(gr. Διδώ, lat. Dido -onis) Leggendaria regina fenicia (il nome fenicio era ῾Allīzāh, Elissa, "la gioconda"), figlia del re di Tiro, Muttone. Dopo che il ricchissimo suo zio e sposo Sicherba (Sicheo) fu per le sue ricchezze ucciso dal fratello di Didone, Pigmalione, ella fuggì in Africa, dove acquistò dal principe indigeno Iarba, con l'inganno della pelle di bue tagliata in sottilissime strisce, un ampio terreno, su cui fondò Cartagine, e ne divenne regina (detta dagl'indigeni Διδώ o Δειδώ dal suo lungo errare). Si sarebbe poi uccisa per restar fedele alla memoria di Sicheo, quando Iarba pretese di sposarla.
Ma già Nevio mette la leggenda di Didone in relazione con quella di Enea, e Virgilio nell'Eneide fa che Didone, per intervento di Venere, s'innamori dell'eroe troiano profugo a Cartagine, si unisca a lui in una grotta durante una caccia interrotta dalla tempesta, e poi, abbandonata dall'eroe, si uccida sul rogo imprecando contro Enea. Questa versione della leggenda è poi ripresa da Ovidio, Silio Italico e altri. Durante il Medioevo e l'età moderna, la Didone della tradizione letteraria non si discosta sostanzialmente da quella virgiliana: così nell'Inferno di Dante, nella Tragedy of Dido di Chr. Marlowe e Th. Nash (1594), nella tragedia Didon se sacrifiant di A. Hardy (1603), nell'opera musicale Dido and Aeneas di H. Purcell (1689), nel melodramma Didone abbandonata (1724) del Metastasio, con musica di D. Sarro, che ebbe una grande fortuna e fu di nuovo musicato tra gli altri, da T. Albinoni (1725), da B. Galuppi (1741), da N. Jommelli (1746), da G. Paisiello (1794) e da S. Mercadante (1823). Al tema di Didone abbandonata sono ispirate anche un'opera musicale di D. Scarlatti, contemporanea alla Didone abbandonata del Metastasio (1724), un balletto di G. Angiolini (1773) e di S. Viganò (1821), una cantata di G. Rossini (1811) e una sonata di M. Clementi (1831).
In età umanistica il Petrarca fu tra i primi a respingere, anche dal punto di vista cronologico, la versione virgiliana del mito e a restituire a Didone il vanto della fedeltà (Trionfo della Pudicizia, 10-13; 154-159).