toscani, dialetti
Il saggio programmaticamente intitolato Dialettologia toscana (Giacomelli 1975) inaugura una serie di ricerche che applicano i metodi della dialettologia allo studio delle parlate in un territorio generalmente definito culla della lingua, privo dei livelli individuabili come dialetto e come lingua. In Toscana, infatti, come del resto in altre zone dell’Italia centrale, non è presente il tradizionale bilinguismo lingua-dialetto (➔ bilinguismo e diglossia). Questa assenza produce nel parlato svariati effetti: uno spiccato polimorfismo (con un numero consistente di varianti fonetiche, morfologiche e lessicali); una separazione malcerta tra registri (➔ registro) differenti; una diffusa caratterizzazione (a un qualche livello linguistico) attraverso elementi dialettali; una maggiore conservatività, specie lessicale e morfologica (Agostiniani & Giannelli 1990).
La minore distanza tra italiano e varietà locali porta a rifiutare, nella coscienza linguistica dei toscani, il concetto stesso di dialetto, e a preferire il termine vernacolo, che allude a un ‘parlar male’ in opposizione a un supposto ‘parlar bene’. Questa situazione rende impossibile osservare i fenomeni linguistici con le medesime griglie interpretative adottate per gli altri dialetti: non si può parlare di ‘apprendimento dell’italiano’ (il toscano è, per certi versi, italiano), non di ‘abbandono del dialetto’ (il toscano è tipologicamente prossimo alla lingua), ma solo di «graduale decantazione degli elementi insidiati da usi standard» (Giannelli 1989: 278). La non rara coincidenza tra locale e letterario in opposizione a standard rende il quadro estremamente fluido e spesso molto soggettivo. Nel lessico, ad es., voci come gota, al tocco, desinare non coincidono con le espressioni corrispondenti dell’➔italiano standard (guancia, all’una, pranzare), ma hanno alle spalle una tradizione letteraria, possono ancora comparire nei testi scritti per creare un tono più colloquiale e familiare, e tendono tuttavia ad essere evitate dai parlanti colti in contesti formali.
La Toscana linguistica ha un’estensione minore rispetto alla Toscana amministrativa: non appartengono infatti ai dialetti toscani né le parlate della Romagna toscana né quelle della Lunigiana e dell’area carrarese (Maffei Bellucci 1977), aree che anche politicamente sono rimaste estranee alla Toscana fino alla seconda metà dell’Ottocento.
Le parlate della Lunigiana e della Romagna toscana sono assimilabili ai dialetti di tipo settentrionale. Proprio in Lunigiana passano i limiti meridionali di molti fenomeni peculiari dei dialetti gallo-italici, quali lo scempiamento delle consonanti geminate intervocaliche (per es., tu[s]a «tosse»); gli esiti cl- > [ʧ] e gl- > [ʤ] (per es., [ʧ]ara «chiara», [ʤ]ara «ghiaia»); le evoluzioni ŏ > [ø] e ū > [y] (per es., [ˈfjøla] «figlia», [ˈlyna] «luna»). La Romagna toscana è linguisticamente romagnola: gli stessi parlanti chiamano romagnù il proprio parlare in dialetto, che presenta una forma della parola (per es., [fok] «fuoco») e opposizioni fonologiche (per es., p[el]a «pala» ~ p[al]a «palla») di tipo decisamente non toscano. Lunigiana, aree apuane e Romagna toscana condividono la caduta di vocali finali o il loro passaggio a [ə] (➔ scevà). In questi territori è dunque presente una opposizione classica lingua ~ dialetto ben diversa da quella prefigurata per il toscano al § 1.
A sud il confine tra le parlate risulta di più incerta definizione, in considerazione di fattori linguistici (la forte vicinanza strutturale tra dialetti toscani e dialetti alto-laziali) ed extralinguistici, quali l’assenza di netti confini geografici, le vicende storiche relative allo Stato dei Presidi, il tipo di insediamento e i flussi migratori che hanno caratterizzato il territorio. In quest’area giungono tratti centro-meridionali che non compaiono in altre parti di Toscana (§ 3.2).
Tracciare confini tra parlate che nella maggioranza dei casi hanno un medesimo inventario fonologico e che si differenziano soltanto nella distribuzione di alcuni fonemi è un compito piuttosto arduo. Giannelli (2000) individua, soprattutto sulla base di fenomeni morfosintattici, dieci varietà toscane (fiorentino, senese, pisano-livornese, lucchese, elbano, aretino, amiatino, basso garfagnino-alto versiliese, alto garfagnino, massese) e otto parlate «grigie», perché caratterizzate da fenomeni misti (viareggino, pistoiese, casentinese, alto valdelsano, volterrano, grossetano-massetano, chianino, parlate del Sud-ovest grossetano). La suddivisione in parlate e zone di influenza è riportata nella fig. 1.
In merito al rapporto fra i diversi gradi di dialettalità individuabili nel continuum toscano, Giannelli (2000: 18) distingue tre livelli: il dialetto rustico, il dialetto corrente e un italiano locale. Il dialetto rustico riguarda i territori poco urbanizzati e i parlanti più anziani (tipicamente, i vecchi contadini) e rischia di diventare «una astrazione descrittiva» (ibid.) in considerazione dei cambiamenti sociali e demografici che attraversano la regione; il dialetto corrente concerne parlanti giovani e di media età negli insediamenti urbani.
L’italiano locale è anch’esso geograficamente differenziato. Su basi essenzialmente fonetiche è possibile distinguerne cinque tipi: uno che accomuna fiorentini, pratesi, senesi e grossetani, uno occidentale, uno lunigianese, uno aretino, uno riferibile alle aree più meridionali della regione. Ragioni storiche e linguistiche impediscono la diffusione di un modello regionale di riferimento e di un italiano regionale davvero unitario, che possa essere messo a confronto con quello di Milano, di Roma o di Napoli. Il tradizionale policentrismo della regione rende difficile che una sola città, pur importante, inglobi linguisticamente le altre. La parlata del capoluogo di regione ha un ‘tasso di dialettalità’ così elevato – sia a livello di produzione (per l’altissima frequenza di pochi elementi dialettali nel parlato corrente, ben noti e sanzionati) che a livello di percezione – da rendere quasi impossibile l’adesione a un modello fiorentino esplicito.
Si registrano comunque almeno tre caratteristiche fonetiche in espansione (§ 4): l’➔indebolimento consonantico; l’affricazione della sibilante postconsonantica (per es., pen[ʦ]o «penso»), tratto non fiorentino che arriva a toccare la pronuncia del capoluogo regionale; la ➔ sonorizzazione di [s] intervocalica (quest’ultimo fenomeno, però, collegato a una parallela evoluzione nell’italiano standard).
A partire da Graziadio Isaia ➔ Ascoli i dialettologi hanno solitamente affrontato l’inquadramento delle parlate toscane ‘per sottrazione’, poiché esse per certi versi sono un compromesso tra dialetti settentrionali e dialetti centro-meridionali. Anche per questo il cosiddetto toscano non è una realtà univoca, facilmente descrivibile nel suo insieme.
A livello fonetico, tra i pochi tratti comuni a quasi tutte le parlate dell’area rileviamo il passaggio [rj] > [j] (per es., area > aia, -ariu > -aio); l’uscita in -o delle desinenze latine -ŭ e -ō (lat. lupu > lupo come quando > quando); la dittongazione delle vocali brevi latine ĕ e ŏ in sillaba tonica aperta in [jɛ] e [wɔ] (ma cfr. § 3.2), a prescindere dal timbro della vocale finale (per es., pĕde > p[jɛ]de, bŏnu > b[wɔ]no). L’assenza di ➔ metafonia, indicata da molti come caratteristica schiettamente toscana, non è peculiare dell’intera regione (ne permangono tracce nell’aretino e nel garfagnino: § 3.2); del resto, la dittongazione delle vocali toniche medio-basse in sillaba aperta è da taluni interpretata come tratto residuale metafonetico. Ancora pan-toscano nel parlato corrente è il fenomeno dell’apocope (Marotta 1995), ovvero la cancellazione della vocale atona finale in contesto postvocalico e preconsonantico (per es., [anˈda ˈvia] «andai via»). Una caratteristica che accomuna buona parte dei dialetti toscani è il ➔ raddoppiamento sintattico, pur con cospicua differenziazione diatopica.
Nel complesso, le parlate toscane hanno un solido sistema vocalico ma mostrano una forte tendenza all’indebolimento consonantico. Soltanto nelle aree periferiche (nell’aretino e, per certi versi, anche nell’amiatino) il vocalismo atono risulta relativamente debole rispetto alle condizioni della Toscana centrale. Dal punto di vista fonotattico (➔ fonetica sintattica), la struttura lessicale preferita è quella parossitona uscente in vocale: voci ossitone (verbi, avverbi e congiunzioni, non nomi) sono solitamente regolarizzate, soprattutto a livello rustico, con l’aggiunta di una ➔ vocale di appoggio (per es., [anˈdɔe] «andò»).
Sono pressoché pan-toscani l’uso di punto «nessuno, per nulla» (non ho letto punti libri, non sono punto contenta) e il sistema tripartito per gli aggettivi dimostrativi: questo, codesto, quello (➔ dimostrativi, aggettivi e pronomi). Il carattere intermedio delle parlate toscane è confermato, nell’➔articolo determinativo maschile singolare, dall’alternanza il / lo regolata dalla struttura fonotattica della parola seguente (il gatto, lo sciame), in opposizione alle condizioni settentrionali (con un’unica forma uscente in laterale) e a quelle meridionali, con un’uscita generalizzata in lo (e varianti). Firenze è stata comunque, nei secoli, un centro irradiatore di fenomeni alto-italiani nella regione (l’apocope, il sistema dei pronomi clitici), rappresentandone per molti versi il limite meridionale estremo.
Un quadro della ricca variazione lessicale è ora offerto dall’Atlante lessicale toscano (ALT-WEB), che prova la vitalità di voci (quasi) pan-toscane in opposizione alle corrispondenti ‘italiane’ (per es., sciocco ~ scarso di sale; acquaio ~ lavello); il progressivo declino di termini dialettali come compagno, sortire, giubba (rispetto a uguale, uscire, giacca); l’esistenza e la parziale vitalità di diversi tipi lessicali, subregionali e locali (spesso contrapposti al termine fiorentino e, contemporaneamente, italiano), per indicare un medesimo designatum (per es., toscano occidentale e orientale stollo «palo del pagliaio» ~ fiorentino stile ~ aretino-chianaiolo metule e barcile).
La casistica sarebbe estremamente ricca, con una diversificazione geografica anche di parole dell’italiano tout court: il dialettale citto di Siena e di Arezzo è a occidente l’italiano bimbo ed è a Firenze l’italiano bambino. Sulla divaricazione del lessico tra fiorentino e italiano offre ora un quadro, dalla parte del fiorentino, il Vocabolario del fiorentino contemporaneo, coordinato da Neri Binazzi.
Il dialetto fiorentino ha il maggior numero di parlanti e appare il più conservativo tra i dialetti toscani centrali. A livello fonetico il fenomeno più macroscopico riguarda il cosiddetto ➔ indebolimento consonantico (detto anche ➔ gorgia toscana), ovvero la ➔ spirantizzazione delle consonanti occlusive (per es., ami[h]o «amico») e delle affricate palatoalveolari.
Altre caratteristiche fonetiche degne di nota sono le seguenti, soprattutto a un livello rustico: tracce sporadiche dei fonemi [c] e [ɟ], continuatori dei nessi latini cl e gl (clave > [c]ave «chiave»; glănde > [ɟ]anda «ghianda»), estesi anche a li̯ ([ɟ]i «gli») e a forme quali [ɟ]eci «dieci», mentre sono pressoché scomparse le coppie minime del tipo se[kː]i (plur. di secco) ~ se[cː]i (plur. di secchio); monottongamento di /wɔ/ (b[ɔ]no); perdita dell’elemento labiale nel nesso /kw/ (per es., prendi [h]esto «prendi questo»); rotacismo della laterale preconsonantica (per es., a[r]to «alto»); caduta della fricativa labiodentale in posizione intervocalica (per es., [aˈea] «aveva»).
Nella morfologia nominale, i tratti salienti sono le forme dell’articolo determinativo maschile, singolare [i] «il» e plurale [e] «i»: [i ˈkːane] «il cane», [e ˈhani] «i cani»; il livellamento analogico in -e dei nomi e aggettivi femminili in -i (per es., le vite verde «le viti verdi»); il morfema icché, nelle interrogative dirette e indirette (rispettivamente, [iˈkːe ˈδiʃe] «che dice?», [ˈdimː iˈkːe tːu ˈvːɔi] «dimmi che cosa vuoi») e in sostituzione dell’ital. «ciò», «quello che» ([fai iˈkːe tːu ˈvːɔi] «fai quello che vuoi»); la vitalità del suffisso desemantizzato -olo (rigagnolo, formicola). Il carattere intermedio della parlata fiorentina è dimostrato anche dal sistema dei pronomi soggetto, con distinzione tra sistema tonico e sistema atono, con possibilità di cumulo a fini enfatici (per es., [ˈvoi e vːu pːarˈlate]), e con alcune vestigia dei pronomi tonici interrogativi postverbali (per es., [ke fːa ˈtu] «che fai?»).
Nella morfologia verbale, sono da rilevare l’uso di (noi) si + terza persona singolare in luogo della prima persona plurale; nelle terze persone plurali, il livellamento analogico in -ano all’indicativo (mangiano, vedano, vendano, sentano) e il livellamento analogico in -ino al congiuntivo (mangino, vedino, vendino, sentino); nel fiorentino rustico, il passato remoto (tempo peraltro ancora molto vitale nella regione) in -onno (parlonno), l’➔imperativo per l’infinito (per es., [va a ˈvːedi] «vai a vedere»).
Per alcuni fenomeni Firenze si oppone a buona parte della Toscana. Rispetto al fiorentino, molte varietà presentano una diversa distribuzione delle vocali medie anteriori e posteriori: s[ɛ]nza a Firenze, s[e]nza a Pisa; c[ɔ]ppia a Firenze, c[o]ppia a Siena, e così via. Poche parlate oltre al fiorentino conoscono il fenomeno dell’➔anafonesi: le forme fiorentine lingua e fungo si oppongono pertanto a forme come lengua e fongo, ancora vitali in aretino e in amiatino. I dialetti marginali (aretino-chianaiolo, garfagnino e versiliese, elbano) presentano, in luogo dei dittonghi ascendenti /wɔ/ (poi monottongato a /ɔ/ nel toscano centrale) e /jɛ/, i corrispondenti medio-alti /o/ e /je/. Nella morfologia, in senese, pisano-livornese, lucchese e garfagnino è molto diffuso l’articolo determinativo maschile plurale e femminile singolare e plurale [lː] o [l] davanti a vocale (per es., chiudi [lː]occhi «chiudi gli occhi»; prendi [lː]ova «prendi le uova»). Nelle stesse parlate permangono a livello residuale gli articoli a iniziale prevocalica ill, ell (per es., [iˈlːɔvo] «l’uovo», [eˈlːaltro] «l’altro»).
Il sistema dei pronomi ➔ clitici, compiutamente attestato in fiorentino, si riduce progressivamente per numero, ruolo e frequenza mano a mano che ci si allontana da Firenze (e il lucchese ne è privo). Ad eccezione del fiorentino, l’infinito è generalmente tronco, anche in fine di enunciato, nella parlata lucchese, pisano-livornese, senese, amiatina.
Il dialetto senese appare la varietà toscana meno distante dalla lingua nazionale, per un processo di graduale perdita delle caratteristiche peculiari: rispetto al fiorentino, gli elementi chiaramente dialettali appaiono meno frequenti e meno vistosi (Giannelli 1998).
Quello che in passato era etichettato come dialetto toscano occidentale (comprendente pistoiese, lucchese, pisano) è ora suddiviso in due differenti varietà, il lucchese e il pisano-livornese. Il pisano ha seguito, insieme al livornese, un percorso per certi versi autonomo, mentre il lucchese ha mantenuto caratteristiche più conservative o anche, sporadicamente, settentrionali. Le caratteristiche fonetiche del pisano-livornese sono: l’abbassamento delle vocali medio-basse; la velarizzazione di /a/; vistose modulazioni della frequenza fondamentale (➔ fonetica acustica, nozioni e termini di); lo scambio tra liquide e vibranti in posizione pre- e postconsonantica (pe[l]ché «perché», c[l]edere «credere», ca[r]do «caldo», conc[r]usione «conclusione»). Quest’ultimo fenomeno ha prodotto fraintendimenti e analisi contraddittorie: complicano il quadro cospicui fenomeni di ipercorrettismo, la presenza della cosiddetta lisca, ovvero una pronuncia laterale fricativa della sibilante preconsonantica (per es., i[ɬ]toria «storia») da mettere in parallelo con esiti corsi e sardi (Franceschini 2008), il sistematico sfruttamento di questi esiti nella letteratura dialettale (anche nel pisano Renato Fucini). L’instabilità della laterale è ancora osservabile negli esiti velari della laterale intensa (per es., b[æɫː]o «bello») e nel passaggio gl > [lː] (fami[lː]ia «famiglia»). Nella morfologia verbale, le uscite in /-ɔ/ alla terza persona singolare del futuro e del perfetto, così come nelle forme monosillabiche del presente (so, sto), si chiudono in [o] nel dialetto rustico, soprattutto nel pisano e nell’Alta Maremma.
La varietà lucchese conosce ora i fonemi [ʦ] e [ʣ], assenti fino a un recente passato; e ancora assenti peraltro nel pisano settentrionale (per es., pia[sː]a «piazza»). Sul piano morfologico sono da segnalare, a livello rustico, i nomi uscenti in [-n] (per es., [kan] «cane»), che rendono ‘meno toscana’ la struttura della parola e la avvicinano alle varietà garfagnine, ove questo tratto è vitale; i pronomi tonici [lu], [luˈlːi] e [lɛ], [leˈlːi]; una persistenza delle uscite livellate in -eno o in -ino per le terze persone plurali del presente indicativo (pur essendo più frequenti le forme in -ano); una limitata vitalità dei suffissi /-ajo/, /-ɔjo/, /-olo/, sostituiti, rispettivamente, da /-aro/ o /-aʎo/ (per es., [forˈnaro], [forˈnaʎo] «fornaio»), da /-oro/ (per es., [franˈtoro] «frantoio») e dall’atono /-oro/ (per es., [koˈniʎoro] «coniglio»).
Molto caratterizzati appaiono i dialetti ai confini della Toscana linguistica. Le varietà della Garfagnana sono generalmente prive del fonema /z/ e presentano [ʃ] e [ʒ] in variazione libera (per es., di [ʃ]orno, di [ʒ]orno «di giorno»). Nella Bassa Garfagnana persistono tracce di metafonia ([marˈtɛlːo] ~ [marˈtelːi]). Le parlate dell’Alta Garfagnana risentono di forti influssi settentrionali: i fenomeni fonetici più rilevanti concernono la sostituzione delle laterali lunghe con suoni cacuminali, caratteristici anche delle parlate lunigianesi (pa[l]a «pala» ~ pa[ɖ]a «palla»), e la presenza di condizioni metafonetiche (per es., [ˈdeu] «(io) davo» ~ [ˈdiː] «(tu) davi»). Garfagnini sono anche il tipo il Carlo (► nomi propri) e l’articolo determinativo maschile il a prescindere dalla consonante seguente (il zio).
Il dialetto aretino (Nocentini 1989) è affine per certi versi al perugino e presenta alcuni tratti tipizzanti (peraltro in forte regresso) che rimandano da un lato a condizioni settentrionali (come l’innalzamento di [a] tonica in sillaba libera a [ɛ] o [æ]: [ˈsɛle] «sale»), dall’altro a condizioni mediane e meridionali ‘antitoscane’ (tracce di armonia regressiva delle vocali atone e indebolimento del sistema atono). Il sistema vocalico tonico in sillaba aperta tende complessivamente all’innalzamento (per cui non solo [a] → [ɛ], ma anche bene → b[e]ne, b[ɔ]no → b[o]no); e le affricate sono realizzate come fricative anche dopo pausa ([ʃ]inema «cinema», [ʒ]ente «gente»). Nella morfologia nominale sono da segnalare almeno la vitalità dei prefissi a- e ar- (per es., agguardare, armettere) e i suffissi /-ɛo/ e /-elo/ in luogo di /-aio/ e /-olo/ (rispettivamente, [forˈnɛo] «fornaio» e [ˈʃitːelo] «bambino»).
Il dialetto amiatino presenta vistose caratteristiche centro-meridionali (Giannelli, Magnaini & Pacini 2002). Sul piano fonetico, sono da rilevare, soprattutto nella parlata rustica: il mantenimento dell’atona finale -u (il suffisso -aio è [aju]); la geminazione di [b-] in fonosintassi (per es., le [bː]alle «le valli»); l’assenza di /z/ (per es., spo[s]a «sposa») e /ʣ/ (per es., [ʦ]iro «ziro», senese per «orcio»); il trattamento ‘meridionale’ dei nessi -nd- e -mb- (per es., acce[nː]evo «accendevo», ga[mː]a «gamba»); la compresenza nei nessi -lc- di palatalizzazione, rotacismo e conservazione della laterale (rispettivamente, sa[itː]u, sa[r]tu, sa[l]to «salto»); l’alternanza, per l’affricata palatale sonora, di esiti perugini (la [ʤ]ente), esiti toscani spiranti (la [ʒ]ente), esiti romani (la [dːʒ]ente).
Nel toscano si registrano dinamiche contrapposte: da un lato la graduale perdita di caratteristiche locali o comunque non pan-toscane (per es., te[r]a «terra», f[ɛ]me «fame»), dall’altro la diffusione di caratteristiche ugualmente non pan-toscane, come l’indebolimento consonantico. A vari livelli, non solo nella fonetica, esistono elementi-bandiera dotati di una limitata forza espansiva che provano l’esistenza, anche nei parlanti giovani, di una spiccata fedeltà linguistica a certi aspetti del ➔ sostrato dialettale (anche minimi: si pensi alla vitalità dell’interiezione dé in livornese, o di alò in aretino).
In alcune aree le fratture tra generazioni sono anche fratture diatopiche, con i giovani che adottano tratti linguistici il cui marchio d’origine non coincide con quello presente nelle generazioni adulte e soprattutto anziane. La spirantizzazione ‘fiorentina’ è penetrata in Casentino, nelle parlate chianine, nell’aretino, nell’occidente e nel meridione della Toscana, aree tradizionalmente caratterizzate da un tipo di indebolimento ‘non toscano’ (sonorizzazione e lenizione intervocalica): in varie parti della regione gli anziani presentano forme sonorizzate e lenite laddove i giovani hanno forme spiranti (➔ spirantizzazione). Un’espansione più limitata, ma sempre sociolinguisticamente rilevante, concerne alcuni fenomeni fonetici nell’area occidentale soprattutto costiera, da Pisa fino a Piombino e oltre: mentre le generazioni anziane sono caratterizzate dall’uso di tratti occidentali e nord-occidentali anche arcaici, le generazioni medie e giovani assumono tratti attribuibili soprattutto alla varietà livornese (Calamai 2004). Il prestigio, più o meno coperto, del livornese è documentato anche dalla fortuna e dalla diffusione del mensile satirico «Livornocronaca - Il Vernacoliere», redatto in «vernacolo livornese e in italiano».
Nella morfologia, un altro fenomeno di origine fiorentina è la sostituzione della prima persona plurale con la forma impersonale (ad eccezione di siamo): forme come [si ˈkanta] erodono progressivamente gli spazi di voci verbali quali cantiamo (occidentale), cantamo (aretino), cantamu (amiatino).
L’allargamento del divario tra toscano e italiano ha consentito lo sviluppo di una letteratura dialettale che sfrutta sistematicamente l’iterazione dei non molti elementi inammissibili in italiano e che solo in alcuni casi ha prodotto esiti espressivi rilevanti.
In territorio pisano si registrano una copiosa produzione poetica, che ha ancora in Renato Fucini (1843-1921) il naturale punto di riferimento, e una parallela riflessione sull’utilizzo del dialetto nella pagina scritta ad opera degli stessi estimatori del vernaolo pisano. Un universo che mostra una vitalità ininterrotta è il teatro vernacolo fiorentino: Ferdinando Paolieri e Augusto Novelli hanno avuto una certa notorietà anche fuori dalla regione. Un caso a parte è rappresentato da Ugo Chiti (nato nel 1943 a Tavarnelle Val di Pesa), che offre una rappresentazione antiveristica del Chianti fiorentino, in un linguaggio autentico perché creato in sintonia con una compagnia attoriale (l’Arca Azzurra Teatro) linguisticamente fedele all’autore.
Una forte esperienza di recupero della memoria collettiva, non solo linguistica, è il Teatro Povero di Monticchiello, in cui ogni estate il paese mette in scena sé stesso, autorappresentandosi. Al confine tra letteratura e tradizioni popolari si situano la produzione del Maggio drammatico, e la poesia in ottava rima, sia sotto forma di componimento tradizionale, sia nelle vesti di contrasto improvvisato fra due poeti (detti bernescanti) che duellano su temi proposti dal pubblico.
Nelle varie grafie tradizionali risulta relativamente agevole la rappresentazione di quei suoni che già esistono nell’inventario fonologico dell’italiano, come ad es. il rotacismo della laterale preconsonantica, reso graficamente con ‹r› (carza «calza»), o gli esiti aretini di a, resi con ‹e›, talvolta con ‹ê› (pece o pêce «pace»). Si registra nel complesso un’alta frequenza dell’➔apostrofo, utilizzato per (tentare di) segnalare i fenomeni di giuntura e con funzione disambiguante (per es., un articolo ~ ’un «non», e congiunzione ~ e’ pronome). Dal momento che, a livello popolare, il toscano appare, soprattutto nella sua facies centrale, un italiano storpiato e parlato male, l’apostrofo è il segno che meglio si confà a rappresentare questa storpiatura (Nesi 1979-1980).
Per il fiorentino sono diverse le proposte per trascrivere il sistema degli articoli e delle preposizioni articolate: iccane, i’ ’cane e i’ cane (la più fortunata) «il cane»; ai ssole, a i’ sole, aissole «al sole». L’occlusiva palatale [ɟ] è resa con ‹ggh› (per es., figghio «figlio»). I fenomeni relativi alla gorgia possono essere indicati con l’apostrofo (che segnala anche i casi di dileguo) o con ‹h›, grafema che talvolta indica la resa velare della dentale (andaho «andato»), in passato trascritta anche col digramma ‹ch› (andacho).
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ALT-WEB = Atlante lessicale toscano in rete (http://serverdbt.ilc.cnr.it/altweb/).
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