CURIA
. Storia Antica. - È il nome della più antica ripartizione del popolo romano ai fini politici e militari. Secondo la tradizione, ne fu autore Romolo, il quale avrebbe diviso la cittadinanza fra le tribù dei Tities, Ramnes, Lucĕres, e ciascuna di queste in dieci curie e - aggiunge Dionisio di Alicarnasso - ciascuna curia in dieci decurie. Alle singole curie si sarebbero dati, secondo qualche scrittore, nomi di donne sabine rapite dai Romani.
Pur tenendo ferma l'alta antichità delle curie, dimostrata anche dalle analoghe istituzioni di altre città italiche, sembra probabile che anche a Roma, come altrove, la ripartizione originaria si sia fatta in dieci curie soltanto, e che la triplicazione, con l'annessa costruzione delle tre tribù, sia frutto dell'aumentata popolazione. Il fenomeno, che in Roma non ha lasciato traccia, si osserva bene nelle famose tavole di Gubbio (tabulae Eugubinae), dove la popolazione di quella città umbra appare divisa in venti tékvias (decurie), delle quali però soltanto dieci portano nomi che le designano come originarie, mentre le rimanenti ripetono gli stessi nomi, con numeri ordinali che le indicano come seconde, e una perfino come terza (una sola non risulta duplicata). Un fenomeno analogo si riscontra più tardi in Roma nei sex suffragia dell'ordinamento centuriato (v. centuria), chiamati Tities Ramnes Lucĕres priores e posteriores: nei riguardi delle curie va ammesso come certo, benché sia alquanto oscurato dal fatto che le trenta della ripartizione definitiva ebbero trenta nomi diversi. Scrittori assai tardi, come S. Agostino e Paolo Diacono, accennano a un tempo in cui le curie sarebbero state portate a trentacinque; ma la notizia, che a torto qualche scrittore ha presa sul serio, deriva da evidente confusione fra curie e tribù.
La leggenda che trae le denominazioni delle curie dalle donne sabine dovette esser suggerita dal nome Rapta che una curia porta. Degli altri pochi nomi che si conoscono, taluno si prestava al bisticcio per esser nome di famiglia o di gens (come Titia e Faucia), ma qualche altro sembra decisamente locale (come Foriensis e Vellensis o Veliensis). Da ciò l'opinione di qualche scrittore, che ogni curia corrispondesse a un piccolo quartiere dell'antica città, come è probabile che le tre tribù corrispondessero alle regioni del Palatino, dell'Esquilino e della Suburra.
Incertissima è l'etimologia della parola curia, che gli antichi mettevano in rapporto col verbo curare: i moderni la considerano più spesso come derivata da com-viria (accolta di uomini), o da curis o quiris (lancia), o fanno derivare curis da curia, o ricorrono al greco κῦρος ("forza, autorità"); perfino si dubita se il nome sia stato dato prima ai gruppi e quindi ai luoghi dove questi si riunivano (v. appresso), o viceversa.
Di assai incerto valore è l'asserzione di Dionisio, che ogni curia si sarebbe divisa in dieci decurie. Applicare il dato ai contingenti di fanteria che ogni curia doveva fornire (e che appunto sembra siano stati di cento uomini) non è facile, dato che per l'arma a piedi non si ha traccia di una primitiva formazione tattica inferiore alla centuria; e quanto all'opinione, largamente sostenuta dal Niebuhr in qua, che Dionisio abbia chiamato decurie le genti, osta il fatto, ritenuto dai più, che le genti furono formazioni naturali e non costruzioni statuali. Comunque, è da credere che le curie avessero qualche fondamento naturale: è anzi molto probabile che, come le fratrie greche, fossero consociazioni di genti che per vicinanza di sedi erano frequentemente apparentate e avevano in comune culti e sepolcreti: certo ogni curia aveva i suoi altari e le sue divinità tutelari, e proprie cerimonie religiose alle quali sopraintendevano il capo della consociazione (curio) e il flamen curialis. Il riconoscimento delle istituzioni da parte dello stato, e la parte che esse prendevano alla vita di questo, faceva sì che i sacra curialia fossero annoverati fra i publica anziché fra i privata.
L'opinione che delle curie facessero parte solo i patrizî - o, almeno, che questi soltanto partecipassero alle assemblee popolari ordinate per curia (comitia curiata) - fu per lungo tempo dominante; ma dal Mommsen in poi la si respinge pressoché unanimemente, essendo la tradizione tutta quanta nel senso della partecipazione dell'intero popolo ai comizî curiati, ed essendo inoltre probabile che fin dall'origine l'appartenenza all'assemblea popolare fosse inscindibile dagli obblighi militari: anzi perfino le riunioni della sola plebe, indette a scopo rivoluzionario e per la nomina dei tribuni, si tennero in un primo tempo per curie, conservando ciascuno la posizione che aveva nell'organizzazione di tutta la cittadinanza. Probabilmente in tempi primordiali i plebei parteciparono al comizio in qualità di clienti dei patrizî, movendosi nell'orbita dei rispettivi patroni; e solo nel corso del tempo l'acquisita indipendenza economica li rese anche politicamente autonomi.
D'altronde, le funzioni del comizio curiato non possono essere identificate senz'altro con quelle delle posteriori assemblee centuriate e tribute. La tradizione anticipa senza dubbio quando suppone che abbiano votato leggi su proposta dei re (leges regiae) o che ad ogni vacanza del trono abbiano proceduto, su proposta dell'interrex, all'elezione del nuovo monarca: in epoca primitiva domina non la legge ma il costume, e, quanto alla designazione del successore, il principio ereditario dovette avervi una parte maggiore di quanto non traspaia dalla tradizione canonica, troppo impregnata di spiriti repubblicani. La vera funzione del comizio curiato si rispecchia nella lex curiata de imperio, che era in epoca repubblicana la solenne investitura data dalle curie ai magistrati supremi, già eletti nei comizî centuriati: in essa molti vedono il residuo di un antico potere del comizio curiato di eleggere i capi; ma è più conforme alle leggi di sviluppo degl'istituti politici l'ammettere che fin dall'origine sia stata una semplice acclamazione, e come un giuramento di fedeltà prestato al nuovo re. Non è diverso il significato dell'inauguratio dei sacerdoti maggiori, anch'essa riservata al comizio curiato, dopo che il centuriato aveva provveduto alle elezioni.
Più significativo è l'intervento delle curie in negozî di diritto privato che influivano sulla continuazione o estinzione dei culti familiari, quali il testamento (detto appunto perciò testamentum calatis comitiis), l'adrogatio, la detestatio sacrorum. Per il primo era previsto che i comizî si riunissero due volte all'anno in apposite sedute: i giorni relativi erano probabilmente il 24 marzo e il 24 maggio, che nel calendario portavano la sigla Q. R. C. F. (quando rex comitiavit fas). Trattandosi di funzioni pertinenti allo ius sacrum, dopo la caduta della monarchia la convocazione dei comizî a questi fini ebbe luogo non a cura dei magistrati repubblicani ma del pontefice massimo.
Con ciò si è già detto che le curie non furono disciolte né i relativi comizî aboliti, per effetto del trapasso dalla monarchia alla repubblica: lasciati in vita, furono, però, progressivamente ridotti a vane parvenze, per l'incremento dei nuovi e più vitali istituti. Così la lex curiata de imperio e l'adrogatio persistono nell'antica forma, per tutta l'epoca repubblicana la prima, fino al sec. III d. C. la seconda; salvo che fin dal sec. IV a. C. nessuno pensò più ad assegnare a ciascun cittadino il suo posto nelle curie, e tanto meno a un'effettiva convocazione di esse, ma a simboleggiarle furono chiamati i trenta littori.
Bibl.: B. G. Niebuhr, Römische Geschichte, I, Berlino 1873, p. 273 segg.; Th. Mommsen, Römische Forschungen, I, Berlino 1864, p. 140 segg.; id., Römisches Staatsrecht, III, i, Lipsia 1887, p. 89 segg., 316 segg.; R. von Jhering, Der Geist des römischen Rechts, 2ª ed., Lipsia 1866, I, pp. 114 segg., 250 seg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, p. 239 segg.; P. Bonfante, Storia del diritto romano, 3ª ed., Milano 1923, I, p. 82 segg., 101 seg.; G. W. Botsford, The Roman assemblies from their origin to the end of the republic, New York-Londra 1909; A. Rosenberg, Der Staat der alten Italiker, Berlino 1913, p. 118 segg.; B. Kübler, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IV, col. 1815 segg., P. De Francisci, Storia del diritto romano, I, Roma 1926, p. 134.
La curia municipale. - È il corpo collegiale stabilito dall'ordinamento municipale romano, limitatamente forse alle sole civitates, perché sovraintenda all'amministrazione e alle necessia locali e sia di consiglio ai magistrati cittadini, svolgendo funzioni analoghe a quelle adempiute in Roma dal Senato. I componenti la curia, generalmente in numero di cento, erano detti decuriones (talvolta patres, conscripti, senatores), dalla divisione della curia stessa in decurie, e l'insieme dei varî decurioni costituiva il collegio o ordo decurionum. Quanto alla nomina dei decurioni, nel periodo repubblicano erano i magistrati municipali a eleggere i membri della curia ogni volta che qualche posto si rendeva vacante. Per essere decurioni erano richiesti determinati requisiti di età, di censo, di domicilio e bisognava essere ingenui, non aver esercitato alcuna professione e non aver subito condanne. Il modo di elezione mutò con l'Impero, e fu forse nel periodo che corre tra il regno di Traiano e quello di Settimio Severo che la nomina dei decurioni passò alla curia stessa col sistema della cooptatio, scegliendosi i candidati nella classe dei cumales in gran parte costituita dalla discendenza dei decurioni stessi. I componenti la curia venivano scritti da ufficiali detti quinquennales in un albo secondo il censo, l'età, le magistrature da essi gerite, e in base al posto occupato nell'albo erano determinati il rango di precedenza e l'ordine dei suffragi. La curia, convocata dal magistrato, svolgeva le sue sedute più o meno secondo quelle formalità che ci sono note per il Senato dell'Urbs, e al suo parere e alla sua approvazione venivano sottoposte tutte le principali questioni interessanti la vita cittadina, specie in materia di amministrazione dei beni della città, di lavori pubblici, di finanza. Sicché le funzioni della curia erano molteplici e varie e in ogni ramo dell'amministrazione si richiedeva il suo consiglio. Dai tempi di Caracalla, con lo scomparire dei comizî popolari, anche l'elezione dei magistrati passò alla curia, che li doveva scegliere dal proprio seno su designazione del predecessore. Gli onori e i privilegi di giurisdizione connessi con la funzione di decurione facevano sì che ancora nel primo periodo dell'Impero i cittadini ambissero conseguire il decurionato che attribuiva loro la nobiltà.
Con la decadenza della curia però (sec. III, secondo altri più tardi) e specialmente all'epoca di Diocleziano, cominciò a subentrare in tutti il desiderio di rimaner esenti dalla curia o di uscirne. E invero la condizione dei decurioni si era fatta ogni giorno più onerosa. Il governo dell'Impero, per il bisogno sempre crescente di denaro, si trovava costretto a gravare di ogni genere di imposte i municipî che, dal canto loro, erano nell'impossibilità di far fronte alle richieste governative con i proprî cespiti, quando si consideri anche che spesso il fisco imperiale confiscava buona parte delle proprietà municipali. Il governo impose allora ai decurioni di rispondere in proprio dell'insolvenza del loro municipio e dei loro concittadini, di modo che la qualità di decurione o curiale importò l'obbligo di far fronte con le proprie sostanze alle imposte gravanti sui cittadini del municipio e da questi non corrisposte, il che significava mandare rapidamente in malora il proprio patrimonio privato. Di fronte alla tendenza generale di uscire dalla classe dei curiali intervenne, già dopo Costantino, lo stato ad affermare l'ereditarietà del decurionato, in virtù della quale erano curiales di diritto i discendenti degli appartenenti alla curia e come tali non potevano comunque rifiutare la carica di decurione ove vi venissero eletti. Uno dei modi di evitare tali obblighi restò sempre quello di ottenerne l'esenzione per via di privilegio, e queste esenzioni concesse con una certa frequenza vennero a dar origine alla classe cittadina degli immunes, ora la prima classe cittadina, e a peggiorare però sempre più le condizioni dei curiali superstiti, che, ridotti ancor più di numero, dovevano tuttavia sopportare gli stessi carichi. Alcuni curiali giunsero fino a farsi ecclesiastici o a passare tra i rustici per liberarsi dalla loro condizione. Ne consegue che alla metà del secolo IV vediamo già in molti municipî non esistere quasi più curiali. Alla definitiva decadenza delle curie certo contribuì anche l'accentramento dei poteri nell'amministrazione imperiale: la curia non nominò nemmeno più i magistrati cittadini, inviati con sempre maggior frequenza dal potere centrale.
La caduta dell'Impero e la dominazione di Odoacre prima e dei Goti poi non mutò le cose né arrestò la decadenza delle curie. Lo tentò invece Giustiniano, ma tutto fu inutile. Caduta dopo il 568 l'Italia sotto il dominio dei Longobardi, questi mantennero la curia in un primo tempo con le stesse funzioni di carattere fiscale, tanto che i curiales furono ritenuti responsabili della retta esecuzione degli obblighi derivanti da quel rapporto di hospitalitas secondo il quale gl'invasori si stabilirono sui territorî occupati; sennonché più tardi, forse per la consegna da parte dei proprietarî di una parte delle loro terre ai Longobardi e la conseguente abolizione di ogni imposta diretta, i curiali furono liberi di uscire dalle curie. È probabile che sia questa la causa per cui la curia sembra dipoi scomparire, sì da non trovarne più tardi che dubbie e scarse memorie. Similimente nell'Italia rimasta ancora bizantina le curie municipali non vanno probabilmente oltre il sesolo IX, dopo che Leone IV il Savio (886-893) le ebbe private con la novella XLVI delle loro funzioni politiche o amministrative. Ma quando precisamente le curie siano scomparse è questione tuttora insoluta.
Bibl.: E. Besta, Curia e curiali, in Il Digesto italiano; J. Declareuil, Quelques problèmes d'histoire des institutions municipales au temps de l'empire romain, in Nouv. revue hist. du droit, Parigi 1908; R. J. A. Houdoy, De la condition et de l'administration des villes chez les romains, Parigi 1876; B. Baudi di Vesme, L'origine romana del comitato longobardo e franco, in Boll. storico subalpino, Torino 1903.
Archeologia. - I Romani chiamarono curia anche la sede dove i cittadini si radunavano per deliberare o per scopi religiosi. Le curie vecchie, ricollegate dalla tradizione alla primitiva città del Settimonzio, erano alle falde del Palatino, di fronte al Celio e si riferivano agli abitanti dei sette pagi che costituivano il Septimontium; ogni pagus aveva la sua curia, cioè una sala di riunione a scopo religioso; gli aderenti si chiamavano perciò curiales. Divenute insufficienti le vecchie curie in seguito all'ampliamento della città, furono costruite le curiae novae in numero di trenta, attribuite dalla tradizione allo stesso Romolo. Le nuove curie erano, a quanto sembra, sul Celio, un po' a oriente delle vecchie, presso il vicus Fabricii (Festo, p. 174), ma è dubbio che si trattasse di un grande edificio, diviso in 30 scompartimenti, come generalmente si crede.
La curia per eccellenza era quella del Senato, prospiciente il Comizio e in relazione col Foro. Fu chiamata in origine Hostilia, in base alla tradizione che la diceva fondata dal re Tullo Ostilio, e si mantenne nella forma primitiva fino all'80 a. C. quando fu restaurata da Silla. Bruciò nel 52 a. C., in seguito alle lotte fra i partigiani di Milone e quelli di Clodio, e fu ricostruita in fretta, tanto che Giulio Cesare sentì la necessità di darle una forma più decorosa e la ricostruì a fundamentis nel 44, chiamandola col suo nome (curia Iulia); la dedicazione avvenne sotto Augusto nel 29 a. C. col medesimo cerimoniale che si seguiva nella dedicazione dei templi, essendo l'edificio considerato come luogo sacro. Domiziano vi apportò miglioramenti nel 94 d. C. La vediamo effigiata in uno dei rilievi istoriati di Traiano nel Foro, dove si presenta con un pronao pentastilo sormontato da un timpano. Nel famoso incendio di Carino (284 d. C.) bruciò di nuovo e fu ricostruita da Diocleziano nella forma in cui la vediamo oggi, ma la fronte non fu più quella di un tempio; ebbe invece una grande porta nel centro e due finestroni ai lati, in alto, similmente alle aule basilicali di quel tempo. L'edificio si componeva di tre parti: la curia propriamente detta, dove si radunava il Senato; il chalcidicum aggiunto da Augusto alla curia Iulia, specie di portico per dare la luce alle stanze intorno, quello stesso che nei restauri di Domiziano divenne l'atrium Minervae; e il secretarium, sala absidata attigua al chalcidicum. La sala della curia fu trasformata nel secolo VII in chiesa di S. Adriano, e il secretarium in chiesa di S. Martina; il chalcidicum andò invece distrutto, soprattutto in seguito all'apertura della via Bonella.
Nei municipî e nelle colonie dell'Italia e delle provincie la curia era la sede dell'ordo decurionum o senato municipale: la sua forma era quella di una sala rettangolare, con podio leggermente sopraelevato lungo la parete di fondo per il presidente dell'assemblea. Alla sala principale sono in genere annessi altri ambienti riservati agli uffici. Ne abbiamo esempî a Pompei, e in varie città africane.
Bibl.: O. Gilbert, Geschichte und Topographie der Stadt Rom im Alterum, Lipsia 1883, I, p. 38 segg.; S.B. Platner-Th. Ashby, A topographical Dictionary of ancient Rome, Oxford 1929, s.v.: Curia, curae novae; curiae veteres; Chalcidicum; Graecostasis.