. 5) riappare ora al seguito dei concetti di selezione e di possibilità alternative. Sono ovviamente diversi i modi mediante cui una cultura rimugina, e talvolta riflette, sui propri limiti; l'esigenza stessa di confermare la validità delle soluzioni adottate comporta una qualche idea - anche se negativa - delle possibilità non realizzate e forse sperimentate altrove. Sotto questo profilo si può comprendere quanto sia importante per una teoria della cultura il fatto che una cultura non sia mai sola, che i suoi confini non siano tanto barriere invalicabili bensì modi per vedere gli altri e se stessi in mezzo agli altri, che i suoi confini siano anzi luoghi e modalità di scambio con gli altri e che questi scambi, lungi dall'essere interazioni puramente marginali, costituiscano momenti formativi di un'identità culturale, che proprio per questo è continuamente messa in discussione (v. Barth, 1969).
L'idea delle possibilità alternative, conseguente al concetto di selezione, fa capire quanto sia profonda l'osservazione di Sapir (v., 1921; tr. it., p. 192), secondo cui le culture, così come le lingue, "raramente bastano a se stesse". Prima ancora di una teoria della cultura, le possibilità alternative (proprio come il senso della precarietà) fanno parte della realtà culturale che gli scienziati sociali intendono studiare. 8. Dilatazioni e sconfinamenti concettuali.Alla luce di queste ultime notazioni conviene considerare le funzioni definitorie che il concetto di cultura ha svolto in diversi momenti della sua storia. Già come cultura animi, questo concetto serve a distinguere certi individui, al fine di attribuire loro il senso autentico e universale dell'umanità: grazie alla cultura i veri uomini si differenziano dalla massa di coloro che sono immersi soltanto nei costumi. Impiegato dagli antropologi culturali, questo concetto serve a ritagliare un territorio disciplinare e a motivare rivendicazioni di identità e autonomia scientifica: gli antropologi culturali si differenziano dagli altri scienziati sociali in quanto studiano la cultura.
Passando su un piano per così dire oggettuale, la cultura consente di definire aree particolari di condivisione di simboli, facendole coincidere perlopiù con società particolari: un'etnia si differenzia dall'altra per la sua cultura peculiare. Ma la cultura serve a differenziare non soltanto gli uomini tra loro (i colti dagli incolti, gli antropologi dagli altri scienziati sociali, i Nuer dagli Scilluk), bensì anche gli uomini dagli altri animali, segnando i confini di ciò che è propriamente umano: grazie alla cultura, gli animali bipedi che si sono attribuiti l'appellativo di Homo sapiens ritengono di essere unici e qualitativamente diversi da tutti gli altri.Queste funzioni delimitanti e definitorie della cultura fanno parte però di una storia contrassegnata anche da un movimento opposto, quello delle dilatazioni e degli sconfinamenti. Tutto sommato, proprio la percezione delle "possibilità alternative" è ciò che ha innescato di volta in volta il movimento dilatatorio, abbattendo confini un tempo ritenuti intangibili. Così la cultura non è più soltanto la cultura animi o la "cultura della ragione": "intesa nel suo ampio senso etnografico" (v. Tylor, 1871; tr. it., p. 7), essa può essere riconosciuta anche presso le società umane più arretrate, prive di scrittura e di tecniche della coltivazione. Pure in questo ambito di applicazione etnografica, la cultura ha perso tuttavia la sicurezza di una distinzione oggettiva. I confini risultano assai più sfumati e mobili, in funzione sia delle esigenze di identità, di costituzione di un 'noi', che a seconda delle occasioni e dei contesti possono situarsi a livelli di inclusione molto diversi (dalle famiglie ai clan, dai villaggi alle regioni, dalle nazioni alle civiltà), sia delle esigenze di analisi dell'osservatore, il quale può privilegiare livelli diversi di "scarti significativi". "Se cerchiamo di determinare scarti significativi tra l'America del Nord e l'Europa, le considereremo come culture differenti; ma, supponendo che l'interesse verta su scarti significativi fra - diciamo - Parigi e Marsiglia, questi due insiemi urbani potranno essere provvisoriamente costituiti come due unità culturali" (v. Lévi-Strauss, 1958; tr. it., pp. 328-329).
La mobilità dei confini culturali negli studi etnografici e sociologici non può che richiedere un elevato grado di elasticità delle prospettive e un raffinamento degli strumenti di analisi. Ma la rimozione di confini prestabiliti è sempre un fatto inquietante; e questo è tanto più vero, allorché prendiamo in considerazione gli sconfinamenti del concetto di cultura non più soltanto all'interno del suo campo di applicazione etnografico e sociologico, bensì ai suoi bordi esterni, e precisamente in due direzioni: da un lato verso i territori filosofici della ragione e dall'altro verso i domini scientifici della natura. Come si è visto, il concetto antropologico di cultura, adottato dalle scienze sociali del Novecento, è nato tra i costumi, e in particolare tra i costumi dei cosiddetti 'primitivi', delle società senza scrittura. Le sue origini etnografiche (v. cap. 1) l'hanno tenuto lontano dai dibattiti filosofici sulla ragione; e questa separazione ha fatto sì che il concetto antropologico di cultura risultasse applicabile, e a lungo confinato, nello studio delle società considerate come prevalentemente tradizionali. A segnare il confine tra la cultura, intesa come comportamento tradizionale, e la ragione o razionalità, intesa come procedimento di pensiero in grado di trasformare i rapporti sociali e di liberarli dai gravami dei costumi, è stato posto perlopiù il processo di modernizzazione: sul versante della cultura gli antropologi con le loro società dominate dai costumi e dalle tradizioni, e sul versante opposto filosofi e sociologi in mezzo a una società modernizzata e razionalizzata (o in via di divenire tale). Ma i due concetti - cultura e ragione - non sono rimasti immobili; si sono avvicinati con effetti di condizionamento reciproco (v. De Laguna, 1949). Per un verso la razionalità è infatti defluita verso la cultura tradizionale, eliminando da essa un certo alone di misteriosa sacralità (per esempio la mentalità prelogica di Lucien Lévy-Bruhl: v., 1910) e contribuendo a riconoscere invece le strutture logiche delle interazioni economiche (v. Firth, 1939), degli scambi matrimoniali (v. Lévi-Strauss, 1949) o dei miti (v. Lévi-Strauss, 1964).
Per l'altro verso il concetto di cultura ha per così dire approfittato delle crepe prodottesi nel concetto di ragione. L'ammissione secondo cui le teorie filosofiche della ragione costituiscono "quasi sempre il tentativo di dar forma di sapere universale alle giustificazioni che s'invocano per credenze particolari" (v. Viano, 1979, p. 349), non fa che spianare la via all'infiltrazione della cultura nella ragione; e infatti la cultura contribuisce a sottolineare la natura o il condizionamento di costume del pensiero che si autodefinisce razionale, il suo essere una "credenza" e il suo essere "particolare". Lo sconfinamento della cultura verso la ragione smentisce le pretese di universalità di quest'ultima, giacché "lo schema 'razionale' e 'obiettivo' di ogni gruppo umano dato non è mai il solo possibile" (v. Sahlins, Culture..., 1976; tr. it., p. 167). Sconfessato nella sua pretesa di universalità, il pensiero razionale finisce per configurarsi come il pensiero di una cultura, come una possibilità che va considerata tra le altre. Nello sconfinamento verso la ragione, il concetto antropologico di cultura, se per un verso priva questa forma di pensiero della sua pretesa di universalità e di unicità, per l'altro le prospetta la possibilità di confrontarsi e di dialogare con altre forme di pensiero altrettanto culturali.Mentre lo sconfinamento verso la ragione è una "sfida" lanciata dal concetto antropologico di cultura (ibid., p. IX), lo sconfinamento verso la natura è invece una sfida che il concetto antropologico di cultura deve subire da parte delle scienze che studiano il comportamento sociale animale. Dai primi fra gli uomini (i dotti) ai primitivi, ai primati e oltre: questo sembra essere il senso delle progressive dilatazioni del concetto di cultura.
Ma ciò che maggiormente colpisce nello sconfinamento animale della cultura è che esso si è verificato senza produrre rielaborazioni interne: gli studiosi del comportamento animale hanno utilizzato un concetto di cultura qual è stato messo involontariamente a loro disposizione da parte degli antropologi (v. Bonner, 1980; v. Mainardi, 1974). È vero che, come i filosofi hanno rivendicato la ragione per non spartire la cultura con i primitivi, così gli antropologi rivendicano perlopiù il simbolismo e il significato (v. Sahlins, The use..., 1976) per non spartire la cultura con i primati e altri animali. Ma piuttosto che erigere barriere difensive, può risultare di grande interesse riflettere sul mutamento di prospettiva che a questo proposito ha caratterizzato il pensiero di Lévi-Strauss. Se nel 1949 egli iniziava la sua opera più importante sulla parentela con un capitolo dal titolo Natura e cultura e riteneva che questa distinzione fosse segnata da un confine apparentemente sicuro e invalicabile, quale sarebbe il linguaggio articolato, esclusivo dell'uomo, nella Prefazione alla seconda edizione (1967) egli ammette che "la linea di demarcazione" appare ora "più tenue e tortuosa" (v. Lévi-Strauss, 1949; tr. it., pp. 19-20).
L'uso e la costruzione di utensili, l'esistenza di complessi procedimenti di comunicazione, l'impiego di "veri e propri simboli" anche tra gli animali inducono infatti Lévi-Strauss a chiedersi se l'opposizione tra natura e cultura, lungi dall'essere un dato oggettivo dell'ordine del mondo, non sia piuttosto "una creazione artificiale della cultura" umana, "un'opera difensiva che questa avrebbe scavato tutto intorno a sé", recidendo i legami con le altre manifestazioni della vita, al fine di affermare la propria esistenza e rivendicare la propria originalità. Se così fosse, lo scienziato che volesse cogliere l'"essenza della cultura" non avrebbe da assecondarla in questo suo sforzo di recinzione difensiva, ma al contrario dovrebbe "risalire verso la sua sorgente e contrastare il suo slancio" e così tentare di riannodare i fili che la connettono al resto della natura (ibid., p. 20).
Non è la prima volta che vediamo lo studioso della cultura assumere un punto di vista contrastante, a rovescio, rispetto a quello della cultura stessa. Se a proposito della reificazione culturale si trattava di ripercorrere all'inverso il cammino per non rimanere intrappolati dai suoi trucchi e dalle sue suggestioni (v. cap. 5), anche qui non si può fare a meno di rilevare che la prospettiva proposta per afferrare l'"essenza" della cultura umana consiste in uno smontaggio delle sue illusioni, anzi di quella 'finzione' simbolica, di quell''in più' culturale che provvede a separarla illusoriamente dalla natura. In effetti, sembrano esservi due opzioni fondamentali per determinare il senso della cultura umana: la prima ritiene giusto rimanere all'interno delle correnti culturali indagandone le forme, ricostruendone la storia (Kroeber) o interpretandone i simboli e i significati (Geertz); la seconda ritiene invece inevitabile prima o poi un'uscita dalla cultura verso realtà che in qualche modo la precedono o ne sono a fondamento (lo spirito umano di Lévi-Strauss come l'inconscio di Freud o la struttura economica di Marx ed Engels).
Ma qualunque tipo di strada si prenda (i sentieri interni o il percorso esterno), non è del tutto evitabile quella sensazione di arbitrarietà, di relatività, di precarietà che proviene dalla sostanza simbolica della cultura. Su questo punto possiamo registrare un'ultima convergenza tra prospettive per il resto tanto opposte nello studio della cultura, quali sono quelle di Geertz e di Lévi-Strauss. Mentre il primo consegna un'immagine della cultura come costituita da "ragnatele di significati" che l'animale uomo "ha tessuto" e fra cui rimane "sospeso" (v. Geertz, 1973; tr. it., p. 41), il secondo contempla l'intera cultura umana come "un'efflorescenza passeggera", destinata a inabissarsi "nel vuoto scavato" dal suo furore, come "opere sottili e raffinate" di cui è inevitabile che alla fine "non rimanga più niente" (v. Lévi-Strauss, 1955, tr. it., pp. 402 e 404; 1971, tr. it., p. 657). Certo, Geertz preferisce non staccare gli occhi dalle trame simboliche in cui gli uomini rimangono impigliati, mentre Lévi-Strauss non si esime dal prolungare lo sguardo verso il "crepuscolo degli uomini", la fine della cultura umana. Ciò che in definitiva entrambe le prospettive ci trasmettono è quindi l'idea della cultura come un'elaborazione fittizia e precaria di cui l'uomo non può fare a meno e a cui rimane tenacemente aggrappato per garantirsi - fin che gli è consentito - una sopravvivenza.
E tuttavia, proprio mediante le dilatazioni prima indicate - verso la ragione e verso la natura - il concetto di cultura svela ancora delle potenzialità che occorrerebbe questa volta assecondare, anziché contrastare. Da un lato, se la dilatazione verso la natura priva l'uomo dell'esclusività del privilegio culturale, essa arricchisce e riequilibra la sua immagine con il riannodare i collegamenti naturali che le sono essenziali (l'uomo in mezzo agli altri animali; la cultura come parte integrante della natura). Dall'altro lato, se la dilatazione verso la ragione (la ragione come cultura) priva la ragione stessa delle sue pretese all'universalità e all'assolutezza, il concetto di cultura è però in grado di accogliere e interpretare a modo suo quell'istanza di universalità contenuta nel concetto di ragione. Non si tratta di fondare o di trasformare questa istanza nel predominio di una cultura su tutte le altre o della cultura umana sul resto della natura, bensì di farne un esercizio di trasversalità interculturale, piegando la ragione dalla sua verticalità originaria (la ragione come struttura universale e quindi indipendente dalle manifestazioni culturali) su quel "piano orizzontale" in cui "non ci sono superiori né inferiori", bensì "solo simili e dissimili" (v. Trubeckoj, 1920; tr. it., p. 41), adattandola quindi a contesti di scambi e di conoscenze reciproche, in cui si possono ascoltare le ragioni sia degli altri uomini, sia degli altri esseri naturali. L''in più' culturale, il livello metaculturale che inerisce un po' a tutte le manifestazioni della cultura, non è fatto soltanto per ribadire la validità delle soluzioni prescelte (v. cap. 5), ma contenendo in sé almeno l'idea germinale di possibilità alternative (v. cap. 7) può dispiegarsi più distesamente in quell'esplorazione, esame e dibattito di diverse possibilità ai quali possiamo forse assegnare il nome di ragione. Parafrasando una celebre frase di Goethe, si può chiedere: "È l'universale [l'infinito] la tua aspirazione? Attraversa tutte le configurazioni del particolare [finito]!" (v. Hamburg, 1964, p. 218), sapendo però anche che non si potranno mai attraversare completamente tutte le configurazioni del particolare e che gli attraversamenti sono quindi sempre parziali, tentativi limitati, precari e revocabili, i quali non potranno mai dare luogo a quella "totalità", a quel "perfetto compimento dello stesso finito" che invece Ernst Cassirer poneva come obiettivo terminale della sua filosofia della cultura.
(V. anche Apprendimento; Etologia; Evoluzione culturale; Evoluzione culturale umana, processi della).
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