Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le prime opere di Debussy segnano l’avvento della modernità nella musica europea ancor prima dell’inizio del Novecento. Maurice Ravel ed Erik Satie, pur mostrando ciascuno un loro stile personale, riconoscono Debussy come maestro e operano nel solco da lui aperto.
La novità di Debussy
In musica il XX secolo ha un inizio cronologicamente incerto: se lo si guarda dalla prospettiva delle “scuole nazionali” comincia con qualche decennio di ritardo, ma se l’osservatorio è collocato a Parigi lo si può considerare già iniziato negli ultimi anni del secolo precedente. Quali criteri portano a questi giudizi?
Dal punto di vista dei linguaggi e degli stili musicali, la nascita del nuovo secolo è segnata dal prevalere dell’innovazione sul perdurare della logica tonale che aveva retto il discorso musicale per tre secoli e aveva radicato ben precise logiche di composizione e di ascolto. Dal punto di vista del pensiero che cerca nella musica la propria espressione, è il rifiuto della tendenza romantica a portare in primo piano l’interiorità dell’artista: i suoi dolori, le sue illusioni, le sue frustrazioni. Si può considerare già facente parte del nuovo secolo quell’artista/musicista che ricerca un’espressione più pudica, che mette a fuoco i problemi dell’arte più che quelli dell’artista, che vede il mondo (sia la natura che l’uomo) non immediatamente ma attraverso gli schermi e i filtri dei loro simboli e della bellezza in sé. Parnassiani, simbolisti, promotori dell’art nouveau sgombrano la scena dalle tinte fosche di un’espressività che è divenuta sempre più gonfia di fatti e visioni personali per dedicarsi alla descrizione di paradisi diafani, elitari e sottili, in cui il dettaglio, l’arabesco elegante e fantasioso prevale sulla forma, che, quando si rende percepibile, si rivela come una forma antica vagheggiata attraverso il velo del tempo.
Ascoltiamo La demoiselle élue (1887-1889), libretto di Dante Gabriele Rossetti e musica di Claude Debussy (1862-1918), ascoltiamo il monologo ondeggiante della protagonista, la cui melodia nessuno saprebbe ricordare a memoria né fischiettare fra sé, ma che avvince per la sua dolcezza aerea. Ella canta alle porte del cielo in attesa dell’amato, con il quale entrerà per sempre nella luce; canta circondata da altre fanciulle estatiche e, mentre si sporge per anticipare con l’occhio l’incontro vagheggiato, intiepidisce con il candido seno il balcone del cielo. Né la figura dipinta nelle parole, né la musica sfuggente gli appuntamenti fissi del discorso tonale appartengono all’Ottocento: con eleganza e senza rumore di folla, Debussy, a quel tempo riconosciuto grande artista da pochi critici e amici, indica alla musica una delle sue vie maestre per il nuovo secolo: l’annullamento delle tensioni tonali. Ed è poi la volta del flauto del fauno, che narra la fuga nel sogno di un desiderio insoddisfatto. Nel Prélude à l’après-midi d’un faune (1894) Debussy, come Mallarmé, l’ispiratore del brano, non descrive una scena né una vicenda bucolica, ma contrappone le connotazioni tradizionali dello strumento a un’invenzione melodica nuova, che con lentezza, si direbbe con sforzo, si libera dal silenzio e dal sogno. Si è molto parlato dell’influsso di Wagner sull’unica opera che Debussy porta a termine dopo una lunga gestazione, il Pelléas et Mélisande (1893-1902) tratto dalla pièce di Maeterlinck. Ed è dimostrato che l’uso di temi ricorrenti qualcosa deve ai famosi Leitmotiv wagneriani, come pure il rifiuto delle forme chiuse, delle arie e dei pezzi d’assieme; ma non c’è dubbio che assolutamente innovativo e volto al futuro è il modo di trattare l’orchestra. Si cercheranno invano nel Pelléas le sonorità piene, che fanno tremare di paura l’ascoltatore dell’orchestra wagneriana nascosta nel golfo mistico, le famose “tube” utilizzate nel pieno di crescendi travolgenti; qui gli strumenti sono spesso utilizzati in solo o in linee singole, come si dice “divisi” così che il colore strumentale diventa quasi cameristico. Anche la vicenda – il classico triangolo della giovane donna fra un marito vecchio e un giovane amante – potrebbe far pensare al Tristano di Wagner; ma le differenze sono molto più forti delle analogie. Basta confrontare le due figure femminili. Mélisande non assomiglia per nulla all’Isolde scossa dalla passione risvegliata dal filtro d’amore: è una fanciulla asessuata, quasi una creatura d’acqua, piuttosto come Melusina (fata sirena della tradizione francese). Non le si deve chiedere da dove viene, dove ha perduto la corona e l’anello, se ha amato, chi sia il padre di sua figlia; e il suo rapporto con Pelléas ha un vago sapore d’incesto.
Maurice Ravel ed Erik Satie
La riservatezza dei personaggi sul teatro è una novità assoluta, che riflette un modo nuovo di esprimere per simboli e allusioni una visione del mondo ormai priva di illusioni.
La stessa riservatezza è tratto distintivo degli artisti: Debussy, come Maurice Ravel (1875-1937) – e, ancor più problematicamente, Erik Satie (1866-1925) – sono persone schive, che nascondono sotto maniere raffinate e distratte una timidezza profonda, interpretata a volte come snobismo, a volte come eccentricità. A questo tratto caratteriale si aggiunge una scelta di poetica le cui radici provengono dalla convinzione che ogni tipo di espressione limiti il senso profondo della cosa espressa, offuschi il fascino della cosa non detta. Si pensi, ad esempio, a una delle prime opere di Ravel, il ciclo di liriche Shéhérazade (1898). L’attrazione per la lontananza inconoscibile dell’Oriente permea intensamente tutta la raccolta, ma non vi è in essa alcun abbandono. Ravel vi si rivela chiaramente soprattutto nella terza ed ultima lirica, l’Indifférent, nella quale l’io lirico osserva senza il minimo accenno di partecipazione il passaggio della misteriosa creatura, che solo dietro di sé, quando è ormai scomparsa, lascia una scia di desideri e di vertigini. Anche la formazione accademica dei tre musicisti è simile: tutti e tre studiano in Conservatorio, frequentando per alcune discipline gli stessi maestri, condividono lo stesso amore per autori come Mozart, Chopin, Musorgskij e lo stesso problematico rapporto con Wagner, “il vecchio avvelenatore”, e con lo stesso Beethoven, padre di tutti i guai su cui pianse l’intero Ottocento musicale. Eppure le loro scelte artistiche sono state assai diverse, benché Ravel e Satie riconoscano Debussy come apri-strada.
Come tratto caratteristico di Ravel è facile riconoscere la predilezione per i ritmi di danza, l’attrazione per temi esotici e la fedeltà alle forme chiare della tradizione classica; inoltre, in tutto quello che appare a prima vista un continuo mutare di generi e forme, si evidenzia il lavoro artigianale volto a raggiungere la perfezione nel buon gusto, ossia il principale carattere della cultura, prima che della musica, francese. Per quanto diversi possano suonare il Boléro (1928) e Daphnis et Chloé (1912), il Concerto pour la main gauche (1929) e il Menuet antique (1895), l’arte di Ravel vi si rivela con la medesima chiarezza come invito alla contemplazione del Bello, come strumento di elevazione dello spirito attraverso il piacere dell’orecchio.
La strada scelta – per volontà o per caso – da Satie è un’altra. A lungo ritenuto un artista del tutto controcorrente, anzi spesso un caso isolato di scarsa rilevanza artistica, Satie incarna in modo estremistico gli ideali (o la mancanza di ideali) espressi dai suoi compagni di strada e protettori (nel caso di Debussy). Prendiamo, ad esempio, l’estetica del non detto, accettiamo, come Debussy e Ravel, il credo mallarmeiano per cui il nominare un oggetto significa togliere alla poesia i tre quarti del suo piacere, e portiamo tutto questo alle estreme conseguenze: ne risulta un’arte enigmatica, una volontà di non-arte nella totale sfiducia nei confronti della possibilità di comunicazione delle discipline accademiche. Il linguaggio metaforico semplificato al massimo e gli slittamenti di senso di topoi tratti dal quotidiano servono a Satie per avvicinarsi all’ascoltatore comune, che non sa niente dell’arte, e vi si accosta senza accorgersene. La sua utopia consiste nel credere a un grado-zero dell’arte che possa servire da mezzo di comunicazione anche per un pubblico incolto, mentre per i più sofisticati può risultare un invito a scoprire il senso al di là delle apparenze. Coerentemente a una poetica che rifugge la coerenza, il percorso creativo di Satie da Gymnopédies (1888, orchestrate da Debussy) a Relâche (1924) procede a ritroso: da pagine enigmatiche ma dense di concatenamenti armonici inconsueti, a “gesti” di matrice dadaista, più importanti come fatti di poetica che come espressioni musicali.