Differenziazione e diversificazione dei prodotti
Nella teoria economica per 'differenziazione del prodotto' s'intende un apprezzamento del consumatore nei confronti di un determinato bene offerto da una determinata impresa, distinto da quello che lo stesso consumatore manifesta nei confronti dei prodotti appartenenti alla stessa classe in quanto destinati a soddisfare lo stesso bisogno di base. Tale apprezzamento, che tende a riferirsi sempre più a elementi distintivi immateriali, può basarsi su differenze qualitative oggettivamente rilevabili, su differenze nei servizi che accompagnano la vendita del prodotto, o anche su aspetti riguardanti esclusivamente l' 'immagine' del prodotto stesso.
L'identificazione della classe di beni a cui può essere riferita l'analisi della differenziazione di ciascuno dei suoi componenti pone problemi di aggregazione analoghi a quelli che si pongono nelle usuali analisi microeconomiche della domanda (v. Domanda), problemi che, nelle analisi finalizzate a valutare la differenziazione dei prodotti, vengono empiricamente risolti adottando, in genere, come criterio principale di aggregazione l'omogeneità dei bisogni di base cui rispondono determinati beni, anche merceologicamente eterogenei o ottenuti con tecnologie e tecniche produttive diverse. Poiché le teorie della differenziazione del prodotto postulano esplicitamente che la domanda sia un fenomeno sociale (v. Consumi), esse non ammettono, in linea di principio, i criteri di aggregazione additiva degli individui cui vengono in genere riferite le usuali analisi microeconomiche della domanda. Specie nel campo dei beni di consumo, ogni prodotto contraddistinto da una marca è differenziato, rispetto ai prodotti appartenenti alla stessa classe (ad esempio il detergente liquido di marca A rispetto agli altri detergenti liquidi), nella misura in cui i consumatori ritengono che esso abbia attributi diversi, o dia maggiori garanzie di costanza qualitativa, o il suo uso si associ ad altri benefici, anche di carattere socio-psicologico (ad esempio sia un simbolo di distinzione o di appartenenza a un determinato gruppo sociale), oppure il suo acquisto consenta di disporre di benefici addizionali, anche indipendenti dal suo valore d'uso (ad esempio dia la possibilità di partecipare a un concorso a premi).
Il grado di differenziazione di un prodotto va valutato in relazione alla percezione che ne ha il consumatore e può prescindere dall'effettiva diversità del prodotto rispetto agli altri prodotti appartenenti alla stessa classe quanto a caratteristiche tecniche, a formulazione, a prestazioni effettive. Al limite, possono verificarsi situazioni di completa standardizzazione nell'ambito di una classe di prodotti, che si accompagnano a gradi di differenziazione elevati. Ad esempio, negli anni sessanta, la formulazione e le prestazioni di parecchi detersivi in polvere commercializzati sul mercato italiano con marche differenti erano pressoché identiche, al punto che le medesime imprese subfornitrici fornivano i prodotti finiti ancora indifferenziati a più imprese titolari di importanti marche nazionali e multinazionali, ciascuna delle quali veniva poi identificata dai consumatori come (almeno in parte) non surrogabile con le altre.
Nei test sulle prestazioni dei beni di consumo immediato, effettuati su campioni rappresentativi di consumatori finali, si verificano spesso valutazioni molto diverse del medesimo prodotto a seconda che sia presentato con o senza l'identificazione di marca. Inoltre, elementi di differenziazione del tutto marginali, come, ad esempio, la variazione della forma o della colorazione del contenitore, determinano differenze statisticamente significative nelle valutazioni di specifiche prestazioni dello stesso prodotto, specie quando esso è presentato senza marca, anche nei test che comportano la sua prova diretta da parte dei consumatori.
Mentre il concetto di differenziazione del prodotto si presenta univoco e comunemente accettato nella microeconomia e negli studi di marketing, quello di diversificazione del prodotto è alquanto indeterminato.Infatti, nell'economia industriale e anche nell'economia aziendale, la diversificazione non viene riferita al prodotto, ma all'impresa e sta a indicare, in linea generale, qualsiasi processo di sviluppo o di trasformazione della stessa impresa che implica un'estensione o una modificazione del suo campo di attività originario.
Possono inoltre essere distinti i processi di diversificazione in senso stretto, che comportano estensioni di tipo 'orizzontale' dell'attività dell'impresa, ossia estensioni rispetto ai mercati di sbocco o di approvvigionamento o allargamenti della gamma con l'inclusione di prodotti anche appartenenti ad altri comparti produttivi, dai processi di sviluppo 'verticale', che comportano invece estensioni delle fasi dei cicli produttivi direttamente svolte dall'impresa. In questo ambito si distinguono ulteriormente i processi di 'integrazione verticale discendente' e 'ascendente', quando l'estensione dell'attività dell'impresa riguarda, rispettivamente, fasi del processo produttivo (lato sensu) che si collocano 'a valle' o 'a monte' di quelle svolte originariamente.
Collocandosi in una diversa prospettiva di analisi, è però possibile considerare la diversificazione come una politica aziendale che, per molti aspetti, integra e supera la differenziazione del prodotto, così da poter parlare di diversificazione del prodotto in quanto tale.In questa prospettiva avremo un processo di diversificazione sostanziale, distinto dai processi di differenziazione marginale o simbolica dello stesso prodotto, ogniqualvolta una determinata impresa attua politiche di offerta basate sull'estensione della varietà e della variabilità della propria gamma.
Con il termine 'varietà' s'intende indicare la predisposizione, in un dato momento, di un prodotto-base in una pluralità di configurazioni con prestazioni diverse e quindi anche con attributi funzionali diversi, e in funzione delle specificità applicative e socioculturali dei contesti verso i quali l'impresa indirizza la propria offerta; al limite, delle diverse preferenze individuali dei consumatori a cui l'impresa si rivolge. Per 'variabilità' s'intende invece indicare la modificazione nel tempo delle prestazioni del prodotto in funzione dei cambiamenti delle aspettative dei consumatori potenziali.
Sotto il profilo economico, condizione necessaria della diversificazione del prodotto, nel senso specifico che si è or ora attribuito a questo termine, è l'esistenza di un valore d'uso differenziale della varietà e della variabilità percepito dai consumatori superiore al loro costo differenziale sostenuto dall'impresa. Questa condizione non è però sufficiente per rendere convenienti le politiche di diversificazione del prodotto, in quanto va anche considerata l'entità dei vantaggi competitivi che l'impresa ritiene di poter ricavare (rispetto alle imprese concorrenti) adottando tali politiche anziché altre possibili.In linea generale, il ricorso alle politiche di diversificazione del prodotto dipende quindi da tre fattori: 1) da un fattore tecnologico: il passaggio (ancora in fieri) dal paradigma delle tecnologie standardizzanti a quello delle tecnologie flessibili, che riduce il costo della varietà e della variabilità; 2) da un fattore socioculturale: la formazione di aspettative dei consumatori molto più variegate e personalizzate, che aumenta il valore d'uso della varietà, e il più rapido cambiamento delle stesse aspettative, che aumenta il valore d'uso della variabilità; 3) da un fattore competitivo: i cambiamenti delle relazioni concorrenziali tra le imprese, in particolare la tendenza verso la 'globalizzazione' della concorrenza in contesti internazionali caratterizzati da insopprimibili specificità istituzionali e socioculturali, che nel breve periodo possono anche presentare tendenze all'omogeneizzazione e prestarsi quindi a essere soddisfatte con prodotti standard, ma che, nel lungo periodo, richiedono un elevato grado di varietà e variabilità dell'offerta.
Sulla base delle distinzioni concettuali sin qui fatte, emerge chiaramente che la differenziazione del prodotto è compatibile con la standardizzazione produttiva, anzi può essere uno strumento utile per soddisfare su un piano marginale o simbolico le aspettative di varietà e variabilità dei consumatori quando i vincoli economico-tecnici della produzione standardizzata di massa non consentono di soddisfarle su un piano funzionale o sostanziale, a motivo dell'ampio divario tra il costo medio di produzione del prodotto standard e quello del prodotto appropriato. La diversificazione del prodotto non è invece compatibile con la standardizzazione produttiva, anzi ne rappresenta il superamento. La diversificazione del prodotto, infine, può essere un'alternativa alla differenziazione nei casi in cui il valore d'uso delle specificità funzionali del prodotto sia molto più importante per un determinato gruppo di consumatori di un complesso di valori simbolici veicolati esclusivamente dalla differenziazione. Poiché però, in linea di principio, questo è un caso limite difficilmente verificabile al livello dei consumatori finali, si può sostenere che la diversificazione e la differenziazione del prodotto sono politiche aziendali che richiedono di essere integrate, anche se, in una situazione di elevata varietà e variabilità dell'offerta, cambiano considerevolmente le modalità con cui le imprese attuano le loro politiche di differenziazione.Risulta infatti sempre meno conveniente per le imprese che offrono una 'linea' di prodotti a elevata varietà e variabilità costruire la loro 'immagine' su un attributo distintivo marginale di tali prodotti, che può essere rapidamente modificato e che comunque non esprime la ricchezza delle prestazioni ottenibili da ogni consumatore a seconda delle sue esigenze e delle sue preferenze.
Il concetto di differenziazione del prodotto è stato esplicitamente introdotto nell'analisi microeconomica, nel 1933, da E.H. Chamberlin, quale fondamento delle teorie della concorrenza monopolistica.Nel lavoro pionieristico di Chamberlin vengono completamente accantonati alcuni fondamenti dell'analisi microeconomica della domanda (v. Domanda). Più precisamente, la quantità domandata di un dato bene non è più considerata come funzione del solo prezzo, tra le variabili controllabili dagli offerenti, e la quantità domandata di una data classe di beni non è più composta da domande omogenee, ossia riferite a beni che sono perfetti sostituti l'uno dell'altro. In sostanza, è stato ipotizzato che l'effetto economico della differenziazione del prodotto consista nello spostamento verso destra della curva particolare di domanda dell'impresa che offre un prodotto differenziato e nella contestuale modificazione della sua inclinazione con un aumento della sua rigidità al prezzo. Il primo effetto comporta la possibilità di aumentare le quantità vendute a parità di prezzo, il secondo di elevare il prezzo a parità di quantità vendute. Entrambi gli effetti dipendono dall'incremento del valore d'uso percepito dal consumatore derivante dalla differenziazione del prodotto.
La differenziazione del prodotto sta quindi alla base di due forme di mercato intermedie tra la forma concorrenziale pura e quella monopolistica pura: la forma della concorrenza imperfetta (o monopolistica) e quella dell'oligopolio differenziato.In particolare, nell'oligopolio differenziato, un numero definito e in genere ridotto di imprese opera, dal lato dell'offerta, in condizioni d'interazione reciproca attraverso una pluralità di strumenti competitivi, alcuni dei quali (le politiche di differenziazione appunto) modificano la curva particolare di domanda di ciascuna di esse, conferendole una conformazione diversa da quella delle altre, nonché da quella (esclusivamente ipotetica) della classe di prodotti a cui appartengono i singoli prodotti differenziati che vengono posti in vendita. D'altro canto, ciascuna impresa ha una specifica conformazione della propria struttura dei costi, poiché, a differenza del prezzo, che determina i ricavi in misura proporzionale alle quantità vendute, la differenziazione determina costi a struttura prevalentemente fissa nel breve periodo, specie se attuata sul piano simbolico attraverso investimenti pubblicitari.Per ciascuna impresa si pone pertanto il problema di determinare la composizione ottima tra il proprio prezzo e il proprio grado di differenziazione del prodotto, visto che non può esistere, data la non coincidenza delle curve particolari di domanda, un unico prezzo di mercato.
Sul piano teorico, restando all'interno della razionalità economica neoclassica e riferendosi alla forma di mercato della concorrenza imperfetta (ossia non considerando l'interazione tra le imprese offerenti, che caratterizza le forme di mercato oligopolistiche), la soluzione di questo problema è abbastanza semplice. Come è stato dimostrato da R. Dorfman e P.O. Steiner nel 1954, supposte funzioni di costo di tipo continuo e differenziabile, limitando l'analisi all'offerta di un solo prodotto differenziato da parte di una determinata impresa, nota la sua curva particolare di domanda e assumendo come obiettivo la massimizzazione del profitto nel breve periodo, la composizione ottimale delle politiche di mercato è quella che realizza l'uguaglianza tra il valore numerico dell'elasticità della domanda particolare dell'impresa considerata al prezzo e il ricavo marginale derivante dalle politiche di differenziazione attuate dalla stessa impresa, misurate dal loro costo specifico.
Trasferendo alla forma di mercato oligopolistica (più precisamente alle forme dell'oligopolio differenziato o misto) il teorema di Dorfman e Steiner e sottoponendone le ipotesi a ulteriori restrizioni, allo scopo di predefinire le regole di interazione razionale tra gli oligopolisti, G. Lambin, nel 1960, ha proposto e parzialmente verificato una soluzione del problema della composizione ottimale tra prezzo e differenziazione del prodotto che verte sull'uguaglianza tra misure relative anziché assolute.
Tale uguaglianza può essere così sintetizzata: per massimizzare il profitto nel breve periodo, il prezzo del prodotto rapportato all'elasticità al prezzo della quota di mercato di una data impresa appartenente all'oligopolio deve uguagliare il costo unitario di differenziazione del prodotto, sostenuto da tale impresa, rapportato all'elasticità della sua stessa quota di mercato alla differenziazione apportata. Le soluzioni di Dorfman, Steiner e Lambin hanno senza dubbio avuto il merito di formalizzare la razionalità economica dei soggetti di offerta che ricorrono alla differenziazione del prodotto come strumento di non-price competition. Esse, tuttavia, non hanno trovato seguito nelle analisi operative, perché presuppongono condizioni di stabilità (strutture non modificabili) e di certezza (conoscenza completa di tutte le variabili su cui si fonda la decisione economicamente razionale) che non possono essere assunte come date. Inoltre, l'ipotesi riguardante la continuità e quindi la differenziabilità delle curve di costo è del tutto fittizia, in quanto i costi di differenziazione sono in genere caratterizzati da strutture discontinue.Nelle analisi operative sulla differenziazione del prodotto si è quindi rinunciato a ricercare la soluzione ottimizzante (che massimizza il profitto nel breve periodo), quanto a rapporti tra prezzo e grado di differenziazione, preferendo comparare un numero limitato di soluzioni possibili sulla base di affidabili simulazioni e analisi di impatto, e selezionare tra esse quella che, a parità di rischio percepito, emerge come la più soddisfacente quanto a redditività attesa degli investimenti che essa comporta.
Dal punto di vista dell'impresa che offre prodotti differenziati, a fronte dei costi di differenziazione, vanno anzitutto considerati i benefici derivanti dall'aumento delle quantità vendibili e dalla riduzione dell'elasticità diretta e incrociata della domanda particolare al prezzo, benefici sintetizzabili in aumenti di ricavi attesi e in riduzioni dei rischi derivanti dagli automatismi della concorrenza basata esclusivamente sul prezzo. Relativamente a questi benefici, le politiche di diversificazione del prodotto hanno effetti identici a quelle di differenziazione, essendo identico il meccanismo economico fondamentale di risposta a entrambe le politiche dal lato della domanda, ossia un aumento del valore d'uso dei prodotti dell'impresa percepito dai consumatori a cui essa rivolge la propria offerta. Nel caso delle politiche di differenziazione, la percezione dell''arricchimento' del prodotto (sul piano qualitativo e simbolico) è perseguita dall'impresa con riferimento a un mercato-obiettivo ritenuto uniforme quanto ad aspettative dei consumatori da soddisfare. Nel caso di politiche di diversificazione del prodotto, l'impresa si propone invece di 'appropriare' il prodotto stesso ad aspettative difformi dei consumatori, realizzando per questa via un effetto complessivo di arricchimento del suo valore d'uso. Inoltre, lo stesso beneficio (aumento del valore d'uso percepito del prodotto) viene perseguito dall'impresa con modalità completamente diverse; nel primo caso (differenziazione) mantenendo elevata la standardizzazione produttiva; nel secondo (diversificazione) aumentando la varietà e la variabilità, ossia flessibilizzando i processi produttivi. È quindi utile valutare i diversi effetti delle due politiche sui costi di produzione. Le politiche di differenziazione del prodotto, specie se determinano un forte incremento delle quantità vendute, riducono indirettamente i costi medi unitari di produzione di breve periodo, consentendo una maggiore utilizzazione della capacità produttiva esistente. Questo effetto è tanto più importante quanto più elevata è la rigidità della struttura dei costi di produzione e, a parità di dimensioni iniziali del mercato particolare dell'impresa, quanto più elevata, rispetto a esse, è la dimensione ottima minima degli impianti.In una prospettiva dinamica, ossia non considerando come data la struttura dei costi di produzione, le politiche di differenziazione del prodotto possono consentire all'impresa di realizzare e sfruttare economie di scala d'impianto, ovvero di dotarsi di strutture e di tecniche produttive che, a fronte di più elevati investimenti e di una più alta dimensione ottima minima della scala produttiva, consentono di ridurre il costo medio unitario di produzione, anche a parità di grado di utilizzazione della capacità produttiva.
Gli effetti sui costi di produzione delle politiche di diversificazione del prodotto dipendono invece dal grado di flessibilità progettuale e operativa del processo produttivo. In presenza di processi a elevata rigidità, soggetti a elevate economie di scala, la diversificazione del prodotto ha come effetto un forte (e ben presto economicamente insopportabile) incremento dei costi medi unitari di produzione. In presenza invece di strutture e processi produttivi a elevata flessibilità, non solo la diversificazione del prodotto può comportare incrementi modesti dei costi medi unitari di produzione, ma può anche porsi come una condizione necessaria per consentire all'impresa di realizzare e sfruttare importanti 'economie di scopo' che, altrimenti, resterebbero allo stato esclusivamente potenziale e, al limite, di ridurre, per questa via, gli stessi costi medi unitari di produzione. Con il pessimo neologismo 'economia di scopo' (dall'inglese scope, ossia 'allargamento del campo visivo') si indica la possibilità di utilizzare le stesse componenti di una struttura produttiva (lato sensu) per produrre beni o servizi diversi o, perlomeno, varianti funzionalmente differenti dello stesso bene fondamentale. Lo sfruttamento delle economie di scala classiche richiede un aumento (spesso consistente) dei volumi del medesimo prodotto standard in archi temporali, anche non brevi, necessari per attuare il ritorno sugli investimenti fissi e rigidi che sono stati effettuati per dotarsi della capacità produttiva. Lo sfruttamento delle 'economie di scopo' può invece essere realizzato, entro i limiti di flessibilità della struttura e dei metodi produttivi, con volumi complessivi spesso più elevati, composti tuttavia da numerosi piccoli lotti di beni diversi.
Gli obiettivi specifici delle politiche di differenziazione del prodotto, nonché gli strumenti con cui esse vengono attuate, variano considerevolmente al variare delle condizioni interne in cui si svolge la produzione industriale e delle condizioni esterne che caratterizzano l'ambiente competitivo.
Nel campo dei beni di consumo immediato, può essere tratteggiato, relativamente a questo aspetto, un processo evolutivo lungo il quale emergono via via nuovi obiettivi delle politiche di differenziazione del prodotto, pur non venendo meno quelli perseguiti nelle fasi precedenti. Schematicamente, le fasi di tale processo, che trovano ampio riscontro nei comportamenti storicamente adottati dalle maggiori imprese, possono essere così sintetizzate: a) una prima fase, corrispondente all'affermazione della standardizzazione produttiva, in cui prevalgono obiettivi di riduzione del potere di mercato degli intermediari commerciali e di riduzione del rischio di concorrenza rovinosa con le altre imprese produttrici; b) una seconda fase, corrispondente all'affermazione del marketing come funzione egemone all'interno dell'impresa, in cui prevalgono obiettivi di 'specificazione' delle aspettative dei consumatori, specie a livello simbolico; c) una terza fase, corrispondente all'attuale situazione di maggiore complessità delle relazioni competitive e di maggiore capacità, da parte dei consumatori, di 'autospecificare' le loro aspettative, in cui tendono ad affiancarsi alle politiche di differenziazione quelle di diversificazione del prodotto. In quest'ultima fase emergono da un lato nuovi obiettivi di rappresentazione simbolica della 'personalità' delle imprese produttrici, anche indipendentemente dagli attributi dei singoli prodotti offerti, dall'altro nuovi obiettivi di comunicazione della loro capacità di diversificare l'offerta in funzione della varietà e della variabilità delle aspettative dei consumatori.
Per apprezzare gli obiettivi specifici che vengono attribuiti alle politiche di differenziazione del prodotto dalle grandi imprese produttrici di beni di consumo nella prima delle tre fasi sopra indicate, va anzitutto tenuto presente che, con l'affermazione della standardizzazione produttiva, le imprese produttrici devono fronteggiare crescenti rischi industriali e commerciali. La riduzione della varietà e della variabilità consentite dalla produzione di serie, l'aumento della dimensione dei lotti necessari per sfruttare le economie di scala dei processi produttivi e l'aumento dei tempi tecnici che intercorrono tra la progettazione del prodotto e la sua effettiva immissione sul mercato, rendono necessaria una maggiore capacità sia di prevedere le dimensioni e gli andamenti della domanda, sia di controllarla più direttamente, veicolando ai consumatori finali informazioni atte a identificare gli attributi specifici del loro prodotto, nonché a suscitare e mantenere una propensione preferenziale al suo acquisto a un livello di prezzo stabile, indipendentemente dalle azioni distorsive che possono essere esercitate sia dagli intermediari commerciali, sia dalle imprese produttrici concorrenti a favore di altri prodotti. Gli strumenti di cui si avvalgono le imprese per realizzare questi obiettivi primordiali della differenziazione del prodotto sono l'adozione della marca (che deve anche trovare un'adeguata tutela giuridica), l'uso di confezioni distintive che consentano ai consumatori d'identificare la marca stessa, la pubblicità alla marca attraverso mezzi di comunicazione di massa e la distribuzione capillare del prodotto presso i punti di vendita ritenuti più idonei a garantirne la prevista diffusione.
Il potere di mercato delle imprese distributrici viene in tal modo ridotto, anche se le esigenze di controllo dei canali di distribuzione da parte delle imprese titolari di prodotti di marca spingono spesso queste ultime a scelte logistiche che comportano costi di distribuzione non ottimizzati. L'ottimizzazione dei costi viene infatti riferita all'insieme dei costi di marketing (compresi quelli, spesso preponderanti, richiesti dalla pubblicità alla marca).
Le imprese distributrici (specie se di grande dimensione e dotate di strutture organizzative avanzate) tendono a competere con le imprese industriali titolari di prodotti di marca essenzialmente in due modi, spesso congiunti: 1) accreditando esse stesse linee di prodotti differenziati distribuiti in esclusiva con marche commerciali; 2) contrapponendo alle politiche di differenziazione dei produttori, finalizzate a suscitare nei consumatori la fedeltà a specifiche marche di prodotti (brand-loyalty), proprie politiche di differenziazione, tendenti a suscitare nei consumatori la fedeltà a specifiche combinazioni assortimento-prezzo-servizio offerte dai loro punti di vendita (store-loyalty), nel cui ambito alcuni prodotti di marca, già noti ai consumatori, vengono offerti a prezzi ribassati per conferire all'intero assortimento un''immagine' di convenienza (loss-leaders o 'articoli-civetta'). Quando ciò accade, la differenziazione del prodotto si accompagna a una riduzione della sua elasticità al prezzo nelle relazioni competitive tra i produttori, ma può presentare un aumento dell'elasticità al prezzo nelle relazioni competitive tra i distributori. La mancata distinzione tra i due livelli competitivi coinvolti ha spinto alcuni economisti a ritenere erroneamente che le politiche di differenziazione non siano uno strumento di non-price competition.
In effetti, invece, fin dalle origini, la minore imitabilità delle politiche di differenziazione del prodotto rispetto alle politiche di prezzo, le barriere all'entrata fondate sulla brand-loyalty e il maggior valore d'uso dei prodotti differenziati, traducibile stabilmente in livelli di prezzo più alti, hanno fatto della differenziazione lo strumento cardine delle non-price competitions tra le grandi imprese produttrici di beni di consumo immediato, ad acquisto ricorrente e di basso valore unitario, specie nelle fasi di maturità del ciclo di vita di tali prodotti.
Con l'aumento del potere di acquisto della maggioranza dei consumatori e con la conseguente riduzione della specificità e dell'impellenza dei loro bisogni, gli obiettivi delle politiche di differenziazione del prodotto divengono via via più complessi e articolati, specie nei settori caratterizzati da un elevato grado di 'saturazione' dell'offerta e da lunghi periodi di maturità tecnologica dei prodotti e dei processi produttivi. Oltre a continuare a essere uno strumento di non-price competition e di controllo del potere di mercato dei distributori, in tali condizioni la differenziazione del prodotto è finalizzata anche - e principalmente - a stimolare la domanda dei consumatori, a orientarla verso i beni disponibili, a suscitare nei consumatori esigenze di sostituzione motivate da cambiamenti non sostanziali delle prestazioni del prodotto (obsolescenza programmata), a far convergere verso il prodotto aspettative sempre più polivalenti, dato il loro carattere immateriale, conferendogli 'significati aggiunti' di natura sociopsicologica. In questa fase di sviluppo, proprio a motivo della complessità degli obiettivi che vengono attribuiti alle politiche di differenziazione del prodotto, le tecniche di marketing vengono particolarmente affinate e 'scientificate', sia sul piano della ricerca (che investe una gamma sempre più ampia di aspetti qualitativi del comportamento dei consumatori e dei concorrenti), sia su quello della realizzazione di politiche alquanto sofisticate (si è parlato, ad esempio, di 'persuasione occulta' dei consumatori da parte delle grandi imprese per indicare il ricorso a politiche di differenziazione che fanno leva anche sulle motivazioni inconsce degli acquirenti), sia su quello del continuo controllo dell'efficacia comunicazionale ed economica della pubblicità.In questa fase di sviluppo, presso molte imprese produttrici di beni di consumo, le funzioni commerciali (nel senso più ampio del termine) e le connesse attività di marketing acquistano un'importanza superiore a quella delle funzioni manifatturiere, tanto che non è azzardato affermare che il massimo sviluppo delle politiche di differenziazione del prodotto coincide con l'egemonia del marketing sulla produzione.
Nei settori dei beni di consumo, in cui si diffondono maggiormente situazioni di questo tipo, si rilevano infatti: a) investimenti destinati alla promozione dei prodotti (pubblicità) e alla loro distribuzione fisica (reti dirette di vendita ai dettaglianti) spesso superiori per entità rispetto alle immobilizzazioni tecniche della fase produttiva (impianti di produzione). In alcuni casi, anzi, le grandi imprese titolari di prodotti di marca decentrano su piccole e medie imprese manifatturiere l'attività produttiva e concentrano le loro risorse sull'attività commerciale; b) economie di scala degli investimenti commerciali più incisive rispetto a quelle di carattere tecnico-produttivo, con la conseguenza che lo sviluppo del fatturato non si giustifica tanto in relazione alla riduzione dei costi unitari di produzione, quanto al recupero degli investimenti occorrenti per accreditare i prodotti di marca presso i consumatori, secondo un processo cumulativo che può tradursi anche in livelli crescenti dei prezzi, nella misura in cui la differenziazione sempre più 'spinta' del prodotto ne riduce la sostitutività, ovvero attenua l'elasticità (al prezzo) della domanda particolare dell'impresa; c) scarse innovazioni tecnologiche sostanziali a fronte di frequenti modifiche nelle caratteristiche marginali o nell' 'immagine' dei prodotti; d) diffusi convincimenti circa la possibilità d'influire sulle motivazioni psicologiche (specie inconsce) dei consumatori finali, attraverso un ampio ricorso alle 'ricerche motivazionali'; e) strutture organizzative che subordinano le funzioni produttive tradizionali a quelle commerciali e fanno del marketing l'elemento principale della strategia aziendale.
Gli inconvenienti di un'impostazione dei rapporti tra le imprese e i consumatori basata principalmente sulla differenziazione psicologica e marginale dei prodotti, cui fa riscontro una situazione di predominio delle funzioni commerciali nella gestione aziendale, si cominciano a palesare con il graduale superamento del paradigma della produzione di massa e con l'emergere di aspettative dei consumatori difficilmente specificabili con prodotti uniformi, associati a valori simbolici notevolmente semplificati e sostanzialmente statici. Come già si è accennato, il cambiamento qualitativo della tecnologia rende possibili politiche di diversificazione del prodotto precedentemente non convenienti per la loro eccessiva onerosità. Il cambiamento dei comportamenti dei consumatori spinge d'altro canto a un ripensamento dei contenuti della differenziazione del prodotto e del linguaggio con cui essi vengono comunicati dalle imprese. Entriamo così nell'attuale fase, in cui le politiche di differenziazione tendono a integrarsi con quelle di diversificazione del prodotto e i loro contenuti tendono a non riguardare solo aspetti qualitativi o psicologici marginali. Questa tendenza si accompagna, sul piano organizzativo, a un maggiore grado d'integrazione tra le varie funzioni aziendali all'interno dell'impresa e allo sviluppo di relazioni cooperative tra imprese diverse dotate di conoscenze e capacità innovative complementari.
In questa fase evolutiva, i cui esiti sono ancora difficilmente prevedibili, l'aspetto maggiormente problematico è rappresentato dai cambiamenti del comportamento dei consumatori, dai quali dipende sia l'apprezzamento della diversificazione dei prodotti che si rende via via tecnologicamente possibile, sia la ricerca di un'equilibrata composizione tra diversificazione e differenziazione, sia la scelta degli obiettivi specifici della differenziazione e spesso anche degli strumenti più appropriati per realizzarla.
Per valutare questo aspetto conviene anzitutto distinguere, sul piano concettuale, tra aspettative dei consumatori e domanda dei beni di consumo.Relativamente a questa prima distinzione non si deve perdere di vista che le aspettative sono un dato esterno al mercato e possono essere definite, nella loro accezione più generale, come le forme storiche che assumono i bisogni umani, sulla base di fattori biologici, economico-strutturali e socioculturali che non possono essere uniformi nei diversi paesi e nel tempo. La formazione delle aspettative dei consumatori è quindi un processo autonomo, su cui i singoli soggetti di offerta non possono intervenire in modo apprezzabile. La domanda è invece un elemento economico privo di autonomia rispetto all'offerta, nel senso che la domanda si definisce in relazione ai vari processi di specificazione delle aspettative dei consumatori che le imprese offerenti sviluppano in ciascun mercato.
È inoltre essenziale considerare una seconda distinzione, riguardante le caratteristiche delle soggettività sottostanti ai processi di formazione e di specificazione delle aspettative dei consumatori.Sotto questo profilo è utile distinguere tra: a) carattere collettivo o individuale delle soggettività che animano il mondo del consumo; nel primo caso prevalgono processi di interazione sociale che determinano aspettative generalizzanti di nuovi prodotti con caratteristiche economiche (livelli di prezzo) e funzionali (prestazioni) coerenti con uno 'stile di vita' generalizzato a intere comunità nazionali; nel secondo caso prevalgono esigenze frammentate e diversificate espresse a livello individuale o di piccoli, numerosi e differenziati gruppi sociali; b) gradi di autonomia del comportamento dei consumatori di fronte alle politiche delle imprese: in un caso comportamenti statici, adattivi o imitativi, nell'altro comportamenti dinamici, creativi o critici nella valutazione e nella scelta tra le alternative disponibili, nonché nei processi di apprendimento attraverso l'uso dei prodotti acquistati.
Applicando questa 'griglia' concettuale si può formulare l'ipotesi secondo la quale il grado di discrezionalità delle imprese nel formulare le loro politiche del prodotto è tanto maggiore quanto più i processi di formazione delle aspettative dei consumatori sono caratterizzati dal prevalere delle soggettività individuali. D'altro canto, il potere di condizionamento che le imprese possono esercitare sui consumatori attraverso le loro politiche di specificazione delle aspettative è tanto maggiore quanto più prevalgono comportamenti statici o adattivi o imitativi nella selezione delle alternative di acquisto che vengono proposte dalle imprese. Il prevalere delle soggettività individuali o collettive, nei processi di formazione delle aspettative e dei comportamenti statici o dinamici nella selezione delle alternative di acquisto, non va considerato come dato e immutabile. Trattandosi di fattori connessi con processi d'interazione sociale, essi devono comunque essere calati in definiti contesti storici: possono cioè modificarsi in modo consistente, sia passando da un contesto socioculturale e istituzionale a un altro, sia nelle varie fasi dei processi evolutivi che caratterizzano la specifica storia di ogni contesto. Ne consegue che anche il grado di discrezionalità delle imprese nel formulare le loro politiche del prodotto e il grado di discrezionalità dei consumatori nell'operare le loro scelte di acquisto devono essere riferiti a specifici contesti socioistituzionali e a specifiche fasi della loro evoluzione.
Con riferimento al contesto italiano si può fondatamente sostenere che, nell'arco temporale compreso tra gli anni sessanta e oggi, i processi di formazione delle aspettative dei consumatori nei confronti dei principali beni di consumo durevole sono passati da una situazione in cui prevalevano le soggettività collettive dinamiche a una situazione in cui, con il frammentarsi degli 'stili di vita' e con la crisi dei grandi movimenti collettivi, tendono a prevalere le soggettività individuali. Questi cambiamenti hanno anche comportato il passaggio da una situazione in cui la discrezionalità delle imprese era limitata sul piano della definizione delle caratteristiche economiche e delle prestazioni dei prodotti destinati alla maggioranza della popolazione italiana a una situazione in cui le imprese, dovendo misurarsi con aspettative individuali a elevata varietà, sono molto più libere di scegliere le caratteristiche economiche, funzionali e d'uso, nonché l''immagine' da conferire ai loro prodotti, ma, al tempo stesso, si trovano a fronteggiare gradi di rischio decisamente elevati non disponendo a priori di orientamenti sui requisiti dei loro prodotti che risultano maggiormente apprezzati. Un processo evolutivo opposto può essere individuato, sempre nel caso italiano, riguardo alla discrezionalità di scelta dei consumatori. Negli anni sessanta questi ultimi non solo disponevano di poche alternative tra cui scegliere, ma erano anche particolarmente sensibili alle politiche di differenziazione con le quali le grandi imprese produttrici 'manipolavano' i simboli ipersemplificati su cui si basava il consumo di massa.
Con l'esplosione delle soggettività individuali, invece, si ha una 'polverizzazione' dei valori e dei riferimenti socioculturali sottostanti alle scelte di acquisto, ma, al tempo stesso, aumenta considerevolmente la capacità dei singoli consumatori di padroneggiare insiemi complessi di simboli e di esprimere scelte di acquisto molto più variegate e responsabili. L'atteggiamento della popolazione italiana nei confronti della pubblicità, diffusa massicciamente e in modo sempre più pervasivo attraverso i networks televisivi, conferma del resto la crescente capacità dei singoli individui di difendersi dall'aggressione pubblicitaria, trasformandosi in 'spettatori scettici' e, al tempo stesso, in soggetti che si sforzano di 'stare dietro le quinte' dello spettacolo, decodificando i messaggi simbolici che vengono loro rivolti e selezionandoli con criteri razionali.
Nonostante la presenza dei processi evolutivi che, come nel caso italiano, spingono le imprese a sviluppare politiche del prodotto improntate a una crescente varietà, resta il fatto che, in molti campi, prevale ancora una logica di standardizzazione nei rapporti con i consumatori finali. Come può essere spiegata questa risposta delle imprese, che contrasta con le crescenti potenzialità 'destandardizzanti' della tecnologia e con gli stimoli alla valorizzazione delle specificità socioculturali derivanti dalla globalizzazione dei mercati?Per abbozzare una risposta a quest'ultimo interrogativo, è necessario distinguere due situazioni. La prima (e più semplice) è quella in cui le imprese si trovano a specificare aspettative ampiamente diffuse e sostanzialmente statiche. Ciò accade ancora in molti campi dei beni di consumo, nei quali la varietà delle politiche del prodotto, a livello di singola impresa, anche se tecnologicamente possibile, può non risultare effettivamente 'pagante', perché l'incremento del valore d'uso del prodotto non standardizzato può essere inferiore anche a un modesto incremento del suo costo differenziale. Resta il fatto che lo stesso prodotto può anche essere utilizzato per rispondere a motivazioni d'uso e a esperienze d'uso diverse, specie quando le aspettative a esso sottostanti sono polivalenti e statiche. Si tratta, però, per i motivi esposti nel corso della nostra analisi, di una situazione che non può comunque essere generalizzata e che, in prospettiva, tenderà a essere meno diffusa rispetto a situazioni caratterizzate, dal lato della domanda, da un maggiore dinamismo e da una crescente discrezionalità delle scelte dei consumatori.
La seconda situazione è invece quella in cui sono presenti tutti i presupposti favorevoli allo sviluppo di politiche del prodotto a crescente varietà, ma le imprese scelgono ugualmente di percorrere itinerari rispondenti al principio della standardizzazione dei loro rapporti con i consumatori finali, ritenendo questa scelta meno aleatoria rispetto alle scelte improntate a un'elevata varietà. Varietà che comporterebbe una piena utilizzazione delle potenzialità tecnologiche e delle opportunità di valorizzazione delle specificità socioculturali. Questa seconda situazione chiama in causa, nell'interpretare i comportamenti delle imprese, i problemi e le difficoltà che le imprese stesse comunque incontrano nell'affrontare la globalizzazione dei rapporti competitivi e gli ordini di priorità che la maggioranza di esse tende ad assumere per fronteggiare una condizione di confronto concorrenziale crescente. Spesso il potenziale di flessibilità e di dematerializzazione della tecnologia oggi disponibile viene prioritariamente posto al servizio di strategie d''inseguimento' delle imprese leaders e/o di conservazione e potenziamento di 'aree di eccellenza' faticosamente conquistate. Ciò comporta in molti casi una concentrazione delle risorse e delle capacità manageriali finalizzata a dotarsi di un elevato grado di variabilità, che porta a escludere gli oneri e i rischi di processi di sviluppo contemporaneamente finalizzati anche ad aumentare la varietà dei propri prodotti. (V. anche Consumi; Marketing; Produzione).
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