DEMOGRAFIA
di Eugenio Sonnino
Era l'anno 1662 quando John Graunt, mercante londinese di drapperie e spirito di scienziato, pubblicava il frutto delle sue ricerche su un tema singolare e del tutto originale in un libretto intitolato Osservazioni naturali e politiche fatte sui bollettini di mortalità. Nel presentare l'opera alla Royal Society l'autore così sintetizzava i risultati: "Le osservazioni che per caso ho effettuato (perché non le ho premeditate) sui bollettini di mortalità si sono rivelate essere sia naturali che politiche; le une concernendo tanto il commercio quanto il governo, le altre l'atmosfera, le regioni, le stagioni, la fecondità, le malattie, la longevità, la proporzione fra i sessi e le età della specie umana". La genialità di John Graunt consistette nel trasferire la lettura di un argomento siffatto sul piano della speculazione scientifica, illustrando la più ampia valenza naturale e politica dei fenomeni osservati. Apparve subito chiara ai più avvertiti tra gli studiosi a lui contemporanei l'importanza della novità rappresentata dall'opera di Graunt; oggi alla pubblicazione di quel volumetto di un centinaio di pagine si fa risalire l'inizio degli studi demografici e delle tecniche statistiche, e in esso è da ravvisare anche un esempio principe del manifestarsi di quei metodi d'indagine che, dall'identificazione di una fonte documentaria e passando per la valutazione critica della stessa, conducono all'individuazione di nuovi significati della realtà indagata attraverso la creazione di nuovi metodi di analisi.
La creazione di questa branca delle scienze umane, rappresentata dagli studi di popolazione, e il contestuale adeguamento del metodo matematico alle esigenze statistiche di tali studi aprirono nella seconda metà del XVII secolo orizzonti nuovissimi alla ricerca scientifica. Il filone in cui si inserì questa innovazione del processo conoscitivo era quello aperto sessant'anni avanti dal grande capovolgimento operato da Galileo nella lettura della realtà: "La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica" (Il Saggiatore, 6). Ora, con Graunt, il cannocchiale di Galileo è puntato anche verso gli esseri umani e le loro vicende demografiche, e prende avvio, in modo diretto e sistematico, il lavoro di indagine sulla "lingua" e sui "caratteri" secondo cui si esprimono i fenomeni di popolazione.
La genesi della demografia prende le mosse da un passo decisivo (che rimarrà tale per ogni studio di demografia storica): individuare e sfruttare quelle fonti che, pur essendo nate con finalità diverse, possono essere piegate dallo studioso ai propri fini di indagine demografica attraverso un attento vaglio critico della loro validità e attendibilità. Fonti contenenti documentazioni sulle popolazioni esistevano già da tempo, nel XVII secolo, in numerosi paesi europei. Senza richiamare alla memoria le prime enumerazioni di età antica e alto-medievale, si hanno notizie (e in qualche caso anche documenti) di enumerazioni di popolazioni di villaggi e città d'Europa fin dal XIII secolo. L'Italia registra un primato di qualità delle rilevazioni nel catasto fiorentino e nei primi censimenti effettuati nella Repubblica Veneta. Le pratiche enumerative e censuarie si diffondono in quest'epoca nelle città e negli Stati europei. Gli obiettivi politici e amministrativi di questi accertamenti indirizzano le rilevazioni soprattutto verso l'esame della consistenza della popolazione e delle sue caratteristiche economiche e sociali. Per quanto attiene alla registrazione dei flussi demografici, l'attenzione delle amministrazioni civili delle città e degli Stati si concentra in particolare sulla mortalità, tema di primario interesse in epoche di ricorrenti epidemie distruttive. Ma su questo versante delle registrazioni della dinamica delle popolazioni è la Chiesa a seguire da vicino lo svolgimento continuo degli eventi demografici d'interesse ecclesiastico, dando luogo al fondamentale corpo delle registrazioni dei battesimi, delle sepolture, dei matrimoni nel corso di un lento processo avviato in casi sporadici fin dal Trecento. Poi, col Rituale Romanum del 1614, la tenuta regolare dei tre tipi di libri parrocchiali fu imposta a tutti i parroci, unitamente all'attuazione annuale dello status animarum, sorta di enumerazione dettagliata degli individui e delle famiglie di ogni parrocchia. Una sensibilità degli Stati e della Chiesa in Europa alla conoscenza dell'entità e della composizione delle popolazioni e dei loro flussi di rinnovamento era quindi già molto diffusa all'epoca di Graunt, ma tale conoscenza era, come si sa, lontana dall'essere indirizzata allo studio dei processi demografici: aveva altri obiettivi. Le ragioni del 'buon governo' dell'economia e del territorio erano dietro l'obiettivo di conoscere il numero dei sudditi; le preoccupazioni sanitarie furono alla radice delle registrazioni dei decessi volute dalle autorità civili. Anche la Chiesa perseguiva mediante le registrazioni parrocchiali gli obiettivi del suo buon governo, il governo delle anime.
Nel XVII secolo l'accumularsi dei documenti, in un clima scientifico e culturale in profonda trasformazione, accenderà la curiosità e il genio di John Graunt che, a partire dai bills of mortality della città di Londra, originariamente destinati al controllo della sanità e delle pestilenze, getta le basi della demografia e della statistica. Nasce in quel preciso momento, con l'avvio di queste nuove discipline, un tema centrale della metodologia dello studio storico delle popolazioni, quello dell'individuazione delle fonti. Nascono ugualmente, in questo contesto storico, i problemi di analisi delle informazioni contenute nei documenti che, sia pur con le loro specificità, costituiscono un aspetto unitario dei diversi approcci all'utilizzazione delle fonti demografiche.
Le conoscenze della fenomenologia demografica che provengono dalla ricerca costituiscono un prodotto del processo di interazione tra fonti e metodologia. Un programma di ricerca o l'interesse o la curiosità del ricercatore - anche quando le osservazioni siano "non premeditate" ed "effettuate per caso", come dice John Graunt delle proprie - attivano delle fonti o trasformano dei documenti per così dire neutri rispetto allo scopo, o destinati ad altri fini, in fonti funzionali allo scopo, secondo un processo molto complesso perché, in effetti, per nulla casuale. L'esistenza del documento apre la possibilità di farne un uso scientifico solo quando un'ipotesi di ricerca o anche una metodologia in embrione individui nelle informazioni contenute nel documento stesso potenzialità utili al raggiungimento di determinati fini conoscitivi. Come ha scritto Carlo Cipolla (v., 1988), "in ogni campo i fatti osservati e rilevati acquisiscono un significato soltanto se organizzati e ordinati secondo un paradigma teorico". Si tratta di un principio di valore universale. La Chiesa - nel predisporre i libri parrocchiali e nel codificarne la tenuta regolare - ha attivato, ad esempio, delle documentazioni destinate ad assumere valore di fonti primarie ai suoi fini di cura spirituale e controllo religioso della cristianità. Il paradigma di riferimento è stato in tal caso religioso e attraverso una lunga genesi e un progressivo miglioramento delle registrazioni è maturata una rispondenza delle documentazioni agli obiettivi proposti. La successiva individuazione delle medesime documentazioni come fonti funzionali allo studio scientifico delle popolazioni ha fatto evidentemente riferimento a un diverso paradigma teorico. L'utilizzatore delle fonti è insomma vincolato al paradigma teorico, al programma conoscitivo che ha presieduto all'attuazione delle documentazioni. Egli è, da questo punto di vista, impotente a migliorare le informazioni di cui dispone. Tuttavia il ricercatore gode di varie possibilità di superare tale rigidità delle documentazioni disponibili nella misura in cui estenda al massimo grado il processo di identificazione delle fonti, attingendo da una pluralità di documenti - provenienti da istituzioni assistenziali, da enti ospedalieri, da uffici sanitari, da registrazioni civili, notarili, ecc. - via via promossi al rango di fonti, le informazioni ricercate, le variabili da mettere in funzione. Le considerazioni fin qui svolte sottintendono, sembra quasi superfluo rilevarlo, l'operare di un'evoluzione storica dei metodi di indagine e dei paradigmi teorici di riferimento e il pieno dispiegarsi di quell'analisi critica delle documentazioni e dei loro processi generativi che costituisce un presupposto dell'individuazione delle fonti e peraltro un aspetto centrale di ogni indagine demografica.
In senso molto generale può dirsi che lo sfruttamento delle fonti trova attuazione in due diversi approcci di analisi delle informazioni, un approccio cosiddetto aggregativo e uno cosiddetto nominativo. Il primo riguarda l'utilizzazione dei dati statistici concernenti la consistenza e le caratteristiche (composizione per sesso, età, stato civile, ecc.; strutture familiari, ecc.) delle popolazioni e i flussi demografici che ne determinano l'evoluzione (matrimoni, nascite, decessi, migrazioni), allo scopo di desumere, mediante adeguate tecniche di analisi demografica, le misure più adatte a illustrare le caratteristiche strutturali degli aggregati umani, i livelli di natalità, mortalità, fecondità, nuzialità, migratorietà, le modalità dell'evoluzione demografica derivanti dall'interazione tra strutture e dinamiche demografiche. Tale approccio, pur partendo in genere da dati di base relativi a singoli individui (soggetti censiti, eventi individuali registrati), li esamina a un livello aggregato come insiemi di informazioni. Questo tipo di studi ha costituito, può dirsi, la quantità maggiore di valutazioni e analisi prodotte fino a qualche decennio fa. Pur scontando una forte limitazione nello sfruttamento possibile delle documentazioni e notevoli approssimazioni delle valutazioni che ne sono conseguite, gli studi aggregativi hanno apportato preziose conoscenze e resa disponibile una quantità ragguardevole di informazioni sui caratteri distributivi ed evolutivi delle popolazioni e sui principali tassi demografici grezzi di natalità, mortalità, nuzialità. Si è trattato, in generale, di analisi funzionali a un settore degli studi di storia delle popolazioni e di storia quantitativa, in senso lato, interessato fondamentalmente a individuare le continuità e discontinuità nell'evoluzione delle popolazioni, sia di per sé sia in relazione ad altre variabili. Inoltre la disponibilità di lunghe serie storiche di tassi ha consentito di individuare le tendenze secolari della mortalità e della natalità. Queste documentazioni e gli studi che le hanno utilizzate sono alla base di quel tentativo di descrivere i processi evolutivi secolari delle popolazioni che va sotto il nome di schema della transizione demografica.
Nel corso del secondo dopoguerra, e specialmente a partire dagli anni cinquanta, l'approccio aggregativo è stato affiancato da quello nominativo. Quest'ultima tecnica di analisi è fondata sullo sfruttamento delle informazioni individuali desumibili dalle diverse fonti, con l'obiettivo di ricostruire le vicende demografiche di collettivi determinati, mediante il collegamento delle informazioni riconducibili agli stessi soggetti. Un chiaro esempio del modo di procedere di tale tecnica è rappresentato dalla cosiddetta 'ricostruzione nominativa di storie coniugali'; in questo studio, partendo dalla rilevazione nominativa dei matrimoni celebrati in un determinato anno (coorte di matrimoni) o in un gruppo di anni, si segue la vicenda delle singole coppie (a partire da una esatta conoscenza dell'età degli sposi), associando a ognuna di esse - su un'apposita scheda di registrazione - tutte le informazioni temporali relative ai figli messi al mondo fino al momento della dissoluzione del matrimonio. È immediato constatare che tale ricostruzione di tipo genealogico prevede la contemporanea utilizzazione delle registrazioni di matrimoni, nascite (battesimi), decessi (sepolture) relative a un lungo lasso di tempo e a una quantità di storie coniugali sufficientemente ampia per poterne desumere valutazioni significative. L'insieme delle storie coniugali o individuali, trattato con appropriate tecniche di analisi demografica, consente la determinazione di misure adeguate a documentare minuziosamente le regole di fecondità e di sopravvivenza dei collettivi considerati. Il cambiamento di ottica implicito nel passaggio dall'osservazione aggregativa (o macrodemografica) a quella nominativa (o microdemografica) è rilevante: gli studi del primo tipo assumono come unità primarie di osservazione le popolazioni e gli eventi che le concernono, gli studi del secondo tipo osservano gli individui e le loro vicende biodemografiche. Da questo versante di studi - il cui principale artefice è stato il demografo francese L. Henry - sono venuti, nel corso degli ultimi quattro decenni, contributi notevolissimi in tema di analisi della fecondità e di osservazione delle modalità secondo le quali ha operato quel decisivo mutamento dei regimi riproduttivi determinato, in età contemporanea, dal passaggio da una fecondità 'naturale' a una fecondità 'controllata' in progressiva diffusione.
Tuttavia l'itinerario di ricerca avviato dalle indagini nominative si rivelò a sua volta irto di difficoltà. Gli studiosi hanno dovuto fare i conti sia con la frequente lacunosità e discontinuità delle fonti, sia con il problema, ben più grave, della mobilità delle famiglie, che, sottraendo una parte dei soggetti osservati alla rilevazione, impedisce una completa ricostruzione delle vicende familiari. Questo fatto, unito alla notevole laboriosità delle ricostruzioni, ha limitato la diffusione degli studi di questo tipo, senza impedire però che importanti informazioni sulla fecondità delle popolazioni del passato fossero accumulate nel tempo per vari paesi, e in particolare per la Francia, l'Inghilterra, la Germania, il Canada, proprio grazie a tali ricerche.
Del resto bisogna aggiungere che non mancano, nei confronti delle ricostruzioni di famiglie, riserve legate alla considerazione che tale tecnica propone una lettura a sua volta parziale delle vicende demografiche delle collettività osservate. In effetti queste vicende non si limitano al puro ciclo riproduttivo operante nella storia delle coppie coniugali. Le coppie e i loro figli non vivono in un vuoto sociale, ma in un sistema di relazioni familiari e sociali che interagisce con i loro processi biologici, influenzando, tra l'altro, la stessa intensità della nuzialità, il cosiddetto calendario delle nascite, i sistemi di allevamento della prole e la sopravvivenza dei singoli soggetti. Uno studio approfondito dell'insieme delle vicende familiari e dell'evolversi delle caratteristiche dei nuclei e delle società indagate può essere affrontato con un altro approccio di ricerca - purtroppo scarsamente praticato - che prevede la ricostruzione delle storie dei ménages attraverso l'assunzione di fonti più numerose di quelle sfruttate nella ricostruzione delle storie matrimoniali.
L'ultimo ventennio ha registrato convergenze di grande interesse degli studi aggregativi e degli studi nominativi: questi ultimi forniscono elementi atti a qualificare i comportamenti demografici individuali le cui caratteristiche, incorporate in analisi statistico-demografiche di tipo classico, insieme agli indicatori desunti dalle tavole di mortalità, consentono una completa ricostruzione dei processi demografici di lungo periodo di una popolazione, a partire dall'utilizzazione di serie storiche di dati aggregati relativi alle nascite e ai decessi e da informazioni sulla struttura della popolazione. È in una prospettiva metodologica di questo tipo che E.A. Wrigley e R.S. Schofield hanno potuto ricostruire tre secoli di storia della popolazione inglese a partire da una tecnica ideata da R.D. Lee (inverse projection) da loro modificata (back projection). Sembra questo un approccio particolarmente fecondo e promettente in tutti i casi ove si disponga - come in Italia - di lunghe serie storiche degli eventi demografici e di censimenti antichi.
Si deve tuttavia aggiungere che gli studi di demografia storica non possono limitarsi a una mera analisi dei processi demografici. L'evoluzione demografica interagisce perennemente, infatti, con l'intero sistema biosociale, in un circuito di relazioni complesse. Gli sviluppi della ricerca hanno messo in luce la portata dell'interazione demografica nelle più diverse letture dei processi storici: sul piano economico, nelle relazioni tra crisi di sussistenza e crisi demografiche, nei rapporti tra sistemi produttivi, innovazioni tecnologiche, evoluzione demografica; sul piano sociale, nelle relazioni tra sistemi matrimoniali e sistemi familiari, nel quadro delle culture e delle economie, nei rapporti tra processi produttivi e riproduttivi e fenomeni quali l'abbandono dei bambini e le politiche assistenziali per l'infanzia, gli orfani, i poveri nell'Europa moderna; sul piano biologico e sanitario, nelle relazioni tra cicli epidemici e mortalità, tra sviluppo igienico-sanitario, sistemi alimentari ed evoluzione della sopravvivenza, tra genetica delle popolazioni ed evoluzione demografica; sul piano delle mentalità e dei comportamenti, nei rapporti tra ruoli sessuali differenziati e sistemi sociali, nelle trasformazioni della vita riproduttiva, nell'emergere di nuovi atteggiamenti nei confronti di infanzia, adolescenza e anziani in relazione alle dinamiche della sopravvivenza alle diverse età della vita. Il campo degli studi interdisciplinari sulle dinamiche demografiche è aperto e ancora largamente inesplorato. I fenomeni di popolazione sono universalmente identificati come variabili cruciali della vicenda umana, ineludibili nella ricostruzione storica.
La figura riassume diciotto secoli di evoluzione della popolazione italiana. Il lungo percorso dai tempi di Augusto alla fine del XVIII secolo registra una complessiva riduzione del peso demografico dell'Italia sul subcontinente europeo: l'Italia ospitava il 22,5% della popolazione europea (esclusi i territori dell'ex URSS) all'inizio dell'era cristiana e tale percentuale era scesa al 17% circa nell'anno 1000, per ridursi ulteriormente al 15% nell'anno 1400, al 14% alla fine del XVII secolo, al 12% cento anni dopo. Più particolarmente, dopo una consistente espansione demografica intervenuta durante i primi due secoli (8,5 milioni di abitanti nel 200), la popolazione italiana conosce una lunga caduta fino a raggiungere un minimo storico nell'anno 700 (4 milioni di abitanti), seguito da un lento recupero. Il declino, determinato da eventi bellici e invasioni, epidemie e carestie, e da crisi di ordine economico-sociale e istituzionale, ridusse il popolamento rurale e sfibrò la rete degli antichi municipia romani. Dopo l'anno 1000, si hanno tre secoli di grandi trasformazioni sociali, che determinano un esteso progresso delle campagne, lo sviluppo dei centri urbani, il rigoglio delle città marinare, e alimentano una forte ripresa demografica: alla fine del XIII secolo la popolazione italiana è valutata in 12,5 milioni di abitanti. A questa fase espansiva, di scala europea, seguirà nel XIV secolo una profonda crisi, rimasta nella memoria storica soprattutto per gli esiti catastrofici della violenta epidemia di peste che devastò l'Europa a partire dalla metà del secolo, aggravando il declino demografico già in atto: l'Italia tocca nell'anno 1400 un nuovo minimo di 8 milioni di abitanti, appena un milione di più di quanti ne aveva ai tempi di Augusto. Il declino è generalizzato, ma più forte in Italia - che ha anticipato la crisi di circa mezzo secolo - che non nella media europea.
In Italia si registra già tra il 1300 e il 1340 una flessione dell'ammontare della popolazione a cui seguirà un crollo nel decennio successivo, sotto i colpi della pestilenza. Su scala europea, invece, la crescita demografica proseguì fino al 1340, per poi cedere a sua volta alla crisi epidemica. Nell'anno 1400 gli aggregati demografici, in Italia come nell'intero continente, erano regrediti verso le dimensioni già raggiunte duecento anni avanti. La ripresa cinquecentesca si tradusse in una crescita demografica paragonabile a quella dell'età comunale e determinò, durante il XVI secolo, un tasso medio annuo di incremento per 1.000 abitanti pari a 2,5 in Italia e a 2,7 nella media delle popolazioni europee. Una nuova crisi continentale stava, tuttavia, maturando anche in conseguenza di questa crescita demografica. I prodromi si annunciano con pestilenze, carestie e crisi agricole già nell'ultimo quarto del Cinquecento. Si profila il crollo economico che coinvolgerà l'Italia, la cui funzione, precedentemente primaria nel mondo sviluppato dell'epoca, come paese produttore ed esportare di beni e servizi, viene soppiantata dalla concorrenza francese, inglese, olandese. Fattori monetari, carestie, eventi bellici - la guerra dei Trent'anni - la contrazione dei commerci e dei traffici, due crisi epidemiche di peste (1630-1631 e 1652-1657) sconvolsero il paese durante il XVII secolo. A seguito delle peggiorate condizioni di vita e di sopravvivenza tra l'inizio e la fine del secolo la popolazione ristagna, o declina, soprattutto nelle città. Anche nel complesso europeo l'andamento demografico è analogo, tuttavia un lieve incremento dello 0,7‰ medio annuo assicura un sia pur tenue aumento della popolazione complessiva.
Le diverse scansioni delle crisi epidemiche e le difformità demografiche proprie delle grandi aree del paese si riflettono nelle difformi evoluzioni della popolazione osservabili tra la metà del Cinquecento e la fine del Settecento al Nord, al Centro-Sud e nelle isole (v. tabella). Con la fine del XVII secolo e delle più acute crisi epidemiche la popolazione del Mezzogiorno cresce in modo più intenso di quella settentrionale: un primato che verrà mantenuto finché non sarà contrastato dalla grande emigrazione tardo-ottocentesca.
Anche dopo la scomparsa delle acute crisi di mortalità, le situazioni tipiche del regime demografico antico, caratterizzate normalmente da una breve durata media della vita, frenano permanentemente la crescita demografica che sarebbe stata consentita da una fecondità non controllata. Così nella prima metà del Settecento il tasso medio annuo di incremento nella popolazione europea rimane sui valori del 5-6‰: in Italia in tale periodo si registra un tasso del 3‰, in Inghilterra dell'8‰, in Francia e in Svezia, alla metà del XVIII secolo, oscilla intorno al 5‰. Per dare un senso a queste cifre si consideri che una popolazione con un tasso annuo costante di incremento del 5‰ impiega circa 140 anni a raddoppiare, mentre un paese come l'Algeria dei giorni nostri, con un 35‰ di incremento medio annuo, vede raddoppiare i suoi abitanti in 20 anni. Ma quali sono i meccanismi demografici naturali e sociali che determinano l'incremento o il decremento di una popolazione?
Si consideri una situazione di antico regime demografico, caratterizzata da una durata media della vita di circa 35 anni (livello di sopravvivenza raggiunto già dall'Inghilterra e dalla Svezia nella prima metà del Settecento, dalla Francia nel 1810, dall'Italia nel 1880). Con tali condizioni di sopravvivenza, oltre il 30% delle coppie coniugali è disciolto, per morte di uno o di entrambi gli sposi, dopo 20 anni dalla celebrazione del matrimonio, producendo nella società una presenza consistente di orfani e di vedove. Prendiamo ora in esame una generazione di 1.000 donne assoggettata a tale regime. Soltanto 550 di esse arriveranno all'età di 23 anni, che assumiamo convenzionalmente come età al matrimonio. Supponiamo ora che il 90% di esse si sposino e mettano al mondo mediamente ognuna 5,15 figli (2,65 maschi e 2,5 femmine). Ecco allora che 1.000 donne, di cui solo 495 si sposano, danno vita a 1.237,5 figlie (si suppone che operi solo la fecondità coniugale). Tenuto conto di un'età media alla maternità di circa 30 anni, il tasso medio annuo di crescita delle figlie rispetto alle madri è pari al 7,1‰ e - in condizioni di stabilità dei regimi demografici - questo sarebbe anche il tasso di crescita della popolazione.Gli elementi che possono far variare questi andamenti sono quindi: la sopravvivenza, la nuzialità e la fecondità.
La sopravvivenza: se, ad esempio, a 23 anni di età arrivano non 550 ma 732 donne su 1.000 (ipotesi di una vita media di 50 anni), operando le condizioni di nuzialità e di fecondità già dette, il tasso medio annuo di crescita diventa più che doppio (16,6‰).
La nuzialità: se tutte le 732 donne sopravviventi a 23 anni di età si sposano, il tasso sale a 20,1‰.
La fecondità: se, nelle ultime condizioni considerate, il numero medio di figlie per donna sale a 3,5 (cioè in totale 7,2 figli dei due sessi) il tasso di incremento medio annuo arriva a 31,4‰. Quest'ultima situazione richiama alla mente l'incremento demografico attuale di alcuni paesi in via di sviluppo, in particolare africani; mentre il quadro descritto sopra (vita media di 35 anni, 90% di donne sposate a 23-26 anni, circa 5 figli per donna) è coerente con l'andamento di alcuni paesi europei della prima metà del Settecento.
Un esempio delle modalità che possono innestare una fase di decremento della popolazione in tempo di crisi può essere configurato da un'ipotesi di peggioramento della sopravvivenza, che fa abbassare la durata media della vita a 25 anni, e di riduzione dell'accesso al matrimonio tale che solo il 70% delle sopravviventi all'età di 23 anni si sposi. In tale situazione 2,5 figlie per donna non sarebbero sufficienti a rimpiazzare la generazione delle madri e si determinerebbe un declino tra le generazioni e nella popolazione pari a -11,1‰ medio annuo. In effetti, con un simile regime di mortalità, una stagnazione della popolazione, tale da consentire un rimpiazzo generazionale senza incremento ma anche senza decremento, sarebbe resa possibile o da un numero di figlie pari a 3,5 o anche dalla nascita di 2,5 figlie per donna, ma solo se si sposa il 98% delle donne. Entrambe circostanze impossibili da raggiungere, in tempi di gravi avversità alimentari, sanitarie, economiche.
Anche altri fattori possono intervenire a integrare gli scenari descritti; tra questi in particolare: il variare dell'età; la percentuale di vedove che arriva a seconde nozze; la diffusione del fenomeno dell'infanzia abbandonata; il peso delle nascite illegittime. Ad esempio, l'aggiungersi di una fecondità extraconiugale che comporti 3 nati da nubili ogni 100 nascite - come avvenne in Inghilterra alla metà del XVIII secolo - sposterebbe il tasso d'incremento precedentemente calcolato da 7,1 a 8,1‰.La diversa e mutevole azione di tutti questi fattori nel corso del tempo ha guidato gli andamenti delle popolazioni. Essi hanno inoltre interagito con le caratteristiche socioculturali ed economiche operanti nelle diverse situazioni storiche e territoriali, generando differenti, e a volte contrastanti, modi di sviluppo demografico.
Analisi recenti (v. Wrigley e Schofield, 1981; v. Wrigley, 1981; v. Schofield, 1984) hanno reso possibile un confronto fra gli andamenti delle popolazioni di Inghilterra, Francia e Svezia tra il 1750 e il 1850, mettendo in luce le singole specificità. I tassi d'incremento delle tre popolazioni, approssimativamente simili tra loro e pari circa al 5‰ annuo all'inizio del periodo, seguirono andamenti diversi nei cento anni considerati. I tassi francesi, con varie oscillazioni, si andarono portando decisamente verso valori inferiori e prossimi a zero alla fine del periodo. Al contrario i tassi inglesi salirono fino a triplicarsi verso il 1815 per stabilizzarsi poi intorno al 13‰ alla metà del XIX secolo, mentre i tassi svedesi, dopo aver fluttuato intorno al 5‰ fino all'inizio dell'Ottocento, si spinsero verso il 10‰ nei successivi cinquant'anni. L'analisi della diversità dei cambiamenti intervenuti, nei tre paesi, nei regimi di fecondità e di mortalità durante questi cento anni, ha consentito di spiegare tali andamenti differenziati. In tutti e tre i casi la durata della sopravvivenza è in aumento: essa è di 38 anni sia in Inghilterra che in Svezia, e di 29 anni in Francia, alla metà del Settecento; alla metà dell'Ottocento è salita a 41 anni di vita in Inghilterra e in Francia, a 45 anni in Svezia. Questa diminuzione della mortalità - che è guidata dai netti miglioramenti della sopravvivenza infantile - non costituisce tuttavia la sola ragione dell'incremento di popolazione. Ciò che si può osservare è che se il declino della mortalità ha determinato l'incremento della popolazione svedese, mentre la fecondità rimaneva invariata su un livello di poco più di 2 figlie per donna, il più forte incremento della popolazione è stato invece nettamente alimentato, in Inghilterra, da una crescita della fecondità fin oltre 3 figlie per donna. La Francia seguì una sorta di strada intermedia tra quella inglese e quella svedese: i guadagni resi possibili dalla riduzione della mortalità furono quasi completamente annullati dal declino della fecondità, che portò il numero medio di figlie per donna sotto le due unità fin dal primo decennio del XIX secolo.
Il confronto tra Inghilterra e Francia, spinto un po' in profondità grazie a ricerche di tipo sia aggregativo che nominativo, chiarisce meglio la natura delle differenze osservate nelle dinamiche della fecondità tra la metà del Settecento e la metà dell'Ottocento. In Inghilterra tutto concorre a far aumentare l'incremento demografico già alimentato da un modesto declino della mortalità: aumenta la percentuale di persone che accedono al matrimonio, diminuisce l'età al matrimonio, aumenta il tasso di nuzialità nella popolazione, il numero medio di figlie per donna sopravvivente si accresce di un'unità tra il 1671 e il 1821 (da 2 a 3 figlie); si incrementano in parallelo anche i concepimenti prenuziali e il tasso di illegittimità delle nascite (v. Wrigley, 1981). In Francia, invece, dove la mortalità conosce un declino più accentuato e quindi le potenzialità di incremento sarebbero più elevate, i concepimenti prenuziali e il tasso di illegittimità, pur in crescita, raggiungono livelli più bassi che in Inghilterra; inoltre una maggiore diffusione del celibato, di conserva con un aumento dell'età media al matrimonio, alimenta il declino del numero di figli di cui si è parlato. In effetti già in epoca rivoluzionaria si sono andate affermando in Francia, prima che in ogni altro paese europeo, forme diffuse di controllo delle nascite che hanno manifestato i loro effetti nei decenni successivi. Il contrasto tra le esperienze di questi paesi porta chiaramente a respingere ogni aspettativa di uniformità nella storia delle popolazioni europee che ha preceduto la transizione demografica (v. Schofield, 1984).
Tra il XIX e il XX secolo le popolazioni europee sperimentarono la loro transizione demografica - cioè il passaggio da regimi di elevata mortalità e fecondità a regimi progressivamente più controllati - secondo modi e ritmi ugualmente differenziati. Il percorso da tassi di incremento della popolazione alimentati da alti livelli di ricambio demografico naturale a tassi di pari entità, ma alimentati da bassi livelli di natalità e mortalità, fu coperto, ad esempio, in 150 anni dalla Svezia (1815-1965), in 90 anni dall'Italia e dalla Germania (1875-1965) (v. Chesnais, 1986). In generale l'esperienza più precoce, ma con decorso più lungo, che ha riguardato i paesi dell'Europa settentrionale (e la Francia), precursori dell'avvio della transizione, sembra quasi aver spianato la strada successivamente percorsa, in tempi più brevi, dalle popolazioni dell'Europa centrale, meridionale e orientale.
La vicenda demografica dell'Europa nel corso dell'Ottocento non può essere considerata compiutamente senza tener conto del manifestarsi, durante tutto il secolo (con particolare e crescente accentuazione a partire dagli anni venti-trenta) e fino al primo conflitto mondiale, di un colossale evento demografico prodotto dalla vicenda economica e politica e anche dalla stessa evoluzione delle popolazioni: la grande emigrazione transoceanica, che coinvolse l'intero continente europeo, anche se con tempi e intensità differenziati, e costituì sia una grande alterazione dei processi demografici europei, sia un decisivo fattore di rimescolamento dell'identità sociale e demografica delle popolazioni del continente americano.In Italia il processo di transizione demografica si avviò e si consolidò in concomitanza con il manifestarsi massiccio e tumultuoso dell'emigrazione tra l'ultimo quarto del XIX secolo e la prima guerra mondiale; ciò alimentò una specifica storia demografica dai connotati territoriali fortemente differenziati, in relazione sia alle varie scansioni dell'evoluzione demografica naturale, sia al difforme coinvolgimento delle aree del paese e della società nell'esperienza migratoria. (V. anche Anziani; Fecondità; Migratori, movimenti; Nascite, controllo delle; Popolazione).
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di Antonio Golini
1. Il 'problema popolazione'
Antichissime sono le tracce di un 'problema popolazione': un poema epico mesopotamico ha messo in luce come alcune preoccupazioni demografiche - legate alla carenza di risorse, al rumore e all'inquinamento - fossero già presenti nella civiltà babilonese, verso il 1600 a.C. Ma anche se si è nuovamente imposto all'attenzione sia nell'antica Grecia, sia nell'antica Roma e poi lungo tutto il Medioevo, è certamente con Malthus che il 'problema popolazione' acquista vigore e portata generale.
Sono ben note la posizione di Malthus e le sue due progressioni - quella della popolazione, a crescita geometrica, e quella delle risorse, a crescita aritmetica - che porterebbero necessariamente a una alterazione insostenibile del rapporto fra popolazione e risorse. Da qui la necessità di 'controllare' la crescita demografica (per esempio attraverso l'aumento dell'età al matrimonio o la diminuzione del numero dei matrimoni) e da qui l'affermazione malthusiana "sono poveri perché sono molti" (v. Malthus, 1798), cui Marx, rovesciando i termini del problema, contrappose subito la tesi "sono molti perché sono poveri", basandosi su precise riprove statistiche di studiosi inglesi dell'epoca, che gli consentirono di affermare che "effettivamente non soltanto la massa delle nascite e dei decessi, ma anche la grandezza assoluta delle famiglie è inversamente proporzionale al livello del salario, quindi alla massa dei mezzi di sussistenza di cui dispongono le differenti categorie operaie" (v. Marx ed Engels, 1978).
In termini semplificati questa contrapposizione - se sia il troppo rapido aumento della popolazione a provocare il sottosviluppo e la povertà o se invece sia l'arretratezza culturale ed economica a provocare un eccesso di crescita demografica - si è mantenuta fino ai nostri giorni. Solo di recente quasi tutti i paesi si sono trovati d'accordo sulla necessità di agire su tutte e due le variabili, la demografica e l'economico-culturale, per tentare di avere un più armonico rapporto fra popolazione e risorse, e quindi per frenare la crescita della popolazione e uscire dal sottosviluppo.
Inoltre si vanno riproponendo oggi i problemi delle relazioni fra popolazione e ambiente, perché da alcune parti si sostiene che i guasti ambientali siano provocati tanto da un eccesso di 'carico demografico' quanto dalla quantità e dalla qualità dei consumi che caratterizzano soprattutto i paesi sviluppati; e così molto di recente si è arrivati a prospettare la necessità di avere una 'popolazione sostenibile', una popolazione che sia compatibile con l'ecosistema e che non pregiudichi, con i suoi consumi attuali, l'ambiente, da proteggere e da preservare anche per le generazioni future.
A questi problemi, che si rincorrono lungo tutta la storia dell'uomo e che risvegliano periodicamente l'attenzione - e le paure - degli individui e delle società per la popolazione, si deve aggiungere la circostanza che, in termini demografici, quello attuale è un periodo di eccezionali e quasi certamente irripetibili trasformazioni, che si legano in un rapporto di causa ed effetto a tutto il processo di modernizzazione delle società. L'accrescimento della popolazione non può mai essere stato, dalla comparsa dell'uomo sulla terra, per lunghi periodi di tempo, così intenso, né potrà esserlo in futuro; l'invecchiamento della popolazione, così generalizzato e così accelerato, è un fenomeno del tutto nuovo che dispiegherà appieno la sua intensità nel XXI secolo e che comporterà una ristrutturazione completa di tutte le società; l'urbanizzazione, cioè la concentrazione della popolazione in grandissime città, va assumendo una dimensione e una velocità di crescita assolutamente impensabili, fino a concentrare oltre 20 milioni di persone in un'unica sterminata megalopoli.
2. La demografia come disciplina che studia le popolazioni umane
Alla luce di quanto detto nel cap. 1, ben si intende come esistano tutti gli elementi che giustificano il sempre più vasto e approfondito interesse che si va rivolgendo verso il modo e l'intensità di sviluppo delle popolazioni. Da qui anche il continuo divenire della demografia, disciplina che ha, per l'appunto, come oggetto di studio le popolazioni umane. La demografia, nata nel corso del XVIII secolo, ha via via affinato i suoi metodi per analizzare, in maniera sempre più adeguata e potente, una popolazione, che viene vista come una collettività dinamicamente e continuamente modificata nella sua dimensione e nella sua struttura da fenomeni di flusso, come nascite, morti e migrazioni.Tradizionalmente si considera come fondatore della demografia Johann Peter Süssmilch (1707-1767), la cui opera, L'ordine divino nei mutamenti del genere umano, dimostrato dalla nascita alla morte e alla sua riproduzione (prima edizione: 1741), costituisce la prima trattazione sistematica delle conoscenze dell'epoca sulle regolarità dei fenomeni demografici, peraltro già studiate largamente nel secolo precedente dagli aritmetici politici (Graunt, Petty, Halley, fra gli altri).
Ma le origini della demografia si possono collocare assai più lontane nel tempo e sono comuni con quelle della statistica, in quanto proprio di carattere prevalentemente demografico furono le prime rilevazioni, descrizioni e analisi che si ricordano nella storia della statistica. Infatti enumerazioni o censimenti della popolazione costituiscono le prime rilevazioni statistiche, in Cina come in Egitto, Assiria, Grecia e Roma. Assai più recenti sono le rilevazioni di alcuni degli eventi fondamentali della popolazione, iniziate in maniera sistematica e generalizzata dal mondo cattolico con il Concilio di Trento (15451563), che, fra l'altro, introdusse molte riforme ecclesiali per le quali si richiedeva una conoscenza approfondita dei fenomeni che si verificano in una popolazione (furono così istituiti i registri dei battesimi, delle sepolture e dei matrimoni), oltre che dell'ammontare della popolazione stessa (con i dati raccolti nei registri degli 'stati delle anime'). In complesso tali registri sono, specie in Italia, abbastanza ben conservati in un buon numero di casi e costituiscono un unicum per lo studio della storia della popolazione e quindi un elemento di base dei contenuti e dei metodi della demografia storica.
Il termine demografia fu poi introdotto da Achille Guillard (1799-1876) nel 1855. Ma il contenuto attuale della disciplina è ben più ampio di quanto indichi il suo significato etimologico di 'descrizione della popolazione'. Infatti il suo scopo è duplice e si rifà alle origini della disciplina. Da un lato vi è quello di una analisi descrittiva della popolazione e dei fenomeni a essa attinenti (il 'quanto', il 'dove', il 'come', il 'quando' di una popolazione e degli eventi che in essa si verificano), e questo per fornire all'operatore nel campo della politica e della macroeconomia strumenti conoscitivi necessari per il governo della cosa pubblica e per l'azione economica, dovendo essere la popolazione il fine della politica, della gestione amministrativa, dei fatti e dei processi economici. Dall'altro lato vi è lo scopo di studiare e indagare le 'leggi' - o quanto meno le regolarità, considerando quanto impervia e quasi sempre improduttiva sia nel campo delle scienze sociali la ricerca del 'perché' dei fenomeni - che presiedono allo sviluppo delle popolazioni e come esse si leghino ai fattori biologici, ambientali, economici, sociali, politici e tecnologici.
Ove si voglia definire la demografia rispecchiandone la natura, lo strumento principale di indagine e l'oggetto, si può dire che la demografia può essere vista come "il complesso di analisi descrittive e investigative condotte prevalentemente con tecnica statistica e intese a studiare le caratteristiche strutturali e dinamiche delle popolazioni umane, sia nei loro aspetti biologici che nei loro aspetti sociali e nelle loro interrelazioni" (v. Federici, 1979).
Questa definizione mette bene in evidenza una caratteristica del tutto peculiare della demografia, quella di essere una disciplina ponte fra la biologia e la sociologia. La demografia infatti studia fenomeni - quali le nascite e le morti - che prendono avvio da fatti biologici, modificati più o meno profondamente dall'intervento di fattori sociali, e fenomeni - quali le migrazioni e i matrimoni - che prendono avvio da fatti sociali, ma la cui intensità e dinamica sono più o meno direttamente influenzate anche da fattori biologici.
Nelle società più avanzate il fortissimo e accelerato processo di modernizzazione ha progressivamente accresciuto l'influenza dei fattori sociali e dei fattori ambientali, intesi in senso lato, su quei comportamenti individuali e di coppia che sono alla base degli eventi demografici, rendendo sempre più remota e meno diretta l'azione e l'influenza dei fattori biologici (si pensi ad esempio all'azione del controllo delle nascite nel regolare la fecondità naturale della coppia), fattori molto più importanti e condizionanti nelle società primitive e in quelle arretrate. Vanno diventando pertanto sempre più rilevanti e frequenti le indagini scientifiche che mirano ad analizzare e approfondire l'impatto dei mutamenti demografici sui mutamenti socioeconomici delle popolazioni e, per converso, le indagini intese a individuare il verso e l'intensità dell'influenza delle trasformazioni economiche e sociali sugli eventi demografici. Quindi, pur sempre nell'ambito della sua peculiarità di disciplina ponte, la demografia va progressivamente caratterizzandosi come una scienza sociale. Questa circostanza è anche legata al fatto che lo sviluppo e la specializzazione scientifica hanno creato o potenziato discipline come la biometria, già esistenti all'epoca della nascita della demografia, e discipline come la genetica umana e l'epidemiologia, del tutto nuove, molto più attrezzate e potenti della demografia per lo studio dei comportamenti e delle caratteristiche più propriamente biologiche delle popolazioni umane.
Negli ultimi anni - specie negli Stati Uniti, ma da lì il fenomeno si va estendendo a tutto il mondo occidentale - la demografia va fornendo strumenti conoscitivi essenziali anche per l'impresa privata, che cerca di produrre, distribuire e vendere beni e servizi sempre di più in fuzione della quantità e della qualità di popolazione presente in un certo territorio e del suo possibile sviluppo. Da qui il sorgere di una demografia per gli affari (business demography).Altrettanto rapidamente si sta diffondendo una diversa demografia, la demografia delle famiglie, che si viene così ad affiancare alla demografia classica, che è quella degli individui. Se l'ammontare e la composizione di una popolazione di individui influenzano largamente il modo di riprodursi demograficamente, il modo di produrre e consumare beni e servizi, il modo di organizzare e modificare la società in tutti i suoi aspetti, allora diventa fondamentale la sua analisi; analoghe considerazioni debbono farsi per l'ammontare e la composizione di una popolazione di famiglie.
Lo studio e l'analisi delle famiglie vengono quindi effettuati non solo perché importanti di per sé (ad esempio la domanda di alcuni beni durevoli, come le abitazioni, è in funzione del numero di famiglie e non di quello degli individui), ma anche perché il comportamento demografico degli individui (lo sposarsi, il procreare, il migrare e finanche il morire) è largamente filtrato dall'ambiente familiare, sicché la famiglia diventa un necessario strumento interpretativo ove si voglia tentare di capire e spiegare alcuni comportamenti individuali.I metodi della demografia sono stati ripresi e adattati al fine di studiare tutti quei collettivi che si modificano continuamente per effetto di entrate e di uscite dal sistema. È così che sono nate e si sono sviluppate una demografia zootecnica, una demografia delle piante, una demografia delle imprese. In questo articolo però si farà esclusivo riferimento alla demografia delle popolazioni umane studiate come insiemi di individui, cioè alla demografia semplicemente detta.
3. I processi demografici e l'evoluzione demografica
Alla base dell'evoluzione demografica stanno determinati eventi, quali il nascere, il morire e il migrare delle singole persone, e l'accumulazione, nella popolazione, di tali eventi. Pertanto di una popolazione sarà fondamentale studiare, a una certa data, l'ammontare e la composizione o struttura, almeno secondo alcune caratteristiche principali (quali il sesso, l'età e lo stato civile), e poi gli eventi che dinamicamente si producono nella popolazione e la modificano.Per quel che riguarda il complesso della popolazione mondiale, è evidente come essa, considerata, come normalmente si fa, al 31 dicembre (o al 1° gennaio) di due anni consecutivi, si modifichi: a) dal punto di vista quantitativo e da quello qualitativo, per effetto dei flussi di nascite e di morti che si saranno avuti nel corso dell'anno; b) dal solo punto di vista qualitativo, anche per effetto dei flussi di matrimoni e di divorzi che nell'anno stesso si sono registrati. Invece la popolazione di un determinato territorio (la popolazione di un continente, di una nazione, di una regione, ecc.) si evolve dinamicamente non soltanto per i flussi di nascite, decessi, matrimoni e divorzi che si verificano nel suo ambito, ma anche per effetto degli scambi migratori che essa ha con il resto del mondo.
Per semplicità di analisi, nello studio della demografia ci si riferisce quindi allo stock della popolazione, cioè all'ammontare e alla struttura riferiti a un istante di tempo, e ai flussi della popolazione, cioè agli eventi che si riferiscono a un intervallo di tempo. Nella fig. 1 sono rappresentate schematicamente la relazione che lega lo stock di una popolazione con i suoi flussi e la relazione che lega la popolazione del territorio A con quella del resto del mondo (Ā).
Ammontare e flussi sono legati fra di loro dalla seguente espressione elementare, che è denominata equazione della popolazione, con la quale si può determinare l'ammontare della popolazione a una data successiva, in funzione della popolazione preesistente e dei flussi che si sono registrati nell'intervallo di tempo considerato:
formula. (1)
Nella (1) P³¹.¹².t e P³¹.¹². t-¹ rappresentano la popolazione insediata nel territorio A al 31.12.t e al 31.12.t-1 e Nt, Dt, It, Et rappresentano, rispettivamente, le nascite, le morti, le immigrazioni dal resto del mondo e le emigrazioni verso il resto del mondo, che si sono verificate in A nel corso dell'anno di calendario t.
Come si è prima ricordato, negli ultimi anni si è andata sviluppando sempre di più anche la demografia delle famiglie, cioè lo studio e l'analisi non delle singole persone ma dei nuclei familiari.Anche per le famiglie si può parlare di stock e di flussi, cioè del numero di famiglie esistenti a una certa data in un certo territorio e del numero di eventi che nell'intervallo di tempo successivo contribuiscono a modificare tale numero. Non è immediatamente e facilmente estensibile, per il calcolo delle famiglie, una relazione simile alla (1), per il fatto che esistono diversi tipi di famiglie e non esistono definizioni univoche di famiglia valide ovunque e in ogni epoca, in quanto i tipi di legami familiari variano storicamente nelle diverse società.
Le definizioni più recenti, sulle quali sembra esserci una buona convergenza internazionale, ma che differiscono peraltro da quelle adottate nei censimenti italiani, individuano: a) le famiglie senza nuclei (costituite da una persona sola o da due o più persone, non legate da alcun vincolo di parentela, che vivono sotto lo stesso tetto); b) le famiglie con un solo nucleo (costituite dalle coppie senza figli, dalle coppie con figli, da un solo genitore con figli); c) le famiglie con due o più nuclei (costituite da più nuclei familiari che vivono nella stessa abitazione).
Il fatto che lo studio delle famiglie vada diventando sempre più difficile non è legato solo alla circostanza appena precisata, ma anche a quella che la raccolta del materiale statistico corrente si va complicando notevolmente. Per la raccolta delle informazioni statistiche, necessarie allo studio e all'analisi dei fenomeni familiari, occorre infatti che degli eventi vi sia una qualche certificazione (il certificato di matrimonio o la sentenza di divorzio), che costituisce a un tempo la base amministrativa e la base statistica del fenomeno oggetto di studio (questa duplice funzione ha, per esempio, in riferimento agli individui, il certificato di nascita o quello di morte). E invece gli eventi che danno luogo alla formazione e ad alcune forme di scioglimento della famiglia vanno diventando sempre più frequentemente informali - unioni coniugali di fatto e scioglimento di fatto del matrimonio o della convivenza -, senza che vi sia alla base una qualche certificazione e senza, quindi, che si possa determinare il conseguente flusso statistico di informazioni.
Vanno pertanto cambiando le rilevazioni statistiche, che fanno sempre maggiore affidamento sulle indagini campionarie speciali, in grado di accertare soprattutto gli stocks di famiglie e in molto minor misura i loro flussi di formazione e di scioglimento. In Italia, da pochissimi anni, l'Indagine multiscopo sulle famiglie, curata dall'Istituto Nazionale di Statistica, mira, fra l'altro, ad accertare la reale consistenza e composizione delle famiglie, al di là di quello che può risultare sulla carta, dai registri anagrafici.
4. L'influenza della generazione di appartenenza, dell'età e del periodo storico sugli eventi demografici
Per essere complete ed analitiche - e quindi pienamente utilizzabili - le statistiche relative agli eventi demografici devono riportare, per ognuno degli eventi, l'epoca (quasi sempre l'anno di calendario) in cui è accaduto, l'età che aveva il soggetto quando ha subito l'evento e il suo anno di nascita o la sua generazione di appartenenza. Per una più facile analisi di queste tre variabili temporali, riesce di grande ausilio una rappresentazione grafica che va sotto il nome di schema di Lexis, utilizzato per le figg. 2 e 3.
Si prendano, ad esempio, il complesso delle nascite che si sono verificate in un certo anno di calendario e le madri che a esse hanno dato luogo. Possiamo considerare gli eventi-nascita che si sono avuti in Italia nell'anno di calendario t, ad esempio il 1976, come punti racchiusi in un rettangolo verticale, così come indicato nella fig. 2A. Sono 807.000 i punti-evento in questione, essendo state tante le nascite che si sono avute in quell'anno nel nostro paese; ciò significa che, di 13.300.000 donne in età feconda che si avevano in quell'anno in Italia, 807.000, 1 su 16 circa, ebbero un bambino (nel 1990 su 14.559.000 donne furono 581.000, 1 su 25, ad avere un bambino).
Tali eventi possono essere poi suddivisi per età della madre al parto (dai 15 ai 50 anni), come indicato nella fig. 2B, dove, per esempio, i punti-evento iscritti nel quadratino più basso stanno a indicare le nascite avvenute nell'anno di calendario 1976 da madri che in quell'anno avevano una età compresa fra i 15 e i 16 anni.
Nei paesi con statistiche complete gli eventi sono suddivisi anche per anno di nascita della madre, cioè a seconda che la madre sia nata da 15 a 50 anni prima dell'anno di calendario considerato. In corrispondenza degli anni di nascita, nello schema di Lexis, si tracciano corridoi diagonali che individuano l'intero percorso lungo cui si muove una generazione via via che percorre le varie età della vita. I corridoi diagonali vanno perciò a intersecare il rettangolo verticale che rappresenta l'anno di calendario, individuando pertanto nel piano successivi parallelogrammi, così come è indicato nella fig. 2C. È evidente come i punti-evento iscritti, ad esempio, nel parallelogramma evidenziato stiano a indicare le nascite avvenute nell'anno di calendario 1976 da madri nate nel 1950.
Gli eventi che si verificano in un anno di calendario sono perciò la somma degli eventi relativi ai diversi parallelogrammi che si sovrappongono uno all'altro lungo il rettangolo verticale. In termini reali gli eventi che si verificano in un anno di calendario sono la somma degli eventi cui danno luogo le diverse generazioni che si trovano a coesistere a una certa data.
La fig. 3 riporta i percorsi di vita di quattro generazioni. Naturalmente il numero di nascite, o di migrazioni, o di matrimoni, o di divorzi, o di morti, che si ha in ogni singolo parallelogramma - e cioè il numero di eventi verificatisi in un certo anno di calendario e prodotti da una determinata generazione in una specifica età - è in funzione delle condizioni in cui è nata e cresciuta quella determinata generazione, della congiuntura socio-politico-sanitaria dell'anno (e in qualche caso, com'è soprattutto per i divorzi e le migrazioni, delle variazioni di normativa del l'anno), dell'età in cui ci si trova a vivere questa congiuntura e delle condizioni della struttura di supporto dell'individuo, tanto nella società quanto nella famiglia.
Il parallelogramma evidenziato nella fig. 2C offre lo spunto per sottolineare l'importanza dell'influenza di determinati fatti storici sui comportamenti demografici. Certamente il numero di punti-evento, cioè di nascite, che rientrano in quel parallelogramma risente dei comportamenti individuali delle donne appartenenti alla generazione nata nel 1950, che si è trovata a vivere una età formativa, quali sono i 18 anni, nel 1968, in un particolarissimo clima politico e ideologico, che si è poi rinnovato nel 1974 in occasione del primo grande referendum. Gli avvenimenti del 1968 e del 1974 avranno avuto, per fare un esempio relativo a una diversa generazione, un'influenza differente sulle donne nate nel 1964, che hanno 'vissuto' il 1968 quando avevano 4 anni di età e il 1974 quando ne avevano 10.
In genere è molto difficile riuscire a capire quale sia l'influenza dell'età, quella dell'anno di nascita e quella del periodo in cui ci si trova sul comportamento demografico che una certa generazione tiene in un determinato anno di calendario, anche perché il comportamento della generazione è la risultante, complessa e collettiva, del comportamento di tutti gli individui appartenenti alla generazione stessa.
Per tutto questo insieme di fattori - biologici e sociali, storici e del momento - si osservano manifestazioni demografiche fortemente differenziate, cioè diverse frequenze nella produzione di eventi demografici, in funzione del sesso (ad esempio la probabilità di morire a una determinata età è maggiore per il sesso maschile che non per il sesso femminile), in funzione della regione di appartenenza (ad esempio la probabilità di morire in età adulta è maggiore nel Centro-Nord che nel Mezzogiorno), in funzione della classe sociale (ad esempio la probabilità di morire a una determinata età è maggiore per le persone povere e poco istruite che per quelle più abbienti e istruite), e in funzione di molte altre variabili (attività lavorativa, cultura, religione, etnia, ecc.).
5. Formazione e sviluppo di una popolazione
Una popolazione che si trovi insediata su un territorio a un determinato istante di tempo è il risultato della numerosità originaria delle varie generazioni che la compongono e del destino che le ha accompagnate. La tab. I mette in luce come era formata la popolazione italiana residente in Italia alla data del 31 dicembre 1987. Così, ad esempio, le 555.000 persone in vita al 31 dicembre 1987 in età compresa fra 0 e 1 anno sono il risultato delle 560.000 nascite che si sono avute nel corso dell'anno 1987 detratte le morti e aggiunto il saldo migratorio; le 949.000 persone in età compresa fra 20 e 21 anni sono il risultato delle 962.000 nascite dell'anno 1967 da cui si detraggono le morti che si sono avute fra la nascita e i 20 anni di età e cui si aggiunge il saldo migratorio registratosi nello stesso intervallo.
In generale la popolazione presente in un certo territorio al 31 dicembre dell'anno t (o, il che è lo stesso, al 1° gennaio dell'anno t + 1) è composta dalle persone che, per l'azione congiunta di mortalità, immigrazione ed emigrazione, residuano delle nascite che si sono avute nell'anno t, in quello t-1, in quello t-2 e così via andando indietro per un centinaio di anni, essendo all'incirca 100, appunto, le generazioni che si trovano a coesistere in una certa popolazione.
Quindi una popolazione, a un certo istante di tempo, è il risultato delle vicende che ha subito. A titolo di esempio, si consideri la generazione maschile nata in Italia nel 1918, già poco numerosa 'in partenza' per effetto della prima guerra mondiale, esposta in età infantile all'ultima grande epidemia che si sia avuta in Italia (l'epidemia di 'spagnola') e arrivata in età 'giusta' per combattere nella seconda guerra mondiale, e la si confronti con la generazione nata nel 1908, un po' meno esposta, rispetto alla precedente, a tutta questa serie di vicende negative, e con quella del 1928, assai meno esposta alla stessa serie di vicende. È evidente che la seconda guerra mondiale ha avuto un impatto ben differente sulla generazione del 1918, che nel 1940 aveva 22 anni, e su quella del 1928, che in quell'anno ne aveva soltanto 12 (v. tab. II). Esistono perciò generazioni più 'fortunate' e generazioni più 'sfortunate' a seconda dell'età che hanno quando si verifica un evento storico particolarmente favorevole, o particolarmente sfavorevole.
Naturalmente, in una popolazione nella quale si abbiano flussi di immigrazione talmente consistenti da sopravanzare le perdite dovute alla mortalità, le persone di n anni presenti a una certa data possono essere più numerose delle persone nate n anni prima. È questo, per fare un solo esempio, il caso della Lombardia, che aveva, nel 1987, un numero di cinquantenni maggiore del numero delle nascite di 50 anni prima, per effetto della fortissima immigrazione avutasi nella regione; al contrario il numero di cinquantenni residenti in Calabria, nel 1987, per effetto della fortissima emigrazione, risultava essere molto minore di quello che si sarebbe avuto se avesse agito la sola mortalità (v. tab. III).
Alla base dell'evoluzione demografica di una popolazione umana sta - come si è visto - la differenza fra il numero delle nascite e quello delle morti, sommata algebricamente alla differenza fra il numero degli immigrati e quello degli emigrati. Nelle popolazioni concrete i fenomeni che contano di più nella formazione di una popolazione sono le nascite e le morti; le migrazioni svolgono un ruolo fondamentale, ma usualmente limitato nell'ammontare, nel tempo e nello spazio.
In termini semplificati, il meccanismo è il seguente.
1. Coeteris paribus, più diminuiscono le nascite, più si riduce l'accrescimento di una popolazione. Quando in una popolazione ogni donna ha in media 2 figli, questi, nel ciclo delle generazioni, sostituiscono la madre e il padre, e quindi la popolazione tende a essere stazionaria, cioè immutata nell'ammontare. Così, tanto maggiore di due è il numero medio di figli per donna, tanto più intensamente una popolazione si accresce, mentre tanto minore di due è il numero medio di figli tanto più una popolazione tende a diminuire. È per questa ovvia ragione che in demografia, per giudicare del livello di fecondità, si fa riferimento alla soglia di 2 figli per donna (o, per essere più precisi, di 2,1, per ragioni tecniche su cui non è il caso di intrattenersi in questa sede), valore che viene denominato soglia di sostituzione.
2. Coeteris paribus, più aumenta la mortalità, più diminuisce la permanenza in vita delle persone e più la crescita della popolazione rallenta; l'aumento della mortalità può essere così intenso da portare fino a un decremento della popolazione (com'è successo ad esempio durante le gravi pestilenze del passato o durante le grandi guerre) e a una sua possibile scomparsa. Viceversa, più diminuisce la mortalità (come va succedendo lungo tutto il XX secolo), più si prolunga la permanenza in vita delle persone e più intensamente si accresce la popolazione.
3. Ovviamente nelle popolazioni concrete quasi mai ci si trova nella situazione di 'parità di altre condizioni'; nelle popolazioni reali si è in una situazione dinamica in cui interagiscono le variazioni dei fattori precisati in 1 e in 2. Si hanno allora risultati che sono il frutto della combinazione dei fattori. Se, com'è successo ad esempio in Europa in tutto il corso del XX secolo, l'aumento della sopravvivenza - ovvero della durata della vita media dell'uomo - tende a essere più che proporzionale alla diminuzione della fecondità, allora la popolazione tende comunque a crescere, come illustrato dagli esempi della tab. IV. In entrambi gli esempi il numero delle nascite diminuisce, rispettivamente da un'epoca all'altra e da una generazione all'altra; tuttavia il numero delle persone che riescono a sopravvivere all'età di un anno, nell'esempio A, e il numero degli anni vissuti, nell'esempio B, aumentano, perché la diminuzione della mortalità, che comporta l'aumento della sopravvivenza in un caso e della vita media nell'altro, è proporzionalmente superiore alla diminuzione della fecondità.
4. Le migrazioni, avendo la capacità di spostare rapidamente anche grandi quantità di persone, possono alterare i meccanismi illustrati ai punti 1-3, e quindi modificare sensibilmente lo sviluppo di una popolazione, non solo attraverso il trasferimento diretto di persone dal luogo di origine al luogo di destinazione, ma anche attraverso l'effetto indiretto che consiste nel fatto che le nascite e le morti, fra coloro che sono migrati, anziché nel luogo di origine, si verificano nel luogo di arrivo.
La tab. III lascia già vedere, per due regioni diverse, quale sia stata l'influenza delle migrazioni su una singola generazione. La tab. V dà conto in termini aggregati della storia della popolazione italiana nell'ultimo secolo e di come nascite, morti e migrazioni si siano combinate per dar luogo allo sviluppo della popolazione del paese, che è passata - considerata a confini costanti - da 32.770.000 persone della fine del 1895 a 57.746.000 della fine del 1990.
Dai dati riportati nella tab. V emerge l'importanza delle migrazioni: per esempio il saldo migratorio del periodo 1896-1900 (-155.000 persone all'anno) è stato di intensità tale da ridurre del 44% il saldo naturale (differenza fra nascite e morti), che era pari a 349.000 persone all'anno; nel periodo 1961-1965 il saldo naturale di 484.000 persone all'anno fu ridotto del 26% da un saldo migratorio negativo di 126.000 persone all'anno. Nei primi anni settanta, poi, l'Italia è diventata un paese di immigrazione, tanto che, ad esempio nel periodo 1981-1985, il saldo migratorio positivo di 77.000 persone all'anno è stato maggiore del saldo naturale, pari a 67.000 persone all'anno.
Si è visto come il complesso gioco dei fattori demografici dia luogo a una popolazione che si modifica continuamente (più precisamente ogni qual volta in essa si verifica un evento) nel suo ammontare e nella sua composizione. Dal momento che, per carenza di adeguati strumenti logici e metodologici, non si riesce ad analizzare in termini dinamici una popolazione concreta e gli eventi che in essa si verificano, si studia da un lato la popolazione 'fermata' a una data precisa, che normalmente è la data del censimento oppure il 31 dicembre (o il 1° gennaio) di ogni anno di calendario (il che costituisce l'analisi dello stock di popolazione o dello 'stato della popolazione', cioè dell'ammontare e della struttura della popolazione, a quella data), e dall'altro gli eventi riferiti normalmente a un intervallo temporale costituito da un anno di calendario (il che costituisce l'analisi dei flussi che durante un intervallo di tempo contribuiscono a modificare la popolazione in esame).
Il primo e fondamentale dato che si ricava dai censimenti demografici, attraverso i quali si rilevano tutte le persone e tutte le famiglie presenti su un certo territorio e le loro caratteristiche, è l'ammontare della popolazione.
Il censimento è un'operazione che si ripete quasi dappertutto ogni dieci anni (in Italia negli anni terminanti con 1), anche se, teoricamente, sarebbe sempre possibile conoscere in successivi istanti il totale della popolazione di un paese ove esista l'anagrafe, purché sia stato effettuato un censimento iniziale e, per il periodo seguente, si sia tenuta esatta nota del movimento demografico attraverso i registri di popolazione. Infatti, aggiungendo alla popolazione a una certa data le nascite e le immigrazioni verificatesi in un determinato intervallo di tempo successivo, e detraendo da essa le morti e le emigrazioni verificatesi nello stesso intervallo di tempo, si ottiene l'ammontare della popolazione alla fine dell'intervallo di tempo considerato, mediante la semplice relazione (1) illustrata nel cap. 3.
Questo procedimento, che eviterebbe la periodica ripetizione dei censimenti, non può essere esclusivo, perché, ogniqualvolta si siano eseguiti dei controlli, si sono sempre trovate divergenze, anche grandi, fra la popolazione calcolata mediante la (1) e quella censita. Le differenze riscontrate derivano dall'accumularsi di una serie di numerosi e inevitabili errori, che si commettono sia nell'esecuzione dei censimenti sia, soprattutto, nella registrazione dei flussi di popolazione (in particolare di quello migratorio). In molti paesi, comunque, il procedimento non è nemmeno proponibile, giacché non esistono i registri di popolazione, e questo vale sia per paesi in via di sviluppo sia per paesi sviluppati. In alcuni paesi, poi, il censimento, che è una operazione tecnicamente complessa e assai costosa, viene effettuato di rado e senza una regolare cadenza e l'ammontare della popolazione viene valutato attraverso stime che si valgono anche di indagini campionarie effettuate su parte della popolazione o attraverso rilevazioni indirette (fotografie aeree, ad esempio).
Le analisi e le stime degli storici consentono di avere una valutazione di massima dell'evoluzione della popolazione dei vari continenti dalla metà del XVII secolo alla metà del nostro secolo (v. tab. VI). Mettendo insieme i dati ricavati dai censimenti e dalle altre indagini, l'ONU valuta attualmente (1990) la popolazione mondiale in 5 miliardi e 292 milioni, mentre si ritiene che fosse pari a 2 miliardi e 515 milioni nel 1950, a 1 miliardo e 608 milioni all'inizio del secolo e a 545 milioni intorno alla metà del XVII secolo. L'incremento della popolazione però non è stato e non è uniforme in tutti i continenti, sicché il grado di popolamento dei diversi continenti e la loro quota sulla popolazione mondiale variano molto (v. tabb. VI e VII).
Sono occorsi diversi milioni di anni, dalla comparsa dell'uomo sulla terra fino al 1650, perché la popolazione mondiale arrivasse a 550 milioni circa di unità, mentre, a partire dal 1650, la popolazione mondiale è raddoppiata prima in 200 anni circa e poi, di nuovo, in circa 100 anni; l'ulteriore raddoppio si è avuto entro il 1980, cioè in soli 30 anni, quando si sono raggiunti i 4 miliardi e 448 milioni di unità. Già da queste semplici osservazioni si ricava facilmente la constatazione di quanto rapido sia attualmente l'accrescimento della popolazione mondiale; tale concetto normalmente si quantifica ricorrendo al calcolo del tasso medio annuo di accrescimento della popolazione. Facendo riferimento alla popolazione al tempo t (Pt) e al tempo t + s (Pt + s), il tasso di incremento che si è avuto nel periodo s si calcola mediante una delle due espressioni,
formula, (2)
formula, (3)
che indicano di quante unità si è accresciuta mediamente la popolazione considerata ogni anno e ogni 100 abitanti. La (3) è la formula più corretta e adoperata, mentre la (2) è una delle formule approssimate più semplici, ma è accettabile, soprattutto se il periodo s non è eccessivamente lungo (1-5 anni). Queste formule sono largamente e frequentemente utilizzate quando si debba misurare l'incremento di qualsiasi collettività (popolazione scolastica, popolazione assistita, popolazione ospedaliera, ecc.). Calcolato con la (3), l'incremento della popolazione mondiale è risultato pari allo 0,29% fra il 1650 e il 1750 e al 2,05% (cioè quasi 7 volte tanto) fra il 1960 e il 1970 (v. tabb. VI e VII).
L'evoluzione demografica, tuttora in atto, che ha portato, o va portando, le popolazioni da alti livelli di natalità (che comportano un continuo forte afflusso di giovani) e di mortalità (che impediscono a gran parte della popolazione di pervenire alle età più anziane) verso bassi livelli di natalità (per cui le nuove leve hanno scarsa consistenza) e bassi livelli di mortalità (che consentono, attraverso un'alta sopravvivenza, a frazioni sempre più consistenti di persone di pervenire alle età più anziane), ha comportato, e comporta, una profonda modificazione nella struttura per età della popolazione: il fenomeno detto invecchiamento della popolazione (v. ultima parte della tab. VII).
Dato che quasi tutti i fenomeni biologici, economici e sociali variano fortemente col variare dell'età, ben si intende quale importanza abbia per una popolazione la sua struttura per età. In una popolazione in cui le classi giovani siano largamente rappresentate (e che perciò ellitticamente è detta 'giovane'), il numero di studenti, il numero di persone economicamente attive, il numero di persone in età feconda, il numero di morti, l'incidenza dei diversi eventi morbosi e delle varie cause di morte, l'atteggiamento e il comportamento politico e sociale saranno infatti ben diversi da quelli che si potranno riscontrare in una popolazione in cui siano invece le classi anziane o senili a essere largamente rappresentate. Proprio dalla stretta dipendenza della fenomenologia demografica, sanitaria, economica e sociale dalla composizione per età della popolazione deriva l'importanza di tale composizione nello studio di tutti questi fenomeni.
L'analisi quantitativa della struttura per età viene compiuta, generalmente, sintetizzando i dati ricavati dallo spoglio dei censimenti in indici che forniscono la misura del 'grado di invecchiamento' della popolazione. Il più frequentemente adoperato è costituito dalla percentuale di persone ultrasessantenni o ultrasessantacinquenni sul totale della popolazione. Ad esempio, la percentuale di ultrasessantenni era pari, nel 1990, a 4 in Nigeria, a 23 in Svezia e a 20 in Italia, dove valeva 12 nel 1950 e potrebbe diventare 30 nel 2020.
Adoperato è anche l''indice di vecchiaia', che si basa sulla tripartizione della popolazione in grandi classi di età (0-14 anni, 15-59, 60 e più) e che è pari al rapporto, moltiplicato per 100, fra numero di anziani e vecchi (persone di 60 e più anni; per alcuni 65 e più) e numero di giovanissimi (persone di 0-14 anni) esistenti in una popolazione:
formula. (4)
Ricordiamo, infine, l''indice di dipendenza', costituito dal rapporto, moltiplicato per 100, fra il numero degli anziani e dei vecchi più il numero dei giovanissimi e il numero delle persone in età centrale:
formula; (5)
il rapporto indica quante persone in età non ancora produttiva o non più produttiva dipendono da 100 persone in età produttiva.
Strettamente legata alla composizione per età di una popolazione è la sua struttura per sesso; anzi si può dire che, ove non intervengano fattori di perturbazione (guerre e migrazioni), la struttura per sesso dipende esclusivamente da quella per età, giacché la costante eccedenza di maschi che si ha alla nascita (nascono infatti 105-106 maschi ogni 100 femmine) e quindi nelle prime età della vita viene progressivamente ridotta e annullata durante la vita dalla supermortalità maschile, un fenomeno ormai generalizzato che va anzi accentuandosi, la quale provoca una larga eccedenza femminile nelle età più anziane. Il confronto quantitativo dello squilibrio dei sessi alle varie età può farsi mediante l''indice di mascolinità', dato dal rapporto fra il numero dei maschi e il numero delle femmine di una determinata età, moltiplicato per 100; il rapporto assumerà valore pari a 100 in caso di eguaglianza numerica dei sessi, valori superiori nel caso di eccedenza maschile e, al contrario, inferiori nel caso di eccedenza femminile. Così, ad esempio, nella popolazione italiana al 1990 nelle età da 0 a 15 anni si hanno 105 maschi ogni 100 femmine; dai 15 ai 60 anni vi è perfetta parità dei sessi; dai 60 anni in poi vi sono 72 maschi ogni 100 femmine. Per la popolazione nel suo complesso l'indice riguarderà il totale dei maschi e il totale delle femmine. Nella realtà, in popolazioni 'normali', quest'ultimo indice assume un valore prossimo a 100, ad attestazione dell'esistenza di una eguaglianza numerica dei sessi.
Oltre alla struttura per sesso e per età, particolare rilievo hanno in una popolazione, per le immediate ed evidenti conseguenze d'ordine demografico ed economico-sociale, anche la struttura per stato civile, la struttura per condizione professionale, la struttura per grado di istruzione, ecc.
Si è già detto come la consistenza e la composizione della popolazione secondo le caratteristiche citate vengano continuamente modificate quantitativamente e/o qualitativamente dai flussi demografici (matrimoni e divorzi; nascite e morti, che danno luogo al movimento naturale; immigrazioni ed emigrazioni, che danno luogo al movimento migratorio) che in essa si verificano e dei quali statisticamente si tiene conto attraverso le registrazioni di stato civile e quelle anagrafiche.
Nell'analisi dei fenomeni di flusso il numero assoluto degli eventi viene utilizzato solo per determinati scopi operativi (ad esempio, il numero delle nascite che si registrano in un certo anno di calendario dovrebbe servire per pianificare le scuole o per valutare la numerosità del contingente di leva diciott'anni dopo), ma non è utile per effettuare comparazioni nel tempo e nello spazio, giacché esso risente della dimensione della popolazione nella quale gli eventi si verificano. A fini comparativi è quindi necessario ricorrere a frequenze relative, dette quozienti demografici, che si ottengono rapportando la consistenza di un flusso verificatosi in un determinato anno di calendario all'ammontare medio della popolazione (ottenuto come media della popolazione a inizio e a fine d'anno) e moltiplicando poi il risultato per 1.000.
In
formula, (6)
dove Et rappresenta il numero di eventi verificatisi nell'anno t e il denominatore ha il significato già precisato in precedenza.
I quozienti demografici più usati sono quelli di: nuzialità (rapporto fra matrimoni, M, e popolazione, P), natalità (rapporto fra nascite, N, e popolazione, P), mortalità (rapporto fra morti, D, e popolazione, P), divorzialità (rapporto fra divorzi, Di, e popolazione, P), immigrazione (rapporto fra immigrati, I, e popolazione, P) ed emigrazione (rapporto fra emigrati, E, e popolazione, P). Ogni quoziente indica quanti eventi (matrimoni o nascite o morti, ecc.) si sono avuti nell'anno t ogni 1.000 abitanti della popolazione in esame (in riferimento alla popolazione italiana alcuni di questi quozienti compaiono nella tab.V).
Questi rapporti, che sono i più largamente adoperati per la misura di fatto della dinamica di una popolazione, sono misure di prima approssimazione del comportamento demografico, giacché risultano largamente influenzati dalla struttura della popolazione, in particolare dalla struttura per età. È bene evidente, infatti, come in una popolazione 'vecchia' (in cui cioè le persone con più di 60 anni siano largamente rappresentate) si riscontreranno una mortalità maggiore e una natalità minore di quelle che, a parità di altre condizioni, si riscontrano in una popolazione più 'giovane'.
Così, quando, ad esempio, si studia la fecondità, le sensibili differenze nel livello di procreazione riscontrabili attualmente nelle varie regioni del mondo sono attribuibili sia al diverso comportamento riproduttivo delle popolazioni sia alla loro diversa struttura secondo varie caratteristiche demografiche, la più importante delle quali - lo si ripete - è l'età. Una misura più mirata e accurata del comportamento riproduttivo impone, dunque, che si elimini l'influenza della struttura per età della popolazione femminile. Per tale misura si usa normalmente il quoziente specifico di fecondità per età della madre che, per una generica età x, compresa nell'arco delle età feconde, che vanno convenzionalmente dai 15 ai 50 anni, è dato da
formula, (7)
cioè dal rapporto, per 1.000, fra il numero di nativivi da donne di età x in un determinato anno di calendario e il numero di donne di età x presenti nella popolazione in quell'anno; fx indica il numero di nascite che si sono avute, in un determinato anno di calendario, ogni 1.000 donne di età x. Una misura molto usata per esprimere la sintesi della fecondità dell'anno (e cioè una misura congiunturale) è costituita dalla somma degli fx divisa per
tale misura, chiamata numero medio di figli per donna o tasso di fecondità totale (in inglese total fertility rate) sta a indicare il numero medio di figli che ogni donna avrebbe nell'intera sua vita feconda, nell'ipotesi che non muoia o non emigri prima del compimento del 50° anno di età e nell'ipotesi che il suo comportamento riproduttivo sia quello osservato in quell'anno di calendario sulle contemporanee che si trovano in età feconda. Le differenze attuali nella fecondità sono enormi: il numero medio di figli per donna è risultato, nel 1985-1990, pari a 8,3 in Ruanda (massimo nel mondo) e a 1,3 in Italia (minimo nel mondo).
Normalmente le statistiche sulle nascite, oltre che il loro ammontare totale e la distribuzione per età della madre, forniscono le distribuzioni secondo molteplici altre variabili (sesso del nato, ordine di nascita, filiazione, durata del matrimonio, professione della madre e del padre, ecc.), distribuzioni che consentono di valutare il comportamento riproduttivo differenziale dei vari gruppi umani in funzione dei diversi fattori (biologici, ambientali, sociali, culturali, economici, ecc.) che determinano la fecondità.
Quozienti specifici del tutto analoghi a quelli sopra indicati si possono calcolare, in riferimento a un determinato anno di calendario, per tutti gli altri fenomeni della dinamica demografica, compiendo una analisi che viene detta per contemporanei o analisi trasversale. Si otterranno così quozienti specifici di mortalità (rapporto fra il numero di morti, in un determinato anno di calendario, distinti per età e sesso, e corrispondente popolazione suddivisa per età e sesso), quozienti specifici di nuzialità (rapporto fra il numero di sposi, in un determinato anno di calendario, distinti per età e sesso, e popolazione suddivisa per età e per sesso), quozienti specifici di divorzialità (rapporto fra il numero di divorziati, in un determinato anno di calendario, distinti per età e sesso, e popolazione suddivisa per età e per sesso), quozienti specifici di migratorietà (rapporto fra il numero di migranti, in un determinato anno di calendario, distinti per età e sesso, e popolazione suddivisa per età e per sesso).
In termini generali la formula è:
formula, (8)
dove Etx,y sono gli eventi verificatisi nell'anno t a persone di età x e di sesso y e Px, y è la corrispondente popolazione, da cui, in buona sostanza, traggono origine gli eventi del numeratore.L'insieme delle persone nate in un anno di calendario costituisce una generazione, le cui vicende demografiche (decessi, matrimoni, figli, migrazioni, divorzi) si possono seguire nell'arco di un centinaio di anni, che sono quelli necessari alla sua estinzione. L'analisi così condotta è detta analisi per generazioni o analisi longitudinale, ed è quella che fornisce le indicazioni più complete sui comportamenti demografici; essa presuppone, però, la disponibilità di dati molto analitici raccolti in tempi lunghissimi, che non sempre è possibile avere.Si fornisce di seguito un esempio di analisi condotta su di una generazione, esempio relativo alla mortalità, che, insieme con la fecondità, costituisce uno dei campi di più frequente applicazione dell'analisi per generazioni.Se in una data generazione di 100.000 individui si osservano 15.270 decessi fra la nascita (età 0) e il 1° compleanno (età 1) (d(0,1)), 5.253 decessi fra le età 1 e 2 (d(1,2)), 2.941 decessi fra le età 2 e 3 (d(2,3)) e così via, sarà possibile determinare il numero di sopravviventi (che vengono indicati con la notazione lx) alle diverse età successive e il rischio di morte (o probabilità di morte, indicata con qx) al quale erano soggetti in ciascun anno di vita. In termini generali e in riferimento alle cifre dell'esempio sarà, pertanto,
l₀ = nascite l₀ = 100.000
l₁ = l₀ - d(0,1) l₁ = 100.000 - 15.270 = 84.730
l₂ = l₁ - d(1,2) l₂ = 84.730 - 5.253 = 79.477
l₃ = l₂ - d(2,3) l₃ = 79.477 - 2.941 = 76.536,
e così per tutte le età successive. La relazione generica che lega i sopravviventi ai morti alle varie età sarà
lx+1 = lx - d(x, x + 1).
La probabilità di morte sarà misurata, com'è facilmente intuibile, dal rapporto, per 1.000, fra il numero di morti che si è avuto fra un compleanno e il successivo e il numero di persone che erano in vita al primo dei due compleanni e che pertanto erano esposte al rischio di morire entro l'anno. In termini generali e in riferimento alle cifre dell'esempio sarà, pertanto,
e così per tutte le età successive. La relazione generica in base alla quale si determina la probabilità di morte alle varie età è
La serie dei valori lx, d(x, x+1), qx si riporta normalmente in una tabella statistica detta tavola di mortalità, nella quale compare anche, in corrispondenza di ciascuna età x, il valore ex, cioè la speranza o aspettativa di vita (o vita media), che è la media aritmetica delle durate di vita di coloro che raggiungono l'età x. Pertanto la speranza di vita o vita media alla nascita, e₀, indica quanti anni in media può aspettarsi di vivere un neonato di quella generazione, e si calcola mediante l'espressione:
La tavola di mortalità ha la forma della tab. .
Siccome, in sostanza, la tavola illustra le modalità di eliminazione di una generazione, essa è detta anche tavola di eliminazione. Questa tavola costituisce uno degli strumenti più efficaci e usati per l'analisi dei flussi demografici.
Non sempre però è possibile costruire tavole di mortalità per generazioni e, d'altra parte, è spesso interessante valutare le caratteristiche della mortalità in un determinato periodo storico piuttosto che nell'ambito di una generazione, che corrisponde a un lunghissimo lasso di tempo. Per costruire una tavola riferita a un determinato periodo storico, in generale costituito da uno o più anni di calendario, si immagina che esista una generazione (perciò detta 'generazione fittizia') che subisca alle varie età della vita il rischio di morte osservato su contemporanei di età diversa che si trovano a vivere, e a morire, durante l'anno di calendario considerato. Anche il rischio di morte dei contemporanei delle diverse età si misura attraverso le probabilità di morte, per il cui calcolo sono necessarie statistiche dettagliate delle morti per almeno due anni consecutivi. In riferimento ai contemporanei del periodo 1985-1990 si riscontrano differenze territoriali molto forti nella vita media, che bene sintetizzano le condizioni di mortalità e che bene indicano quindi quanto accentuate siano le ineguaglianze territoriali nei confronti della morte. La vita media più bassa si riscontra in Afghanistan e Sierra Leone con un valore di 41 anni, mentre la più alta è quella del Giappone con 78.
Molto dettagliate sono, in quasi tutti i paesi, le statistiche delle morti nel primo anno di vita, al fine di consentire il calcolo della mortalità infantile, indicatore non solo di grande importanza demografica, ma anche del grado di sviluppo economico-sociale, tanto che, mentre nei paesi sviluppati essa è pari a un ventesimo di quanto fosse un secolo fa, nei paesi in via di sviluppo si mantiene su livelli molto elevati. La mortalità infantile viene di norma misurata mediante il rapporto, moltiplicato per 1.000, fra il numero di morti nel primo anno di vita in un determinato anno di calendario e il numero di nati vivi in quello stesso anno:
Sempre con riferimento al 1985-1990, la mortalità infantile in Afghanistan è risultata del 172‰, un valore che è 34 volte quello del Giappone (5‰).
Le misure e gli indici di cui si è detto in precedenza trovano di norma una più facile e più diffusa applicazione nelle statistiche relative al movimento naturale della popolazione (nascite e morti) e in quelle relative a matrimoni e divorzi, ma ne trovano una molto minore nelle statistiche relative alle migrazioni.
Per le migrazioni esistono infatti importanti - e pressoché insormontabili - problemi di rilevazione dei dati, problemi che si sono acuiti con l'accresciuta mobilità territoriale della popolazione, favorita sia dal permanere o dall'aggravarsi di gravissimi squilibri demografici, economici e sociali fra le varie parti del mondo, sia dalla più diffusa e consapevole presa di coscienza individuale della propria situazione e della possibilità di mutarla attraverso l'emigrazione, sia ancora dalla aumentata economicità, sicurezza, frequenza e rapidità dei trasporti. Sicché un fenomeno che va acquisendo una sempre maggiore importanza, sia per quanto riguarda le migrazioni interne sia per le migrazioni internazionali, è destinato a rimanere relativamente poco conosciuto nella sua reale consistenza, nella sua struttura e nelle sue conseguenze, tanto nelle aree di esodo quanto in quelle di arrivo. Con particolare riferimento alle migrazioni internazionali, una delle difficoltà maggiori nell'avere statistiche complete, tempestive, affidabili e comparabili risiede nel fatto che non si è ancora arrivati a una standardizzazione internazionale delle definizioni di 'migrante' e di 'migrazione', troppo legate, in particolare sotto il profilo giuridico-amministrativo, alle specifiche realtà nazionali.
Sono quattro le fonti cui normalmente si fa riferimento per la rilevazione diretta e la misura delle migrazioni, tanto di quelle interne quanto di quelle internazionali: censimenti, registri di popolazione, indagini speciali, fonti amministrative. Con il censimento si richiede al rispondente di indicare, fra l'altro, il luogo di nascita e il luogo di residenza ove risiedeva tre o cinque anni prima, luoghi che vengono poi confrontati con il luogo di residenza attuale al fine di stabilire flussi e saldi dei movimenti migratori; queste fonti hanno dei difetti strutturali per cui tendono comunque a sottostimare l'entità dei flussi migratori. Le leggi anagrafiche prescrivono (nei paesi, come l'Italia, in cui esiste l'anagrafe della popolazione) la cancellazione dai registri della popolazione residente del comune di origine e l'eventuale iscrizione nel luogo di destinazione; non sempre però questo obbligo viene osservato e quindi le statistiche sulle migrazioni ricavate dalle iscrizioni e dalle cancellazioni anagrafiche (specie quelle relative alle migrazioni temporanee) sono in molti casi lacunose e incerte. Le indagini speciali fatte sul campo mediante questionario consentono di ottenere dati di natura descrittiva a scopo operativo quando i quesiti in tema di migrazioni sono inseriti in indagini campionarie generali (come, ad esempio, nelle indagini sulle forze di lavoro), mentre le indagini speciali specificamente mirate allo studio delle migrazioni consentono analisi strutturali del la mobilità degli individui e della loro interazione con la famiglia e, più in generale, con l'economia e con la situazione sociale. L'uso delle fonti amministrative consente di avere stime, necessariamente parziali, sia della mobilità interna - utilizzando dati tratti dal sistema di sicurezza sociale, dalla lista degli elettori, dal sistema fiscale, da quello scolastico, ecc. - sia della mobilità internazionale - utilizzando dati tratti dai visti, dai permessi di soggiorno, da quelli di lavoro, ecc.
Tutte quelle citate sono, come si è detto, fonti dirette che possono essere considerate come elementi costituenti un sistema conoscitivo della mobilità della popolazione sul territorio. Il sistema viene completato attraverso l'uso, basato essenzialmente su dati di censimento, di metodi indiretti che, pur imprecisi e approssimati, costituiscono spesso l'unico mezzo per avere una valutazione quantitativa dell'entità delle migrazioni. Il più generale e usato di questi metodi ricava il saldo migratorio di una data unità territoriale facendo la differenza fra il saldo totale della popolazione, determinato con i dati di due censimenti consecutivi (tenuti per esempio al tempo t e al tempo t+s), e il saldo naturale (differenza fra nascite e morti), ricavato dalle statistiche correnti; in formula, per l'intervallo temporale di lunghezza s, si ha
Non meno importanti e non meno difficili sono le analisi su quella specifica parte della mobilità interna che contribuisce largamente alla crescita, in molti casi ormai rapidissima e abnorme, della popolazione urbana e delle grandi agglomerazioni urbane. In questo caso alle ricordate difficoltà di rilevazione delle migrazioni si aggiunge la difficoltà dovuta al fatto che le definizioni di centro urbano, di agglomerazione urbana e di area metropolitana sono ancora molto diverse da paese a paese nonostante tutti gli sforzi di standardizzazione fatti, anche in questo campo, dalle Nazioni Unite. La crescita urbana è comunque straordinariamente differenziata fra paesi sviluppati, dove l'urbanizzazione concentrata nelle grandi città centrali è ormai assai rallentata o del tutto finita, e paesi in via di sviluppo, dove la crescita - dovuta tanto all'incremento naturale della popolazione delle città, quanto alle fortissime e irrefrenabili migrazioni interne - è tanto rapida da essere del tutto ingestibile sotto il profilo urbanistico, sociale ed economico (v. tabb. IX e X). Uno degli esempi più significativi al riguardo è costituito da Lagos, capitale della Nigeria, cresciuta in soli 40 anni di 26 volte, passando dai 300.000 abitanti del 1950 ai 7.700.000 del 1990; ci si aspetta che arrivi a 12.900.000 abitanti nel 2000.
Sempre più frequenti si vanno facendo, per svariati usi pratici, le ricerche di demografia applicata. Infatti alle antiche e tradizionali applicazioni demografiche nel campo delle assicurazioni sulla vita (per le quali è necessario conoscere dettagliatamente le probabilità di morte secondo il sesso, l'età e lo stato civile) e nel campo delle analisi di mercato (per le quali è di grande utilità la conoscenza della distribuzione territoriale della popolazione, della sua struttura e dei suoi flussi) si sono via via aggiunte le applicazioni utili per impostare programmi economici e sociali di breve e di lungo periodo, tanto da parte dell'operatore pubblico - locale, nazionale e sovranazionale -, quanto da parte dell'operatore privato.
Le analisi della situazione e delle manifestazioni demografiche di una popolazione costituiscono una indispensabile fase dello studio di impostazione e attuazione di programmi di intervento. Se, infatti, la popolazione può essere vista come un insieme di bisogni, ne discende che dovrà disporre di beni e servizi la cui quantità e la cui composizione è proprio in funzione della sua struttura demografica e socio-professionale. Da qui la necessità di accurate analisi e previsioni dell'accrescimento, delle modificazioni strutturali e degli spostamenti territoriali della popolazione.
In particolare si è andata progressivamente affinando e potenziando la metodologia adoperata per effettuare previsioni demografiche a tutti i livelli territoriali, dai comprensori comunali ai grandi aggregati sovranazionali. Le previsioni vengono ormai tutte elaborate seguendo il cosiddetto 'metodo analitico', perché da un lato è il più corretto (facendo entrare in gioco la struttura iniziale della popolazione insieme con le previsioni di fecondità e mortalità) e dall'altro ha il vantaggio di fornire non una valutazione della popolazione futura complessiva, ma distinta per sesso ed età.Nella presentazione dei risultati della valutazione della popolazione futura viene sempre più spesso e più propriamente usato il termine 'scenario', invece che quello 'previsione', anche perché con tendenze demografiche così straordinariamente dinamiche come quelle attuali nessun demografo è in grado, con un ragionevole margine di sicurezza, di prevedere quale possa essere il futuro andamento della fecondità (un livello di fecondità pari a 1,3 figli per donna, quale è quello italiano dell'inizio degli anni novanta, solo pochi anni prima veniva giudicato dagli esperti un livello 'impossibile') o della mortalità (altrettanto 'inatteso' è il valore attuale, pari a 80 anni, della durata media della vita delle femmine dei paesi più evoluti) o delle migrazioni.
Proprio con la logica degli scenari le Nazioni Unite aggiornano periodicamente le proiezioni della popolazione mondiale, che vengono poi utilizzate anche per l'impostazione delle politiche ONU in tema di popolazione. Partendo dalla stima di 5,5 miliardi di persone della popolazione mondiale al 1992, le Nazioni Unite valutano (nell'ambito di una ipotesi unica di mortalità decrescente) pari a 11,0 miliardi la popolazione al 2025 nello scenario di fecondità costante, a 9,4 in quello di fecondità in leggera diminuzione, a 8,5 in quello di fecondità in diminuzione più accentuata e, infine, a 7,6 in quello di fecondità in forte diminuzione. Con le proprie politiche l'ONU si adopera perché venga raggiunto almeno l'obiettivo di non superare gli 8,5 miliardi di persone, il che implica che la fecondità mondiale decresca, fra il 1985-1990 e il 2020-2025, da 3,45 a 2,27 figli per donna. Le previsioni assolvono pertanto anche al compito, particolarmente importante, sia di saggiare la validità e le conseguenze di obbiettivi programmatici alternativi, sia di indicare quali potrebbero essere le conseguenze future del proseguimento o del mutamento delle tendenze demografiche in atto, proprio al fine di intervenire per sostenere (contrastare) i fattori delle tendenze ritenute auspicabili (non auspicabili). (V. anche Anziani; Fecondità; Migratori, movimenti; Nascite, controllo delle; Popolazione).
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