Dada
di Maurizio Fagiolo dell'Arco
Dada
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Le origini e l'espansione: a) i centri dada; b) tra il futurismo e il surrealismo. □ 3. I protagonisti: a) Ball e Tzara; b) Duchamp, Picabia, Man Ray; c) Arp, Richter, Schwitters, Ernst. 4. Idee e ideologia: a) anarchia e nichilismo; b) il primitivismo; c) il caso; d) la provocazione; e) il metodo meccanico; f) le tecniche sperimentali; g) l'esistenzialismo. 5. Il new dada. □ Bibliografia.
1. Introduzione
‟Dada nacque dallo spirito di rivolta, che è comune alle adolescenze di tutte le epoche e che esige la completa adesione dell'individuo ai bisogni della sua natura più profonda, senza riguardi per la storia, per la logica o per la morale. Onore, patria, morale, famiglia, arte, religione, libertà, fraternità, tutto quel che vi pare: altrettanti concetti che corrispondono agli umani bisogni, dei quali non resta null'altro che scheletriche convenzioni, private ormai del loro significato primitivo": così nel 1951 Tristan Tzara, il teorico del movimento dada, metteva a fuoco, nell'introduzione al libro di Motherwell (v. Tzara, 1964; tr. it., p. 120), l'idea di fondazione.
All'inizio del secolo, l'arte è più che mai interprete della crisi che investe la cultura occidentale: quella crisi che, nel campo storico, assume tragica evidenza con la guerra mondiale. Dall'espressionismo al cubismo, dal futurismo all'astrattismo tedesco, all'avanguardia sovietica: si succedono con ritmo frenetico riforme che postulano un cambiamento dell'arte nella società. Ma sarà il movimento dada ad arrivare alla negazione assoluta e radicale, alla liquidazione di un intero sistema estetico. Dada nasce per caso, nella Svizzera neutrale, a Zurigo: intorno a un caffè letterario si raccoglie un gruppo eterogeneo di artisti e pensatori di varia provenienza (il filosofo tedesco Hugo Ball, il poeta rumeno Tristan Tzara, il pittore alsaziano Hans Arp...). È un gruppo di antimilitaristi e di anarchici, accomunati da un unico stato d'animo: la rivolta e la negazione della cosiddetta ‛civiltà' che in nome di un presunto razionalismo tende a giustificare la violenza della guerra. Si oppongono alla ‛ragione' sulla quale si articola il sistema dei valori istituzionalizzati della società attuale. Alla regola viene a sostituirsi l'eccezione: lo stesso termine dada nasce casualmente. Si dice che fu trovato sfogliando a caso il vocabolario, ma in rumeno significa ‛sì sì' e in francese ‛cavallo' nel linguaggio infantile, mentre Tzara lo ricollega a fonemi dell'Africa Nera. L'unica cosa certa è la prima data in cui appare, il 15 giugno 1916.
All'operazione artistica succede il lavoro estetico: il più delle volte l'arte viene declinata secondo la nozione di ‛antiarte'. È il ‛disordine necessario' auspicato da Rimbaud e teorizzato da Tzara. Si ripudia il progetto e l'oggetto, si torna al soggetto (al comportamento dell'artista, alle manifestazioni scandalistiche). Date queste premesse, è chiaro che il gruppo è contro ogni movimento programmato: quando nel 1921 la sezione di Parigi guidata da André Breton proporrà, con l'analisi dell'inconscio, un sia pur labile indirizzo di ricerca, lo spirito dada può dirsi esaurito.
Anche se già esistono studi storici e filologici su questi teorici dell'assurdo e del nulla, oggi dada è ancora un problema aperto. Si preferirà quindi affrontare i suoi protagonisti e le sue idee soprattutto come problemi. Si analizzeranno le figure dei protagonisti, non per un malinteso culto della personalità o per vincoli idealistici, ma perchè la vera novità apportata dal gruppo è la totale aschematicità, l'anarchia individualista. La negazione è il primo dei loro interessi: anche se dada non articolerà mai una ideologia del ‛negativo', la farà sempre aleggiare sulle sue ricerche come una inquietante idea fissa.
2. Le origini e l'espansione
a) I centri dada
‟La complessa evoluzione di dada, le sue diverse tendenze a seconda dei centri in cui si è sviluppato, sono il corollario del suo antidogmatismo" così Tristan Tzara nell'introduzione al libro di G. Hugnet (v., 1957; tr. it., p. 10) apre il suo consuntivo sulla vita del movimento. A Zurigo si cerca una dialettica tra arte astratta e rivolta, a Berlino si fa un'arte politica e di propaganda, a Colonia e Hannover si sceglie la via dell'humor, a Parigi dada è ‟antifilosofico, nichilista, scandaloso". L'unico principio di questa nuova ‛internazionale' è lo spirito antiborghese e antiaccademico, l'unico metodo è la provocazione.
1 febbraio 1916: Hugo Ball apre un cabaret nel locale Meierei in un vecchio quartiere di Zurigo, promettendo al proprietario della birreria in cui è ospitato di incrementare gli affari con attività ‛artistiche'. Mentre infuria la guerra, la Svizzera neutrale è divenuta il rifugio di uomini liberi, e tra questi Ball sceglie i suoi compagni di strada. Arp gli fornisce quadri suoi e degli amici Arthur Segall e Otto van Rees, oltre che di Picasso. Marcel Janco espone rilievi policromi. Tzara partecipa all'attività letteraria. Richard Huelsenbeck si cimenta in declamazioni. Emmy Hennings, compagna di Ball, canta. Si assiste a sedute di poesia simultanea e musica negra, a mascherate collettive. Entra nel circolo Hans Richter, che diventerà il cronista del gruppo. Si succedono serate dedicate alla Francia, alla Russia, all'Italia; mostre di Kandinskij e Klee, una mostra di Der Sturm e una di Giorgio De Chirico (incluso, suo malgrado, nel dada come poi nel surrealismo).
Nascono le riviste: prima ‟Cabaret Voltaire" e poi ‟Dada" (1917-1918). Il credo di dada-Zurigo è sintetizzato da Ball (14 aprile 1916): ‟Il nostro Cabaret è un gesto. Ogni parola che qui viene detta o cantata, significa per lo meno un fatto: che questo tempo mortificante non è riuscito a imporci rispetto" (v. Ball, 1927, p. 85). Il movimento zurighese si conclude praticamente con la Soirée dada dell'aprile 1919: la guerriglia estetica prosegue in altri centri.
A New York, dopo la grande mostra dell'Armory show (1913), si raccoglie intorno al fotografo Alfred Stieglitz un gruppo che, pur ignorando il lavoro di Zurigo, si muove sulla linea dada. Stieglitz ha un laboratorio di fotografia d'arte, poi apre una galleria denominata ‛291' dal numero civico della Fifth Avenue (organizza mostre di Rodin, Matisse, Toulouse-Lautrec, Rousseau, Cézanne, Picasso, i cubisti), infine pubblica le riviste ‟Camera work" e ‟291". Marcel Duchamp è a New York nel 1915, Francis Picabia espone da Stieglitz già nel 1913 e collabora alle sue iniziative; dalla Spagna arrivano Albert Gleizes e Arthur Cravan, Man Ray giunge da Philadelphia. Il loro mecenate è Walter Arensberg, un loro seguace è Edgar Varèse, che sperimenta una musica dei rumori.
Un personaggio particolare, assunto poi a simbolo di dada, è Cravan, un avventuriero che scomparirà nel nulla dopo il gesto clamoroso della sfida al campione mondiale dei pesi massimi (23 aprile 1916). Duchamp fa il suo primo gesto portando dall'Europa ad Arensberg un'ampolla contenente ‛aria di Parigi'; poi nascono i ready mades, fino allo scandalo dell'orinatoio esposto col titolo di Fountain alla ‛Prima mostra degli indipendenti'.
Mentre si moltiplicano le riviste condotte insieme a Man Ray (‟The blind man", ‟Rongwrong", ‟New York dada"), Duchamp inizia il suo fondamentale opus: La mariée mise à nu par ses célibataires, même.
In Germania, il clima è più rovente anche per la mutata atmosfera politica. Nel primo discorso dadaista di Huelsenbeck (1918) si rivendica ai movimenti d'avanguardia lo strumento espressivo del ‛manifesto'. Del club dada fanno parte anche Raoul Hausmann (poeta, artista, panflettista), Johannes Baader (specialista nella provocazione, religiosa e civile), Franz Jung (poeta e poi politico), Carl Einstein (poeta), Walter Mehring (uomo di teatro), John Heartfield (specialista del collage), George Grosz (l'ideale controfigura di Bertolt Brecht).
Viene messa a punto la nuova tecnica del fotomontaggio, si perfeziona la poesia astratta e tipografica. Manifestazioni e spettacoli si susseguono a Berlino, Lipsia, Praga, soprattutto tra il 1918 e il 1919, prima dei malintesi e litigi (l'ultimo fronte comune è la ‛Prima fiera internazionale dada' del 1920). A Hannover si sviluppa la Gesamtkunstwerk di Kurt Schwitters, a Colonia il lavoro fantastico e filosofico di Max Ernst: due artisti conosciutisi a Zurigo intorno al 1918.
L'ambiente si distingue per l'impegno politico: confuso agli inizi (da notare lo strano telegramma di adesione all'impresa dannunziana di Fiume), poi rovente e rivoluzionario. Sono gli anni dell'apostolato di Rosa Luxemburg, che dopo i lunghi anni di carcere vedrà l'effimero trionfo dello spartachismo (1919), per essere subito dopo assassinata.
Dal 1919 il baricentro si sposta a Parigi. I rapporti si possono antedatare perché sono di linea dadaista le riviste ‟Nord Sud" di P. Reverdy e ‟Sic" di P. A. Birot; alcuni, come Aragon, Breton, Soupault, collaborano alla rivista ‟Dada" già nel 1918 (alla rivista ‟Littérature" diretta dai tre scrittori collabora anche Tzara); Picabia pubblica a Parigi il numero 9 della sua rivista ‟391" e diventerà poi l'animatore del gruppo, insieme a Tzara. Gli spettacoli e le azioni scandalistiche (antiborghesi, antiletterarie, antiartistiche) si moltiplicano: dal Primo venerdì di ‟Littérature" (3 gennaio 1920) al pamphlet Dada soulève tout del 1921, dalle Excursions et visites dada (si tiene solo la prima, nel 1921) al Procès Barrès nel maggio 1921 (un attacco, ma ‛serioso', alla cultura ufficiale). È quest'ultima occasionè a dividere il movimento in tre tendenze che fanno capo a Breton, Tzara, Picabia: in realtà, la confusione è al limite (anarchia o solidarietà operaia? individualismo o fronte dell'avanguardia?). Le riviste si moltiplicano: oltre a ‟391", Picabia pubblica ‟Cannibale" e ‟Philaou-Thibaou", P. Dermée pubblica ‟Z", Tzara continua la rivista zurighese con ‟Bulletin dada", nasce la fortunata ‟Littérature" cui collaborano tutti (in opposizione al famoso verso di Verlaine, il gruppo dichiara di interessarsi a tout le reste). Emerge di prepotenza Breton, in un gruppo che agisce e reagisce a seconda dei malumori personali o delle casuali idiosincrasie: sono noti gli scontri tra Breton e Tzara e Picabia, ma quasi tutti cercano, deliberatamente, posizioni diverse (alle manifestazioni partecipano anche P. Éluard, R. Radiguet, J. Cocteau, E. Satie, D. Milhaud, R. Clair).
Le mostre più notevoli sono di Picabia, di Ernst, di Man Ray (giunto da New York). In questa atmosfera tesa, si apre il Congresso internazionale per la determinazione delle direttive e per la difesa dello spirito moderno: un fallimento per dada. La polemica trascende fino alla rottura clamorosa. La Conference sur la fin de dada tenuta da Tzara a Weimar nel 1922 è la capitolazione teorica: Breton sta preparando il primo manifesto del surrealismo.
Negli altri centri europei, dada non arriva con la sua forza blasfema e catalizzante: aleggia appena come un fantasma. Raggiunge l'Ungheria, la Iugoslavia, l'Olanda (per un certo periodo, il teorico di De Stijl, Th. van Doesburg, si può definire dadaista). In Italia, dopo il contributo iniziale al ‟Cabaret Voltaire", dada è un'eco: le riviste sono ‟Bleu", ‟Noi", ‟Le pagine"; gli uomini sono Enrico Prampolini e altri tra i quali ha un posto determinante il teòsofo reazionario Julius Evola.
b) Tra il futurismo e il surrealismo
Con la sua dottrina nichilista, il movimento dada si atteggia a liquidatore di tutte le dottrine artistiche, e soprattutto del futurismo che predicava una cieca fiducia nel progresso. Ma, almeno all'inizio, i futuristi sono accolti come precursori: nelle serate del Cabaret Voltaire come nel fascicolo omonimo, si possono trovare le tavole parolibere di F. T. Marinetti, F. Cangiullo, P. Buzzi, C. Govoni. È Ball a chiamare a Zurigo i rappresentanti delle avanguardie, qualificando anzi il dada come ‟sintesi delle moderne tendenze artistiche e letterarie". Anche Schwitters si dichiara seguace di certi atteggiamenti futuristi: nel metodo materialista del collage ma anche nella poesia fonetica (‟Da Marinetti riprendemmo il rumorismo, il concerto rumorista"). Molti altri atteggiamenti sono comuni al movimento italiano, anche perché fanno parte del meccanismo di un'atteggiamento d'avanguardia: soprattutto, la necessità di provocare la borghesia con manifestazioni improvvisate (il Cabaret Voltaire è la continuazione delle serate futuriste) e l'esigenza di affidare le proprie idee al manifesto (la pubblicità resta il grande mito del nostro tempo, v. futurismo).
All'inizio degli anni venti, i protagonisti del movimento appaiono sempre più ribelli ed eccitati: la nascita del surrealismo da un filone di dada non indica il lento spegnersi di quell'atteggiamento ma proprio la sua esaltazione. Nel 1924 tutti i protagonisti di dada passano al surrealismo: non c'è altro che un cambio della guardia al vertice, Breton al posto di Tzara. La nuova piattaforma ideologica fa sue tutte le posizioni dada e vi aggiunge nuovi interessi: dall'onirismo all'automatismo, dalla psicologia (e anzi psicanalisi) all'esoterismo. Duchamp, Man Ray, Picabia, Ernst, Arp: sono i primi a seguire Breton, il quale in pochi anni riuscirà a mettere a punto un codice che sembra rivoltarsi contro le stesse premesse dada. Per esempio, è nuovo e decisivo l'engagement politico, dopo l'anarchia di Zurigo e di New York. La vaga rivolta antiborghese cerca ora la ‛classe', secondo lo slogan ‟Le surréalisme au service de la révolution".
3. I protagonisti
a) Ball e Tzara
Il teorico di dada a Zurigo è Hugo Ball: la sua ideologia è l'anarchia assoluta, è il trionfo della negazione. Le sue idee sono state fortunatamente divulgate dalla sua compagna Emmy Hennings che ne pubblicò il diario (Die Flucht aus der Zeit, 1927). Bali si interessa di tutti i letterati e gli artisti compromessi con la vita, al punto di confondere i vitalisti sfrenati con gli esteti dell'arte per l'arte (Baudelaire, d'Aurevilly, Wilde, Nietzsche). Per un nichilista accanito, etica e idealismo vanno messi all'indice: ‟Kant, questo è il nemico mortale al quale tutto fa capo: con la sua teoria della conoscenza ha messo tutto in mano all'intelletto e al potere. Egli ha sollevato a ragione e a imperativo categorico, al quale tutto deve sottomettersi, la ragion di Stato prussiana. La sua massima più alta suona: la ragione deve essere accettata a priori; di qui non si sfugge. Questa è la caserma della sua potenza metafisica" (v. Ball, 1927, p. 14). I precursori del pensiero negativo di Ball saranno da trovare in Novalis e nei romantici, nel mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, nell'anarchia dell'anarchia di Nietzsche, nel crepuscolo degli dei di Wagner. In un appunto del giugno 1916, Ball fissa le coordinate della nuova ricerca: fiducia nello straordinario e nell'assurdo, metodo ludico e primitivismo, anti-natura, amore per la parologia. Il sistema è comunque nemico: ‟l'artista dada sa che il mondo dei sistemi è andato in frantumi e che un tempo che tende al pagamento in contanti ha aperto il commercio all'ingrosso delle filosofie sdivinizzate" (ibid., p. 92). La teoria di Ball arriva a prevedere il superamento dello ‛stile di vita' di un Wilde o di un Baudelaire addirittura attraverso l'ascesi e la vita cristiana: ‟Il demoniaco non distingue più il dandy dalla banalità. Per distinguersi meglio bisogna diventare dei santi" (ibid., p. 16). Negli ultimi anni, l'anarchico Ball si converte (scrive libri come Dei diritti di Dio e dell'uomo o Cristianesimo bizantino): ed è quasi la nemesi per una ricerca d'avanguardia.
Un altro letterato continua il lavoro teorico di Ball: è il rumeno Sami Rosenstok (poi noto come Tristan Tzara) giunto a vent'anni a Zurigo per studiare matematica. Alla prima manifestazione dada del 1916 legge il Manifesto del signor Antipyrine: seguono i manifesti del 1918, 1919, 1920 (Proclama senza pretesa, Manifesto Tristan Tzara, Manifesto sull'amore debole e l'amore amaro). Tzara si muove su un filo d'equilibrio teso sul nulla, si proclama contro il futuro e contro l'umanità com'è, contro la morale e l'arte ridotta a merce. Crede soltanto in quello che si può dire con una negazione, ma crede anche in un lavoro estetico materialista (‟Il pensiero si fa nella bocca"). ‟Non ci sono leggi, qualunque atto ci è consentito, impieghiamo ogni mezzo" dichiara: ed è logico che si occupi di artisti come Arp e Picabia e Man Ray, di poeti già mitici come Apollinaire, di fenomeni come l'arte negra. Il suo linguaggio è svagato e insieme graffiante: nella sua pagina, uno sberleffo vale come una sottile immagine lirica, una metafora incomprensibile come un anatema antiborghese. Il poeta teorico, che ha avuto il merito di allargare i confini portando dada a Parigi, qualifica ‛romantica' l'esperienza di quegli anni, quasi una sintesi tra ideologia rivoluzionaria e rivoluzione poetica. ‟Dada ha tentato non tanto di distruggere l'arte e la letteratura, quanto l'idea che se ne aveva. Ridurre le loro frontiere rigide, abbassare le altezze immaginarie, rimetterle alle dipendenze dell'uomo, alla sua mercé, umiliare l'arte e la poesia, significa assegnare loro un posto subordinato al supremo movimento che non si misura che in termini di vita". Così Tzara, nell'introduzione al libro di Hugnet (v., 1957; tr. it., p. 7). Anche la fine del movimento ha una sua logica: ‟Mettendo volontariamente fine alla propria attività, dada ha dato la prova che, se l'esperienza si giustificava, la sua continuazione, una volta raggiunto il punto di saturazione, sarebbe stata la negazione pura e semplice della sua natura profonda" (ibid., p. 10). E allora, volontariamente, Tzara tace e lascia il campo a Breton.
b) Duchamp, Picabia, Man Ray
Provenienti da tre latitudini diverse, i tre artisti si ritrovano a New York: l'incontro è decisivo per gli sviluppi di dada. I due ‛padri pellegrini' europei, dopo la prova generale dell'Armory show, portano nel continente vergine per l'arte le loro invenzioni a catena. L'americano sperimenta, dietro il loro esempio, tecniche nuove o casuali, per seguirli poi a Parigi. Più volte i tre artisti si incontrano o si scontrano, fino all'ultima vicenda: l'adesione (entusiastica o critica, a seconda dei momenti) al surrealismo.
Marcel Duchamp è diventato un mito dell'arte contemporanea: il suo logico approdo al ‛silenzio' è il momento dialettico della pittura globale (un rinnovato caos) di Picasso. Inizia nell'orbita di Cézanne e dei fauves: il colore diventa stridente, le forme meccaniche. Poi è tra i protagonisti della seconda ondata cubista: Apollinaire lo include tra gli ‛orfici'. In questo momento, anzi, sembra quasi un conciliatore tra futurismo e cubismo, dato il suo interesse per il problema del ‛movimento'. La ricerca diventa esemplare con la scoperta del ready made: il semplice prelevamento di una cosa di uso comune (orinatoio, badile, attaccapanni) cui viene attribuito un nuovo senso con il metodo dello spaesamento o con un gioco di linguaggio. Nell'operazione è decisiva la legge del caso (a proposito di questo momento estetico, torneremo a esaminare il ready made). Il punto d'arrivo è il grande vetro della Mariée, un lavoro durato quasi dieci anni (1915-1923) e lasciato volontariamente incompiuto: è la vera tabula rasa auspicata da dada. L'ex pittore sente il bisogno di eliminare i cattivi ricordi figurativi e ritornare alla purezza di uno schermo bianco su cui proiettare le sue scoperte e nevrosi, in una lunga autoanalisi.
Duchamp si dedica anche alla ricerca filmica, dato l'antico interesse per il movimento (Anemic cinema); opera in direzione concettuale e didattica (la Boite en valise del 1941 ricapitola tutto il suo lavoro in una valigetta); arriva alla concezione dell'environment (un esempio è l'allestimento della grande mostra surrealista del 1942). Nessuno sa quale è il traguardo di questo lavoro perché, dice Duchamp, un preciso punto d'arrivo non esiste (‟Non ci sono soluzioni perché non ci sono problemi"): l'importante non è sapere quello che si deve trovare, ma l'importante è proprio la ricerca. E così, Duchamp si è vestito prima da pittore e poi da letterato, infine da giocatore di scacchi, recitando tutte le parti della commedia dell'arte, per dimostrare che importante non è la commedia ma il primo attore.
Di fronte al laboratorio del Grande vetro, a confronto con lo spazio in vitro, Duchamp decide che l'arte è una bugia: il punto d'arrivo, amaro ma logico, è l'ipotesi della fine del lavoro artistico. Nel 1923 comincia a giocare a scacchi in Europa e in America, senza distaccarsi in fondo dall'operazione artistica: non esibisce più l'opera d'arte ma ‛si' esibisce, inventa qualcosa che è arte e vita al tempo stesso. Preannuncia l'happening e l'arte ‛di comportamento'.
Anche Francis Picabia proviene da una pittura impressionista e poi cubista: decisivi, poi, gli incontri con Apollinaire e Duchamp. Negli anni della guerra è a New York e poi a Cuba: la sua pittura vivace e ‛futurista' è già oltre il cubismo. Ma il periodo pittorico più alto è il momento dadaista del ‛macchinismo': Picabia dipinge in stile meccanico quadri che hanno per soggetto ingranaggi e macchinari che ricompongono personaggi immaginari. Nel 1918 pubblica Poèmes et dessins de la fille née sans mère: la tesi è quella che la macchina è soltanto figlia dell'uomo, come Minerva uscita per partenogenesi dal cervello di Giove. Come nei ready mades di Duchamp, è il titolo che dà un nuovo senso a rappresentazioni apparentemente banali: e così i macchinari assumono titoli come La novia, L'enfant carburateur, Parade amoureuse, Voilà la femme. Ritorna cioè la situazione umana che sembrava esclusa: in tempo di uomini ridotti a macchine distruttive, sembra dire Picabia, saranno giustificate le macchine che diventano umane. All'inizio Picabia ha disossato l'uomo come un meccanismo (il metodo deriva da cubismo e futurismo), per riconoscere alla fine che il vero tema è la macchina. La vera scoperta è anche a livello di stile: il quale diventa, strutturalmente, ‛meccanico'.
Le vicende della vita di Picabia si complicano: passa dall'alcool alla droga, dalla depressione all'esaltazione. In breve l'analista si trasforma in soggetto da psicanalisi: si devono a questa vita avventurosa (‟nomade" dice Picabia) i suoi cambiamenti e salti di stile. Nel gennaio 1917 pubblica la rivista ‟391", erede della ‟291" diretta da Stieglitz a New York: i diciannove numeri apparsi fino al 1924 sono un campionario esauriente delle sue idee, dei suoi rapporti umani e artistici, della sua nevrosi. Nel dopoguerra è a Parigi: il clima è cambiato perché su ‟Littérature" appaiono i nomi di Lautréamont, Radiguet, Cendrars, Breton (nel 1919 in un testo di Breton e Soupault appare il primo tentativo di scrittura automatica). Picabia affianca i para-surrealisti in manifestazioni e spettacoli. Mentre Breton lancia il manifesto del surrealismo, Picabia organizza Relâche per i balletti svedesi: come entr'acte c'è il famoso film omonimo diretto, su sceneggiatura di Picabia, da René Clair. Picabia lavora disordinatamente ancora per trent'anni, portando tuttavia nel clima stereotipato delle avanguardie la sua inventività, i suoi punti interrogativi, il suo amore-odio per l'arte. L'attivismo sfrenato è la scelta di una vita a-sistematica in un mondo di massimi sistemi. Ed è questo il suo vero contributo a dada: ‟La seule faåon d'étre suivi c'est de courir plus vite que les autres".
Man Ray comincia a lavorare sull'esempio di Duchamp e Picabia. Prima di partire per l'Europa, dipinge con la tecnica meccanica e casuale dell'areografo e dà vita a un oggetto memorabile come L'enygme d'Isidore Ducasse, una coperta legata con corde che nasconde forme indefinibili. Negli anni venti è a Parigi, dove mette a punto la tecnica del rayograph, cioè la foto oggettiva di cose riprese senza l'intervento dell'occhio del fotografo. Realizza quattro film che si ricollegano per le novità tecniche al suo lavoro di fotografo: Le retour à la raison appare alla Soirée dada del 1923, Emak Bakia è del 1927, L'étoile de mer è del 1928, Le mystère du chateaux des dés è un film surrealista (1929). Tra le due guerre, Man Ray dà vita a una serie di oggetti che sembrano andare oltre il ready made di Duchamp per la loro apparenza ludica e per le proposizioni linguistiche. Il ferro da stiro con i chiodi (Cadeau, 1921), il metronomo con l'occhio ammiccante, la Venere greca legata con gli spaghi (Venus restaurée, 1936), gli oggetti linguistici come Collage ou l'âge de la colle o Main Ray (la mano come autoritratto). Tutti oggetti nati all'insegna del controsenso, del mistero, dell'inganno: ‟Tutto quanto capita sottomano o è trascelto nella profusione dei materiali che ci sono prossimi, vien combinato con parole al fine di ottenere una semplice immagine poetica. Non bisognerà cercare quelle qualità plastiche, quei virtuosismi, o quei meriti che si è soliti vedere associati ai prodotti artistici. Questi oggetti dovrebbero dilettare, disturbare, disorientare o far riflettere" (v. Man Ray, 1970, p. 1). Le cose si associano alle parole cambiando di significato: per questa operazione linguistica è essenziale l'amicizia con Duchamp. Per Man Ray il possibilismo non ha limiti: può partire dal linguaggio per arrivare all'oggetto o dalla cosa per arrivare a una parola. ‟Avrei potuto rovesciare l'antico proverbio cinese che dice ‛un'immagine vale mille parole' con un altro del tipo ‛una parola vale mille immagini"' (ibid., p. 274).
c) Arp, Richter, Schwitters, Ernst
Altri focolai di rivolta sono naturalmente nei vecchi centri mitteleuropei: dal tempo di Zurigo (Arp, Richter) all'avanguardia politica di Berlino (Hausmann, Grosz) a quella distruttiva e costruttiva insieme di Hannover (Schwitters) a quella fantastica di Colonia (Ernst). Sono tutti artisti che ritroveremo nel nuovo centro di Parigi.
Hans Arp, pittore e poeta, studia in Germania e in Svizzera, ma anche a Parigi. Quando espone alla seconda mostra del Blaue Reiter (1912) entra in rapporto con Kandinskij e Delaunay; poi conosce Ernst e Max Jacob, Picasso e Apollinaire; nel 1916 partecipa alle prime serate del Cabaret Voltaire a Zurigo. Aderisce in seguito alla rivista ‟Merz" di Schwitters, espone alla prima mostra del surrealismo, partecipa al gruppo cercle et carré nel 1930 (una specie di fronte comune dell'avanguardia) e poi a abstration création. Da un artista così attivo per un sessantennio (morirà nel 1966) ci si aspetterebbe un lavoro aggiornato e sempre ‛alla moda', e invece Arp elabora una tematica semplicissima. I motivi emblematici sono l'occhio, il torso umano, la nuvola, l'uovo, la luna, la foglia, l'orologio. Se Duchamp cerca l'idea pura dell'oggetto, Arp scopre le tracce frammentarie della natura, preferisce all'oggettualità la naturalità. Nel tempo della tecnologia, torna ai cielo e ai prati, ma senza divagazioni oniriche, anzi con il rigore dell'orologeria svizzera. Le sculture ricordano Veneri steatopigie o strani idoli, per riallacciarsi all'immagine primigenia dell'uomo. Il cavernicolo si rivela più vicino al barbaro raffinato del tempo moderno, proprio per la sua capacità di vivere totalmente all'interno della natura.
Se Mondrian assicura che esiste una netta opposizione tra arte e natura perché ‟l'arte è artificiale e la natura è naturale", tutta l'opera di Arp nasce per rispondere che una vera differenza non esiste. L'arte continua l'opera della natura come la natura qualche volta sembra continuare l'opera dell'arte. Partendo dalla tabula rasa dada, Arp arriva quasi alla ‛riduzione' del pensiero fenomenologico: gli elementi vengono ridotti all'essenza per favorire una percezione e una comunicazione immediata. ‟L'invisibile vince il visibile".
Hans Richter inizia a dipingere sotto l'influenza del cubismo e dell'espressionismo: nel 1916 è a Zurigo dove partecipa alle serate del Cabaret Voltaire. Entra in contatto con il costruttivismo sovietico e con gli olandesi di De Stijl, fino a diventare lo storiografo di dada. Ma il suo vero contributo all'avanguardia è l'elaborazione di un linguaggio filmico, a partire dal 1921. Già nel 1918 Tzara gli fa conoscere Viking Eggeling: da questo sodalizio nascerà (anche se esperimenti analoghi erano stati compiuti dal futurismo) il film astratto. Nel 1921 Eggeling realizza Diagonal symphonie, una sequenza di forme geometriche, nello stesso anno in cui Richter presenta il suo Rhythmus 21. L'esigenza di passare dal quadro al film è così spiegata da Richter: ‟Assumendo il formato rettangolare della tela in una data proiezione, come elemento formale, potevo concentrarmi completamente sull'orchestrazione del tempo e solamente sul tempo. La sensazione più grande e originale di ogni espressione cinematografica" (v. Richter, 1964; tr. it., p. 186). Negli anni successivi, Richter arriva a un cinema che tende sempre a identificarsi con la vita: il suo problema è se riprodurre o ‛produrre' le immagini. Nel 1926 gira Filmstudie sulla base della Creazione del mondo di Milhaud: molte sequenze sono chiaramente surrealiste. Vormittagspuck (Apparizioni prima di colazione, 1927) è caratterizzato dai trucchi fotografici. Il bersaglio girevole, l'orologio, i cappelli che volano, gli uomini che marciano contro se stessi, le tazzine in movimento: sono tante sequenze per additare ‛l'oggetto in libertà'. Nei dieci minuti prima di mezzogiorno, gli oggetti si ribellano, per riprendere poi la routine. Come in tutti i film successivi (fino a Dreams that money can buy, recitato da molti dei dadaisti), il primo comandamento è la legge del caso, la teorizzazione dell'assurdo.
Kurt Schwitters inizia a lavorare nell'atmosfera di Der Sturm, il gruppo più legato alle avanguardie francesi e italiane. Anche se è precocemente in contatto con i dadaisti in Svizzera, non aderisce al movimento, per fornire semmai una variante personale denominata Merz (dal nome del primo collage astratto). Nel 1920 pubblica il poema-collage Anna Blume, poi entra in contatto con gli astrattisti olandesi e pubblica regolarmente la rivista ‟Merz" (1923-1932). Aderisce anche ai gruppi cercle et carré e abstraction création. Esule dalla Germania come esponente dell'entartete Kunst (l'arte moderna è qualificata ‛degenerata' da Hitler), si stabilisce prima in Norvegia, poi in Inghilterra dove muore nel 1948.
L'operazione di Schwitters vuole andare oltre l'arte, fino a invadere i territori della poesia, tipografia, teatro, musica, architettura, urbanistica. I suoi ‛quadri' sono formati da materie di scarto accostate casualmente: e sono quasi immagine del dopoguerra tedesco (il crollo del Reich, l'inflazione, una rivoluzione mancata). Schwitters diventa il collezionista dell'effimero, l'autore di quadri senza ‛aura', l'accumulatore di tutti i frammenti che rischiano di perdersi nella babele moderna: è il poeta dell'inflazione, il romanziere del rifiuto. Nella sua vasta ‛opera da tre soldi', si ritrova il senso nuovo di un'arte che non si contenta più di produrre manufatti da contemplare ma vuole proporre come modello lo stesso artista, vuole fornire esempi di azione, vuole buttare sulla ribalta il soggetto dopo l'oggetto. È un'arte che rinuncia alla stabilità dei valori, che sceglie l'effimero, il provvisorio.
Questa globalità si realizza nel Merzbau che nasce nella casa di Schwitters ad Hannover e poi nei suoi studi di Oslo e di Londra: una sorta di scultura-pittura che lentamente, attraverso aggregazioni successive, fagocita lo spazio, testimoniando i diversi momenti e stati d'animo dell'artista. La costruzione cresce con l'unica regola dell'horror vacui fino a cacciare quasi il protagonista dal suo atelier. Sono chiari i riferimenti al mondo filmico (l'espressionismo del Gabinetto del dottor Caligari) e all'architettura (dalle fantasie degli espressionisti alla simbolica ‛cattedrale' del Bauhaus). Scrive Schwitters: ‟Non è completo, il Merzbau, e per principio. Cresce, per esempio, come una metropoli".
Max Ernst, uno dei protagonisti del surrealismo, nasce nell'orbita dada dopo il Cabaret Voltaire. Notevoli del primo periodo i collages ottenuti scomponendo vere immagini di libri scientifici e ricomponendole secondo le leggi formali del caso. Nel nostro tempo tecnologico, propone il più scatenato individualismo, l'artigianato integrale. Le tecniche sono sempre trovate per caso: proprio come le immagini (‟è l'errore - dice Ernst - a generare la verità"). Il frottage, il grattage, il dripping: sono tante tecniche nate per escludere il controllo della ragione, del gusto, della morale. Ernst vuole spingersi fuori dell'arte, fino a negarla: ma soprattutto sembra dire che l'importante è comunicare idee e linguaggi, senza pensare all'arte come unico obiettivo. Il mondo onirico diventa così la vera faccia della realtà: la pittura sceglie il metodo della metamorfosi e il quadro è la testimonianza del transfert del suo autore. Logico l'approdo al surrealismo, logico il passaggio dall'anarchia nichilista di dada a una volontà politica e engagée.
4. Idee e ideologia
a) Anarchia e nichilismo
Dada eleva a sistema lo spirito di contraddizione e la negazione. Patria, famiglia, arte, eroismo: dada irride a tutte le gerarchie (sconvolte, del resto, dalla guerra). L'arte arriva a prevedere il brutto, la poesia e il teatro accettano il nonsense, la musica include il rumore puro, il cinema esplora l'immagine non oggettiva o il movimento fermo. Perfino le definizioni che il gruppo dà di se stesso sono in chiave negativa: non si spiegano gli obiettivi e i mezzi a disposizione ma si precisa tutto quello che il gruppo non vuole, tutto quello che non è. C'è tuttavia un metodo dietro l'apparente follia di dada: non a caso questa corrente di irrazionali sceglie a simbolo, nel nome del Cabaret Voltaire, il padre della ragione. In fondo, la ricerca dei trucchi per scardinare la ragione spinge a essere più razionali dei razionalisti. Si vuole scoprire l'assurdo che sempre esiste dietro ogni saggezza, si vuole allargare con l'arma del dubbio ogni piccola crepatura che appare dietro il volto più serio. È logica allora la predica contro l'arte tradizionale e quindi contro la storia: è logica la scelta del metodo eversivo e distruttivo rubato (con ironia) alla guerra imperversante. Il metodo anarchico prevede, naturalmente, il ritorno alle verità elementari. Ritorno all'infanzia: non a caso a Zurigo gravitano, negli anni dell'inizio di dada, i nuovi profeti dell'inconscio: Jung e Joyce. Ritorno all'istinto: le arti primitive, selvagge, l'arte dei pazzi e dei bambini. E infine la polemica si allarga: i dadaisti si sentono dei folli isolati che declamano poesie o dipingono quadri in un cabaret, ma il mondo è pieno di gente saggia che vive sulla morte degli altri, con i disastri della guerra.
L'altra faccia del vitalismo sfrenato diventa, naturalmente, il suicidio. ‟La paralysie est le commencement de la sagesse" dichiara Picabia. La scoperta del Nulla non è allegra: Duchamp, per esempio, approda al néant mantenendo un fondo di amarezza sottile. Il compito dell'artista dada sembra esaurirsi quando è riuscito a insinuare il dubbio che il meccanismo del mondo non è perfetto, dato che c'è qualcuno che si oppone: sia pure con la semplice ironia. Il suicidio interesserà i surrealisti, ma in altro modo era stato formulato da Hegel quando affermava che l'unica opera e impresa della libertà universale è la morte (non a caso la proposizione verrà ripresa da Th. W. Adorno nella sua analisi del surrealismo). L'anarchia iniziale di Duchamp o Picabia si conclude, necessariamente, con l'inattività degli ultimi anni o con l'attivismo a vuoto: i quadri francamente brutti di Picabia equivalgono al pensiero silenzioso di Duchamp.
b) Il primitivismo
Una via di salvezza dalla civiltà moderna è indicata nel ritorno alle origini. È una forma di primitivismo il culto della musica negra praticato a Zurigo da Huelsenbeck, ma anche la pratica di una poesia fonetica che esclude le parole per arrivare alle radici foniche (perfino il nome dada nasce dal sillabare infantile). C'è poi la fiducia e il rispetto per il mondo dei folli: Ball dichiara apertamente che la semplicità primigenia di cui parla si richiama ‟all'infanzia e alla paranoia". Tzara, da parte sua, riconquista il credo cartesiano: ‟Non voglio sapere se ci sono stati uomini prima di me". Si crede insomma al grado-zero dell'arte ma anche della vita: dirà un loro compagno di strada, Blaise Cendrars, ‟stamani è il primo giorno del mondo".
Si può essere ‛primitivi' anche tornando al ritmo perenne della natura: natura come metamorfosi e origine (Arp) ma anche natura come ideale alternativa al fagocitante mondo tecnologico (Schwitters). Il Merzbau di Schwitters nasce quasi come architettura spontanea, vuole complicare l'ambiente della vita con una struttura che volta a volta si richiama alla grotta preistorica o all'alvo materno. Il poeta della tabula rasa è Arp, anche se la sua celebrazione dei dati naturali è complicata da una larga cultura. Nella ricerca di radici essenziali, si alterano i confini tra le tecniche: la pittura si compone di forme semplici o di frammenti scelti a caso, la poesia torna al puro suono e la musica al rumore, il teatro ritrova il gesto istantaneo.
Anche Picabia vuole essere, illuministicamente, un ‛selvaggio': ma con tutti i mezzi e le furberie della cultura più raffinata. Il suo manifesto del 1920 è una lunga esaltazione del nulla e del ritorno a zero: ‟Dada, lui, ne veut rien, rien, rien; il fait quelque chose pour que le pubblic dise: ‛Nous ne comprenons rien rien rien'. Les Dadaistes ne sont rien, rien, rien; bien certainement ils n'arriveront à rien, rien, rien. Francis Picabia qui ne sait rien, rien, rien" (v. Sanouillet, 1965, p. 320). Questo ‛nulla' iterato come un.ritornello è una formula per evitare la classificazione, per sfuggire alle facili etichette, per tornare al punto di partenza dei primitivi che erano in grado di fare, liberamente, il loro gioco.
c) Il caso
È forse la prima legge per questi fuorilegge dell'arte. Duchamp lo eleva a generatore delle sue immagini e, polemicamente, lo sostituisce all'ispirazione; Schwitters lo accetta come regolatore dei suoi assemblaggi; Man Ray e Ernst fanno nascere dal caso le loro tecniche. Non si tratta di un atteggiamento gratuito: poco prima di Einstein, le teorie scientifiche di J. W. Gibbs e L. Boltzmann ponevano infatti il caso come componente irrazionale della matematica, mentre con N. Wiener, il teorico della cibernetica, verrà definito ‟una parte della Natura, elemento fondamentale della struttura dell'universo
È all'insegna del caso il ready made di Duchamp. Prende un oggetto ‛bello e pronto', lo estrae dal suo contesto abituale, gli assicura quindi un nuovo valore. Uno scolabottiglie preso a caso assume una forma plastica, un badile appeso al soffitto è più bello d'una scultura. L'artista accetta anche l'ironia del non-sapere, ma poi l'operazione si complica: Duchamp non vuole fare arte, ma neanche anti-arte. Va oltre, come chiarisce questa proposizione: ‟La scelta di questi ready mades non è mai stata dettata da un piacere estetico, ma è basata su una reazione di indifferenza visiva e nel contempo su un'assenza totale di buono o cattivo gusto [...]. In fin dei conti, un completo an-estetismo" (M. Duchamp, Conferenza al Museum of Modern Art di New York in occasione della mostra The art of assemblage, 1961). Il gioco casuale di Duchamp investe anche il linguaggio, quando sperimenta interminabili giochi di parole (la contropèterie): il punto d'arrivo non è il nonsense ma il polisenso, l'inesauribile disponibilità del linguaggio.
È all'insegna del caso tutto il lavoro di Man Ray. Fin dai primi quadri, condotti con l'areografo, un mezzo meccanico che già prevede l'uso del medium fotografico. Scatta poi la scoperta del rayograph: la foto senza fotografo. È la luce che impressiona le cose e i frammenti appoggiati sulla lastra negativa: ‟Fotografia ottenuta con la semplice interposizione dell'oggetto tra la pellicola sensibile e la fonte luminosa. Prese nel momento di un distacco visuale, durante periodi di contatto emozionale, queste immagini sono l'ossidazione dei residui, fissati da fenomeni luminosi e chimici degli organismi viventi" (v. Man Ray, 1963, p. 124). È la scrittura automatica che gli oggetti danno di se stessi, fissata in fotogrammi che non sono ‟immagini della luce" ma, come dice la loro designazione, ‟scritture con la luce". Dato il dichiarato non-intervento dell'artista, è per di più una tecnica dell'inconscio.
Il caso è all'origine del fotomontaggio, che a Berlino diventa strumento politico in mano a John Hearthfield, Raoul Hausmann, Hannah Hoch, George Grosz. È alla base della foto-pittura di Christian Schad. È la matrice dell'operazione Merz e delle tecniche meccaniche di Ernst. Ed è proprio il pittore-filosofo di Colonia a chiarire il rapporto tra artista, quadro e spettatore: ‟Il frottage riduce al minimo il ruolo attivo di colui che si definisce ‛l'autore': non è altro che una scrittura automatica. Il ruolo dell'artista si riduce così al potenziamento delle allucinazioni della mente, l'artista è semplicemente lo spettatore, colui che contempla il farsi della propria opera" (Max Ernst, catalogo-mostra, Museum of Modern Art, New York 1961).
d) La provocazione
Collocandosi tra arte e vita, dada cerca naturalmente la collaborazione dello spettatore: e meglio se l'attenzione viene richiamata in senso polemico e negativo. I dadaisti sono rimasti famosi anche per questa richiesta di partecipazione ottenuta attraverso lo sdegno e la protesta e non attraverso il consenso. Dai tempi dell'orinatoio di Duchamp, esposto ribaltato e con il titolo Fontana, le provocazioni si moltiplicano.
Picabia ha esplorato a fondo le possibilità di una attenzione critica del fruitore: lo sberleffo al borghese è già il ‛gesto' dell'arte a noi più vicina. Al Salon del 1921 espone Les yeux chauds, un quadro definito ‛esplosivo' perché destinato a scoppiare nel momento dell'inaugurazione ufficiale. Riz au nez del 1920 è un quadro ‛espresso' in quanto viene eseguito su una lavagna col gesso, per essere cancellato subito dopo da Breton. La Sainte Vierge, un disegno pubblicato su ‟391" è una macchia d'inchiostro sulla pagina immacolata. Copie d'un autographe d'Ingres è forse il più raffinato esempio di antipittura, in quanto copia non un quadro ma uno scritto, con la variante del ‛plagio' perché alla firma di Ingres viene sostituita la firma di Picabia. Anche la vita di Picabia è all'insegna della provocazione: quando lo chiamano a parlare di pittura, risponde magnificando le sue ventisette automobili; quando deve mostrare la sua fede politica si maschera da reazionario, attirandosi i giusti strali dell'‟Humanité".
Il più famoso esempio della provocazione dadaista è la Gioconda con barba e baffi. Duchamp rivede e corregge questo autentico simbolo della pittura con gli attributi virili; Picabia gli chiede l'opera per la sua rivista ‟391" e, non essendo arrivata in tempo, provvede lui stesso a rifarla, aggiungendo le lettere LHOOQ. Insomma, un lavoro di irrisione condotto in équipe, complicato dal rebus osceno (le lettere si leggono come elle, ache, o, o, q, o meglio elle à chaud au cul). C'è, in questo atteggiamento, la protesta contro il mondo dell'estetica, il rifiuto di ogni canone dell'arte passata e presente. Ma anche questi atteggiamenti eversivi sono stati accolti tra le grandi braccia dell'Arte e del Museo.
e) Il metodo meccanico
La ‛freddezza' e lo stile spersonalizzato dei dadaisti vuole quasi rivaleggiare col paesaggio moderno della macchina. Tuttavia il ‛macchinismo' di Duchamp o di Picabia, di Schwitters o di Man Ray non si richiama all'amore romantico dei futuristi per la macchina, ma è freddo e tagliente: se i futuristi non vanno oltre la periferia preindustriale di Milano e Roma, negli schemi dadaisti è implicito il grattacielo di New York o la struttura in ferro di Parigi. Non c'è più, insomma, la scoperta ingenua del presente, non c'è più l'attesa ansiosa del progresso (i limiti di tutti i movimenti ‛modernisti'), ma la macchina è già intesa come automa, come il Moloc che si può dominare soltanto rappresentandolo, come in un esorcismo. Attraverso la freddezza e il macchinismo, dada vuole sostituire al mito eterno della Natura l'esperienza moderna della Macchina: e questo anche per opporsi al falso ‛stile di vita' dell'art nouveau, che fu l'ultimo tentativo di instaurare il culto della dea Natura.
Duchamp mette a fuoco, giorno dopo giorno, un metodo esatto: più che al pennello sembra richiamarsi a un cervello meccanico. Nella famosa intervista con Sweeney (1955) dichiarava in sintesi che il cattivo gusto è un'abitudine, la ripetizione di una cosa accettata, mentre egli evita il buono e il cattivo gusto ricorrendo alle tecniche meccaniche: per cui un disegno di questo tipo non sottintende gusto alcuno (v. Duchamp, 1958; tr. it., pp. 137 ss.). C'è inoltre la necessità di dare una rappresentazione logica e senza sbavature (quindi, meccanica) di uno spazio soggettivo come quello dell'inconscio. È la pittura, il nemico naturale di uno ‛stile meccanico': Prenez garde à la peinture si intitola un quadro di Picabia. Duchamp predica l'anonimato postindustriale nel momento dei ready mades, chiama pittori commerciali a dipingere pezzi dei suoi quadri, sfrutta il materiale pubblicitario e tipografico (anonimo per definizione), arriva al concetto alchemico di concezione in vitro nel gran vetro della Mariée che è un po' il simbolo della ricerca sperimentale del nostro tempo. Questi intenti ermetici sono più evidenti nel clima avveniristico di New York. Nell'ambiente di Stieglitz si dimostra per esempio che l'uomo ha fatto la macchina a sua immagine e somiglianza: ‟La fotografia è uno dei frutti di questa unione. Nasce infatti da questa nuova trinità: l'uomo creatore pensante e volente, la macchina madre, e il loro prodotto è l'opus" (Haviland, in ‟291", n. 7-8). Questa sfumatura misterica della fotografia è naturalmente presente in Man Ray.
La freddezza porta Picabia a un amore platonico per l'idea pura: non a caso, tra i suoi artisti preferiti si trova Ingres. Questi quadri ‛meccanici' non vogliono essere opere d'arte ma quasi il prototipo di un'ottica rinnovata, la foto- copia dell'opera, la scelta della morte dello ‛stile'. In questa chiave macchinista si spiega l'interesse di dada per il cinema: Picabia e Duchamp, Man Ray e Richter sperimentano i mezzi e i limiti di questa tecnica a largo raggio sociale. Si spiega l'interesse per la tipografia come quello per la pubblicità: gli strumenti, cioè, che si valgono di codici spersonalizzati.
In chiave macchinista, si spiega infine l'interesse per la parola, per i meccanismi del linguaggio. In un lavoro di Picabia, per esempio, le parole fanno parte del quadro come titolo e poi come anagramma o rebus (il gioco verbale si accoppia ai giochi matematici dei meccanismi dipinti), finché l'artista arriva all'esoterismo, al polisenso, alla cabala. In tutti i testi e i quadri dada il macchinismo e la freddezza diventano strumenti di conoscenza: prima la pagina si trasforma in una machine à lire (Le Corbusier parlerà della casa come machine à habiter), e infine questo interesse per uno stile spersonalizzato porterà alla scomparsa dell'artista e al ‛suicidio' stilistico.
f) Le tecniche sperimentali
Nel nuovo materialismo di dada, i due momenti principali sono lo scambio tra le tecniche e le innovazioni di linguaggio. È stato Walter Benjamin a chiarire la fine dell'‛aura' nel nuovo tempo della riproducibilità tecnica: in una sua pagina il nuovo metodo dadaista viene definito come la proposta di un ‟comportamento sociale". Tutte le nuove tecniche proposte da dada nascono sotto il segno dell'alea, della combinazione istantanea, dell'imprevedibile. Avviene nei collages di Ernst, complicati nel tempo da nuovi interventi come il frottage; avviene nel rayograph di Man Ray; avviene nel cinema dei trucchi di Richter e Man Ray, avviene nella scelta di pezzi reali in Duchamp. Ma la novità è che il medium e la tecnica non vengono mai scelti feticisticamente: una tecnica serve soprattutto per dire cose, o meglio per negare certi fatti. Nel 1920 Schwitters affermava infatti che il medium era poco importante, proprio come poteva esserlo la sua persona. Essenziale era solo la possibilità di ‛formare' attraverso la materia. ‟Poiché il mezzo non conta, io prendo ogni e qualsiasi materiale che può essere richiesto dal quadro". Ed è particolarmente indicativo che tali affermazioni vengano da un artista che sembra identificarsi con la propria tecnica (appropriazione-trapianto-rigetto dei materiali mondani).
Un esempio d'una tecnica diversa per nuove idee è la ‛poesia fonetica'. Già Ball, al tempo di Zurigo, propone ‛versi senza parole', ma la scoperta di una poesia dei rumori è da attribuire a Hausmann. La prima raccolta importante di poesia fonetica è Anna Blume di Schwitters (1919), un tentativo ancora timido, mentre il più riuscito è Ursonate, nato dopo l'ascolto d'un esperimento di Hausmann. È Huelsenbeck a dare la giusta chiave del fenomeno, quando dichiara: ‟Da Marinetti riprendemmo il rumorismo, il concerto rumorista". E infatti, comè si è visto, le tavole parolibere dei futuristi figuravano nei giorni eroici al Cabaret Voltaire, mentre è nota l'ammirazione di Schwitters per ‛il rivoluzionario Marinetti'. L'interesse per la poesia fonetica si confonde con la composizione tipografica (sempre di matrice futurista) per ritrovare, attraverso i suoni inarticolati e il linguaggio-immagine, una specie di gradozero all'interno di una società che è ormai divenuta sorda e cieca.
g) L'esistenzialismo
Dall'arte alla vita: questo è l'approdo per una corrente nata con il più aperto disprezzo per l'estetica. ‟Moi, je suis le nouveau dada" dichiara il filosofo dell'esistenzialismo Jean-Paul Sartre. Il concetto dell'uomo come dio creatore è in tutte le opere dadaiste: un quadro di Picabia si intitola L'homme créa Dieu à son image. Si rinuncia allo ‛stile di vita' dell'art nouveau ma anche al mito della ‛ricostruzione futurista dell'universo'. L'arte diventa un fatto di comunicazione istantanea, personale, da uomo a uomo: di qui la tecnica della Soirée dada che congiunge la ‛serata futurista' all'happening. Non a caso i luoghi di incontro sono il cabaret a Zurigo, la bottega di un fotografo a New York, la ribalta a Parigi.
Dall'opera d'arte l'attenzione si sposta al comportamento dell'artista. Picabia, per esempio, si qualifica ‟nomade": ‟Il faut faire quelque chose, mais ne pas penser à faire quelque chose", ‟La morale est l'épine dorsale des imbeciles", ‟Notre tête est ronde pour permettre à la pensée de changer de direction". Questi aforismi precisano la ricerca d'una operazione sempre diversa da se stessa, la filosofia di un comportamento inventato giorno dopo giorno.
Tutta una corrente moderna ha rifiutato recisamente questa tangenza: Šklovskij ha potuto scrivere che ‟l'arte è sempre stata libera dalla vita". Eppure il filo rosso dell'avanguardia collega sempre i nodi in cui si pone questo rapporto arte-vita (dal futurismo all'action painting, dalla pop art all'odierna arte ‛di comportamento'). Si arriva alla vita, dopo che sono state esaurite tutte le possibilità dell'arte. Il Gesamtkunstwerk si esaurisce con l'espressionismo: il vero punto di incontro tra le arti e la vita si sposta a un livello freddo, oggettivo, meccanico, come è il telone bianco del cinematografo.
L'emblema gigantesco della tangenza arte-vita possiamo indicarlo nel Merzbau di Schwitters. Una costruzione labirintica nata giorno dopo giorno nel suo atélier, dove ogni zona è dedicata a un amico artista, dove ogni particolare segna un giorno di esperienza e quindi di esistenza. In questo disperato voyage autour de sa chambre, Schwitters esplora i limiti dell'artigianato (nel tempo più industriale), propone un'architettura non funzionale, rievoca la passione per l'espressionismo, annuncia il ritorno nell'inesplorato (quasi il grembo materno), proclama la fiducia laica nel ‛fare' (all'inizio la costruzione si chiamava Cattedrale). Il Merzbau ingloba i diversi momenti del suo lavoro (quello più attento al rifiuto, quello costruttivista, quello ‛astratto'), diventando quasi una metafora della vita: non un monumento da contemplare ma un'esperienza che ogni volta si deve tornare a vivere. Nel suo studio-kabinett di Hannover, Schwitters porta l'horror vacui all'assurdo, costruisce la sua vita come il suo lavoro estetico, propone una esperienza globale. Ma al risveglio dal sogno, l'homo faber vede che non basta più l'ansia costruttiva o la fede: ricomincia il tempo degli stermini e delle fughe, si parla di entartete Kunst. Vent'anni dopo le lotte di Zurigo, la pazzia collettiva riprende il potere.
5. Il new dada
L'esprit dada, comunque, rimane attivo fino ai nostri giorni. Già durante la seconda guerra mondiale l'‟aventure dada" (come l'ha definita G. Hugnet) continua: nel periodo dell'action painting l'interesse è molto vivace, se dobbiamo al pittore Robert Motherwell un libro fondamentale come Dada painters and poets (1951). Rimane il riferimento obbligato al momento newyorkese di dada: dalla fotografia di Stieglitz agli oggetti di Man Ray, da Picabia a Duchamp (presente attivamente a New York negli anni cinquanta). Dunque, New York è il nuovo centro di irradiazione, anche se un analogo interesse per la problematica dadaista si ritrova in certe esperienze francesi (il nouveau réalisme) o italiane (Burri, Manzoni). Il ritorno alle cose e all'oggettività, dopo il sound and fury dell'espressionismo astratto, si avverte intorno al 1955, ed è sanzionato dalla mostra The art of assemblage (The Museum of Modern Art, New York 1961). I protagonisti sono Jasper Johns e Robert Rauschenberg, insieme a John Kaprow e John Cage: il punto d'arrivo sarà la pop art (consacrata nella mostra Six painters and object, The Guggenheim Museum, New York 1963). Kaprow è il teorico dell'happening, una messinscena teatrale ed estetica (‟Creare situazioni archetipiche partendo da elementi informi e non strutturati") che apre la strada ai mysteries del Living theater. Cage è il musicista amico di Duchamp che accetta soltanto le leggi del caso. Rauschenberg è attento alla fisicità del mondo circostante: ‟La pittura è in relazione sia con l'arte che con la vita. Nè l'una nè l'altra si possono tenere in pugno. Io cerco di lavorare nello spazio tra l'una e l'altra". Between art and life, Rauschenberg sceglie la dimensione teatrale: negli enormi assemblages e poi nelle tele serigrafiche, vuole essere il cronista del presente. Johns è più vicino agli aspetti freddi e critici del dada: dipinge la bandiera o il bersaglio ma le cose restano il calco di se stesse perché in realtà a lui interessa soltanto un discorso analitico sul linguaggio (una ricerca sottile sulla sostanza e i limiti della pittura).
Dopo queste corrette posizioni, viene la sequenza degli imitatori: in poche parole li qualificava nel 1962 Duchamp, il loro padre. ‟Quando scoprii i ready mades pensavo di eliminare tutto il vecchiume artistico. Nel new dada invece li utilizzano per scoprirvi un valore estetico! Gettai in faccia alla gente l'asciugabottiglie e l'orinatoio per sfidarli, e adesso li ammirano perché esteticamente belli" (lettera nell'archivio di Hans Richter).
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